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UOMINI, DONNE, GHIACCIO E LIME.

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INTRODUZIONE FREDDA Le donne: chi sono le donne? Dove le ho viste per la prima volta o per l’ultima, in quali città, in quante forme, avvolte in quali abiti? Che cosa so di loro oltre al fatto accettabile che io le riconosca come altro dagli uomini, altro dalle pagine scritte, dalle bugie sull’amore, dalle certezze sfoderate dagli insicuri manuali sul sesso senza problemi o dagli sterili test stampati fra i gossip estivi e compilati con totale noia da sdraiati, sulle spiagge svendute ai nuovi amanti dell’era della nevrosi? Non so rispondere, ma quella sera, mentre ti aggiustavi le calze prima di uscire dalla nostra casa e ridevi la risata dell’amore, ho iniziato a capire qualcosa delle donne, perché cercavo grandi risposte, quando poi, nel gesto minimo di sfiorarti le cosce per sentire se le tue gambe fossero ben fasciate dai collant, sapevi perfettamente che io ti stavo osservando, in diagonale, discreto e che non farti più uscire da quella porta, e farlo in piedi appoggiandoti alla sottile separazione blindata tra il nostro dentro e il fuori di tutti, era il risultato che volevi, che ti aspettavi da me. Ma tu eri la donna di carne e sapevi che non avevo scampo, che non avrei detto no, che ero niente di più che un intreccio muscolare involontario e vulnerabile alla tua pelle fango, dove non mi sarei salvato, affondato nel nostro cerchio di braccia. E la casa era vuota, il giorno era uguale alla casa e la notte ci asciugava il sudore mentre io continuavo a farmi le stesse stupide domande su di te e sulle donne, forse perché 2


ero sensibile all’ossessione o forse perché qualcosa tra di noi non poteva esistere se non mediato dai nostri corpi, un uso ed abuso continuo della nostra biologia cellulare, l’analisi sensuale della nostra fisiologia destinata al miscuglio, al disordine delle idee in cambio dell’ordine delle nostre cadenze ritmiche dettate dagli amplessi. E chi eravamo noi se non un già visto patetico, una psoriasi sull’epidermide della socio-cultura, un abbozzo di comprensione, un essere uniti fino all’orgasmo e separati fino a quello successivo.

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BRIGIDA Sdraiato dopo la notte, rivolto al sole nascente in ascesa dietro l’alluminio anodizzato della finestra, ti osservavo a occhi semichiusi e appiccicati dalle poche ore di sonno, mentre ti aggiustavi piano le calze autoreggenti infilando la mano tra la fodera e lo spacco di una corta gonna blu gessata. Ti preparavi per il cda, quella specie di cerimonia massonica che prendevi terribilmente sul serio e della quale mi parlavi sempre con enfasi, come se si trattasse di un magico evento arturiano di una leggenda fantasy. Ma quella mattina mi venne l’idea di misurare la forza della nostra passione. Erano trascorsi venti minuti da quando avevi iniziato a vestirti con tutta la sapienza di una donna ai vertici della sua carriera. Davanti allo specchio del bagno che mi scagliava manciate di fotoni dispettosi negli occhi, ti eri esercitata con il trucco a mutare la tua maschera di muscoli sottocutanei, intorno agli zigomi e alle tue labbra, stirando l’epidermide verso la perfezione di una creazione di cera. Ti eri acconciata i capelli in modo da occultarli tra le mani in un bozzolo di seta scura dietro la nuca, sfruttando tutta la tua abilità d’illusionista. Ma, quando si trattò di infilarti le scarpe, quelle nere che allacciavi alle caviglie con quel fare da ballerina di charleston che ti rendeva così diversa dalle solite virago in cerca di prede maschie da sbranare, io ti tesi il tranello.

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Le facevo dondolare dalla mia mano destra, seduto sul letto con un mezzo sorriso che mi cambiava il volto in un birbante affettuoso. Avevi portato le tue mani sui fianchi e le tue unghie smaltate di rosa antico graffiavano la camicia di seta bianca aperta sul tuo seno come una ferita di un ghiacciaio che lasciava libera una lingua calda di terra scura. Eri freneticamente bella, perché sentivo la tua fretta lottare con il tuo desiderio di giocare con me ancora cinque minuti. Ma il cda era così inevitabile, come lo erano le sue luci artificiali sopra al lungo tavolo circondato dai cavalieri dell’apocalisse finanziaria e lo era anche la mia passione per te, come lo erano le tue gambe prive di tacchi e la mia voglia di averle tra le mie in un infinito lenzuolo, in un letto senza uscite di sicurezza, senza sveglie ai suoi bordi, senza stanza intorno, solo altare bianco di un rito erotico privo di scopo. Il gioco era tutto lì: dovevi prendere le tue scarpe griffate. I minuti passavano e tu eri già colma d’insofferenza ed io accusavo un intenso colpo al cuore pensando che avrei perso la partita, perché ero un debole uomo innamorato di una forte donna fedele ad oltranza alla sua deontologia professionale. L’ordine che rappresentavi con le tue mani sui fianchi e il tuo logos tra le sopracciglia minime, schiacciavano i miei tentativi di sfoderarti il mio migliore caos primordiale in agguato e nascosto tra i miei muscoli addominali, nutrito dal desiderio di rubarti tutto il tuo tempo, l’intero futuro immediato che ti apprestavi a rincorrere tra i grattacieli. 5


Io gettati un’occhiata alla finestra aperta mentre continuavo a tenere lontane le tue mani dalle scarpe e accortomi che ormai non potevo più resistere ai tuoi assalti, le feci volare giù dal trentesimo piano, in bocca al serpente giallo dei taxi che strisciava lento verso il centro della città. Pensai immediatamente allo smalto delle tue unghie sulla mia faccia, chiusi gli occhi aspettando un tuono d'insulti dalla tua bocca. Mi schiacciai forte gli indici nelle orecchie e attesi in un perfetto brusio interiore la fine del nostro amore. Quando le riaprii insieme alle palpebre eri in ginocchio per terra che ridevi a crepapelle: mi avevi evidentemente perdonato. In realtà mi ero illuso che la passione avesse trionfato, perchè ciò che ci aveva salvato da una volgare tragediucola sentimentale, erano state le tue scarpe griffate finite in testa al direttore generale al quale, quella stessa mattina, avresti dovuto esporre le tue perfette teorie di marketing. Il caso volle che passasse proprio trenta piani sotto la nostra puerile kermesse: il caso appunto, non la mia fortuna.

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FLORES Sapevi sempre cosa volere e cosa no, quando ti avvicinavi e mordevi il tuo labbro inferiore ed esordivi con interrogazioni come:” Se dovessi andarmene ora, qui, su due piedi, cosa faresti?” e approfittavi del mio corpo finito nei tuoi occhi e del tuo nei miei. Non mi potevi certo sembrare meno bella malgrado più crudele e i miei segni di debolezza, come l’insistente cercarti con le labbra il collo, la dicevano lunga sulla mia vulnerabilità. Ma quell’altra volta, che in piedi sopra il nostro letto cinguettavi la Carmen mostrandoti indifferente alla mia eccitazione, confessandomi che te la stavi facendo con un cretino di mia illustre conoscenza, non resistei alla tentazione di schiaffeggiarti. “ Tu eres maldito, pero tu me gusta lo mismo.” Ti eri stracciata il rossetto sul polso insultandomi in un pessimo spagnolo. Flores, cattiva attricetta over quaranta, piena di fronzoli per il cervello, discreta ballerina di flamenco imparato dopo il lavoro. Sostenevi di essere iberica fino al midollo, anche se la Spagna l’avevi vista soltanto nei documentari; di positivo, è giusto ricordare che non ti eri ancora data al bisturi, ma a chi del bisturi aveva fatto una professione. Facevi l’assistente alla poltrona del mio dentista, quello stupido che mi aveva staccato il settimo molare superiore, quello sano, accanto al dente del giudizio che al contrario mi deformava la faccia con il suo ascesso insopportabile. 7


Tu mi tenevi la garza sotto la lingua e premevi l’aspiratore perché non lo risputassi. Un meraviglioso incontro, con il tuo seno che m’immaginavo ben separato sulle tue costole, dietro alla divisa bianca, fino a quando non mi accorsi che il cretino mi aveva appena estratto il dente buono, perché guardava lo stesso seno che ammiravo anch’io da un’angolazione anestetica. Lo vidi arrossire, mandarti via con un bisbiglio, sedersi accanto a me, ma io lo interruppi immediatamente risparmiandogli le ciance giustificatrici, domandandogli se la laurea l’avesse presa per corrispondenza. La cosa che mi fece più strizzare i nervi fu quando cercò di convincermi che il dente buono presentava un inizio di carie che presto l’avrebbe eroso integralmente. “ Vede qui la corona? e qua lo smalto? e qua sotto la radice”. E giustamente, visto che io non ero altro che il paziente profano in materia, non mi restò che chiedergli se aveva un buon avvocato e un’assicurazione, perché altrimenti sarei uscito fuori nella sala d’aspetto gremita di ignari stupidi pazienti immersi in odontofobie o magazine rivoltanti e rivoltati, urlando l’incompetenza del loro dentista. La storia non finì così, perché ci pensasti tu a metterci una pietra sopra, o meglio ti ci mettesti tutta tu sopra l’imbecille, estorcendogli incontro dopo incontro il mio risarcimento danni. Nel frattempo venivi a letto con me perché lui non si decideva a mollare la cornuta dottoressa, odontoiatra anche lei, praticante nello stesso studio del compiacente 8


marito e quel giorno che ti schiaffeggiai c’era più di un motivo per lasciarti e non per essere lasciato da te. A parte i soldi che mi volevi dare e che eventualmente mi avrebbero ripagato l’impianto, mi avevi detto che, comunque fossero finite le cose, lui non l’avresti lasciato. La mia vendetta fu forse troppo dura, ma non seppi mai che espressione ti s’irrigidì sul volto quel giorno che dovevi farti estrarre anche tu il dente del giudizio, quel giorno che l’imbecille non era presente in studio per un contrattempo e che sua moglie fu più che contenta di sostituire dopo aver saputo da me della tua tresca con lui. Anche se ti cavò il dente buono non reclamasti, sapevi di aver pagato il giusto prezzo ed io avevo pareggiato i conti con te. C’incontrammo un anno dopo, tu stavi ancora con lui ed io con sua moglie: ci eravamo guadagnati entrambi due impianti gratuiti.

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GODEL

Dio non è morto, si è solo assentato. Questo pensava lo scienziato scettico, ne era certo. Il suo ateismo professionale non era così penetrato a fondo nel suo tessuto cerebrale da stordirlo al punto di non ammettere del tutto l’ esistenza del Creatore. Probabilmente, seguitava ad elucubrare con se stesso, si era appartato in qualche singolarità nuda (buco nero), in un letargo siderale, affine a quello che provocò in certi mammiferi terrestri. Chissà per quanto tempo ancora si sarebbe crogiolato in quel sonno. No, si era lasciato alle spalle il nostro cosmo, la nostra inutile esistenza tra una glaciazione e l’ altra, per riprovarci in un universo parallelo, giusto per tenere fede alla nuova ed eterna alleanza che gli impediva di gettarci addosso un nuovo diluvio, limitando fortemente il suo arsenale punitivo. Intanto il telecomando stava adagiato nella coppa della mano destra della sua mano e alla domanda del telequiz, chi scrisse la Summa Teologica, un gruppo di cellule neuronali del suo lobo prefrontale sinistro, formularono, connettendosi alla velocità della luce con il lobo temporale dello stesso lato, il nome di Tommaso d’Aquino. Fu solo una risposta mentale che lambiva il baratro del sonno che le onde lunghe dell’ encefalo stavano per stimolare coadiuvate da una lieve tempesta ormonale. Si alzò dal divano, bianco come una nebbia umana poco consistente, finendo quel che rimaneva della sostanza alcolica stesa sul fondo di un bicchiere. 10


La musica cupa che lo colpì dietro le spalle, sottolineava in stile bachiano che la risposta del concorrente era clamorosamente errata. Come aveva potuto confondere Agostino con Tommaso? L’ uomo semiaddormentato oscillò attraversando l’ ambiente living che lo circondava, proteggendolo dai rumori febbricitanti del sabato sera che dalla strada salivano rimbalzando istericamente e falsamente gaudiosi sulle imposte già chiuse. Sentì parlare e respirare pesantemente dalla camera da letto, percepì queste parole:” Voglio morire, voglio finire, ti prego fammi andare, non trattenermi più con te.” Le registrò come si registra un comune vociferare in una sala d’ attesa di un dentista, si versò un’ abbondante dose di wisky nel bicchiere e si diresse in camera: passò oltre la porta nel momento in cui un ragno tesseva la sua tela bavosa. Clarissa, ma avrebbe ancora potuto chiamarla Godel, era in preda ad una forte dose di antidepressivo: il roipnol l’ aveva scaraventata, senza nessun rispetto per i suoi cicli circadiani, in un viaggio onirico che avrebbe dovuto, per almeno dieci ore, pacificare i suoi sensi prima del sorgere di una nuova terribile giornata, passata a contemplare l’ intera metà inferiore del suo corpo completamente paralizzata. L’ aveva conosciuta in un locale di lap-dance; lei ci lavorava per pagarsi l’ università, lui ci andava per non pensare e contemplare le più belle gambe che avesse mai visto. Godel era il suo nome d’ arte, era la regina di quello scadente locale dal patetico nome di Cyberose, che forse 11


voleva significare un’ armonia tutt’ altro che erotica tra cibernetica e botanica. La statuaria donna stava per terminare la sua tesi sulla psicologia della devianza, poi avrebbe smesso di appiccicarsi su quel palo metallico, unta di paraffina e stanca di autoerotismo e falsi ammicamenti sparpagliati negli occhi di ridicoli avventori come lui. Li fece incontrare la noia per la vita, li costrinse ad amarsi per non rischiare di odiarsi oltre, intrappolati com’ erano nell’ involucro impermeabile della loro coscienza, figlia legittima del loro assurdo tempo sociale, un tempo di discontinuità mentale e disfacimento etico adatto ad un mondo incolore privo di ogni purezza, saturo di umanità. Un ingegnere dei sistemi complessi, quale lui era, poteva deporre la ragione per scivolare tra le cosce di un’ aspirante psicobiologa, alle prese con lo studio della personalità criminale? Il loro amore li deviò, li rese fluidi, li ricompose come se la loro consistenza non fosse altro che una gelatina o della plastilina sensibile alle alte temperature della passione. Erano entrambi atei e di questo non avevano bisogno di parlare mai, non era in discussione la loro fede nel nulla eterno, fino a quando il destino percorse la loro strada in contromano, un destino da sei cilindri e duecento cavalli motore, nero come l’ abito sdrucito della vecchia canaglia ossuta che aspetta ghignando dietro le spalle di tutti i mortali. Accadde un sabato sera come quello e tutto ciò che rimase di Godel fu Clarissa, finita nelle secche della vita e nelle budella della sfortuna, una sagoma che tingeva di blu 12


oltremare il buio della stanza e il materasso antidecubito che accoglieva la sua ombra. Uno stereo a tutto volume strillava Like a Virgin e la vita dava sempre l’ impressione di dover continuare all’ infinito; era quella la sua grande abilità. Lo scienziato scettico, il suo uomo, le sedeva accanto mezzo ubriaco, in parte confortato da uno sfondo onirico che si stava delineando sulle sue retine reticenti alla fase rem, che non tardò a farsi avanti. Sognò per alcuni minuti ipnotizzato dalla voce di lei che non smetteva di chiedere al Dio nel quale non aveva mai creduto la fine del suo supplizio. Lo sfondo diventò una distesa di sabbia, le onde la bagnavano e depositavano orme invece che alghe. Era sicuro che quelle impronte erano di Godel, la fantastica tentatrice, le gambe più belle del mondo. Corse su quella spiaggia seguendo i passi di danza che la sua donna aveva seminato dietro di sè. Corse l’ ora del fuoco e degli altri elementi fino a quando non inciampò su di un manichino che non doveva trovarsi in quel sogno, forse in un incubo, ma non lì. Cadde, ma la sabbia non lo fermò; si aprì un nero cerchio sotto di lui e ci precipitò dentro senza peso afferrando il manichino per una mano. La sua caduta sembrava interminabile come quella che subì Lucifero all’ inizio dei tempi; la mano di plastica che stringeva era l’ unica sensazione calda in un buio algido. Poi la mano inanimata prese a muoversi e come una strana metamorfosi lui si trovò a baciare il volto finto di Godel.

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Preda di una eccitazione che non aveva più provato, l’ abbracciò con veemenza e la toccò come un musicista insiste freneticamente su di un infinito pianoforte. Tutto avvenne nell’ arco di un’ insostenible caduta, come un miracolo inaspettato ma tanto atteso, perchè le sue mani sentirono la forma degli arti inferiori di Godel riapparire da quelle sabbie mobili nelle quali erano state risucchiate. Le sue dita percepirono una pelle tesa che avvolgeva muscoli turgidi privi d’ imperfezione:” Dio esiste!!” gridò nel sogno, così forte che la caduta s’ interruppe e lui e Godel si ritrovarono abbracciati sulla sabbia accarezzati da una spuma calda che sfiorava le sua mano nascosta nella nuova vita tra le gambe di lei. Si svegliò malgrado una parte di sè tentava di non farlo, si destò perchè non era ancora morto, ma avrebbe voluto esserlo quando ritrasse la sua mano dalla pozza di urina tra le esili cosce di Clarissa.

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HYPERDONNA Avevi le fattezze del cristallo, le movenze del titanio, i pensieri logici di una creatura plasmata dai test di psicanalisi avidamente compilati sulle riviste di gossip o di buona salute. Non mi vedevi se non con uno sguardo bionico, preso a prestito dalle più forti eroine dei mondi virtuali, creati da programmatori ridotti a sfogare il proprio testosterone sui circuiti di rame di involuti nano-chip sessuali. Eppure non saltavi giù da un palazzo di vetro alto seicento metri senza romperti l’osso del collo, non riuscivi ad evitare di ferirti con il coltello da cucina, non riuscivi a deviare le pallottole più veloci e devastanti, non sapevi impugnare una katana per poi rotearla con l’abilità di una femmina occidentale sadica e vendicativa vestita di isoprene giallo. Facevi finta di essere immortale, ma ti dimostravi un essere sgraziato, dalla taglia sentimentale ridotta quanto i tuoi fianchi e il tuo peso, ad un numero sempre più piccolo, per riuscire nella tua trasformazione in una donna invisibile, inafferrabile, invincibile. Se avessi potuto assumere in te la forza muscolare di un titano, lo sguardo duro di un eroe olimpico, la bellezza esotica di una amazzone solitaria e votata alla guerra costante contro il maschio, l’avresti fatto, avresti assunto su di te e in te, il destino di una guerriera che cavalca la storia, che cavalca un puro sangue, che crede in una crociata senza fine per rivendicare la grandezza del suo unico Dio, adulatore, buono, consolatore, Narciso. 15


C’erano specchi ovunque dove poterti amare, oggetti da desiderare, luoghi che premiassero la tua infedeltà allo slancio disinteressato. C’erano solo occhi e da quelli ti sentivi sempre osservata e per questo ti difendevi con le armi bizzarre dei supereroi, la bellezza ad oltranza, lo sguardo fintamente intelligente, gli occhi tristi per un occasione triste, vacui per un party alla noia, le labbra carnose, gli zigomi alti e turgidi, i denti bianchi, gli abiti di plastica attillati, il ventre esposto allo smog, le tue idee, idee prese a prestito, i tuoi pensieri, quelli di qualcun altro, il tuo disinteresse totale per le fonti, il tuo unico interesse, la forma. Recitavi bene, sentivi che essere una grande attrice senza aver frequentato accademie, era possibile in ogni ambiente, perché eri una donna camaleonte, e con le tue simili donne rettile, mostravi la lingua sibilante e guizzante per aggredire le tue tante nemiche e le tue false amiche di cui ti circondavi con la scusa di essere estremamente sociale e non destare sospetti sulla tua misoginia profonda. Non farsi scoprire era la difficoltà del tuo agire. Mutare pelle, adattarsi, cambiare percorso spesso, non per volontà, ma per vedere cosa succede di speciale, per non sentirsi dare della banale o della donna priva d’iniziativa, poco moderna, poco responsabile, poco schic, poco solare, poco vera. Io credevo di essere stato scelto e di averti scelto. Io credevo, ma in realtà ho scoperto di non essere stato che un idiota, manipolato dai tuoi arcani poteri superficiali, di una superficiale technogirl dei fumetti. 16


Per renderti finalmente reale e genuina mi sono finto morto, e talmente eri istupidita dal ruolo che ti eri appiccicato dalle sopracciglia alle unghie finte dei tuoi piedi, ci avevi creduto, piangendo come si deve, solo che eri in cattiva compagnia, in compagnia di te stessa, una te stessa d’emergenza, priva di spessore, di anima, priva di vero dolore per la mia scomparsa. Così ti recasti in banca per esercitare e prelevare l’unico interesse che avevi, addolorata più che mai. Ti dissero che qualcosa ti avevo lasciato nella cassetta di sicurezza. Quando l’apristi, sola nella stanzetta, senza occhi che guardassero quanto eri falsa, ci trovasti l’unica cosa che ti rappresentava per quella che eri: uno sghembo poligono di specchio.

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UN’ ISTERICA CON DUE BARBONCINI

È il dubbio che genera l’ intuito, mentre la rapidità con cui si affermano i nuovi inconsistenti miti, la cui durata è più breve dello schiudersi di un fiore notturno al plenilunio, genera stupidità infinita, vuoto mentale. È possibile commettere un’idiozia vantandosene per l’eternità? Certo che è possibile, anzi è auspicabile, come uccidere il vicino di casa dopo aver studiato un piano meticoloso correlato dall’ appendice “B”, nel caso qualcosa andasse storto. Non avete mai pianificato l’ omicidio del vostro vicino di casa? Un parricidio, un matricidio, un uxoricidio, un infanticidio? È ora di pensarci seriamente, non sto affatto scherzando, è ora di liberare un’energia che i modelli culturali, in un’ ininterrota catena di dogmi più o meno efficaci, per troppo tempo hanno ridotto a una leggera scossa elettrica tra le scapole, sulle mani, per degenerare in astrazioni, allucinazioni, fantasie morbose, che non hanno avuto seguito, che si son lasciate plagiare da sogni irrealizzabili, a torto definiti dalla psicanalisi, istinto di morte: thanatos, per i più colti. Male, molto male non aver realizzato simili pensieri o averli accantonati con un’alzata di spalle o un sorrisetto ironico davanti a uno specchio, mentre vi contemplavate sgocciolanti d’ acqua gelata al risveglio da un brutto incubo che vi aveva visto protagonisti di un assassinio in piena regola. 18


Morfeus vi aveva messo in una mano un grosso strumento di morte, un’ affilata lama d’acciaio e dall’ altra serravate nel pugno i lunghi capelli neri di vostra moglie e appesa a quelli, la sua testa mozzata e sgocciolante di sangue scuro. Non bisogna lasciarsi andare a un’ira incontrollata, perchè il principio della semplicità viene inesorabilmente fatto a pezzi da un sistema nervoso troppo fragile: il vostro. Non occorre essere dei mostri per uccidere, in verità, per come stanno le cose nel mondo, siamo tutti dei potenziali omicidi, abbiamo una vocazione , direi un orientamento congenito all’ assassinio. Prendiamo l’esempio del cancro, calza a pennello. In fondo che cos’è una terapia, allopatica o olistica che sia, se non una guerra chimica combattuta contro le forze del male che vogliono impossessarsi dei nostri corpi? E le erbe cattive in un campo di grano o gli insetti infestanti? Il problema è metterci d’accordo su cos’è buono e degno di continuare a riprodursi e vivere e ciò che non rientra in questa definizione. Non prendete alla leggera tutto questo, è tremendamente serio comprendere ciò che è bene e ciò che è male e non pensiate che sia stato raggiunto un verdetto finale. Credetemi, la vulnerabilità della nostra carne ci fa terrore e se non ci intimidisce e ci votiamo alla cosìdetta incoscienza, è solo per dimostrare di non aver paura di perdere definitivamente le nostre spoglie mortali. È un giochino che funziona bene,” io non ho paura”, un gioco infantile praticato alla nausea almeno da quando l’ uomo è quasi sapiens – perchè integralmente non lo è stato 19


mai, tenta di arrivarci - un gioco che ha dei vincitori e dei vinti, coraggiosi e codardi: il resto è vanagloria. Poi, i vinti, i deboli, i vigliacchi, i pusillanime, si sono inventati il coraggio al contrario, quello passivo, quello del porgi l’ altra guancia, della non violenza ad oltranza, alla quale pochi si conformano con vero spirito rinunciatario. Abolita la caccia, si pratica la macelleria intensiva, abolita la guerra nel primo mondo, la si pratica negli altri due e si fa fare il lavoro sporco ai professionisti, ai ministeri della difesa, nei quali s’insediano illustri personaggi, laureati in strategia militare e di negoziazione, rotti a tutto, che sanno minacciare con diplomazia, ricattare sul filo della democrazia e del politicamente corretto, ricevendo applausi dagli altri illustri attori guerrafondai del pianeta. E allora? Appunto; e allora di che cosa stiamo parlando? DI UCCIDERE CON LE PROPRIE MANI!!! Niente è più difficile della semplicità; torno a ripetere. Uccidere è un esercizio che non va preso alla leggera, uccidere non come estrema ratio, ma come appagante senso della propria esistenza personale che fa acqua da tutte le parti. Il contrario è immolarsi, suicidarsi, sacrificarsi, crocifiggersi, autoeliminarsi. Non sto parlando di diventare un killer: quello è un lavoro a tempo pieno, un contratto con un mandante, non è nobile, è mercenario. Intendo uccidere come attività extraprofessionale, quasi ludica, un hobby, un passatempo, come la caccia, solo che la caccia non conduce alle conseguenze morali dell’ 20


omicidio e per quanto sia condannata dalla società civile, è comunque tollerata, sottoposta a leggi che ne limitano di fatto l’esercizio nelle forme e nei modi prestabiliti. Se si è capaci di stare al gioco delle leggi, è facile dar fuoco ale polveri e far strage di quaglie, lepri e cinghiali, cercando di fare un po’ di attenzione alle specie in via di estinzione, e se cade un tenero orsacchiotto, si può sempre sostenere di aver mirato fra i rami in direzione di un fruscio, senza intenzioni malvagie. A questo servirebbero le guardie forestali, a controllare quel tipo di azioni in mezzo al verde più totale, mentre l’ omicidio è un’altra storia, per praticarlo non occorre altro che preparazione, concentrazione, freddezza e decisione. Il campo è totalmente sgombro, la pratica si può svolgere liberamente senza impedimento alcuno, senza controllo. Il freno inibitorio è soltanto dentro di noi, lo abbiamo interiorizzato e liberarcene non è così semplice come pensate. É facile sostenere di essere in grado di uccidere qualcuno, ma è decisamente complicato trovare la forza interiore per farlo. Uccidere è un atto liberatorio, fa parte della struttura antropologica dell’ uomo, è inevitabile come bere e mangiare. Non si può pensare che sia sufficiente essere vegani per non essere complici di qualche orribile distruzione animale o umana. Il percorso a ritroso del riso integrale dal piatto alla risaia, dove è stato coltivato, è disseminato di miliardi di esseri morti, forme di vita biologica che hanno permesso il sollazzo moral-gastrico di un vegetariano. 21


Se s’intendeva questo per la pratica dell’Ahymsa, come ci fu tramandata dai saggi indiani, qualcosa non è andato per il verso giusto. Che lo sappiano tutti i frugivori della terra: i due terzi dei vegetali che digerite nei vostri puri stomaci, hanno alle spalle storie di violenze inaudite, talmente orribili, che vi farebbero rigettare tutto all’istante. Non volevo urtare la vostra ecologica sensibilità, non ho ancora appreso fino in fondo la teoria e la pratica del cinismo all’ ennesima sfrontatezza. Vi consiglio vivamente la lettura istruttiva della storia della patata, dello zucchero di canna, del tabacco o del caffè e di tutte quelle spezie che in Borsa si giocano e vanno sotto il nome di Coloniali. In breve, ritornando sull’argomento uccidere, occorrerà fare una premessa: bisognerà documentarsi e prendere ispirazione dai grandi del passato e vestire i panni degli umili e mansueti discepoli. Non saranno di certo i romanzi neri o gialli ad ispirarci, ma le biografie reali, degli assassini più spietati, ma soprattutto più intelligenti. Meglio abbeverarsi alla fonte di alta montagna che alle pozze fangose di pianura. Purezza, cristalline informazioni, dati chiari su cui lavorare, riflettere e condurre una meticolosa ricerca. Mio malgrado, trovandomi nella posizione di chi ha molto tempo da perdere e un odio viscerale per l’inquilina del piano di sopra, ho cercato di praticare l’ arte dell’ omicidio.

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L’isterica donnetta, scialba all’eccesso, è ora concime per le piante del mio terrazzo, dopo essersi decomposto rapidamente nella mia compostiera. Il rovescio della medaglia, perchè anche questa storia ha una faccia nascosta, è che mi sono preso cura dei suoi odiosi cani soltanto per far sparire le sue ossa. Le rose sono rinvigorite, le ortensie gioiscono alla luce della primavera; Chen, il cuoco cinese, aspetta con ansia di cucinare i miei pelosi ospiti, spacciandoli per vitello alla piastra, ma mi sono affezionato a loro e proprio non ci riesco a farli fuori.

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KU F. fece un ultimo tentativo prima di congedarsi definitivamente dalla società anonima di cui faceva parte .

Voleva creare un luogo di assoluto silenzio nel suo bilocale, quel silenzio che mai era riuscito a realizzare a causa della presenza assordante di Sabrina. F. era pavido, nevrotico, suscettibile a dismisura, farcito d’ informazioni come un brutto tacchino d’ arrostire, consumato fino al midollo e quindi stanco di vivere una vita da ultimo della fila. Era sorto in lui un desiderio beckettiano di spogliarsi nudo e di legarsi su di una poltrona nel centro della cucina, con un tavolino al suo fianco sul quale avrebbe posato il telefono cellulare. Era un desiderio scaturito da troppe letture assurde, inconcludenti, che non si addicevano ad un uomo di quarant’ anni che già da un pezzo avrebbe dovuto addentare la grande mela erotico-pubblicitaria che i media gli offrivano da ogni angolo della città e che inultilmente Sabrina gli offriva imitando una Eva distorta, come unico collante per una relazione fiacca, eufemismo per disastrosa. Si risolse, dopo aver studiato a fondo le religioni orientali e i mistici cristiani, di tapparsi tra quei fatiscenti muri in affitto per sprofondare in un anodino vuoto di coscienza, molto simile a quello provato dopo gli sporadici orgasmi provati con Sabrina. Sapeva che gli ostacoli erano molti, ma tutti più o meno sommortabili. 24


Aveva passato l’ intero mese di agosto a insonorizzare le stanze e aveva speso di tasca sua una fortuna per i tripli vetri e le porte a tenuta stagna, a prova di qualsiasi rumore. Il risultato fu al di sopra di ogni sua aspettativa, in particolar modo, dopo aver svuotato tutti gli ambienti di tutto ciò che lui considerava superfluo. Si trattenne dal vendere un misero guardaroba, sotituì il letto con un futon e si liberò di ogni elettrodomestico. Pagò un anno di affitto in anticipo, acquistò cibo in scatola a scadenza lunghissima, acqua naturale, mille candele di cera e due sai da francescano che trovò ad un mercato delle pulci di provincia. Nulla doveva entrare e nulla doveva uscire dalla sua spoglia abitazione. Si licenziò dallo schifoso posto di lavoro che lo aveva tenuto legato mani e piedi ad una orribile scrivania e ad un antiquato computer. Fu grazie ai soldi della liquidazione che preparò il luogo del silenzio che da sempre aveva cercato. Avrebbe potuto cercarlo in un eremo, in una cattedrale gotica, in vetta al K2, ma F. era ben conscio che l’uomo è sempre in agguato e deturpa il silenzio anche solo con la sua presenza invadente, saccente e in ultima analisa cretina. Si predispose immediatamente alla meditazione, seduto con le gambe incrociate di fronte alla parete bianca sulla quale aveva tracciato una grossa O quale simbolo del ku buddhista.

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Chi lo avesse visto dal piano di sopra avrebbe notato la sua incipiente calvizie che realmente lo accumunava ad un monaco che avesse ricevuto la tonsura. Ma lui non si sottopose a nessun voto: il suo tentativo incerto di liberazione spirituale e di svuotamento del suo ego, decisamente ingombrante - fodera della sua carne che sapeva destinata alla decostruzione ontologica impossibile d’arrestare- non poteva che essere annoverato tra i sistemi velatamente new-age, più affini al fai da te che ad una vera ricerca mistica. Poco importava, aveva uno scopo, finalmente qualcosa in cui credere. Si concentrò sulla punta del naso socchiudendo le palpebre, incrociando gli occhi, respirando profondamente e ritmicamente, contando a ritroso attendendo la pacificazione totale dei pensieri. Quelli, al contrario, si fecero insistenti e turbinanti e in meno di una manciata di secondi lo condussero nei luoghi di distrazione che solo la mente non allenata al rigoroso silenzio o a estenuanti digiuni non può evitare. Vide Gesù Bambino che compiva miracoli con il fango e abbandonava la casa paterna per dirigersi al tempio e uno psicanalista neofreudiano che cercava di convincere la povera Maria e lo sconcertato Giuseppe, a portarglielo in studio per somministrargli un’ abbondante dose di ritalin. In quel preciso istante, altri genitori di altri santi della Chiesa chiedevano aiuto all’ occhialuto scienziato affinchè aiutasse anche loro. Allora, lo scienziato, vedendo che la folla s’ ingrossava, salì su un monte e disse:”Beati coloro che crederanno ai farmaci senza leggerne gli effetti collaterali; beati gli 26


ultimi nella scala sociale e intellettuale che prenderanno alla lettera ogni fandonia che sarà loro propinata, perchè saranno i primi ad allungare le loro mani negli scaffali dei centri commerciali; beati i miti e i puri di cuore, perchè saranno gli agnelli pasquali da sacrificare al Dio del profitto; beati tutti quelli che si rifugeranno nella psicofarmacologia perchè avranno allucinazioni che la legge consentirà e che saranno chiamate Regno dei Cieli.” F. in preda a quelle visioni gogliardiche, non si accorse che la sua produzione di CO2, anidride carbonica, tipica dei mammiferi e pericolosa nel caso di luoghi ermeticamente chiusi, gli stava procurando aritmie cardiache e respirazione affannata. Erano trascorse molte ore da quando aveva spiegato le ali della sua anima sulla via imperscrutabile del ku. Convinto che gli sarebbero occorsi solamente tre giorni e tre notti, al fine di illuminarsi integralmente, trascurò bellamente tutte le nozioni di chimica elementare che aveva appreso nei suoi pochi e infruttuosi anni di liceo – ad esempio che la CO2, oltre una certa soglia, è un veleno mortale che può portare alla perdita totale dei sensi, cosa che avvenne all’ inizio della seconda notte di profonda samadhi. Gli sembrò di fluttuare in spazi non euclidei, di ascendere e inabissarsi in strani imbuti rotanti, che gli ricordavano le rappresentazioni a scopo divulgativo dei buchi neri. Ebbe la netta sensazione che qualcuno lo stesse spiando al di là dei fenomeni entottici e degli strani animali semiumani che gli si appressavano sulle retine. In bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, emerse dalla sua affievolita capacità cognitiva un nocciolo solido 27


di coscienza ben radicata nel pragmatismo moderno di cui non si era ancora totalmente liberato: aveva dimenticato di staccare i fili del campanello dell’ abitazione. Probabilmente fu una infelice premonizione, perchè il campanello strillò in quell’ esatto momento, ridestandolo dal sonno al biosssido di carbonio che lo aveva rintronato come una campana di bronzo suonata da uno sdrucito lama tibetano. Si alzò barcollando, invaso da un formicolio che s’ impossessò dei suoi piedi, strisciando fastidiosamente fino al centro dei suoi quadricipiti sofferenti. Riuscì, in qualche maniera ridicola, a trovare le chiavi che si era trattenuto dal buttare dentro il water e ad aprire la porta. Un vento impetuoso lo spinse all’ indietro inchiodandogli la schiena sul tatami che ricopriva il pavimento del minuscolo ingresso. Una strana luce da lunapark trafiggeva il cielo; un arpione scintillò e si ficcò sulla soglia, ancorandosi nel cemento sotto il tappeto di steli di riso. F. si mise a carponi come un bambino che gioca a nascondino, muovendosi cautamente verso la porta spalancata. L’ arpione era legato ad una fune tesa: F. sbirciò oltre la soglia. Una luce dalla forma umana stava lentamente arrampicandosi sul pendio ripidissimo di una montagna della quale non si poteva intravvedere la base e sulla cui sommità si trovava il minimale mondo di F. F. era sconcertato, si sedette a due metri dall’arpione e attese che quell’ essere entrasse nella sua casa. 28


Quando vide la mano lucente attaccarsi al pavimento, sussultò: poteva anche trattarsi della sua fine. “Un gran bel modo di morire” pensò, mentre nervosamente si mordeva le unghie. Quando la figura si fu completamente eretta sulla soglia, F. capì di trovarsi all’ inizio del tempo e senza via di scampo. La figura di luce trasse da un’ ampia manica del suo abito una bianchissima scatola, non più larga di venti centimetri, ficcandogliela proprio sotto il naso; poi estrasse una volgarissima biro bic e fu in quell’ istante che F. si sentì chiedere:”Una firma qui, grazie!” Il resto, inutile dirlo, fu soltanto la squallida consapevolezza della richiesta di divorzio di Sabrina.

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LA METAMORFOSI DI LOLA C’era ancora la guerra fredda quando ci baciavamo; i russi e gli americani si odiavano attraverso la cortina di ferro e il muro di Berlino segnava il confine tra l’amore narcisistico per l’ individuo e l’abnegazione per una instupidita collettività: così almeno si diceva o ci veniva raccontato. In fondo, si trattava ancora di un’ epoca di grandi narrazioni e del numero infinito di creduloni ai quali raccontarle. Ma andava bene così: si lottava per un credo, per la liberazione o per l’avvenire. Nessuno alla lunga aveva ragione, come fu dimostrato un ventennio più tardi: la gente impazzì del tutto e le teorie socio-psicologiche più moderne avvanzavano ipotesi sul futuro delle masse, senza nessuna certezza sulla loro bontà. Ma tu ed io di questo non avevamo sentore e facevamo quello che i ragazzi fanno quando si specchiano addosso il mondo: cercano di nutrirsene con la vana speranza di non saziarsi mai. Indossavamo jeans, indossavamo t-shirt, stavamo dalla parte di chi era contro, contro le centrali nucleari, contro gli armamenti, armati di pace e contestazione. Eravamo convinti, presuntuosi, usavamo espressioni che si chiudevano con un mai o un per sempre: ci amavamo di un amore tutto verde ed ecologico. Tu eri semplicemente Lola, Lola da guardare, Lola sulla spiaggia, Lola all’ università, Lola alle riunioni sindacali, Lola l’ impegnata 30


con i libri sotto il seno e la fronte alta. Alle feste si ballava “I will survive”, si muovevano i piedi e le spalle, ad un ritmo che nel tempo sarebbe divenuto irrefrenabile, mentre da qualche parte nel mondo si continuava a morire per infiniti motivi. Poi arrivò uno strano tiranno che si pubblicizzava come buono e giusto e ci proponeva la fine di un’ era: il consumo di massa. Io e te opponemmo resistenza per un anno, due, tre, ma poi iniziammo a cedere e ci ritrovammo ben presto a canticchiare i Led Zeppelin solo in occasioni ormai neanche più speciali: eravamo noi due a non essere più originali, a non essere più individui, disciolti tra gente che non credeva più nel radicale cambiamento, ma si attrezzava a divenire una schiatta di volgari mammiferi d’adattamento. Ci portavamo dentro gli slogan che non rappresentavano più nulla se non vecchi graffiti metropolitani, graffi policromi su nuovi muri, su nuove difese, su di una terra sempre più fredda, incapace di nutrire sogni e aspettative. Il tiranno si faceva forte a dismisura e ci sottraeva il tempo della pace, il tempo della contestazione, il tempo per l’ incontro, il tempo per parlare, il tempo per pensare. Imparasti come me un nuovo linguaggio, diventavi più donna, ma un tipo di donna più affine alla cibernetica, una donna che pensava pensieri spezzettati, che soffriva e gioiva solo in determinate occasioni, anche quelle per niente speciali. Il tiranno ci offriva la finzione, ci offriva il sacro veleno che ci toglieva la vista, che ci rendeva sordi. 31


Eppure il mondo era dominio dei nostri sensi: com’ era possibile? E il muro crollò e la tecno imperversava nelle nostre macchine, l’ alcolismo pure e nel mondo si continuava a morire per i soliti motivi. Noi non ci amavamo più di un amore ecologico, ma di un surrogato sentimento economico, perchè non ci mancasse nulla di quello che il tiranno ci proponeva. A mano mano la tua metamorfosi si fece come incandescente, al punto che tu brillasti di luce riflessa ogni volta che ti specchiavi nelle vetrine del centro e ne coglievi il perfetto taglio dei tuoi nuovi abiti di direttrice di banca. Il telefono che squillava tra noi divenne un prodotto portatile e miniaturizzato, scomparve l’ ansia di sentirci; il nostro interrogarci si limitava all’ elenco di numeri sempre più lunghi e difficili da memorizzare:” Amore dettami il codice Iban perchè ho i minuti contati e devo firmare un contratto”. IT...........25 cifre….Stairway to Heaven.

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MONDO DRINK Amico mio, se ti volevi scolare il mondo come fosse un drink, solo perchè Eva ti ha mollato nel bel mezzo della tua alcolica esistenza, potevi evitare di accomodarti al bancone dei perdenti. E non dire che non ti avevo avvertito che avresti dovuto offrire da bere a tutti, per poter poi fare serenamente lo scemo senza nessuna contestazione. Ma quella sera eri particolarmente fortunato, perchè un uomo, in un improvviso stato di libertà da una donna, è in debito d’ossigeno, boccheggia e quasi non riesce a gestire lo spazio aperto formatosi davanti ai suoi occhi e le opportunità che ne derivano. D' altronde, il blues suonava senza ritegno, le gambe delle donne erano molto interessanti e ti ricordavano l' ultima storia indecente che avevi avuto con la cassiera della pizzeria e per la quale Eva ti aveva rotto il naso. Forse avresti dovuto portarti dietro un sax tenore, per quella sera, avresti evitato il flash della lampada stroboscopica e un giro di wisky per tutti. Lo so che eri al verde ed era per quel dannato motivo che ti dovevi portare dietro un sax e lasciare perdere la bottiglia e la pattuglia che ti avrebbe fermato di certo per vagabondaggio molesto ed ubriaco. Certo che era una notte blues: una notte come quella può verificarsi solo ogni cento anni o alla congiunzione di Venere con Giove nel segno dell' Acquario. Per fortuna, al bancone avevi incontrato un giornalista fallito, un avvocato e la sua segretaria, e l' ultima faccia intelligente che circolava a piede libero per la città, una 33


faccia nera, lievemente malinconica, con pochissima voglia di fare battute spiritose, una faccia nera di un essere che non c' entrava un bel niente con quella sera, una specie di convitato di pietra afroamericano che avrebbe potuto benissimo essere un fantasma, se, ogni tanto, non avesse scricchiolato sotto l' avorio della sua smisurata dentatura una patatina fritta. Anche se continuavi a ripetergli che suonavi il sax, non ci credevano per via del tuo alito cattivo. Volevi dimostrarglielo andando a prenderlo; continuavi a sostenere, senza prova alcuna, che lo strumento lo custodivi gelosamente nel baule di una vecchia Chevrolet parcheggiata alla stazione. Non ti credeva nessuno e ti ridevano in faccia. Non credevano neanche che tu gli potessi offrire un giro di invecchiato dodici anni, talmente sembravi invecchiato tu di dodici anni, in quel frangente sincopato all' etanolo. Per fortuna che, le donne, quando sono sciocche, sanno tirare su il morale a chiunque, e la segretaria dell' avvocato, avvezza a portare gonne molto corte, ti disse con tutta soavitĂ :"Facci un pezzo jazz con la bocca". Ridere di buon gusto fa sempre molto bene al sistema cardiovascolare, a meno che tu non abbia degli orribili denti che forse sarebbe meglio non mostrare se non in presenza di un bravo odontoiatra. Ti ficcasti in bocca due dita e fischiasti con tutto il fiato alcolico che avevi: ne venne fuori una strana sonoritĂ , vagamente Coltrane, un sibilo pernacchioso che fece girare tutte le teste, incandescenti di problemi e pensieri futili, sparse per il locale. 34


Dopo il momentaneo sgomento, tutti si lasciarono prendere dallo spasso e tu ci guadagnasti una pacca sulla spalla dall' uomo dalla faccia intelligente, che ti consigliò di berci ancora sopra per evitare altre imbarazzanti figure. Io ti avevo avvertito. Come poteva andare a parare una serata così stupida? Elementare: alla ricerca della tua Chevrolet. E dove se no? In quale altro luogo saresti potuto andare con la mente ridotta ad un vuoto a perdere e lo stomaco contorto da una gastrite tutt' altro che passeggera? Fu molto paziente e comprensivo, l' uomo dalla faccia intelligente, anche quando era ormai chiaro che tu non avevi mai suonato un sassofono in vita tua e l' unico hobby che avevi, era trascinarti da un pub all' altro inventandoti una storia di musicista che non eri. Ti diede, come atto di pietà, il suo biglietto da visita, forse perché gli stavi simpatico o perché era uscito dall' alcolismo anche lui, in un' altra vita. Solo la mattina seguente, svegliandoti con uno schizzo di sole sulle palpebre, accecato da una brutta emicrania, stranamente ricoperto da grandi e bianche piume di uccello , con il biglietto ancora fra le dita della mano sinistra, leggesti il nome di quella faccia intelligente che, in qualche sobria maniera, ricordavi: Charlie Parker. Forse era davvero giunto il tuo momento, il momento di non giocare più con la tua vita, il momento di suonare per davvero e di smetterla di bere.

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INCENDIO Parlavamo troppo io e te. Non ce ne rendevamo conto. Chiedevamo che la geometria o gli algoritmi più complessi entrassero a far parte dell’equazione della nostra relazione. Eri una donna ordinata ed io ti assecondavo in certi momenti e in altri abbandonavo i miei gesti come foglie di larice rosso su di un tappeto di pietre in un giardino zen meticolosamente curato dalle tue mani. Il nostro volerci , il nostro desiderarci, seguivano regole precise dalle quali non volevamo sfuggire per timore di ritrovarci l’uno in faccia all’altro con pezzi di vetro nel cuore, incapaci di estrarli. Era fin troppo facile vivere così, dividendo ortogonalmente spazi, riproponendo ad ogni nostro desiderio contrario alla nostra simbiosi, una simmetria perfetta. Così presi ad abbandonare in quegli spazi oggetti strappati alla mia vita, pensieri erotici, sogni assurdi, parole tinte di viola, cerimonie funebri in onore del già visto e del già vissuto, gusti mai assaggiati, voli mai azzardati. Tu inciampasti in quei solidi dispersi non più riconducibili a geometrie euclidee calcolabili, ti facesti male e pretendesti il mio soccorso e improvvisamente mi venne il malsano desiderio di abbandonarti alla possibilità di un tuo nuovo adattamento, di una nostra nuova relazione che non ci coniugava con nessun predicato assoluto.

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Ero sicuro che rifiutando ogni regola tra noi, avremmo sottratto la nostra passione ad ogni scientismo presunto o presumibile. Avremmo potuto schiaffeggiare le teorie sull’amore, la psicanalisi delle incertezze, la psichiatria della chimica in compresse, per riconfermare il primato del cuore e del sesso, della terra e delle stelle. Una chimica siderale ci avrebbe forse sanato dal meccanicistico sforzo di stare insieme secondo i canoni della civiltà che ci denaturava e sezionava ogni nostro agire, volere e sentire in comode formulette da pseudo alchimisti arroganti convinti dell’inopinabilità delle loro ricette? Io odiavo l’amore in pillole, odiavo ogni carezza che non fosse emanazione di un flotto di sangue nel cuore, di un segno dallo sguardo, di una tenera vibrazione, di un ritmo non ancora trascritto in toni e note musicali tra le pieghe del tuo corpo ricurvo dentro il mio. Così decisi di devastare ogni angolo che avevamo sapientemente progettato e realizzato, sfidai il nostro appartenerci perché non ero un eroe e non avevo altri nemici se non te, che pensavi di essere solita e prevedibile per non perdere le mie tracce ma per perdere le tue. Riuscii a farti ritrovare un esile luce di consapevolezza. Fu un momento affogato nella nostra memoria quello schiaffo che mi facesti bruciare sulla faccia e il tenerissimo bacio che ne seguì e quel tuo …” NON SO CHI SEI , MA TI AMO”, quando ti accorgesti che avevo bruciato la nostra casa con tutto quello che c’era dentro di prezioso e sulla cenere di quel che restava le orchidee che 37


avevo piantato ti chiedevano di ricominciare da dove avevamo smarrito la nostra strada: da noi.

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INTERROGATIVO

Strepitare alla finestra lasciando tracce di ptialina sul liquido silicio di un vetro mai pulito: questo potrebbe essere l’ incipit di una sinfonia quotidiana di un neuropatico alle prese con i solchi della sua vita, costantemente alla ricerca della puntina di diamante per farli suonare in maniera sensata. Il punto interrogativo scivoloso, creato dal suo indice ingiallito dalla nicotina, su quella sudicia trasparenza, al di qua del viscidume sociale strisciante tra i cubi sghembi e metafisici della metropoli aliena, è soltanto un segno, un grosso segno vischioso “?”, che non significa nulla, neanche un passatempo scoperto per puro caso o per puro divertimento da una mente contorta, stropicciata dalle sue nevrosi sociofobiche. Il segno di domanda cola lentamente e i minuti lo seguono, molli figli di Dalì, illegittimi eredi del tempo, la più demenziale delle invenzioni, la più insulsa categoria, l’ ombra sotto l’ ombra: il sole si sta rodendo il suo cuore infernale e tutto gira e rigira, come un tic satellitare, in orbite sempre più complesse, in circonvoluzioni affini alla materia cerebrale che scopre se stessa dopo una vivisezione umana. Urlare un re bemolle e spaccare il vetro stirando l’ ugola come un castrato, dopo che Clotilde ha diffuso i suoi afrori salmastri per la geometria spaziale della mia solitudine folle, usurpatrice della nostra compagnia amorlasciva. Ma che razza di uomo sono o che bestia di donna sei, pelle bianca sopra ossa invisibili, sterminatrice, amazzone 39


dedita allo shopping, avanzo femmineo di slogan pubblicitari, dea storpia, figlia stordita dall’ utopia del Mercato? Il nuovo ciclo delle macchie sul disco d’ oro di Ra, foriero di sventure bioritmiche e di messaggi cronodendrometrici sottocutanei, mi sputa negli occhi semi d’ idrogeno carbonizzato. Ciò mi rende eliotropico, per cui m’ incollo con la fronte sulla mia saliva sforzandomi di essere normale, imperituro, presente a me stesso, vigile, risvegliato da una magia erotica penetratami tra le costole, sedimentata come uno strato scuro di carbone sentimentale che mi ha striato in quantità le valvole cardiache. Clotilde, ottusa scimmietta da circo, tette sane, mani come un libro sacro, annunciate dal pentateuco di unghie dalla cheratina sfregiata di corniola, rettile freddo: perchè ti ho posseduta arrampicandomi sulla tua inconsistenza, scambiandoti per una cura vegetale o una qualsiasi sostanza dotata di forma propria? La mia fronte ha la consistenza delle sue pieghe, é un contatto gelato e appiccicoso con la mia domanda salivare colata sul vetro. Intanto, il postino infila un chilo di stupidità cartacee tra le feritoie delle cassette di metallo;lo guardo sentendomi in equilibrio precario dentro le mie mutande, noncurante del peggio che mi è capitato, insensibile, all’ inizio della primavera, cercando d’ insultarti con tutti i muscoli, perché no! facendolo in maniera vivaldiana. EQUINOOOZIOOOO!!!

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Un’ altra invenzione astronomica di dubbia origine,forse sumera, egizia, financo atlantidea, ma che bella idea, far ripartire tutto in beata monotonia. Non ne avevo bisogno, non in quel momento, non il 21 marzo. CLOTILDEEEE!!! Sono sceso in muntande con la fronte sporca, le mani gialle di nicotina, piantandomi pezzi di catrame tra i piedi. Il postino non la smetteva d’ infilare merda burocratica tra le fessure e io non la smettevo di pensare a quella scema che mi aveva mollato come un nido di sterco e di fango abbandonato da un uccello qualunque nel bel mezzo di un bruttissimo solstizio d’ inverno. “È lei S.M.?” mi chiese quel coso a strisce fosforescenti. Non che la situazione m’ imbarazzasse - io in mutande e lui in divisa - anche perché non vedevo la differenza. In fondo lo ammiravo, quel piccolo omuncolo schiavo del sistema, l’ avrei abbracciato, se solo mi fossi sentito un po’ più missionario. Gli avrei potuto confessare, con l’ ingenuità che contraddistingue un folle o un drogato di ansiolitici, che potevo benissimo non essere io S.M., ma una comparsa di un film di Tarantino, che da un momento all’ altro sarebbe saltata in aria in uno schizzo di poltiglia sanguinolenta per l’ intera durata di 240 fotogrammi. Come da copione non dissi nulla e abbassai lo sguardo sul mio ombelico lievemente villoso, scrutando la lettera che faceva da collante tra la mia identità e quella dell’ omino odioso e falsamente servizievole. Mi presi la missiva e me la ficcai tra lo scroto e l’ inguine, superai il postino variopinto e mi diressi oltre, 41


camminando per due ore, senza che nessuno mi notasse: mi venne il dubbio di essere ancora vivo. In un vasto prato, a volte trafitto da minuscoli fiorellini azzurri, mi sdraiai. Guardai il primo sole di primavera, gli spalancai le pupille ficcandomelo tutto dentro alle retine. Clotilde era un buco nero, io un’ indeterminata matematica, una specie di foruncolo impreciso in un campo di equazioni che non dicono nulla, che non risolvono un bel niente. S.M. non ero io, era il nostro commercialista, quello del piano di sotto. Frugai tra i testicoli ed estrassi i trenta grammi di carta a lui indirizzati. La busta conteneva un foglio di carta sul quale spiccava un grosso e nero ?. Avevo sbagliato set: il Jocker mi spediva uno stupido indovinello. Più sotto, con enorme stupore, riconobbi la grafia di Clotilde che scriveva una frase sibillina allo psicocontabile, una frase insulsa, una di quelle che da una donna come lei non mi sarei mai aspettato. Eppure era precisa come un crucco, impeccabile nel vestire, un figurino, un insieme di carne e fandonie ben miscelate, un’ erotica frigida statua manageriale, una donna di pietra o forse di saggina, buona per scopare, amara nevrotica arrampicatrice sociale. Dovevo capirlo subito che dietro al cascame dei suoi abiti griffati si celava un’ idiota. Potevo forse seguitare a soffrire e a vagare in mutande dopo aver letto: “Come sia che un gallo solo basti a fottere 42


cento galline, ma non bastino cento uomini per una donna?�

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IL SACCO Vi sono porzioni di cielo che merita osservare, luoghi azzurri, grigi, giallognoli, da dove potrebbe sbucare improvvisamente un oggetto, una coppia d’ali selvaggia, il ritratto della Madonna o un dirigibile sfuggito alle spire del tempo degli anni ’40 del secolo scorso. Una di quelle aree aeree marca l’angolo a destra in alto dello specchio che mi duplica e ripete meccanicamente ogni mio gesto insistente sulla mia faccia. Sto pensando ai peli che irrompono dai pori della mia pelle, alla loro caparbietà, al fatto naturale che li spinge a voler uscire dall’ epidermide pur avendo subito per migliaia di volte la sorte del rasoio. Medito sulla mia entrata nella scena del mondo e sulla stupidità dalla quale sono afflitto, perchè non ho ancora appreso le conseguenze delle relazioni sociali sul mio organismo e sulla mia mente. Se non fossi un imbecille, non avrei perseguito il desiderio di invischiarmi con la gente, non avrei illuso a tal punto me stesso da considerarmi un banale animale sociale. C’ erano reti e trappole ovunque, segni inequivocabili di un safari mortale ed io ero una delle prede più appetibili. Credevo di essere libero di scegliere mentre la mia sagoma di mammifero era sotto tiro. Nel mirino si potevano osservare i miei occhi velati d’incoscienza: per il cacciatore, l’ insensibile carnefice, ero già carne da macello, trofeo dell’ inutilità. Sento la ruvidità dell’ asciugamano strofinare le mie guance glabre, rinfrescate dall’ acqua fredda e vagamente elettrica. 44


Ho bisogno di aria vera da respirare, di un itinerario alla scoperta della solidità del niente oltre il senso civile dei luoghi che mi appaiono sempre più estranei e ai quali ho dato nome di vie, case, angoli scalcinati, porte automatiche, uffici di rappresentanza, banche, balconi, cassonetti dei rifiuti, turpiloqui e musiche da parrucchieri. Voglio trascinarmi fino all’alto ponte e da lì sporgermi sull’ infinito, questa volta stringendo con forza la vita che ho trascorso e lanciarla oltre. Una colonna di formiche lambisce il vetro inerpicandosi sul muro per poi scomparire in una crepa del soffitto: immagino, termini sotto il lavandino di un altro bagno, dove un altro uomo si rade, intento a svelare i misteri della follia animale da cui tutti siamo inconsapevolmente affetti. Continuo a pensare a quel filo di esseri laboriosi e per niente felici della loro entomologica condizione, salire e insinuarsi in un’ altra fessura di uno sbiadito soffitto afflitto dall’ umidità, per poi rovesciarsi sotto un ennesimo lavandino, originando una situazione identica a quella che sto vivendo, simile in tutto e per tutto a un mondo frattalico senza conclusione. Abbandono asciugamano, crema al mentolo, certezze e assiomi; mi vesto alla luce della sera, sotto i riflettori di una striscia di sangue che sgorga da una lunga ferita dell’ orizzonte. Mi affaccio dal dodicesimo e ultimo piano della bara in cemento nella quale passo le mie indolenti giornate: il ponte e là sotto, stirato dal passaggio monotono dei carri funebri e dei pedoni saturi di esigenze, famelici di materia, privi di spirito. 45


Dopo dieci minuti di deambulazione ipnotica, sono sul suo dorso a contemplare l’ acqua grigia cresciuta dopo sei giorni di pioggia che scorre in direzione del mare. Desidero saltare, desidero il dono del coraggio e invoco un dio che me lo porga dal cielo che trascolora in notte. Sopra l’ altro parapetto dietro le mie spalle scorgo un sacco di pelle nera. È un oggetto inquietante che attira tutta la mia attenzione e m’ impedisce di portare a termine ciò per cui mi trovo lì. Sono inghiottito dalla sua immobilità e lascio che le più inopportune domande sul suo conto m’ invadano la coscienza. Forse è un segno, probabilmente un mistero di cui non ho tenuto conto nell’ inventario dei motivi che mi stanno spingendo sul confine tra la vita e la morte. Decido di attraversare la strada per sbirciarci dentro. Un taxi quasi m’ investe; faccio appena in tempo a salire sul marciapiede e ad abbracciare lo scuro involucro sopra il muretto, per difendermi dal suo muso metallico. Una voce di donna mi chiama, una voce calda come una precipitazione tropicale. Mi volto allo sbattere della portiera del taxi, la donna mi corre incontro sorridendomi: le mie mani afferrano il sacco. “Quel sacco è mio” mi dice. Io la guardo e stringo più forte la massa contenuta al suo interno. Provo a sollevarlo e sento che il peso sarebbe perfetto per garantire il successo della mia ultima impresa. Sono tentato, ma dall’ Olimpo ricevo una solenne negazione. 46


Porgo il sacco alla donna e le chiedo, prima di lasciarlo nelle sue mani, che cosa contiene. Non mi risponde, lo mette a terra, lo apre e ne estrae una scultura. Una testa con due volti mi guarda: da un lato il Cristo, dall’ altro Socrate.

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7 COLPI “Quel gran bastardo di Felipe?! Sei proprio tu, brutta canaglia, con venti chili di idiozia in più sul tuo culo portoricano? “Sì, sono proprio io quel chiattone di portoricano ! “ Ma che ci fai da queste parti, in questi luoghi depressi, tu che dovevi sfondare le chiappe agli yankee, farti un milione di dollari in un anno, la grande mela, le belle ciche bianche in carriera…eh! Che pasa amico, che ti riporta nel fango messicano? “ Non voglio più trabajare Ramon, non ne voglio più sapere! Guarda tu stesso, qui nella mano destra mi mancano tre dita e qua sul braccio ho trentadue punti e qui sotto al ginocchio ho tre ferri e qualche altro arnese che mi hanno lasciato dentro in una merdosissima sala chirurgica di uno schifoso ospedale per immigrati non assicurati! “Ma che dici amico, non ci credo a tutta questa sfortuna. Avanti, cerca di raccontarmene una giusta, è una bella giornata oggi e ho una decina di birre nel frigo da scolarci in santa pace seduti col culo per terra. “ Ok Ramon, ma credimi, son diventato una merda e ho il cervello in pappa…e sai di chi è stata la colpa di tutto questo, ci tieni a saperlo? “ E si, dai, che aspetti, che si riscaldino le birre?! “ Del mattatoio ,Ramon, è stata quella maledetta catena di smontaggio. Ma ho fatto strada sai…gli ho saliti tutti i gradini del successo tra le carcasse di quegli stupidi manzi. “ E Rosamaria, Felipe, è ancora con te? 48


“ Ah, Rosamaria …lei non ha retto e che Dio mi rintroni di calci nel culo, non poteva reggere. Che vita credi che facesse con me che uscivo alle quattro del mattino impasticcato di anfetamine e rientravo con lo stomaco nella bocca alle otto di sera con la faccia più ridicola e triste di un vitello scuoiato. Il mio cervello era un unico film sulle budella, sul fetore degli escrementi e del sangue che si alzava da un torrente alto mezzo metro sulle mie galoche. “ Cazzo Felipe, è questa l’America? “ Non so se sia tutta così, la mia di certo sì ed era la merda più sporca e rivoltante ch’io abbia mai visto e respirato! A quell’America ho iniziato a sparare in fronte, tra le corna, quattrocento venti bang , sette colpi al minuto. Li stordivo, mica gli uccidevo; a quello ci pensava la motosega… frrrrrrrr e stack e schizzi di materia molle ovunque sul mio corpo inguainato di gomma dalla testa ai piedi, come gli altri che stavano lì, attenti a non perdere il ritmo, perché erano sette colpi al minuto, Cristo di un Dio e ci dovevo stare dietro per sei merdosi dollari all’ora. Niente sindacato, niente casini, sempre sette colpi. Poi ho preso il largo, la cadenza mi è entrata nelle ossa e non la finivo più. Cominciavo ad odiarli quei quadrupedi imbecilli che mi venivano addosso, che venivano a morire, che venivano dal loro boia, che ero io, Ramon, un vero boia armato di pistola: che guerra, Ramon!! “Ehi, Felipe,è una brutta storia questa, sono felice che ora sei qui.” “ Io, invece, non riesco più a dormire, anche se sono qui sento quegli zoccoli, li vedo che mi fissano negli occhi come se sapessero che sono io quel bastardo che li 49


spingerà sulla catena. Infatti avevo detto basta, non riuscivo proprio a continuare con quella colt in mano. Sono andato dal capo… e lui mi ha riso in faccia chiedendomi se ero un sentimentale…e io ho fatto il duro e gli ho detto di no… e lui mi ha ficcato la motosega in braccio e mi ha alleggerito la mansione: preparare i quarti, ventotto al minuto, sette per quattro, perché il manzo ne ha quattro di quarti, come un’ora del giorno, più una testa. Sparargli non era niente in confronto a tagliarli la testa! “ Io non ce l’avrei fatta Felipe, non l’avrei mai fatto! “ Ma io l’ho fatto e segavo ossa e mi rompevo le mie, e pensavo a Rosamaria che ficcava in lavatrice la tuta insanguinata che nascondeva alle sue amiche, perché si vergognava del mio lavoro, perché si lamentava con loro mentre teneva sulle gambe Miguela, la nostra ninia Ramon, bellissima! “E dov’è adesso, Felipe, è con lei? “ Si, è con lei, ma non so dove. Forse al nord. Una mattina se ne andata Rosamaria, che io ero al mattatoio. Poi niente, Ramon, niente di niente. “Hai pensato a cercarla Felipe? “No, Ramon, non posso, non voglio, ho avuto altre donne, quelle della catena di smontaggio. Due o tre, non ricordo nemmeno, ce lo succhiavano per avere i posti più leggeri, ce la davano per smontare qualche ora prima. Una di quelle stronze conosceva Rosamaria e le ha spifferato tutto, per dispetto, perché non ero riuscito a procurarle un cambio turno quando anch’io ero ormai diventato un capetto per cercare di non maneggiare più quelle lame senza filo che ti usuravano i tendini del braccio; sette tagli al minuto per lungo e poi sette disossature e la mia schiena 50


se ne andava in malora con il mio fegato intossicato di pasticche per il dolore. Poi qualcuno ha fatto passare del crack e la musica è cambiata: è così che ho perso le dita senza accorgermi di niente, talmente mi facevo di quella merda. Ma ci ho guadagnato il paradiso;sono finito alle impacchettatrici di hamburger. “Al diavolo, Felipe, almeno non rimanevi a pancia vuota. “Cazzo Ramon, non avrei più mangiato quella merda tritata neanche se me l’avessero regalata! Una volta ci siamo intossicati tutti di escherichia qualcosa e lavoravamo ugualmente, c’era chi vomitava sulla catena, chi non aveva il tempo di raggiungere l’unico cesso e se la faceva addosso. Un inferno, credimi sulla parola: tutta roba che prima o poi finisce nei fast-food. “ Ok, Felipe, cosa intendi fare adesso? “Trecento dollari al mese di sussidio statale, cento dollari a dito che mi manca: mi dovevo mozzare le mani se ne volevo mille. Ma ora sono felice perché non lavoro più. Ho comprato una casa mobile e una vacca da latte. Ho anche una pistola scarica e quando non riesco a dormire la punto sulla testa di Rosamaria, la mia vacca e click…click…click…click… click…click…click… fino a quando non mi addormento. “ Tu sei pazzo Felipe! Beviamoci su .W la libertà, W il Messico!”

CRASH 51


Avevo appena insultato il direttore della banca e il mio promotore finanziario, ma non avevo ottenuto nulla. Mi avevano risposto all’ unisono di rivolgermi a un sindacato dei consumatori e tentare una class action che, tradotto, significava trovarsi i risparmi bruciati e nell’ impossibilità di recuperarli integralmente in un tempo breve, anzi di non recuperarli affatto. Ora comprendevo un po’ più distintamente la mia posizione di appartenente alla classe media: un piccolo limone spremuto, ammuffito e gettato in un cassonetto di rifiuti non riciclabili. Tutti i miei sogni di emanciparmi dai fastidi tecnoburocratici si smaterializzarono, perchè essenzialmente fatti di nulla ovvero d’ immaginazione. Non c’ era proprio più niente in cui credere e questo mi faceva incazzare oltre misura. Greta mi acontinuava a cercare sul cellulare e io non avevo nessuna intenzione di risponderle. Mi ero messo a camminare senza badare al rumore stonato della città, con le mani in tasca, con un vento autunnale che mi raffreddava il naso e mi costringeva ad annusare le molecole pesanti, responsabili dell’ odore nauseabondo che avvolgeva ogni essere che incontravo per la strada . Passarono certamente due ore e neanche la fame si feceva sentire. Dietro quello che sembrava un vecchio muro sfregiato di graffiti anarchici e inutili contro il potere della pubblicità, che qualcuno più illuso di me si ostinava ancora a spruzzare pensando di essere un autentico rivoluzionario, 52


spuntò una specie di broker cinese, un uomo di ordinaria follia che non aveva resistito ai suoi bisogni corporali. Mi guardò sorridendo, serafico, portava un cartello di identificazione sul risvolto della giacca , sul quale si scorgevano la sua faccia immortalata da una fotocamera digitale e il nome Chen Pao Lin. S’ inchinò tre volte giungendo le sue mani al petto in segno di preghiera: mi venne da ridergli in faccia sguaiatamente, ma decisi di trattenere il mio cinismo per un’ occasione migliore, ad esempio per le dovute spiegazioni sul mio tonfo sotto la soglia di povertà alla donna che sosteneva di amarmi e che alla notizia dell’ azzeramento delle mie sostanze avrebbe buttato nel cesso la fede nuziale, dopo avermi confessato teneramente: “Credimi amore, non è per te, ma proprio non posso rinunciare a questo tenore di vita”. Mi ero semplicemente spostato dalla corsia di sorpasso a quella lenta, tutto qua. Ma spiegarlo a Greta sarebbe stato impossibile, come confidare i più oscuri segreti della propria vita a un pezzo di granito, sperando di vedere spuntare dai suoi chiaroscuri minerali, lacrime di comprensione. Chen Pao Lin, dotato probabilmente di mistica compassione e alleggerito nel ventre del suo prodotto interno lordo, si risolse di lanciarmi una massima filosofica che suonava adatta al momento:”La vita si manifesta con cicli a volte intelleggibili, altle volte inesplicabili che solo la via di mezzo può svelale.” S’ inchinò altre tre volte e mi lasciò lì, come uno stupido uomo in preda ad una massima di Adam Smith irrisolvibile: la mano invisibile del Mercato aveva alzato il 53


dito medio insultamdomi e decretando la mia fine di allegro e ebete consumatore. Forse sarebbe stato meglio ridergli in faccia senza nessun ritegno. Alzai le spalle e continuai per la mia via laterale al mondo che mi aveva appena rigettato. Ma di quali cicli andava cianciando testa rasata? In che pianeta pensava di vivere? Io conoscevo la fregatura, qualcosa con una smisurata “F”, che si appostava dietro ad ogni azione, nelle viscere di ogni attore sociale, la vera anima dei ruoli e delle relazioni, che ti mostra la verità, l’ unica sacrosanta verità: TU NON HAI IL CONTROLLO DELLA TUA VITA. Mi misi a urlare forte quella verità, sempre più forte, iniziando ad attirare l’ attenzione su di me di una pattuglia di poliziotti stanchi di fare la ronda per un misero stipendio. Un chilometro dopo, passato in religioso silenzio ad ascoltare la nausea per la vita che premeva nell’ esofago, mi accasciai sul ciglio della strada. Vidi altre volanti passare, a tutta velocità e a sirene spiegate, poi, ambulanze seguite da mezzi dell’ esercito che ad ogni passaggio diventavano più massicci, costringendo l’ asfalto a vibrare violentemente per rispondere alle loro sollecitazioni dinamiche. Nessuno faceva caso a me. Poi, come in una mimica comica dei fratelli Marx, il calvo broker mi venne incontro correndo e sbracciando un messaggio che non avevo nessuna voglia d’ interpretare. Il mio cellulare riprese a vibrarmi addosso: mi decisi a rispondere, ma per l’ ultima volta. 54


“Amore dove sei, perchè non mi rispondi, sono due ore che cerco di raggiungerti!”. Greta mi disse, tra un singhiozzo e l’ altro, di guardare in alto: lo feci proprio quando il piazzista cinese inciampava e si fracassava il ginocchio sotto un enorme cartellone pubblicitario della Mastercard. Appeso al blu elettrico del cielo, un altro piccolo sole luccicava: l’ impatto di Apophis - un meteorite che secondo i calcoli della Nasa non doveva assolutamente schiantarsi sul nostro grumo terracqueo, almeno non nel XXI secolo - era previsto per le ore 15:08 di quel giorno a circa 100 chilometri in direzione Nord dalla metropoli. Durante la rivelazione un po’ stentata di Greta comprensibile, dato il profilarsi dell’ evento astrale - notai come un fiume di persone urlanti stava maciullando il corpo del povero broker: l’ istinto di soppravvivenza era veramente bestiale e può darsi che in me non ne fosse rimasta traccia alcuna. Io mi ero arrampicato su di una collinetta di risulta mettendomi in tasca il cellulare, lasciando blaterare mia moglie che in qualche misura cercava di trovare una maniera per raggiungermi, anche se la logica imponeva il silenzio, visto che le 15:08 sarebbero scattate venti minuti dopo la nostra inutile conversazione telefonica. “Greta, mi ami?” le chiesi interrompendo i suoi piani di fuga sterili, una volta sedutomi sul grosso cumulo di detriti. “Si, certo che ti amo, ma...” Attaccai e scagliai il telefono a trenta metri da me. Fissai a lungo uno slogan che mi chiedeva, da un grande foglio bianco incollato sul muro di uno schifoso 55


casamento di periferia dall’ altra parte della strada:”COME T’ IMMAGINI TRA DIECI ANNI?”. In realtà, l’ unica cosa che avrei immaginato in quel preciso istante era una sdraio, un tavolino, un mojito ghiacciato, un paio di occhiali da sole e un ombrellone, per godermi la fine del mondo in prima fila. Pensai al presidente americano che decollava sull’ Air-one e ne fui invidioso: lui sì che aveva una visione privilegiata, ma quel biglietto costava troppo ed io avevo perduto tutto il mio denaro. Era evidente che io e lui non saremmo morti allo stesso modo: il presidente si godeva la sua fine in diretta, io mi dovevo accontentare della differita. Ergo, come mi dovevo immaginare tra dieci anni? Un reperto archeologico per il prossimo homo sapiens sapiens sapiens...CRAAASSSHHHH!!

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COSTANZA Me lo ripetevi spesso che ero uno squattrinato ma che amavi il mio essere diverso, meno ovvio degli altri australourbaniti che ti attraversavano la vita come inutili stelle di testosterone cadente. Avevi posato nuda per me, avevi ascoltato le mie strampalate e strimpellate sonate per piano in sol minore, ti solleticava quell’idea di essermi musa, mentre le spese domestiche lievitavano senza sosta e il nostro sentimento si andava sgonfiando come una panna che impazzita si rifiuta di montare. Non eri d’accordo che mi buttassi in qualche umile professione, non era degna di una mente come la mia. M’investivi di quell’intelligenza creativa che iniziavo a detestare perché non mi garantiva la giusta metà d’introiti di cui il nostro menage aveva assolutamente bisogno. Come ne avevano bisogno le tue mani che avrei voluto ornare di preziosità, così il tuo collo, le tue morbidezze al caramello che desideravo fasciare con quella corsetteria intima datata anni ’30, che avrebbe decretato la vittoria della tua sensualità sui miei occhi sempre alla ricerca di fatti nuovi sulla tua schiena, tra le tue gambe accavallate, mentre discorrevi di futuro con me, sorseggiando raffinati tè cinesi da una tazza di limoge. I nostri pomeriggi sentimentali di amor borghese erano contro il mondo delle macchine, erano contro il produrre di ogni specie e il vagarti accanto agitato alla ricerca di una decisione in bilico tra il vivere come tutti e la nostra 57


unità utopica, mi faceva disperare di non trovare una soluzione eroica. Ma tu insistevi che t’importava solo del nostro amore, anche se in qualche maniera sottolineavi che una donna come te meritava qualcosa di più, visto che altre femmine decisamente inferiori a te in stile ed intelletto, godevano di certe libertà semplici ma pur sempre libertà. “ Non mi porti più a cena fuori, non andiamo più a teatro, avrei bisogno di sole, di mare, di riposo; dimmi se capisci tutto questo e se ne sei dispiaciuto.” “Costanza , lo sai che io ti amo e che per te farei qualunque cosa. Vuoi che rinunci a te per lasciarti ad un uomo più ricco? Vuoi che la strada diventi la mia casa? Chiedimi quello che desideri, ma non chiedermi di non amarti più perché non ne sarei capace.” “ Davvero non puoi vivere senza di me?” “ Davvero” “ E allora come puoi pensare che io possa amare un altro uomo solo per denaro. Io non ne sarei capace e in fondo è questa la mia rovina, perché ho compreso che, se l’amore non può essere avulso dal denaro, il denaro ad un certo punto esige un tributo troppo alto, che l’amore non riesce a sostenere. L’amore si ritrae ferito e non trova altra realizzazione se non nell’altruismo cieco dell’unione con Dio o per gli uomini bisognosi che non chiedono, in preda alla loro totale disperazione, ma si affidano alla clemenza e alla compassione. Forse la compassione alla fine è più forte dell’amore. O forse l’illusione di farcela lo stesso con poco in cambio di speranza, di attesa, di parole dolci, di coccole, di una sana voglia di non aprire mai gli occhi 58


sul deserto sentimentale che ci circonda, è l’oppiaceo desiderio di non trovarsi mai soli.” Belle le tue parole di conforto, alle quali non sapevo ribattere. Pensai per giorni ad un rimedio, ma fu la polizia che ci pensò per me, quando ti venne a prendere un pomeriggio e ti colsero mentre sfogliavi con un gesto candido e disilluso certe pagine di teatro beckettiano. “Perché l’arrestate?” “Gestione di una casa d’appuntamento e istigazione alla prostituzione .” Per tutto il tempo che rimase in carcere non feci altro che aspettare Godot.

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UN TANGO SOLO PER ME La donna che sto osservando è un prodotto d’ingegneria sociale di nuova invenzione casualmente appoggiata su un bancone da bar minimalista. Porta negli occhi vacui – come molte giovani donne della sua generazione portano – quattro, sei o forse dieci ore di attività multimediale che hanno incastrato il suo viso tutto crema anti-age per un’intera giornata inutile tra un monitor ed un auricolare. Canticchia a labbra semichiuse il brano hip-hop che scricchiola sulla sua testa, girando tra le mani, lentamente, un mojito. Ha un brillante incastonato nel nasino, risultato di una rinoplastica da urlo, uno sfiato di carne artificiale che riflette una luce artificiale ad ogni ondeggiare dei suoi fianchi. Le si avvicina un homo sapiens con cravatta a nodo largo e una banale camicia a losanghe orribili; una geometria tessile da aspirante dirigente. Si scambiano paroline, sorrisini, cose piccoline, forse sono amanti o forse fanno finta di essere semplicemente normali, ma non gli riesce molto bene. Forse si sono incontrati ad un master di comunicazione creativa, penso, mentre sbrandello un toast poco magro e trangugio una bionda in beata solitudine dicendomi nella testa un sacco di frasi senza senso per far finta anch’io di essere normale.

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Il ragazzo dietro il banco è nuovo e ci prova con tutte quelle con il ventre scoperto e il tatoo intorno all’ombelico. Ride in maniera appiccicosa, non lo sopporto. Gli sto puntando gli occhi dietro la schiena come se dovessi prendere la mira per gettargli due amigdale taglienti. Gli comunico con tutta calma che non ho i soldi per saldargli la cena attirando l’attenzione dei due mammiferi quasi innamorati. Mi risponde con altrettanta calma che non gliene frega niente, perché è nuovo e non vuole grane. Tanto meglio, prendo ancora qualcosa di salato dall’espositore di plastica e mi risiedo ascetico a godermi le effusioni fuori luogo di Paolo e Francesca. Ma proprio quando mi sto abituando alla scenetta, i due attori s’involano per la porta, lei tenendo una borsetta kitsch sotto un braccio, camminando rapida su due piccoli piedi sostenuti da tacchi generosi, lui avvinghiato ai suoi fianchi continuando a guardarla, mostrandole insistentemente la sua risata al xilitolo. Decido di seguirli. Ci muoviamo tutti e tre in un soliloquio settembrino tra i viali e le auto parcheggiate. Dopo un tempo impreciso di pedinamento, vedo i due che si voltano verso di me facendomi segno di avvicinarmi a loro. Dieci passi più tardi, stringo la mano dell’incravattato e mi becco il bel viso di lei come un diritto all’ultimo round.

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Non mi danno il tempo di riprendermi dagli stupidi convenevoli, perché sono costretto a seguirli da qualche parte. Camminiamo seguendo una virtuale linea orizzontale, ortogonale all’orizzonte di quell’evento socio-urbano che noi recitiamo a dovere, da consapevoli e maturi cittadini, fino a quando, giunti al centro di un’immensa rotonda stradale di nuova concezione, l’uomo balza da super eroe dei comics su di un tombino nascosto da una finta zolla erbosa, lo apre e ci s’infila dentro facendoci cenno di continuare a seguirlo. Non ero più l’unico pazzo, ero in buona compagnia. Strisciamo per alcuni cunicoli fino all’ingresso di una parete di ferro indefinibile. L’uomo si ferma ed emette una cantilena, un mantra pagano in re minore, la stessa tonalità della nostra strana fuga per il cemento. Io resto dietro allacciato dal profumo della donna, da un’inesauribile corrente gravitazionale al bergamotto. Uno sportellino si apre suonando di ruggine, dal confessionale metallico scorgo qualcuno d’indefinito che instaura una conversazione strutturata in monosillabi dall’oscura sintassi. Mi sto annoiando, cerco la mano della donna pensando di farle cosa gradita, ma i battenti si spalancano. Entriamo, io per ultimo insieme all’umidità e al denso odore di buio dietro la mia schiena. Non vedo nulla, l’uomo e la donna mi prendono per le braccia e mi siedono su qualcosa di morbido e io ci sprofondo dentro senza opporre nessuna resistenza. 62


Davanti a me, nel centro di qualcosa, appaiono due ballerini braccati da una luce discoidale. Attendono immobili una pioggia di tango a rovesci sparsi per tutto quel luogo invisibile. Cominciano a muoversi come lupa e leone, rannicchiandosi in una struttura chiusa sfrondata di essenza e di coerenza. Improvvisamente vedo in loro originali contenuti corporei a volte alleggeriti altre volte appesantiti dal respiro comune. Gli occhi chiusi della tanghera evocano il tremore di ogni particella aerea, lui insiste con la sua mascolinità liberata a offrirle il suo petto ponendo fine a tutti i supplizi del cuore. Lei suscita i miei ricordi e tutti i corpi che ho amato, sento di avere mille anni e non so che farmene, mentre m’ immergo con gli occhi in quelle asane liquide. Il tango muore in un vapore rosso e strali blu dentro un esofago nero. Una mano di donna prende la mia conducendomi fuori da quell’utero musicale: resto solo. Trovo una via d’uscita, m’inerpico sulla prima scaletta che il buio mi offre, spingo un coperchio di ghisa algida e riemergo sulla strada. Stranamente mi ritrovo in faccia al locale che ho lasciato e dalle vetrate vedo il barman spaccone. Spingo la porta a vetri e ritrovo la donna e il suo uomo affaccendati in qualcosa di dolce, ma nessuno mi guarda. Mi avvicino al bancone e ordino qualcosa di forte. Il ragazzo mi saluta come se non mi avesse mai visto prima. 63


Su di un tavolino riconosco pezzi di toast e una birra abbandonata. Mi specchio dietro i liquori, incredulo‌ ho ventanni di meno.

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L’ OSSESSIONE PER LE TUE MANI Parlavamo di sciocchezze, parlavamo di maschere di giada ed io ero ossessionato dalle tue mani. Eri un’aristocratica terribilmente attratta dalla mediocrità del pret à porter, un avanzo di nobiltà, un’ipocrita visione del mondo, una stanca riduzione dell’arte di sé ridotta a banale maquillage. Parlavamo e ricordavamo di quella notte che scegliesti per iniziarmi a qualcosa che abitava in te e che da te non si sarebbe mai staccato: l’etere oscuro dell’anima liberata dalla coercizione morale. Quella notte fu anticipata da una sera che ritornai più tardi del solito, non perché tu mi aspettassi con ansia, ma per un motivo che ricordava un’ urgenza, un’ impellenza della quale mi sentivo preda: la sensazione spiacevole di non essere più atteso da te. Non era la nostra casa, non erano le nostre stanze quelle nelle quali consumavamo la insana tragicomica di una relazione isterica, per niente sensibile, tutt’altro che emotiva. Eravamo preparati ad odiarci oltre ogni ragionevole limite, un compito difficile ma sostenibile; per questo dovevamo varcare la soglia dell’immaginazione e sprofondare nella realizzazione del meschino senza esclusione di colpi o di tremende evocazioni di malvagi spiriti. Entrai come si entra in un museo abbandonato da torme di bipedi curiosi e sazi di essere informati di passato e antiche usanze. Mi sentii finalmente pronto ad affrontare il duplice ruolo di espiatore e accusatore, che sapevo mi volevi ostinatamente offrire. 65


Oltrepassai zone d’ombra e affreschi di luce, e ti trovai in piedi a gambe divaricate, sulla porta della stanza da letto simile ad un tempio rosso, ad un mistero di architettura del piacere, ma per raggiungerlo avrei dovuto attraversarti come un mare di umori violacei e dimenticarmi, almeno per un secolo, di essere io e te o qualcos’altro. Scelsi di arrestarmi davanti a quell’isoscele di muscoli aperti, equilibrati sulla plastica lucida e sadica avvinghiata ai tuoi piedi. Gli strani colori che ingoiavano i miei occhi, l’odore d’incenso che rimandava ad un sacrificio agli dei, mi esaltarono lo spirito, mi sciolsero le reni impastate di rigidità. Cercai la tua coscia e la sentii fredda, deformata, la percorsi con il tatto e ne ammirai nella mia mente la sua spiralità animale. Il panico mi scatenò una reazione gelida e il sibilo che mi frustò l’udito sbriciolò tutto il sangue in movimento nei tragitti blu delle mie vene, spingendolo verso il centro buio del mio addome impietrito. Era un enorme serpente quello che si arrotolava sulla tua gamba, la tua risposta più inumana, ma sensata, alla mia fobia per gli ofidi. Mi smarrii, ma non per molto, perché l’ipnosi che il tuo demone a scaglie mi aveva provocato, non bastò a mettermi fuori gioco. Non ero ritornato lì, in quella terra sensuale di cui eri sciamana, per essere la tua esclusiva vittima. Continuai ad accarezzare la bestia che si mosse sotto le mie dita andando rapidamente e spiralmente ad 66


abbracciare il tuo collo, ponendo la sua lingua vibrante tra la mia e la tua bocca. Tutto il colore rosso della stanza, che ti rendeva completamente ombra, m’impediva di capire dove realmente si trovassero le tue labbra. Decisi ugualmente di baciarti, di darti un bacio mortale e quando le nostre bocche s’incontrarono, feci scivolare in te quel gusto che in nessun frutto di nessuna terra è rintracciabile. A quel punto le tue mani si liberarono del serpente e mi legarono ai tuoi fianchi mentre dalla mia schiena, in un nascondiglio tra le mie scapole, uno scorpione percorse la via più breve per raggiungere il tuo seno, prima che il tuo demone mi mordesse il cuore. Ci avvelenammo entrambi e invece di morire ci soccorremmo. Io ricordo ancora le tue dita sul mio petto, l’ossessione per le tue mani che dalle mie costole estraevano la droga mortale dopo averti salvato la vita.

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APOCALISSE

Ci saranno segni nel sole e un terzo del cielo e delle stelle cadrà sulla Terra. E noi tutti saremo indaffarati a fare qualche stupida cosa. Ci sarà chi si sveglierà in quel momento pronto a farsi carne da macello per qualche nuovo padrone, chi fornicherà alla grande, chi si rivolgerà al suo Dio chiedendo grazie e miracoli impossibili, chi innafierà fiori, chi distruggerà e devasterà luoghi e vite, chi contrabbanderà sesso, droga, illusioni, voti elettorali, libri stupidi, armi di distruzione e distrazione di massa. Chi guarderà uno schermo ultrapiatto seduto sul cesso, chi si farà massaggiare gli attributi da una bambina di otto anni, chi scambierà organi vitali per potere, chi controllerà chi, chi eseguirà ordini, chi disobbedirà, chi crederà agli alieni buoni e a quelli cattivi, chi si legherà a una setta segreta, chi ruberà, chi morirà d’infarto, chi, malgrado sopravviverà a un cancro, sarà più boia di prima, chi sarà vittima e chi carnefice, chi crederà nella bontà innata dell’ uomo e chi nella sua congenita assenza, chi riderà per niente, chi amerà ancora per un attimo, chi si getterà da un ponte per gioco, chi per disperazione, chi suonerà un flauto, chi si vestirà da poliziotto, chi da prostituta, chi da banchiere, chi da politico, chi disegnerà un nuovo logo, chi scoprirà l’ovvio, chi finirà i suoi giorni in galera, chi spenderà in un giorno il pil di una nazione, chi mangerà il fango per nutrirsi e chi getterà le reti in mare e pescherà radioattività. 68


La birra scendeva bene e delicatamente nella mia gola, talmente bene, che m’induceva a pensare, che sarebbe stato l’ultimo atto sensato che avrei eseguito come un rituale, il giorno dell’apocalisse. Il sottotetto era rovente, perciò avevo una plausibile scusa per sbronzarmi già di mattina. Dalia aveva appena lasciato il mio buco, avevo visto le sue gambe attraversare i miei abiti sparsi sul palchetto privo di lucidità, specchio vegetale e opaco dove si rifletteva la mia sconfitta. Mi aveva lasciato un numero di telefono di un tizio che mi avrebbe dovuto offrire un lavoro e nè lei nè io sapevamo di che lavoro si trattasse. Glielo avevo detto un milione di volte di lasciarmi in pace, ma lei niente, non ne voleva sapere di vedermi ridotto in quella condizione. Avevo solo quarant’anni, questo era il motivo: per questo Dalia voleva che mi trovassi un’ occupazione. Lavorare? semplicemente non volevo fare il servo di nessuno. Bisogna esserci tagliati alla sottomissione, all’umiliazione, al ruffianismo e alle peggiori viscide esibizioni di cui uno schiavetto postmoderno è capace, in cambio di pochi spiccioli e di una videosopravvivenza. Roy era il tizio che dovevo incontrare al terminal dell’aeroporto. Si presentò alle tre di un caldissimo pomeriggio, di sabato, forse, ma non ha nessuna importanza, sicuramente era estate, visti i quaranta gradi all’ombra e il vestito bianco che indossava, di un candore allucinante che m’infastidiva le retine ancora molli di sonno. 69


Rideva sempre, non era un granchè originale, fumava un cubano e agitava le mani quando apriva le gengive, per dirmi tutte le cazzate di cui avevo bisogno per capire che si trattava di recuperare soldi da gente sfigata e abbindolata dalla sua agenzia di prestiti. Si sforzava di convincermi che stavo per intraprendere il lavoro che mi avrebbe cambiato la vita per sempre; lo doveva fare, lo doveva a se stesso per un tempo limitato, evidentemente, ma non poteva rinunciare a quella stupida recita, patetica, unta e irritante. Non mi ero fatto nessun problema e gli avevo chiesto di offrirmi una birra, per sopportare meglio il suo monologo. Ci eravamo fissati per un po’; a volte ci guardavamo intorno, lasciando saltellare le pupille di qua e di là. Ci lasciammo con una viscida stretta di mano e ci accordammo: 10% su ogni recupero, rigorosamente in contanti. Dalia era al settimo cielo, talmente entusiasta da far scattare in lei quella irrefrenabile voglia di shopping che ogni donna porta cucita sul culo, sul seno, sulle unghie laccate di fresco, sui capelli appena tinti, sul mascara degli occhi, sui tacchi e sui tatuaggi inneggianti sesso con un tocco di zen. Sapevo perfettamente che non sarei riuscito a resistere più di un giorno a fare il tira piedi di quel Roy, ma non volevo deluderla, anche perchè, in quei momenti, un moto addominale freme nelle femmine di tutto il globo e Dalia non ne era esente: si stava dando da fare a muovere i fianchi su una odiosa salsa, ripetendo... te quiero... alla nausea, sorseggiando vino bianco, dopo aver spezzato con 70


i denti le reni a un gamberetto decongelato e sporco di maionese. Appoggiandomi ai suoi reni pensavo: “ Ecco sopraggiungere i quattro cavalieri dell’apocalisse, eccoli pronti a scatenare sull’umanità ogni genere di sofferenza.” Non ricordo neint’altro, vagamente un orgasmo e uno strano lunedì mattina, dove mi ero alzato sudato, nudo e nauseato. Era il corpo di Dalia che guardavo, affascinato da un livido sulla sua coscia e dalla sua mano caduta oltre il bordo del letto della quale indovinavo ancora le unghie smaltate di rosso sangue. Mi rigirai tra le mani una lista di nomi, il primo della lista che dovevo pizzicare era Martin Lobowsky. Sentivo distintamente gli zoccoli dei quattro equini apocalittici scalpitarmi nei timpani. Dietro le lenti scure sopportavo la Terra e i suoi esseri striscianti. Prima che riuscissi a raggiungere l’abitazione di Martin Lobowsky, in una puzzolente strada a me del tutto sconosciuta, fui fermato da un predicatore, un Avventista dell’ ultima ora, con il libro dei libri aperto tra le mani. “E il numero degli eletti sarà 144000...”, ripeteva incessantemente. “ Dove stai andando fratello? ”, mi chiese. “ Da Martin Lobowsky.” Mi guardò con un’espressione che poteva significare anche, adesso ti sparo in testa. “ Sono io quello che cerchi.” Chiuse il libro dei libri facendo risuonare l’ aria umida con uno SBAAMMM! Ne cadde una foto di una donna nuda 71


in posa, con un paio di tette enormi: forse era la Grande Meretrice. “Sei armato?” Negai, candidamente . Il mio lavoro per Roy terminò lì, a dieci metri dalla casa di Martin Lobowsky, che mi aveva steso con un diritto in piena faccia, che suonò come lo SBAAMMM della Bibbia. Quando mi rialzai erano le tre del pomeriggio, con un pezzo di lente che mi si era conficcato sul sopracciglio destro e un grumo di sangue che mi otturava entrambe le narici. Martin mi aveva adagiato la testa sulla Bibbia, in un certo senso si era preso cura di me. Avevo la foto della Grande Meretrice sul petto, puntata con uno spillone. Ricambiai la cortesia, scrissi dietro alla femmina il mio indirizzo, invitandolo a bere un paio di birre gelate, ma cambiai idea, gli scrissi il numero di targa della jeep di Roy, che chissà perchè mi era rimasto impresso: ROY144-OOO.

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MAGDALENA

Io non sono un credente, non m’interessa la catechesi, non voglio sapere niente di dogmi, di agiografie sensazionali, ma amo l’odore dell’incenso. Nelle chiese dove entro approfittando della calca della gente che non conosco, mi piace prendere la comunione senza essermi confessato, perché da bambino rubavo le ostie dalla sacrestia, cibo per lo spirito che appiccicavo al mio palato godendone il gusto di niente, saziandomi di Cristo quando non riuscivo a rifocillarmi di pane vero. Ma erano altri tempi e di quei tempi non mi è rimasta che la povertà del portafoglio e non dello spirito. Non conosco la fede, questo è vero, ma conosco Magdalena, perché abito dietro una porta in mezzo a quattro scalcinate mura di un seminterrato, in un rettangolare edificio sgangherato dove abita anche lei; un favo urbano i cui muri di mattoni anni ’60 sono sporchi d’anarchia indelebile d’almeno dieci anni. Magdalena prega, si chiude nella chiesa del quartiere al mattino e ne riesce la sera dopo l’ultima funzione. Io la seguo spesso, la osservo mentre si genuflette sui tacchi bassi e consumati dalle lunghe camminate in mezzo ai banchi della chiesa e a quelli del mercato. Ho fatto in modo che si accorgesse di me, quel giorno che ho deciso di radermi decentemente quell’icona di faccia che mi ritrovo appesa al collo, indossando sotto il mento, tra le orecchie, una passabile acqua di colonia, peggiore certo dell’acqua santa che le ho visto gocciolare tra i piedi dopo il segno della croce. 73


Pensavo che Magdalena pregasse anche in casa, almeno ne ero sicuro, fino a quando non l’ho sentita ridere nervosamente da dietro un’altra porta al piano sopra la mia testa. Diceva a qualcuno o a se stessa che era bella, piena di desiderio, di voglia di libertà e di brama d’amore e continuava a ridere mentre un rumore di bicchieri di vetro sbattuti in terra, anticipavano i suoi pater, ave e gloria. Forse aveva semplicemente bisogno di un uomo, di me per esempio o di prendere a vetri in faccia il Tentatore che le stava offrendo una via di fuga dalle sue incessanti litanie. Ma io non credevo nè a Dio nè a Satana, sentivo solamente un irrefrenabile desiderio d’incontrarla. Cosa che feci, per l’irresistibile curiosità di un uomo che spera di vedere la donna che ha sempre osservato di nascosto , aprirgli la porta indossando una vestaglia corta e trasparente. Dopo aver affondato il mio dito nel campanello, le risate cessarono improvvisamente, il tac tac di scarpe sicuramente molto alte, si avvicinò dietro quella divisione di legno. Sentivo uno strano formicolio percorrermi la schiena e scendere per le braccia, come un’acqua elettrica sfuggita dalle mie scapole, sensazione che m’indusse a farmi il segno della croce. Attesi, forse un po’ troppo, ma non cedetti all’idea di far finta di nulla e ridiscendere le due rampe che avevo salito. La porta si aprì quel tanto da lasciar sfuggire in direzione della mie labbra una mano bianca infilata tra la luce del pianerottolo e l’ombra viola dalla quale era comparsa; perdeva sangue da un buco nel polso, teneva un’ostia tra 74


le dita, Magdalena diceva da dentro la stanza…”il corpo di Cristo”…ma io non ebbi il coraggio di dire amen e di aprire la bocca.

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MACCHIE DI TE

Versavo da una pregiata teiera di porcellana un tè aromatizzato alla pesca e ai fiori di ciliegio e, per un istante, mi era parso di trovarmi immerso in un autunno giapponese del quattordicesimo secolo, mentre tu, in ginocchio davanti al tavolino quadrato in bambù scuro, mi osservavi mentre portavo a termine la cerimonia. Lessi i tuoi ideogrammi tatuati sulla caviglia che il kimono non occultava interamente alla mia vista e tradussi nella mia mente, prossima al silenzio interiore causato dai gesti lenti che continuavo ad esibirti per ottenerne un’atmosfera ipnotica: “…cadere, ancora cadere.” Trovai strano che ti fossi lasciata sedurre dall’oriente, quando più volte mi avevi ripetuto che detestavi le mode e che non eri così sicura che anch’io non mi fossi lasciato irretire da spezie e aromi mentali, quando, in realtà, anch’io, come tanti romantici sognatori, non ero che un frutto sorto dall’albero della conoscenza del bene e del bene, le cui radici affondavano nella civiltà di un occidente che si era irrimediabilmente allontanato da ogni arcadico mistero, per vivere secondo i sobri dettami del materialismo scientifico. Io continuai a praticare i miei misteri, proprio come un monaco samurai e non sarei mai andato contro la mia natura sensuale che ti voleva fortemente, che non ti poteva lasciare libera dai miei occhi, dalle mie braccia abituate alla lotta dell’acciaio, contro i fantasmi che abitavano i 76


recessi del mio sangue che si raccoglieva dentro il respiro trattenuto ogni volta che le nostre labbra si mischiavano. Poi qualcosa mutò, l’ipnosi non si realizzò, l’aria entrò nella stanza e come una mano furtiva ci rapì l’attenzione, svanirono i miei pensieri mentre cercavo di risolvere il tuo Koan sulla caviglia”…cadere, ancora cadere”, risoluzione che mi avrebbe forse portato al limite del risveglio interiore o all’apertura di un occhio mentale da tempo affetto da uno strabismo divino ogni volta che meditavo su di te, raccolta in te e nel mio corpo nudo sul nero futon che sosteneva le nostre ombre rese immobili dal piacere. Il mio gesto più importante, mescere e offrirti quella fragranza liquida del sol levante, per dimostrarti che ero un vero sensei, si sciolse in un cedimento inaspettato, in una caduta che sembrò ad entrambi lentissima: la conseguente punizione del monaco arrogante che si credeva un grande guerriero dell’ignoto. Non ti ritrassi e l’unica goccia che oltrepassò il bordo di cobalto blu della tazzina, scese per un tragitto erotico sulla tua sottile caviglia, deformando il tatuaggio, bagnando altri segni che la confusione del mio imperdonabile errore non mi permetteva di tradurre, dei nei linguistici ormai inutili alla comprensione della pazzia degli amanti che sfida la razionalità del mondo. Volevo portare il tempio tra noi, in noi e la forza del ferro piegato innumerevoli volte per tagliare ogni legame con l’umanità, lasciando vivo quello con il cielo e la terra. Volevo sfidare la gravità e riportare l’equilibrio nell’amore tra un uomo e una donna, soffocati dai flutti inconsistenti e insidiosi dell’indifferenza sentimentale che 77


ci circondava. come quelli che assediavano da migliaia di anni la terra degli jomon che io amavo Ma dopo il furto delle dita d’aria che ci rapì gli sguardi, non rimasero che macchie di te sulla mia mano tatuata che recitava:”…ricordare, ancora ricordare.”

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AMORE FREE

“Amore free, bambolina, posso offrirti solo amore free”, ti dicevo. Poi riprendevo a suonar la mia tromba spingendo i pistoni alla ricerca di un bebop assoluto. L’inferno si era parcheggiato nella rimessa da dove avevo spinto fuori la mia jeep di quindici anni, alla quale ero attaccato come carne all’osso, per provare e riprovare quel fraseggio di Miles Davis che non c’era verso di sputare fuori dalla campana d’argento. Tu, semisvestita per il caldo, ti era appena rinfrescata con la pompa del giardino e davanti alle mie note storpiate dal mio dilettantismo dirompente, sgocciolavi suppliche femminili. Mi bastonavi le orecchie insistendo a penetrarmi nella mente con i tuoi vocalizzi piagnucolosi sulla domenica che volevi trascorrere a trastullarti con me. Io reagivo soffiando più forte, salendo un’ottava sopra alla vibrazione stridula delle tue corde vocali incastrate oltre i tuoi denti. “ Fa diesis”, urlavo staccando il bocchino dalle labbra doloranti. Riprendevo la scala da dove l’avevo lasciata, risalivo, discendevo, incespicavo e tu continuavi a dire tutto quello che mi conduceva al devastante errore tonale. Poi mi sollazzavo in un nanosecondo in mezzo al caos sonoro e vocale, meditando sul colore della mia musica e la musica di colore, consapevole del grigio della prima e del profondo nero della seconda. 79


Posavo, a quel punto, lo strumento nella custodia, prima che tu iniziassi a piangere con le mani sugli occhi. Mi sfilavo lentamente i guanti di cotone bianco come un ladro dopo il suo colpo migliore. Facevo ogni movimento con studiata precisione, mentre osservavo da sotto a sopra la tua presenza che mi ricordava le forme anni ’30 di una b-girl del “Vanity Fair” della Chicago dei gangster’s e dei jazzisti alcolizzati. Preso da incontrollata tenerezza, ti accarezzavo le gambe, ti prendevo la mano e ti trascinavo con cortesia fuori dalla mia sala prove, dimenticando volutamente il lettore cd acceso, lasciando che il quintetto negro alle mie spalle strizzasse fuori dalle casse tutto il succo jazz di cui era capace, cacciandomi a calci dal suo olimpo afroamericano, verso la liberazione di una domenica pomeriggio, a spasso con la mia donna, su una cadente jeep decappottabile. “Hai ragione tu”, parlavo, guardando la strada da dietro il parabrezza chiazzato di colla d’insetti ammazzati, mentre ti tenevo la mano, lasciando che la strada si srotolasse rovente in bocca all’orizzonte:“Non sarò mai un grande musicista”. I tralicci dell’alta tensione che ci passavano di lato, mutavano il suono dell’aria in maniera del tutto metronomica, seguendo il ritmo che i tuoi capelli rossi avevano preso, scossi da ottanta miglia all’ora senza destinazione. Anche il tuo vestitino leggerissimo seguiva la stessa cadenza, sincronizzato sulla scia rumorosa che i cavalli 80


stanchi del motore perdevano dietro di noi sulla linea gialla in mezzo all’asfalto. Poi cominciasti a ridere di gusto ed io con te, entrambi premendo la testa contro i sedili, con il sole del West sulla faccia, mentre tu continuavi a ripetermi che odiavi il jazz e mi chiedevi di prometterti di non rovinarti mai più una domenica d’estate. Dopo un’ora di strada giungemmo ad un grande incrocio coperto di polvere dell’Arizona. Una figura nera, alta almeno due metri, chiedeva un passaggio. Rallentai, mi accostai e riconobbi qualcosa di molto famigliare in quella grossa faccia nera. “Dove vai amico?” gli chiesi. “Vado a ovest” “Anche noi”, gli dicesti invitandolo a salire dietro. “Vi dispiace se prendo mio fratello?” “Ma non c’è nessuno oltre te, qui!” gli dissi. “Intendevo dire questo fratello.” Tirò fuori, da dietro un grosso roveto, un’enorme custodia da contrabbasso e stendendoci l’enorme mano nera allargando la sue smisurate labbra in un sorriso tutto africano, ci disse il suo nome:” Mi chiamo Charles, Charles Mingus.”

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DANNAZIONE

Se dovessi scrivere tutto quello che so sulla tristezza, non ci sarebbe spazio sulla carta dell' intero pianeta. Se dovessi riportare a caratteri cubitali la parola felicitĂ su di un lunghissimo muro bianco e se questa enorme parola veramente rappresentasse il mio stato d' animo, lascerei cadere dalle mie mani il grande pennello intriso di nero che mi accingevo ad usare, staccherei entrambe le braccia dai miei fianchi e mi strapperei i capelli per la disperazione. Mentre dico a me stesso queste cose, un presagio: un corvo nero urla nel cielo della sera senza farmi rabbrividire la schiena, anzi, m' invita a chiudere gli occhi per addormentarmi nei ricordi di un fruscio d' erba alta, nei campi dove io ed Eva facevamo l' amore. Poi stavamo supini, abbracciati a sbirciare il cielo come si faceva da bambini, esausti dopo una capriola senza fine giĂš per un pendio, cosparsi dell' odore delle margherite giganti, dei fiori di montagna bruciati dal sole estivo, a volte inclemente con la nostra pelle, ma pur sempre calore, pur sempre vita. Ricordo quel meraviglioso momento, come si ricorda dell' acqua fresca tracannata in una sola lunga sorsata, dopo aver sudato il sale di un equinozio, in giugno, in preda ad una sete infinita. Ricordo che ci alzammo nudi, mano nella mano, abbandonando i nostri vestiti intrisi di civiltĂ , per cominciare a correre senza sosta verso un vecchio muro di pietra ormai diroccato, incastrato perfettamente tra un maestoso fico ed un antico melo selvatico, ai cui piedi 83


avevo nascosto, a dodici anni, una spada di rame che, Ciprus, il lattoniere ignorante del paese montano non lontano da lÏ, aveva forgiato per me in un momento di generosità quasi adolescenziale. Scavai sotto il segno sbiadito di una croce uncinata mentre lei mi faceva ombra sulla schiena. Ogni tanto mi voltavo sorridendole e lei ricambiava con risatine da ragazzina curiosa in preda al desiderio di compiere una trasgressione del tutto innocente. Voltandomi, vedevo il paese attraverso il triangolo tra le sue gambe e udivo i rintocchi delle quattro del pomeriggio spediti nel cielo da vecchie campane di bronzo. Scavai per dieci minuti, fino a quando le mie unghie sporche di terra non incontrarono una scatola di legno intarsiata di modeste dimensioni: ovviamente la spada non c' era piÚ. Sul coperchio della scatola era stata incisa a mano questa sibillina frase:" Tutto ciò che si prende senza chiedere deve essere ricambiato." Aprimmo insieme lo scrinio e vi trovammo "Aspettando Godot" di Samuel Beckett. Proprio in quel momento sentimmo alle nostre spalle dei colpi di tosse. Ci spaventammo e ci accorgemmo all' improvviso di esser nudi; con la coda dell' occhio vidi un vecchio robusto con una lunga barba bianca che mi ricordava Ciprus. Facemmo appena in tempo a strappare due foglie di fico per coprirci le vergogne e a nasconderci dietro il muro. Lei si sedette su di me, con il libro aperto sulle sue cosce, mordicchiando una succosa mela che aveva staccato dai rami su di noi e che mi offriva maliziosamente. 84


Aspettammo in silenzio che il vecchio se ne andasse, soffocando la nostra ilarità tra le nostre labbra sporche del carnoso frutto. Quel giorno non si ripresentò mai più nella nostra vita: la nostra storia di lì a poco sarebbe terminata, come i fiumi si seccano, come gli insetti spariscono sotto la terra in inverno. Ci scacciammo da quel pomeriggio d' estate e dopo la mela, ci fu la caduta del nostro amore, ci fu la distruzione sistematica della nostra innocenza sentimentale a vantaggio di una nervosa capacità di adattamento alla follia civile, una pazzia che ci accolse in seno al suo vibrante elettromagnetismo, che ci donò il mondo del dio serpente, il dio che, in cambio di quel pomeriggio d' estate, ci offrì la dannazione.

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ARTEMIDE

Il sole ha un cuore di ghiaccio e nessuno lo sa. Artemide, donna dal nome classico, si pettina i capelli e li lascia cadere per gravità sul capezzolo destro, mentre io, alle sue spalle, l’osservo impietrito dai suoi movimenti magici che lucidano la sua chioma scura. Ho scritto parole per lei, ma a nulla è servito. Cercavo di spiegarle che le galassie si allontanano le une dalle altre, che le stelle possono a loro discrezione generare la vita nel centro esatto del freddo cosmico, che il mio sentimento per lei e simile alle proprietà dell’elio fuso delle reazioni termonucleari, ma niente, niente di niente, freddo gelido e cosmico tra le sue braccia , tra le sue mani avvinghiate alla spazzola, ogni notte passata e ripassata sulla sua scivolosa cheratina corvina e bluastra, prima di coricarsi accanto al mio corpo già bara di graffite inutile e cibo per gli arcani misteri del sonno. “ Tu vivrai oltre la mia corruttibilità di carne sfatta, mia amata mortale.” Tu non rispondevi alle mie provocazioni lugubri. Vedevo il futuro, perché uccisi Cassandra e me la divorai in un sogno greco in preda ad un cannibalismo intellettuale e dialettico, acquisendone i più oscuri e temuti poteri di preveggenza. Tu guidavi la spazzola dall’alto verso il basso, maliarda improbabile, sfacciata con la tua psiche che avevi plagiato perché non ti mostrasse il tuo vero ego palindromo.”Vorrei essere uno spregiudicato trampoliere che ti cammini sulle scapole. Hai sentito strega dai capelli 86


lunghi, hai udito mentre ti levi i serpenti che hai strappato da una Gorgone svampita?” Nulla poteva distoglierti dal tuo fare dall’alto verso il basso. Che io vedessi chiaramente che sarei morto prima di te, non t’importava minimamente. Accavallavi le cosce come fosse un attimo di distrazione, anche se ero fermamente convinto che lo facevi come uno sforzo atletico e non erotico, tale era la tua freddezza ginnica ben incastrata tra ginocchio e ginocchio. “ Hai sentito? Morirò prima io di te.” “Povero sciocchino.” Quelle due paroline ti uscivano dalla bocca come due fragole aggrinzite da una canicola estiva. Non volevi saperne di perdere la tua vittima, di non poter più esercitare la tua violenta arte di carnefice con una scheggia di veleno tra le unghie e tra le labbra, la prima per trapassarmi i timpani di umiliazioni, la seconda il petto e la schiena, durante i nostri amplessi ferini che tu giocavi come un monsone che si divide in milioni di stracci d’aria rovente tra l’ombra e l’esotico esistere di forme di vita verde. “Sarò io a decidere quando finirà il nostro possederci distorto.” dicevi. Regina di carne contro il tuo suddito di paglia: vincevi sempre e comunque, vista la nostra asimmetria sentimentale. Il giorno che decisi di farlo, il giorno sacro della mia liberazione, eri sotto la doccia, dietro il vetro che ti sbriciolava in segni opachi vagamente rosa. 87


Il nero che ti scivolava sulla schiena suscitava nei miei occhi fiamme di pece spenta e scosse nervose dalla mia spalla al coltello che afferravo come ramo di una rupe, unico sostegno in quell’attimo di sospensione di ogni mio elucubrare sensato. L’acqua che ti tingeva di vetro liquido i fianchi filtrava da sotto il box, io ero a piedi nudi e sentivo bagnarsi le mie dita di un bacio tiepido, di un aroma al sandalo. Ho aspettato che si fermasse quella minima cascata sopra la tua esistenza, che tu aprissi il velo rigido e trasparente che ci separava per affondare l’acciaio nel tuo petto, tra le tue ossa. Ma il campanello alla porta mi freddò e l’automa che in me non muore mai, era già all’ingresso ad aprire senza il mio consenso. Un monaco dotato di tonsura e di un saio tinto di terra bruna mi sorrideva e si presentava come Pang-lo, ma non era asiatico. “Come mai porti un coltello per ricevermi?” “Volevo uccidere la mia donna”. “Oh, pensavo tu volessi uccidere te stesso”. Estrasse da sotto la tunica un libro e me lo diede, salutandomi con qualche inchino, borbottando qualcosa di ritmico nella bocca. Aprii il libro ancora in mezzo alla porta: s’intitolava memorie di Pang-lo. Uscii lasciandomi la porta aperta dietro le spalle e tu sciolta sotto i vapori di sandalo. Lessi, lessi e le pagine non terminavano mai, passò un tempo infinito fino a quando non arrivai ad un punto della storia dove lui vuole uccidere lei, un’ altra Artemide, come te, e come te stava sotto la doccia, ma alla porta 88


qualcuno suonava e lui l’apriva, con il coltello ancora nella sua destra e, dietro la porta, un monaco come quello che mi aveva dato il libro. Poi, mi svegliai dopo aver letto un milione di pagine, mi svegliai nel mio cenobio e riconobbi il mio piccolo altare dedicato al buddha, e appoggiato ai suoi piedi un coltello arrugginito dal tempo e la mia lettera che non ebbi mai il coraggio di spedirti, per spiegarti che mi ero fatto monaco per non ucciderti.

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CON IL SUO NOME

Tu non conoscevi la mia insofferenza, ma in certe vie tranquille dove mi conducevi per cedere al nostro coito disordinato, sentivi quella inquietudine crepuscolare che avanzava, montava come acqua nervosa, sovrastava le percezioni dei nostri veri noi, tutto sommato ingannati da una teoria sull’amore e non dalla sua esperienza. Ti concessi la ragione e mi presi il torto di non averti creduto, mentre ti rassettavi quello straccio di gonna plissettata e ripassavi a memoria la smagliatura verticale della calza aderente alla tua coscia, slacciandomi il tuo sorriso di lupa soddisfatta, caduto oltre il limite della mia passività d’amante. In un accenno di caldo estivo, mi svelasti la tua infedeltà ed io mi ritrassi sotto l’ombra fresca e opportuna di un portone, in assenza di una spelonca, e i tuoi occhi non sapevano se guardarmi soffrire o graffiarsi di una cecità indifferente che l’estenuante tempo trascorso insieme aveva saputo alimentare. Inutile fu chiederti un nome, pensavi fosse banale, se non puerile, ogni indagine in merito. Ma ciò che mi sconcertava, era quel tuo sottile gioco malizioso che ogni volta inscenavi senza precise regole, così, tanto per stuzzicarmi una qual ansia, attinente alla desolazione impotente di chi perde ciò che ama, senza poter ancorarsi ad un qualcosa di certo. Ricordo tutta la sequenza; noi nascosti dietro a quel portone, le tue labbra piantate sulle mie come una crocifissione inesorabile, i miei tentativi inutili di sfogarti 90


un endecasillabo d’amore che per una miserabile volta non fosse solo carnale. Ero debole, di quella debolezza tra i tendini, flaccidamente avvinghiata alla tua schiena palindroma, una mappa di cuoio d’accoltellare a tua insaputa –ne fossi stato in grado – per vederla sgorgare miele insistente e amaro, un agro succo intentato, l’assenzio tra le costole, tutta la conservazione del tuo istinto primordiale che pretendeva la mia virilità. Così mi concessi ancora e ancora esigei il tuo piacere, perché non conoscevo l’odio o la vendetta, quando giunta in quella terra, in ascesa tra la frigidità e l’orgasmo, rovinasti sottomessa alle mie percussioni renali, urlasti la tragedia dell’addio, perché era l’ultima volta che mi amasti. Poi, per pareggiare i conti, ti lasciasti andare ad un atto sacrilego, godendo nell’aver provocato il mio sguardo incendiario e l’ebollizione dei miei frattali muscolari che strizzavano il mantice cardiaco dietro al mio torace… chiamandomi con il suo nome. Compresi che era finita la nostra monotona relazione ed era iniziata una storia di amanti coscienti della ritrovata estraneità, preludio di una scelta consapevole: la libertà da noi.

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CECILE

C’è aria questa notte, aria che odora di vento, aria di niente e di nessuno, che non potrebbe buttare giù un cipresso in mezzo a un cimitero o un traliccio elettrico sulle teste del formicaio urbano, silenzioso ad oltranza tra un mattino e l’altro. Sfottimento d’aria che tranquillamente zigzaga tra le gambe di Cecile, che mi offre rhum con moderazione e con moderazione mi butta fuori dal suo letto e mi chiede di andarle a prendere qualcosa da tritare tra i molari, qualcosa di meglio di una pizza di plastica surgelata sforacchiata da un microonde, del buon chianti d’annata per accompagnare tuberi bruciati alla margarina e della vera carne di buon macello, che non troverò e lei lo sa bene, troppo bene, abituata a ricevere in cambio panini imbottiti al maiale. Sono già in macchina. Un soffio caldo che mi fascia questa roba ovale che tengo in equilibrio precario sopra il gozzo, m’infila, tra i finestrini scesi, schegge di frasi dure di rare corde vocali usate a sproposito. Lo sciabordio del rhum nella bottiglia è ipnotico quanto il tic-tac del giallo che mi fucila le retine dai quattro angoli dell’incrocio. La notte è come la fine di un mito navaho, dove le strade come questa non portano in nessun luogo e ai bordi non raccolgono altro che immondizie, sorci e i loro predatori. Il rhum sgocciola la sua fine sulla mia lingua, ne ho ancora voglia, ho ancora voglia di Cecile, se non fosse per la sua stramaledetta fame notturna che c’interrompe ogni 92


volta e non mi fa combinare niente, proprio quando iniziamo a scaldarci in qualche modo. Cerco Castiglio Romero e il suo furgone dispensa nel solito spiazzo, ma non c’è, forse ha scelto un altro buco dove mettersi: non mi agito, continuo a girare nei dintorni, senza fretta, sotto questo straccio nero sporco di stelle. Lo scovo parcheggiato dietro al deposito dei tram che si lavora al Kechup due sbirri in pausa di servizio: mi fermo e aspetto che i tre si stanchino delle loro facce e di quello che si stanno raccontando. Qualche sintagma volatile mi arriva sottoforma di sonore cazzate e quindi non presto attenzione, godo del mio motore appena spento e dei suoi click e clak da raffreddamento, del mio cervellino e dei suoi pensierini fuori onda che non controllo, folgorati con insistenza dagli schizzi blu e intermittenti della volante che si allontana con calma in direzione X. …Fa più caldo di ieri notte… due tizi hanno fatto a botte e …tieni qua, per Cecile..Mi affetta queste frasi, Romero, cuoco senza cucina, da piastra rovente, porgendomi un sacchetto di plastica caldo… E allora ci rivediamo, faccia da cane randagio… ma come pretendi che quella donna ci sta, con te?.. non sono fatti miei, hai ragione ma… la prigione… e ancora gli sbirri e quella battona ubriaca che non paga una birra dio sa da chissà quanto…cercatene un’altra dammi retta, non mi dire che l’ami, vecchia carcassa…hai cinquant’anni suonati! Ed io mimo una paresi con la bocca per non sorridere e non ricambiare nessuna delle sue piacevoli idiozie. Tastando il calore della plastica oleosa, intuisco una bottiglia fredda: penso ai gradi alcolici assunti come spazzini della mia memoria… del tutto inefficaci! Sono ancora in macchina, 93


mi sento scivoloso, tengo rigorosamente la destra, incrocio la pattuglia e le bocche dei due sbirri intasate di tomato, Che ci faccio da queste parti? Niente, quello che ci facevo ieri, quello che ci farò domani. Tra dieci minuti Cecile e i suoi vent’anni. Sono già in casa, c’è una luce accesa in cucina, sopra il tavolo due piatti, qualche avanzo di arrosto, due bicchieri svuotati accostati a un buon chianti…dentro al letto due amanti…Ti presento Max, lavora al self-service, è stato carino con me ed io con lui, non ti dispiace vero? Ritorno in cucina, non ho sentito niente. Apro il sacchetto…per la mia Cécile…, arrosto e patate e una bottiglia di Chianti.. qualcosa mi dice che sono arrivato in ritardo. “CERCATE DI NON FARE TROPPO CASINO!!”urlo. Di là, risatine smorzate.

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TACCHI ROSSI

Tacchi rossi sbriciolano una striscia terrena di vernice blu, blu elettrico. Quando ero bambino vivevo per volontà di un padre desposta al di sotto della strada. Godevo del mondo attraverso una feritoia che lambiva il marciapiede e tutto ciò che mi era dato di vedere erano scarpe e piedi che le indossavano. Mi ipnotizzavano i passi ciclici e metronomici, jazzati, sincopati come una sinfonia battuta sull' asfalto da un batterista impazzito. Non mi chiedevo se era giusto essere rinchiuso come un criceto nella sua gabbia rotante, perché quei pezzi di gamba mi bastavano ad immaginare il mondo. Le stagioni mi rendevano il paesaggio di caviglie mutevole e interessante: detestavo la neve che nascondeva tutto e m' impediva di sentire i tacchi sbattere e creare il loro suono circolare e secco dall' accento e dal tono cangiante. Il mio era il delirio acustico di un prigioniero troppo piccolo per godere appieno di quel nascondiglio. Ma crebbi, oh sì, quanto crebbi in statura e in fantasia. Ti scelsi per quel colore della pelle che solo tu avevi. Ti scelsi in memoria delle scarpe rosse dai tacchi svettanti che i miei occhi di ragazzino, avvolto nei suoi pensieri infantili, ma già sufficientemente pericolosi, veneravano. Li aspettavo famelico, ansioso, tutto teso e deliziosamente eccitato come solo un adolescente può esserlo. Sudavo, tremavo e provai quella gioia erotica che una stupida scienza avrebbe chiamato retifismo. 95


Cercai sempre e ovunque scarpe di pelle rossa, il più possibile aperte, che mi permettessero senza scorgere le dita , d' indovinare la forma dei piedi che le calzavano. Mi bastava immaginare lasciandomi rapire dal movimento rouge e poi... E poi ti trovai tra gli scaffali di un ipermarket di periferia e non staccai mai gli occhi dalle tue tibie. Ti pedinai col tentativo sublime di conoscerti al di là del carrello ricolmo di inutili cibi surgelati. Riuscivi con maestria a calpestare la linea blu che separava la corsia dai banchi frigo, come un' equilibrista tutta tesa alla ricerca della stabilità. I tuoi polpacci vibravano ad ogni tac tac che inchiodavi sul linoleum: ti guardavo nascosto da dietro una piramide di mangime in scatola per canarini. Le casse ti attendevano ed io sentivo di non avere molto tempo a disposizione per conoscerti. Feci cadere la piramide di proposito perché le scatole t' inondassero i piedi. Ti arrabbiasti ed io mi affrettai a chinarmi per raccogliere le macerie che t' impedivano di muoverti liberamente. A pochi centimetri dal collo del tuo piede destro non resistetti e lo baciai con tutta la dolcezza che le mie labbra potevano esprimere. Continuai a baciare i tuoi piedi senza fermarmi aspettandomi un calcio o una scatola di mangime sulla nuca. Ma niente di tutto ciò accadde e non mi fermai neanche alla presenza dell' addetto al reparto.

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Alla sua domanda:" Ma che sta facendo lĂŹ per terra?" tu gli rispondesti :"Lo lasci stare; nessuno mi aveva mai trattato come una dea".

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PERSUASIONE

La persuasione di Colette si manifestava ad ogni suo transitare davanti a me, ad ogni suo frusciare sul mio petto, senza rispetto, senza ritegno, sfruttando le sue doti di mesmerizzatrice. Non conosceva che l’arte della seduzione, priva com’ era di cultura, priva di sogni grandi, priva di educazione, una vera famelica divoratrice di stupidi imbecilli come me. Non possedeva che carne, occhi di cristallo grigio-azzurro, vertigini di cosce mostrate ad ogni occasione, labbra liquefatte in luccichii burrosi destinati ad infilarsi in ogni ruga del mio collo. Era la giovinezza che desiderava, il mio potere di uomo d’ affari, la mia ricchezza sudata, guadagnata con l’ inganno del venditore, di cui ero maestro indiscusso. Ma non ero stato con lei un compratore sufficientemente scaltro, perchè m’ invaghii di una statua di marmo perfettamente scolpita, una venere, una dea algida in grado di soffiarmi nelle narici polvere del demonio, trasformandomi in un morto vivente, vivo solamente perchè lei lo riteneva ancora curioso, ogni martedì sera, quelle maledette sere infrasettimanali che mi dedicava, riducendomi ad una essenza di uomo, ad un microesssere di paraffina, buona tuttalpiù per essere bruciata. Io perdevo carne, sangue, vita e lei diventava smisuratamente bella , fulgida, stupefacente. Io perdevo sul suo ventre come ad un tavolo da gioco tutto quello che pensavo di possedere, di amare, quelle cose che mi ostinavo a chiamare figli, moglie, famiglia. 98


Io mi indebitavo tra le sue gambe, io le urlavo in preda ad un amplesso di strozzarmi con la mia cravatta di seta azzurra, spingendola a ridere di gusto di me, aspettandomi un “rien ne va plus”, immaginando il mio capo reclinato sul suo stomaco e il mio ultimo respiro sul suo ombelico. Era odiosa e non mi graffiava mai abbastanza la schiena per farmi scordare le lacerazioni del cuore. Sapeva che da qualche parte, nelle mie valvole cardiache, riposava uno strumento romantico pronto a tramutarsi in un tamburo infernale, capace di battere ed erompere dalle costole con il fragore di un tuono ancestrale. Voleva che mi tradissi. Il suo scopo era che chiudessi con la persona che ero stato: se le fosse stato possibile, se solo le sue arti magiche avessero potuto arrivare a tanto, avrebbe compiuto un miracolo sotto i miei occhi, mi avrebbe rapito o mi avrebbe fatto investire da una pioggia di piccoli crocifissi d’oro o di enormi ofidi costrittori, che lei avrebbe ammaestrato dinanzi a me senza nessuna difficoltà. Ma era comunque mortale, anche se non banale. Io volevo ridurla ad una femminile normalità per avere su di lei un sopravvento virile, violento, rapace, perchè non reggevo il confronto selvaggio e la forza che si sprigionava ai nostri contatti epidermici. Non volevo mutare, volevo radicarmi in quell’ uomo che pensavo di essere, lo volevo tenacemente. Non mi sarei dato per spacciato, anche dopo aver incollato i miei capelli sul suo pube, stremato dopo un’ infiammata danza erotica con lei. Ma, senza che potessi rendermi conto di quanto stava accadendo, sudato dell’ umore sensuale, semi 99


addormentato, sentii ronzarmi nelle orecchie la sua voce che declamava con sintassi moderata il Vangelo secondo Matteo. Mi giungevano le beatitudini come schiaffi morali...” beati i poveri in spirito...beati i miti di cuori...”, maledetto me che non avevo compreso che stavi per scagliarmi addosso tutta la potenza divina, che mi stavi tatuando con un ferro rovente il nome di Dio dietro il collo...JAAAVHEEE!!!!". Quella era Colette, una matta che mi accoglieva dentro di sè come il mare trattiene il sale, come il sole l’ energia della sua prossima esplosione. Questo sono io, adesso, all’ ora del vespro, in ginocchio dentro una cella vuota dopo aver lasciato il mondo per la via che conduce dall’inferno alla sacra montagna dove il Maestro parlò per chi lo voleva ascoltare.

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LA FEMMINA DI STOFFA

In un certo qual senso hai ragione tu, ci sentiamo o meglio, ci percepiamo strutturati in carne ed ossa, siamo una” viandre rouge” parlante e rivestita di similpelle. Discorsi da menomato mentale? Tu pensi questo di me? E sia: raccolgo! Ti ricordi di quella giornata che abbiamo trascorso in montagna? Ho portato le foto che scattammo. Da un po’ di giorni le sto osservando: ma una in particolare ha destato i miei sensi e mi ha fatto rizzare i peli sulla nuca. Guarda qui la cascata! Ci sei tu che mi sorridi e dietro ci sono io che mi arrampico sull’acqua ghiacciata. Cosa c’è di strano? Eravamo soli a duemila metri di altitudine ed “io” ti ho scattato quell’istantanea. Si, guardala bene e poi dammi una spiegazione sensata: attendo con ansia il risultato della tua riflessione in proposito. Ah! Sono felice di averti causato questa temporanea afasia; decisamente soddisfatto. Me lo aspettavo che dicevi questo. Sul negativo vedrai la stessa scena. Tieni, osserva con comodo; come vedi, nessun trucco. Si, anche qui convengo con te che non è possibile, ci deve essere una spiegazione razionale che ci acquieti l’ansia dell’illogico , del non scientifico. Oppure no! sarebbe più simpatico che tu ci ridessi sopra e mi chiedessi come mi sentivo sdoppiato e quale dei due ”io” era più a suo agio, quello avvinghiato alla parete di cristallo o l’altro dietro all’obiettivo. 101


Ti chiedo forse troppo? Sono eccessivamente esigente, petulante? Mi correggo: sono un questore indelicato che non rispetta la tua concezione del mondo. Io soffro di personalità multiple, ma non lo confido a nessuno. Ne sono affetto da parecchio tempo e se devo essere sincero, non mi sento per niente a disagio. Vuoi sapere con chi stai conferendo adesso; con chi hai fatto l’amore poco fa, chi ti ha invitato a cena l’altra sera? Ero io e non lo ero. Chi ti ama? Chi sta mentendo? Sbaglio o nel giro di pochi secondi sei passata amenamente dalla psicopatologia all’antropologia criminale? Credo che ti affiderai presto alla frenologia di stampo lombrosiano e la mia trasformazione in schizoide sarà compiuta. Però, se guardassi meglio nell’immobile cascata, vedresti qualcosa. Ma, solo se non metti a fuoco nulla, se non ti sforzi di trovare nell’insieme, il particolare che generalmente sfugge anche alla più pervicace attenzione, riuscirai a cogliere il segno, l’informazione che balzerà evidente e non potrà che sorprenderti. Esatto! E’ proprio quell’ombra rossa alla quale alludevo e se adesso non ti dice nulla, tra non molto ti ricrederai. In quel tubo di plastica che ho portato con me e del quale non ho voluto svelarti subito il contenuto, c’è l’ingrandimento di quella singolare ombra rossa che hai scorto nella cascata; una sfumatura che ora ti appare sulla superficie del ghiaccio, ma che in realtà giace sotto la sua morsa rigida e algida: vieni a scoprirlo da te. No, non sembra una donna: è una donna! 102


Lo so, anche a me sulle prime mi ha trasmesso la sensazione che fosse fatta di stoffa, come una vecchia bambola di pezza e forse è proprio così. Ma ciò che mi ha lasciato interdetto, sono le sue mani che stringono qualcosa dentro quel sarcofago freddissimo, tradendo il suo aspetto inanimato. Ho dovuto fare una leggera riduzione dell’immagine che stai contemplando; eccola, ora ti risulterà tutto più chiaro. Già, sono le mani del mio doppio intrecciate nelle sue; tutto questo cambia decisamente la prospettiva della foto che ti scattai quel giorno d’inverno. Non trovi? Pensi che siano solo giochi d’ombra nella mia pazzia latente improvvisamente manifesta? La tua affermazione sarebbe sicuramente vera, ma forse di quelle mani di stoffa ti è sfuggito un particolare: ti appartengono. Come è possibile? Fai un piccolo sforzo e osserva con più scrupolosità questa mano;vedi quel luccichio? Non è il ghiaccio,anch’io credevo lo fosse, ma non è così. Ecco che cos’è! Guarda questo ingrandimento: non ti ricorda nulla? Allora? Perché te ne vuoi andare proprio adesso? Non è un gioco sadico il mio, è solo una scoperta su di noi che avrei dovuto fare a suo tempo: ma chissà, non era il momento e poi non ci vedo nulla di così strano o raccapricciante in un solitario gettato da una funivia in un momento di rabbia, rientra perfettamente nella mia idea di normalità.

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CORINE E’ il paesaggio che muta o sono i miei occhi che cambiano con il trascorrere del tempo? Ciò che definisco Il Tutto - generalizzando o banalizzando concetti filosofici che non conosco e che francamente non mi competono - mi appare così indecifrabile nel momento esatto in cui penso di averne afferrato l’ essenza. Sento di essere in balia della solita riflessione sull’ essere dentro o fuori dal sistema, una elucubrazione ormai stanca che non si addice a un uomo sulla quarantina che dovrebbe essere maggiormente attratto dai vantaggi dell’ inclusione sociale. Continuo a rifiutare l’ idea di essere preda del mondo, eppure, a volte mi succede d’ immedesimarmi con la strana fauna che mi passa accanto, che mi spintona, che mi fa cadere e che non mi aiuta mai a rialzarmi, spingendomi inesorabilmente nel baratro del solipsismo o prendendomi a calci come un’ inutile lattina bevuta e stritolata. Le foglie si staccano dalla linfa che le ha allattate, io mi stacco dal seno di Corine e rifletto con la fronte attaccata al vetro della finestra della nostra stanza, del nostro pianeta trincerato in pochi metri quadrati in uno storico edificio del centro asfittico di una città sepolta dalla propria decadenza. Giù in basso due bipedi si massacrano di botte per un parcheggio e per il tempo che non possiedono più, che non controllano, come i loro nervi saltati, in perenne cortocircuito sottoepidermico. 104


Un gruppo di ridanciani adolescenti commenta, urlando blasfemi gorgoglii in direzione della rissa. Non interviene nessuno: filmano, fotografano ghignando e godendosi lo spettacolo di due pugili amatoriali e miserevolmente falliti, che potrebbero fruttare denaro in caso di scommesse. Mi volto schifato perchè non sono ancora completamente anestetizzato dalla violenza che mi trapassa gli occhi durante tutte le mie ore di veglia. Ritorno al caldo seno di Corine che si muove come una sinusoide, sospinto dal suo respiro regolare, calmato dal sonno, ancora pieno di giovinezza. Mi affligge l’ idea chirurgica di un bisturi che trafigge quella morbidezza chiara sotto la mia mano destra e che lei, un domani, potrebbe desiderare quale soluzione estetica alle sue nevrosi femminili che non si placheranno mai, vista l ‘impossibilità di noi mammiferi razionali, di ritornare nel paradiso pre-evolutivo, fatto di nicchie ecologiche ad uso di poche centinaia di ominidi dediti alla raccolta di frutta esotica sugli alberi delle foreste equatoriali e al soddisfacimento di semplicissimi bisogni primari . Il telefono della doccia perde gocce d’ acqua al cloro, il soffitto si sta sbriciolando in grossi pezzi d’ intonaco, il televisore non regge i suoi vent’ anni ed è prossimo all’ estinzione del tubo catodico, le pareti, tremando ad ogni passaggio dei bus sull’ asfalto del corso, si crepano senza rimedio, secernendo calce che si mischia con i grumi di polvere arricchita di pm10 che s’ insinua in ogni piega del nostro spazio privato. 105


Accosto il mio orecchio sul suo cuore e la mia pelle si appiccica a Corine cementata dalla stanchezza: solo trenta minuti prima facevamo l’ amore credendo alla libertà di espressione, all’ illusione di non essere controllati da nessuno. Il nostro amplesso si era consumato e concluso mentre le immagini in bianco e nero della tv, privata di colori e audio, si riflettevano come ombre cinesi sui muri, spargendo i semi dell’ informazione e della pubblicità che dovevano creare e allo stesso tempo soddisfare ogni nostro desiderio. Stesi, supini e appaiati come triglie appena pescate, guardavamo entrambi in direzione dei ventidue pollici dello schermo, senza dirci nulla, assorbiti dalla naturale sensazione di torpore che miliardi di endorfine avevano creato in noi. Il suv percorreva, senza lasciare nell’ ambiente la benchè minima sostanza inquinante, una splendida strada di campagna in qualche località tra le colline scozzesi punteggiate qua e là da fantastici castelli medievali. Nella parte bassa dello schermo appariva la scritta Messaggio pubblicitario, perchè il sogno che si vendeva non doveva trarre in inganno o illudere il medio consumatore di trovarsi di fronte a qualcosa di veramente reale e alla sua portata. Io e Corine eravamo come ipnotizzati da quelle quattro ruote che alzavano polvere e che rapidamente si avviavano in direzione del sole morente, abbandonandoci alle nostre fantasie di un luogo al di là di quel tramonto artificiale, al di là della nostra stessa immaginazione. 106


Le nostre mani erano intrecciate, le lenzuola scivolate sul pavimento insieme ai vestiti: la notte imprigionava la nostra vita e noi cercavamo di aiutarla a fuggire per una via secondaria. Questo accadeva mezz’ ora fa. Spengo la televisione, mi alzo dal corpo di Corine e le dico con tutta la delicatezza che ancora mi è rimasta:” Dormi Corine, dormi.” Entro nel bagno e riprendo a pensare ai miei pensieri a strisce, a brandelli, sfilacciati, ma pur sempre atti che mi appartengono e che per ora nessuno può ancora scrutare con qualche diavoleria tecnologica. Sento grattare da dietro il muro della doccia; è da giorni che lo avverto quel sfregare incessante, sempre alla stessa ora, alle due del mattino. Accosto l’ orecchio alla parete, la gocce mi cadono sulla fronte, m’ immagino che dall’ altra parte ci sia qualche topo risalito dalle fogne, intento a costruirsi una tana per poi addentrarsi nel nostro miniappartamento alla ricerca di cibo. Ogni volta che il suono mi sembra più decifrabile s’ interrompe. A questo punto busso su una piastrella due volte, ricevo un uguale munero di battiti. Lo rifaccio: stessa risposta. Batto tre volte: ricevo tre colpi. Continuo per un po’ il giochino, ormai penso che ci sia qualche forma intelligente dietro alle piastrelle o un gande roditore dotato di enormi lobi prefrontali. Do un ultimo pugno; quattro piastrelle se ne vengono giù facendo un rumore infernale. 107


Mi aspetto che Corine si svegli da un momento all’ altro. Guardo il muro nudo e bagnato, lo tocco, sembra di creta, inizio a grattarne via la calce marcia. Continuo accelerando il movimento, sono spinto da un desiderio incontenibile di creare un buco e vedere chi o cosa si nasconde dietro. Scavo sempre più rapidamente come un carcerato che scopre un condotto d’ aerazione attraversando il quale potrà riavere la sua aria, la sua luce. Ormai il mio braccio è interamente inghiottito dal foro che ho praticato sul muro; manca poco, lo sento...la parete cede. Dalla piccola galleria esce un’ aria tiepida che non mi aspettavo e un odore di terra umida che ricorda la campagna appena inzuppata di pioggia. Mi abbasso per guardare e come da una smisurata serratura scorgo un pezzo di mondo colorato, una primavera impressionista, un prato, una vecchia strada che lo attraversa e ...la portiera di un fuoristrada che si apre seguita da un paio di belle gambe che scendono fino a toccare la terra chiara e mi vengono incontro oscurando passo dopo passo il paesaggio. Rialzo in fretta la testa, sono spaventato, non credo di essere sveglio, anzi, penso di riposare ancora con il viso sul seno caldo di Corine. Per convincermi che si tratta solo di un’ allucinazione rimetto il braccio nel buco. La mia mano cerca nel vuoto ma trova un’ altra mano, l’ afferro, la tiro verso di me con forza: è una mano di donna, è la mano di Corine.

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ESILIO PERPETUO Perchè farsi una ragione della morte di un amore. Perchè mentire a se stessi e non lasciare libero sfogo alla malinconia. Tutti i falsi maestri hanno cercato di convincermi che ogni sofferenza è un momentaneo intoppo, un torrente irritato, da guadare con forza e determinazione. Volevano insegnarmi come e quando piangere sulle mie sfortune, giudicandole, senza provarle, additandomi come un credulone qualunque, poichè le pensavo frutto della mia puerile superstizione. Ma io credo nella sfortuna, ci credo ciecamente e nulla mi potrà convincere del contrario, neanche una ben congegnata teoria karmica. Hanno mentito quei maestri, non conoscendo l’amore, hanno cercato di stroncare quel che mi restava dentro, quello che mi distingueva ancora da un frammento di asfalto, da un oggetto inutile perso a causa della distrazione di un tragico uomo della strada. La mia tragedia non è scritta da nessuna parte, se non nella mia mente. La mia tragedia è analfabeta, priva di vette linguistiche, umile bassofondo di sentimenti fatti a brandelli da una vuota quotidianità, da un rapporto nascosto e invariabile con la mancanza di serenità. La mia tragedia è muta, sorda, non indossa abiti di scena, spunta qua e là sulle mie guance e ha il colore del mattino livido dopo una notte insonne passata a pensare alla morte di un amore. 109


Se avessi saputo invocarti, se avessi dato ascolto alle note stonate del nostro assolo lieve e breve nel frastuono impazzito della città, non sarei in esilio. Questa città continua a vivere al margine della mia coscienza, al punto che ormai posso farne a meno; ma non di te e del tuo nome: Gilda. Potessi afferrare un lembo del cielo notturno e soffocarci dentro ogni magnetico influsso urbano, immaginandomi un dove nuovo, dove ricominciare insieme a te il gioco del paradiso perduto. Addio incredula creatura di plastica, tu che hai tramato alle mie spalle, tu che mi hai tradito con un essere dedito a mercanteggiare con le anime, privo di spirito anch’ egli, cinico muscoloso mammifero, che ora ti afferra per i fianchi svuotandoti di ogni dono ogni volta che ti possiede. Lo ucciderei, mi vendicherei, ma non ne sono capace, non sono in grado di togliere la vita ad un uomo senz’anima. Mi tengo in disparte, dall’altra parte della strada, da dove vi vedo indossare maschere di cera davanti a due calici di vino rosso, sostenuto da un muro viscido che potrei incendiare solo se avessi un granello di senape di fede nel buon Dio. Quel che accadrà dopo, potrebbe benissimo essere già stato scritto in una sceneggiatura di un film drammatico di terz’ ordine: io che mi paro di fronte a voi con una bottiglia di wisky, indossando il soprabito del tenente Colombo, con uno yo-yo che sale e scende dalla mia mano destra, con un sorrisetto da ubriaco sulla faccia a spaccarmi il viso in una smorfia clownesca, che ti faccio i complimenti per la grossa bestia che ti porta al guinzaglio. 110


E invece me ne vado pisciando lacrime dagli occhi sugli angoli delle vie storte che non riusciranno piÚ a raddrizzarmi la schiena, a verticalizzare la mia vita in esilio perpetuo da te. Bugiarda sensuale, perenne sciarada femminile che hai scelto la tignola e la ruggine dei tesori terreni, rifiutando quelli del cuore che non interessano piÚ a nessuno. Smetto di piangere proprio davanti a un portone, al numero civico 666...che combinazione! Dovevo forse mandarti all’ inferno?

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ESPIAZIONE

Occorre pensare al vuoto, ogni tanto, occorre guardare fissi davanti a sè il vai e vieni della città e aspettare di sentirsi scuotere il ventre da un' irrefrenabile risata. Occorre ridere dell' impegno, della volontà di esistere, del potere, delle menzogne e poi bisognerebbe scrivere le proprie riflessioni sul soffitto della camera dove si dorme, scrivere frasi come moniti speciali che consiglino atti estremi, estreme decisioni. Questo sarebbe opportuno fare, ascoltando l' Adagio di Albinoni o una struggente lamentazione della fisarmonica di Piazzolla, senza smettere più, anche se il soffitto risulta troppo stretto, non sufficiente per contenere tutto il pensiero che scaturisce da una mattina passata a rimirare il vai e vieni, buffo, quanto tragico, della gente in preda al panico della sopravvivenza. Apettarsi dunque di non avere più calce su cui scrivere e scendere giù per i quattro muri, contornando l' unica finestra che si affaccia sulla via impolverata dai pneumatici o la porta che separa la propria esistenza privata dal comico esibirsi in pubblico o il quadro dietro al letto con il suo insopportabile romanticismo che poco si adatta alle fredde leggi del mercato delle anime, sottolineato dai clacson stonati che cercano di ragliare fin sopra i coppi chiazzati di sterco dei piccioni, oltre il soffitto completamente ricoperto di segni di disperazione dialettica. 112


E dopo aver usato i muri come carta, si potrebbe passare al pavimento, spostando la mobilia là dove impedisce alla mano di protendersi in altre affermazioni scomode e ribelli sull' andazzo quotidiano. E se non bastasse il pavimento, si potrebbe scrivere sul letto, sulle maniglie, sull' odioso quadro, sullo specchio, sulla porta, sui vetri della finestra, sui propri abiti, su se stessi completamente nudi e fare di quello spasmodico scrivere un cilicio di lettere tinta ocra. Tutto si compirebbe, tutto in una stanza, in un pomeriggio usato per dare libertà alla silente e strisciante follia del vivere, quella biscia sibilante che non mette mai il capo fuori dalla sua tana sotto la pelle, dentro il nostro torace, intrappolata con la scusa del respiro o dello scorrere del sangue. Tutto avrebbe il senso tridimensionale di una scatola abitata da un essere in preda all' esasperazione, da un uomo in cerca di una parola che lo salvi da quel vai e vieni incessante, portato avanti senza sosta, con lo scopo impreciso di aggiungere un' altra alba al crepuscolo degli uomini che non vogliono convincersi di essere già spettri e per niente pentiti o toccati dalla compassione, dei fantasmi egoisti attaccati ai loro ectoplasmi come quando erano avvinghiati stupidamente alla loro carne destinata alla sicura decomposizione. Ma nulla ha un senso e sarebbe meglio per quell' uomo ridere, far finta che nulla sia accaduto, che il vai e vieni rutilante, sotto, nella strada, sia solo l' ennesima profezia della fine, l' ultimo rifugio dei disperati imbecilli che si sfiorano senza più guardarsi negli occhi, senza più abbracciarsi. 113


Ecco cosa cambierebbe quel senso tridimensionale e soffocante: un incontro. Occorre stare molto attenti a trascorrere un intero pomeriggio a scrivere in rosso, dentro a una stanza, tutte le proprie fantasie; si potrebbe, con meraviglia, scoprire di aver ripetuto all' infinito il nome di una donna, soltanto per espiazione, soltanto perchĂŠ, a causa di una serie sfortunata di eventi e di errori inevitabili, non la si rivedrĂ mai piĂš: Virginia.

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QUALCOSA CHE VALE LA PENA VEDERE Avevo una donna che rideva sempre. Avevo una casa sempre invasa dalla luce del mattino e da quella della sera. Avevo un fiume che non scorreva troppo lontano. Avevo sentito che al di là del fiume c’era qualcosa che valeva la pena vedere e ci andai con la mia donna. Non sapevamo che cosa dovevamo cercare, ma eravamo spinti dalla curiosità. La mia donna rideva, come sempre aveva fatto, ed io ero contento per noi. Iniziammo a chiedere a chi incrociava la nostra strada che cosa c’era di così interessante che valeva la pena vedere. Nessuno ne sapeva niente, mentre già si faceva sera. Avevamo voglia di riposarci io e la mia donna e così cercammo un luogo dove sostare. Trovammo quel luogo, dove chiedemmo cibo, alloggio e di quella cosa che valeva la pena vedere. Ci disse un uomo che quella cosa sarebbe comparsa quella notte e che tutti lo sapevano ma nessuno ne voleva parlare con gli stranieri. Noi eravamo stranieri, ma lui fu con noi generoso indicandoci il luogo dove l’evento si sarebbe verificato. Ogni notte accade quella cosa ci aveva poi assicurato. Quella notte non uscimmo dal nostro albergo perché eravamo troppo stanchi. La mia donna rideva mentre si pettinava allo specchio prima di coricarsi al mio fianco.

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Al buio, nella stanza, ci parve di sentire una musica provenire dalle strade del paese e insieme a quella un ridere di donne. Poi la musica cessò insieme alle risa e noi ci addormentammo risvegliandoci quando il sole era già alto. Passeggiammo tutto il giorno in quel paese e notammo tanti uomini tristi e nessuna donna che li accompagnasse. Che strano pensavamo, così diversa era la vita in quel posto al di là del fiume? La mia donna si sentiva a disagio e non rideva più, non lo aveva mai fatto e io ne rimasi turbato. Non rise più per il resto del giorno e così la sera pensando di farla felice decidemmo di andare nel luogo dove c’era quel qualcosa che valeva la pena vedere. C’incamminammo dopo la cena e la musica che avevamo sentito la notte precedente ci guidò magica. Da ogni angolo di strada comparirono donne che ridevano e scherzavano tra loro. Presero per mano la mia donna che non rideva più e la fecero danzare, ruotare, poi la portarono via da me senza che io potessi opporre resistenza. Seguii quel fiume di risa fino a quando non giungemmo ad un cerchio di alberi secolari. Tutte le donne si misero in cerchio guardando gli alberi, dai cui tronchi si aprirono delle porte di luce. Tutte le donne attraversarono ridendo le porte, poi tutte le porte si chiusero ed era già mattina ed io ero solo senza la mia donna che rideva sempre. Il sole saliva dietro il cerchio di tronchi, andai verso quello che ti aveva rapito. 116


Ai suoi piedi trovai, tra le sue enormi radici, qualcosa che valeva la pena vedere: i cristalli di sale delle tue lacrime.

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SCULTURA Luna piena. Il personaggio triste, perché uomo, tritura una radice amarognola sotto i molari e pensa alla sua fuga. Guarda Shamana nel vuoto e scheggia un ricordo da una vibrazione del passato che stramazza esangue sotto il suo continuo masticare. Shamana ha fatto a pezzi la sua storia di quarti di luna, macellati dal suo odore di femmina artemisia; uno stornarsi di cosce dalla sua ombra che sotto i suoi minerali, il suo sudario di sale, soffocava nella esausta sconfitta dell’immobilità delle carni. Shamana è una lingua d’acciaio che disossa la sua elettricità dalla sua schiena e se ne nutre con la sua rosa canina tra le gambe, la riduce in un liofilizzato di coscienza posticcia di maschio fisico reso sterile da un feticcio linguistico. È sesso, alabastro screziato, sbalzato dall’interno di un fondo innaturale, privo di terra, privato di follicoli, di sostanze chimiche, di respiro, di sole fagocitato, di ritmo, di un lastricato biologico di attrazioni e repulsioni, di un contorcimento ellittico di braccia intagliate su torsi mossi da rettiliani stimoli striscianti e per questo simili agli ofidi e dissimili da ogni romantico assassinio del principio animale che quegli esseri plastici fonde in un segmento intricato, scomposto e ricomposto dalla tensione che anticipa la soddisfazione. Il personaggio triste gusta la sua condizione di animale libero, di preda sfuggita alla tagliola. È rientrato nel suo sé stracciandosi l’altro dalle sue sensazioni tattili ed è per 118


questo che conosce il freddo dopo l’uomo e la donna, distruttori delle parole, costruttori di materia morbida esaustiva, stanca, che segue il calore prodotto dal loro scontro reattivo alla norma, alla morale astratta che non si può imporre al patimento viscerale, agli addomi sedotti e strofinati fino alla follia rituale. Poi fu il martellare singhiozzato, la polvere, le briciole, la frammentazione dell’integrità, e i due non-nati dal loro stesso piacere inutile, si accoppiarono granitici per il successivo personaggio triste, che transitava per caso e li scovava in una galleria d’arte asettica quanto un ambulatorio. Luna vuota.

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L ' AVVOLTOIO Si poteva volare quel giorno, si poteva rischiare di essere felici. La vita era sempre stata così tremendamente seria che sarebbe bastata l' intenzione del volo per farci sentire più vivi. Stavamo con la schiena sdraiata sulle nostre ombre a strapazzare il vapore acqueo e lattiginoso delle nuvole, finito a danzare sulle nostre retine infastidite dalla copiosa luce, quando un' enorme paio di ali ci scmbiò per due vittime. Forse lo eravamo davvero. Ci eravamo persi nel deserto messicano: la nostra jeep non partiva più, si era inceppata con un sordo colpo metallico sotto il cofano del motore. La strada si srotolova sotto il fuoco che il mezzogiorno ci faceva incendiare sulla testa e la polvere si depositava ad ogni bava di vento sui nostri abiti d' archeologi, simili a uose depositate su mobili da conservare per altri fasti. Ci eravamo appropriati a colpi di vanga e di pennelli di ossa di bisonti, di scheletri di sciamani sfrattati dal progresso scientifico, di frammenti di glifi intraducibili strappati da antiche pietre, sporcate dalle piogge acide, cariche di veleni urbani in giro per la troposfera. La jeep si era stancata dei suoi passeggeri e dei loro attaccamenti a storie di civiltà morte e sepolte. L' avvoltoio roteava eseguendo perfetti ellissi ubriachi ascendenti e discendenti: desiderava soltanto le nostre carcasse. 120


Noi ridevamo e pensavamo all' ultimo numero di telefono che avevamo digitato sul nostro cellulare. Il progresso che aveva battuto lo sciamano, ci sarebbe venuto incontro entro due ore, con un mezzo di soccorso. Eravamo tranquilli, avevamo acqua, tè, panini imbottiti, saponetta e spazzolino da denti. L' avvoltoio non lo sapeva, non se ne curava, aspettava la nostra fine mortale. La sua pazienza volatile portava con sè, ad ogni evoluzione aerea, una traccia di sacro, una sfida predatrice, una rapace curva geometrica capace di carpirci gli occhi e i sensi, anche se ci sentivamo sicuri di sfuggirgli per superiorità tecnica. Quando trascorsero due ore e tre quarti e ci eravamo già versato tutto il tè negli stomaci, la nostra sicurezza ebbe un sussulto. Quell' aiuto tardava a venirci incontro dall' orizzonte infuocato, mentre le spire del grosso uccello si facevano più ampie, più rapide e più vicine alla terra incandescente. Avevamo un fucile da caccia e quattro munizioni, ma la batteria del cellulare ci aveva abbandonato da mezz'ora. Niente paura, le coperte termiche ci avrebbero protetto da un eventuale notte all ' addiaccio. Tra noi e il becco adunco dell' avvoltoio c'erano 50 metri d'altezza; tra noi e il ritorno alla civiltà un tempo indefinito. Dopo sei ore, con il crepuscolo alle calcagna, pensavamo al fuoco, alla terribile idea di essere stati abbandonati su di una strada che non percorreva più nessuno da almeno dieci anni. 121


Presi dalla sacca quei frammenti di glifi che avevo avvolto in un panno di cotone e preso da una stupida e incontrollabile fobia, cercai di capirne il significato, sperando di trovare una qualche formula magica che ci potesse trarre fuori dal surreale evento che ci stava per risucchiare in un mondo che pensavamo sepolto per sempre dalla fisica e dalla meccanica razionale. Guardavo i segni insieme a te: l' avvoltoio voleva attaccare perchè era sicuro di vincere sulla nostra effimera civiltà . Provai a sparargli una, due, tre, quattro volte ma senza successo: le ellissi si piegavano per poi ridistendersi armoniose sulle nostre paure. Ma ti sentii cantare, cantare a bassa voce, rivolta verso una saetta rossa che il sole ci lanciava addosso un attimo prima di precipitarsi nel mondo sotto la terra, nel mondo ai piedi della luna. Cantavi sillabe monotone, ripetitive, mentre io cercavo freneticamente di dare fuoco ai rovi che avevo raccolto un' ora prima dal ciglio della strada, incalzato da un freddo vento che spirava da nord. Solo dopo che il fuoco era divampato e la tua canzone era risuonata per il deserto, l'avvoltoio planò nobile sul tettuccio della jeep, quando noi non ne avevamo piÚ terrore. Non se ne sarebbe andato se non la mattina seguente, disturbato da un motore che giungeva da ovest, pienamente soddisfatto dopo aver protetto, per un' intera notte, la nostra fragile esistenza notturna rimasta insonne a fissarlo.

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UN’IMPROVVISA VOGLIA DI DISTRUZIONE PLANETARIA Si possono trascorrere lunghissime ore pensando di farla finita o pensando di vendicarsi di un torto subito, immaginando azioni violente che sfocino in sangue, in brandelli di pelle staccati da ossa luccicanti. Si possono trascorrere momenti d’intensa infelicità, inorriditi dal fatto che il dolore ha stuprato la nostra vita e rilevando con impotenza che noi eravamo da qualche altra parte quando tutto quel fango ci cadeva addosso. È probabile che in un’altra stanza del pianeta qualcuno sia assalito dallo stesso genere di pensieri, un qualcuno che non incontreremo mai, per una serie di motivi imbrigliati dalla matematica del caso. È possibile uscire fuori da quella stanza dell’orrore, in un brutto pomeriggio invernale, nel cuore di una metropoli insensata, con l’idea ossessiva di comprarsi un’arma e di farsi giustizia da soli. Con le mani in tasca, con lo sguardo incollato sull’asfalto, decisi a trafiggere il cuore meccanico della città. Si potrebbe scegliere un luogo affollato e sparare alle gambe di chiunque ti cada a tiro. Capisco, comprendo l’eccitazione malvagia e indiscutibilmente potente di un terrorista che si fa saltare in mezzo a un mercato. Ma non ha senso prendersela con le vittime, anzi con gli zombie che si aggirano tra gli scaffali dei centri commerciali. E nemmeno ha senso far saltare il loro cimitero-store al neon, il loro rifugio macabro, dove i teschi sorridono da ogni angolo di plastica. Che fare? Leninista domanda.

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Pensavo a un blob mortale, a un fluido che uccide, ma continuavo a non considerare i mammiferi consumatori già cadaveri ambulanti. Ci voleva un semplicissimo rituale. Ci voleva un holliwoodiana soluzione, un’ azione piena di effetti speciali. Mi aggiravo tra le scatolette di tonno, sushi e cibo liofilizzato, storpiandomi il cervello con pensieri simili, fantasie insensate di assoluta disintegrazione del genere umano, quando una vocetta rinsecchita mi chiese educatamente di porgerle una bottiglia di olio che spuntava da uno scaffale sopra la mia testa, situata troppo in alto per la sua piccola statura. L’ educazione di quella donnetta, che poteva avere un secolo sulla gobba, sfatta di fatica e unica nel suo genere, mi rese innocuo: fu come ricevere una overdose di morfina per placare un dolore insopportabile. Se io fossi stato veramente matto, un bastardo perverso esaurito di nervi, avrei potuto dar sfogo alla mia rabbia spaccandole la bottiglia in testa. Ma non l’ho fatto e ben presto mi sono trovato a spingere il suo carrello fino alla cassa, a mettere la sua misera spesa in due piccole buste di plastica, osservando senza reazione alcuna le quattro scatolette di mangime per gatti che mi passavano tra le mani. Sono finito fin dentro il suo appartamento, uno scalcinato bilocale, più freddo di una tomba, il luogo adatto per una fotofobica di ottant’anni o un sociopatico come me. Tutto per un litro d’olio. Finii anche per accettare una tazza di tè e due biscotti un po’ vecchi e senza più sapore, mentre il suo gatto splelacchiato mi faceva le fusa tra i piedi. Anche il suo nome suonava vecchio e senza amore: Clelia.

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Saturo delle sue buone vecchie maniere, che erano riuscite a placare per un po’ la mia frustrazione, me ne andai e varcando il portone d’ ingresso lo sguardo mi cadde sul drappo funebre che distrattamente non avevo notato al mio arrivo: la povera vecchia era morta il giorno prima e la mia improvvisa voglia di distruzione planetaria in quel preciso istante.

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L’UOMO A UNA DIMENSIONE L’universo potrebbe avere undici dimensioni. Le donne potrebbero evitare per sempre la chirurgia plastica e gli uomini di ammazzarsi di noia e di alcolici davanti ai playoff. I ragazzini potrebbero smetterla di dire cose delle quali non si pentiranno mai e il senso di colpa ritornare a buon diritto a sdraiarsi sulle lunghe sedie degli studi di psicoanalisi. Tutto questo sarebbe possibile, se io fossi in grado di aggiustare il mondo. Il problema insolubile, non è legato al fatto che io non sappia riparare nulla con le mie mani, è un’abilità che non serve, considerato il fatto che il mondo non è un motore o un ascensore o un tubo di scarico. Forse è più simile a un enorme cesso e l’ umanità a un’ esagerata accoppiata di chiappe pronta a sedercisi sopra con noncuranza. A parte queste puerili divagazioni, Sabrina non sostava più nell’anticamera del mio cervello da circa due anni, l’ undicesima dimensione se l’era inghiottita, dimostrando, se mai ce ne fosse stata la matematica necessità, che le donne posseggono una trasparenza transgeometrica, difficilmente districabile dalla solidità della loro carne. Ma, come ogni storia che si rispetti, anche la nostra aveva lasciato uno strascico, un segno che non avevo avuto il coraggio o semplicemente la forza di cancellare. Si trattava di una lima per unghie, un oggetto dal quale non mi volevo separare. Lo tenevo su un piatto giapponese laccato di rosso. Quel pezzo di metallo non aveva certo un valore sentimentale, agganciava la mia attenzione, trascinandola in luoghi mentali, dove Sabrina, dopo aver esercitato l’erotica arte 126


dell’annientamento della mia coscienza, seduta con le gambe accavallate in fondo al letto, si graffiava le unghie guardando la magnolia in fiore che occupava il centro di un perfetto quadrato di abitazioni; alveari di cemento incollati l’uno all’altro da una simmetria nervosa. Se pioveva, e questo avveniva spesso, il ritmo delle gocce, incanalate come una corda d’acqua nelle grondaie di rame, si armonizzava con impeccabile precisione con il cicaleccio che emergeva dallo sfregamento delicato della lima che forgiava la dura cheratina di lei in artigli affilati, equivalenti a pericolosi e graffianti strumenti di possesso. Poteva accadere che passasse un’ora, prima che il suo rituale terminasse e i suoi occhi si staccassero dalla magnolia, per osservare il lavoro di cesello compiuto a memoria, completato con un soffio d’alito. In quei sessanta minuti, sarebbe potuto accadere di tutto, ma non succedeva mai niente di così interessante. L’assurdità del vivere insieme si espletava in tutta la sua chiarezza, in tutta la sua interezza. Ci sarebbe voluto uno sforzo titanico, per riuscire con successo a far deragliare la monotonia della nostra simbiosi, dalle rotaie della prevedibilità. Solo una miserabile volta, nello spazio temporale di un’altra manciata di minuti, riuscii ad immaginarmi una vita diversa, in un posto antitetico al dove prismatico, sulle cui lucide facce si riflettevano senza fine i nostri corpi privi di ombra. A causa della discesa elettrica di uno schizzo di luce, che anticipava una martellata, sferrata da un Dio arrabbiato, sulla crosta del pianeta, Sabrina emise un urlo, lasciando cadere la lima, spezzandosi un’ unghia, buttandosi accanto a me, cingendomi con forza la schiena nuda, mentre la finestra si spalancò andando in frantumi, permettendo alla pioggia di scagliarsi liquida e isterica sul pavimento. 127


C’era un senso in tutto quel turbinio di gocce gettate dal vento in fondo al letto: le cose del mondo ripresero per sessanta minuti il loro ordine naturale, perchè io e Sabrina non potevamo fare a meno di restare abbracciati, lasciando che i grossi fiori di magnolia invadessero la stanza oltrepassando quel rettangolo aperto nel muro. Quando la tempesta si calmò, il pomeriggio aveva spodestato il mattino, il sole le nuvole, il vuoto dietro la mia schiena le sue braccia. Come se non fosse accaduto niente, Sabrina ritornò ad assumere la posizione di una qualunque odalisca storpiata dalla sua stessa avvenenza, cercò tra i fiori di magnolia, sul pavimento allagato, la sua lima; la raccolse con una certa delicatezza, l’asciugò sfregandola con disattenzione sul lenzuolo e ricominciò a muoversi con ritmo preciso sulle sue dita. Quando la sera spinse quello strano pomeriggio giù, oltre l’orlo curvo del mondo, capii che non avrei voluto aggiustare i vetri della finestra e nemmeno spazzato via i fiori bianchi che schiacciavo con piacere sotto i piedi. Lei se n’era andata abbandonando con uguale delicatezza la lima sul letto e qualcos’altro di trasparente, forse una delle undici dimensioni dell’ amore che violano allegramente le leggi del caso o, semplicemente, aveva lasciato la schiena nuda di un uomo a una dimensione.

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L’ ESPRESSIONE SERENA DI ANGELA Nell’ infierire, la vita ci oltraggia, ma è giusto che sia così, perchè non c’è altro insegnamento che il dolore per comprendere l’ inconoscibile. Semmai avessimo legato le nostre mani e i nostri piedi rifiutandoci di proseguire nell’assurdo cammino, delegando all’immobilità il destino della creazione, non avremmo forse ottenuto di più? Noi siamo i perdenti e maggiore è la nostra sconfitta più largo e sguaiato si fa il ridere dell’umanità, uno sghignazzare che adombra quell’espressione uguale e contraria che è l’ urlo, non più silenzioso, non patetico, semplicemente cristallizzato in un’impressione fotografica sulla lastra del tempo, ingordo di inutili e scombinate reazioni che chiamiamo sentimenti, proprio quando la loro struttura elementare, viscerale, si è fatta gelo siderale, zero assoluto. Ho visto l’ ombra del cipresso cadermi in faccia, ieri mattina, mentre camminavo tra le tombe cercando un volto incastrato sul marmo nero: l’ espressione serena di Angela. Avevo scelto le parole con cura, la frase per suggellare la tua partenza definitiva dal mondo fluttuante, l’ ukiyo-e dei pittori giapponesi che tanto ti affascinavano, quando la tua mano delicata e nervosa s’ incollava alla tela nel tentativo sacro e disperato di cogliere nei vuoti bianchi e neri lascati dall’ inchiostro, l’ infinito. Ieri mattina pensavo ai nostri corpi, pensavo al calore della vita che si inerpicava per i nostri muscoli, affiorando in guizzi vermigli sulle tue guance, sulle tue labbra, materia di baci, ornamento di respiri, incantesimi morbidi che trionfavano sulla notte. Ieri mattina cercavo la tua lapide scura, il tuo nome di bronzo, lasciandomi scuotere dal magnetismo informe e doloroso dei 129


ricordi, schiacciando la ghiaia sotto i piedi, sentendo tutta la durezza della terra conficcarsi in me. Sotto la terra si muovevano creature immortali, ne ero cosciente, sopra i cieli altre forme di vita, le sentivo; ero andato oltre un atto di fede, perchè avevo attraversato la speranza ed ero approdato alla certezza: e allora, per quale dannato motivo mi mancavi? Si trattava di debolezza, di malattia, di codardia? No, era semplicemente tristezza, una malinconia incoerente, inframmezzata da suoni, melodie che avevamo ascoltato insieme. Ieri mattina camminavo in mezzo alle tombe e canticchiavo piangendo...”Vorrei che fosse amore...ma proprio amore, amore...la cosa che io sento per te...”, poi, sulla eterea tavolozza del cielo si andavano formando segni inconfondibili della tua presenza: voli pindarici di ali scure tra zone sfillacciate di nubi abbracciate d’ azzurro e ferite di grigio, fatte a brandelli dalla prima brezza d’ autunno e dalla storia del nostro amore. Mi sarebbe piaciuto vivere con te in un altro luogo, circondati da altra gente, da altre parole, mi sarebbe piaciuto pensare a noi come a viandanti, a nomadi romantici senza fissa dimora, solo radicati in noi e nella nostra illusione sentimentale. Ma il Re del Mondo l’ ha saputo, prima che potessimo veramente dire che ci amavamo, prima che si compisse il miracolo del cuore, l’ impossibile vita nascosta, protetta da ogni dolore, da ogni fatica, da ogni delusione, da ogni distorsione, da ogni ritorsione. Ma il Re del Mondo non poteva conoscere le parole che avrei inciso sull’ ultimo rifugio che ti avrebbe ospitato, parole di ferro e di fuoco, non una poesia, ma un grido, un’ invocazione: “ SE PENSI CHE IO SONO QUI TU NON MI AMI.”

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Ieri mattina ho visto il cielo cambiare colore e come in una tela di Hokusai, mi è sembrato di cogliere la sua anima oltrepassare un ponte, un’ anima avvolta in un kimono di seta: lei sì è girata e mi ha guardato e tutto quello che ho trattenuto era l’ espressione serena di Angela.

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INDICE

Introduzione fredda Brigida Flores Godel Hyperdonna Un’ isterica con due barboncini Ku La metamorfosi di Lola Mondo drink Incendio Interrogativo Il sacco 7 colpi Crash Costanza Un tango solo per me L’ossessione per le tue mani Apocalisse Magdalena Macchie di te Amore free Dannazione Artemide Con il suo nome Cecile Tacchi rossi Persuasione La femmina di stoffa Corine 132


Esilio perpetuo Espiazione Avevo una donna che rideva sempre Scultura L’avvoltoio Un’improvvisa voglia di distruzione Planetaria L’uomo a una dimensione L’espressione serena di angela

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