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NOTA DEL CURATORE

Questa nuova edizione di “Il dono della vita” e altre Brutte parole, si presenta rinnovata e riveduta. Il titolo è stato cambiato per renderne più agevole la ricerca in Amazon. Sono stati aggiunti inoltre due scritti che erano perduti.


di-emilio Š2009 Tutti i diritti riservati


LE BRUTTE PAROLE


Le brutte parole

Cosa sono in realtà quelle che chiamiamo “brutte parole”? E soprattutto perché le chiamiamo “brutte”? Forse perché sono indecenti? cioè nominano, etichettano parti del corpo, organi riproduttivi in particolare, funzioni corporee di cui è sconveniente discorrere? O dipende dai contesti, per cui in ambienti e contesti intimi, familiari, camerateschi e via dicendo, si possono pronunciare quasi impunemente, senza censura? E magari fanno ridere, o sono pronunciate proprio per far ridere. Già, ma il riso nell’uso delle parolacce – storielle, barzellette, aneddoti, avventure di contenuto erotico o sessuale, o semplici esclamazioni – non è di per sé una trasgressione? Non è magari l’ammissione dell’impronunciabilità che viene bensì violata, ma nella coscienza piena che si tratta di un fenomeno del tutto transitorio, e graziato proprio in virtù della sua condizione di eccezionalità...

La quarantina di indagini sugli usi linguistici che è amabilmente – speriamo – qui svolta, tocca però ambiti diversi, non tratta solo le parolacce, quelle che disegnano il sesso e i suoi godevoli atti, o gli escrementi; comprende altresì una serie di modi di dire che sono ben più “sporchi” delle brutte parole, per quanto appaiano innocenti , anzi, insignificanti. Ma proprio questa è la ragione della loro oscenità: perché se sanciscono la banalità della parola, non possono non essere osceni. Perché la lingua è lo strumento che ci disegna il mondo, la realtà; disegna il nostro essere nel mondo e di conseguenza, se il disegno è sciocco, trito, usurato o semplicemente irrilevante, è la nostra immagine del mondo e quella di noi stessi a pagare lo scotto. Il disordine della lingua si fa quindi disordine del mondo; e possiamo affermare che il mondo non lo sia?


Passi

Si può scrivere la storia di questo nostro sciagurato Paese ripercorrendo il lessico non meno scellerato dei notiziari televisivi. I sedicenti informatori ma, ahinoi, forgiatori della pubblica opinione, sembra non fruiscano minimamente della qualità del buongusto, dell’eleganza linguistica. Figuriamoci se possono avere il comune senso del pudore. Ne possedessero una briciola risparmierebbero gli attoniti ascoltatori di espressioni la cui trivialità è tale da accapponare la pelle e che riportiamo inorriditi a mero scopo di esemplificazione: «fare il/un passo indietro» ovvero «trarsi da parte» che sono diventate d’uso quotidiano in tempi abbastanza recenti. Il passo indietro, si intuisce che è ben più drastico del quasi equivalente Un passo indietro. Nel secondo caso restano alternative di perduranza sul luogo. Ti sposti retrocedendo ma te ne puoi stare tranquillo. Non ti pigliamo a calci nel didietro. Invece l’articolo determinativo della prima espressione è drastico, è comminativo di censura: «föra dai bài». Levati dalle palle, non ti vogliamo più. Almeno per adesso. L’indeterminativo «un» si sposa poi per discrezione al nominato «trarsi da parte». Ti sposti, per favore, mi cedi il passo e se sei accondiscendente prima o poi ci si rivede. Per intanto vado avanti io. Tutto questo linguistico arzigogolare serve a depennare un termine che di per sé è trasparente nel proprio significato cristallino: dimissioni. Ma l’uomo politico non è solo attaccato alla poltrona – cosa più che nota e perfino comprensibile visti i non piccoli vantaggi che la poltrona dispensa – è pure suscettibile. E la suscettibilità rende permalosi e irascibili. Se un uomo politico s’impermalosisce e si irrita sono guai per chi l’ha stuzzicato. Parlargli o, peggio, consigliargli «le dimissioni», mette anche a grave rischio la sua salute ed è dunque persino giusto che se n’abbia a male a prescindere dal fatto che le dimissioni gli vengano evocate perché è un lestofante o un puttaniere o ha rubato o semplicemente ha curato gli affaracci suoi in luogo di quelli della polis. Nondimeno, in questo come in altri casi analoghi, ha ragione B. Russel quando scrive che «nessun eletto è peggiore dei suoi elettori». Ne consegue, in seconda istanza, la constatazione che il tirarsi da canto dell’individuo in


questione, non risolverebbe affatto la faccenda. Muterebbe semplicemente la persona del mariolo; ergo tanto vale che il passo avanti, indietro, di lato resti attivitĂ peculiare della ginnastica.


Nutella

È dovuto certamente alla bontà paradisiaca del prodotto il conio e soprattutto l’impiego della parola «spalmare». Come la pronunci ti compare all’istante la fetta di pan bianco, la piatta lama del coltello e il grande vaso della delizia cacaesca. Ti torna alla mente il ricordo dell’infanzia, delle belle merende finita la scuola; e c’è la mamma, rediviva, che ti sorride e ti dice: «Cosa mangi? Vuoi la nutella?» e tu rispondevi con un bacio perché la nutella è sempre la nutella. Poi da grande l’hai solo desiderata; difficoltà digestive, problemi di dieta, forse intoppi intestinali te l’hanno prima sconsigliata e poi relegata nel dimenticatoio dei desideri irrealizzati. Questo è lo spalmare. Ma un bel giorno, forse toccato da frammenti di memoria di merendine infantili, a qualcuno è venuta l’ispirazione di ripescare la spalmatura. Sarà stata la ghiottoneria del buon cioccolatte (come lo chiama il Parini) al gusto di nocciola o dio sa cosa, fatto sta che quel genio in astinenza di nutella ha applicato lo spalmare, in luogo che alla causa, all’effetto, vale a dire sul risultato ultimo del fabbricare e smerciare il prodotto nettarino: i dindoni. Così il bravo economo ha iniziato a «spalmare» i contributi, gli investimenti, i fondi in gestione a ridosso di un determinato arco di tempo. Assai più di rado su un quantitativo di fruitori in carne e ossa. Nel primo caso accade una diluizione del vantaggio generale; nel secondo succede la parcellizzazione, sicché lo spalmare comporta nel contempo la minimizzazione dell’introito individualmente spettante. Cosa non del tutto gradevole Preferibilmente l’interessato pronuncia tuttavia la magica formula della spalmatura quando trattasi di debiti: «spalmare un debito» fa sentire molto più lieve il fardello del denaro da rendere, sia che a essere spalmati siano i pagatori che si vedono dunque sminuzzato l’onere di spesa, sia nel caso in cui a un solo e unico insolvente di colpo l’orizzonte si schiarisca in una lunga baguette, tutta spalmata della sua esposizione finanziaria. Non vorremmo che il lettore ci trovasse scaduti in una volgarità che è lontana dalle nostre intenzioni. Ma che dire se – deprivati di nutella – tutti codesti scaltri spalmatori di finanze si spalmassero addosso quanto gli fuoriesce quotidiano dal budello?


Desiderio

«Ne percepì il desiderio»; vale a dire: costei aveva percepito la durezza del suo cazzo; è un modo di dire interessante; linguisticamente intrigante (quantunque l’attributo sia qui patentemente pleonastico, dato che un «cazzo» molle non è per niente un «cazzo»). Non esiste nella lingua un termine che non sia freddamente tecnico o brutalmente colorito per designare i genitali intenti alla, o cupidi della, loro funzione riproduttiva o, meglio, del godimento che l’umano ne cava. Ad esempio l’«uccello» descrive una condizione potenziale: né «tira» né «non-tira»; se ne sta lì a metà strada; ma non è ancora il «cazzo». Il «pene» d’altronde è così imbalsamato nella sua fisiologica e asettica definizione («coda», «codino») che nessuno si sogna di rappresentare adeguatamente la situazione erotica della fellazione esternando un «mi prendi il pene in bocca?» o, peggio, «il membro»; piuttosto direbbe tra il lusco e il brusco «me lo prendi in bocca?» e forse aggiungerebbe un garbato «ti dispiace prendermelo ecc.», ovvero «te lo posso infilare nel c…?», dove il pronome compie un’ellissi tanto sintatticamente corretta quanto semanticamente inequivocabile per virtù del contesto lussurioso. Viceversa, per quanto suoni ferino e disarmonico nelle note del cinguettio amoroso, il termine «cazzo» risponde linguisticamente in misura perfetta alla funzione del denotato: sebbene l’etimo risulti incerto, il linguista azzarda il rimando all’ellenico akàtion, che è l’albero maestro sempre diritto; ovvero rinvia al «cacciare», infilare con vigore; il che risponderebbe alle bisogna del gioco linguistico in questione. C’è davvero da riflettere, e con sistematica coerenza, su queste e tante altre discrasie linguistiche; se ne dedurrebbero scoperte culturali di rilievo e, conseguentemente, di incidenza esistenziale. In definitiva però, potrebbe anche succedere di arrivare alla conclusione più banale quantunque, certo, non la più gradita: la lingua, in fin dei conti, non è che lo specchio della vita. In quanto tale rimanda l’immagine del nostro essere inutilmente complicati. Nella complicazione linguistica – intrico di vicoli, definisce Wittgenstein il linguaggio – c’è tutto lo sforzo alla Zivilisation (alla civilizzazione) che si palesa come fatica di Sisifo, vale a dire inutile. Non sarebbe stato meglio da ogni prospettiva seguitare a infilarlo tranquillamente, quasi senza chiedere permesso e senza le estenuanti attività produttive, bellicose e criminali che sono la sola realtà obiettiva dell’evoluzione della specie?


Sulla Scemenza

Lo scemo del villaggio (del paese) aveva una propria identità consacrata fin verso la fine degli anni ’60. Intorno alla metà del decennio seguente sono state chiuse le «mutue», tradotte in CSZ (consorzi sanitari di zona), quindi in USSL (unità socio sanitaria locale) e infine in ASL (azienda sanitaria locale). Lo scemo del villaggio esce dagli Istituti ed è ammesso al pubblico dileggio della scuola. Non più «scemo» bensì «handicappato». Un altro decennio gli è occorso a maturare il titolo di «disabile»; ma è solo con il nuovo millennio che lo scemo di paese viene eletto a «diversamente abile». Questa straordinaria carriera lessicale è sintomatica del marxiano «modo di produzione» che pur essendo meccanismo spietato, livellante e abbrutente, nondimeno, per mantenersi produttivo predica da una parte l’uguaglianza (cartacea del diritto), dall’altra imbonisce ogni singolo individuo in maniera che sia convinto di contare, e dunque che continui a esistere. Per sentirsi esistere è indispensabile provare «sentimenti», donde il sentire quale segnatura patetica (del pathos) della marcatura che discerne il tuo Io dall’altro; e cioè la tua normalità (conformità alla norma) e l’altrui «diversità». Da questo insorge alle volte ma non per forza la sensazione del dovere alla «solidarietà» avverso gli «sfortunati», quando non gli «infelici». Sfortunati, infelici, disabili, diversamente abili o semplicemente scemi sono senza fallo i prodotti del sistema sociale ed economico che alimenta il miraggio della felicità e dell’utilità personale mediante l’ostensione impudica del male universale di cui è cagione strutturale e, per natura, congenita.


Volere è potere

Del fatto che «potere» faccia rima con «sedere» si possono dare più (o almeno due) interpretazioni. La prima è la più scontata: chi acquisisce il potere non lo molla; il potere coincide, s’incarna, acquista l’identità del suo sedere (la «poltrona»). Da lì l’insediato tenta in tutti i modi di non levarsi più, di non perdere il posto. Questo significa altresì che l’equipollenza, l’uniforme corrispondenza delle due entità (culo e comando) comporta che l’operare sia fatto con il didietro: la qual cosa è di lampante epifania nel nostro meraviglioso Paese di potenti che governano con il didietro. I risultati e la rispettiva puzza l’abbiam sotto il naso. La seconda opzione semantica ci mostra invece una discrasia tra il posteriore e la facoltà di dominio; da una parte diverge dunque dalla prima spiegazione, eppure dall’altra la conferma; poiché, anzitutto, non si dà mai una coincidenza universale, né è possibile che sia data, tra sedere e potere: il potere è tale perché è sempre e per natura soltanto un’oligarchia anche se la battezzi «democratica» e «rappresentativa». Posto ciò, consegue che coloro, i più, ai quali tocca un intervallo più o meno consistente tra il proprio budello escretore e il potere stesso, non pertanto sono esenti da relazioni con chi signoreggia: anzi, quella compenetrazione tra culo e sedia che ti fa signor-padrone, necessita di una penetrazione complementare ma totalizzante del suo potere dentro il tuo sedere. È per questa ragione che la sodomia – più o meno accolta con compiacenza, o repulsione, o sofferenza – in fin dei conti resta la sola dinamica rappresentativa della democrazia imperante. Perlomeno di quella nazionale (e costituzionale).


Anti-patia

Scrive il dizionario: «antipatico», che suscita antipatia, individuo, atteggiamento increscioso, molesto; «scostante»,(di persona, atteggiamento) sinonimo, insopportabile, odioso, inviso; fastidioso, sgradevole; contrari: simpatico, gradevole, piacevole; «simpatico», che ispira simpatia; affabile, piacevole, gradevole; sinonimo, amabile, affabile, cortese, cordiale; contrario, antipatico, odioso, insopportabile; «affabile», che tratta con familiarità e cortesia; cordiale, amabile, gentile; sinonimo, cordiale, cortese, amichevole, espansivo, garbato, simpatico; contrario, freddo, burbero, antipatico, distaccato, formale, scostante, scortese, altezzoso; «distaccato», indifferente, freddo, riservato; sinonimo, impassibile, imperturbabile, distante, disinteressato; contrario, interessato, partecipe. Tra sinonimie e antinomie è uno stupendo circolo dove un lemma tira il vizio dell’altro, lo richiama e chiama come sequenziali ciliegie maggioline ti fan fare indigestione, e pur t’abboffi. Con tutto il rispetto per la lingua e i suoi eruditissimi cultori, il vocabolario non viene davvero a capo della faccenda. Né potrebbe, visto che il suo dovere lo fa e non c’entra con quello la morale che è in qualche modo il compito prefisso dalla semantica rivisitata di cui si occupano queste righe. Quand’è dunque che chiamiamo, definiamo «affabile», o «simpatica» ovvero «espansiva» e «garbata» e ancora «cordiale» una persona; e quando con il suo contrario? Senza dubbio è degno di ogni meravigliosa considerazione sociale colui che non ci rompe le balle; in altri termini colui che accondiscende al nostro volere; è medagliato dalla qualificazione di «gentile e cordiale» chi ci è consentaneo, allo stesso modo che quanti si comportano osteggiando il nostro parere, il nostro volere, o riversano astiosa critica e reprimenda sul nostro agire appartengono alla seconda schiera: quella degli antipatici. Perché chi è opposto alla simpatia antepone il proprio volere all’affabile cedimento, all’acconsentimento col nostro volere e opinare. Immaginiamo una persona mite, generosa, molto gentile: definiremo tale il tizio o la tizia che se ne sta serenamente pei fatti suoi, che ci saluta, che c’intrattiene ma soprattutto che ci sa ascoltare e non si fa ascoltare che in misura alquanto contenuta e modesta. Ciò che facciamo e deliberiamo gli (le) va sempre bene e lo dimostra aderendo e assumendo come plausibili le conseguenze dei nostri deliberati.


Ma fuggiremo o mal sopporteremo i tizi medesimi che si connotassero di imposizione, di comando, di volersi far ascoltare, che ci attedino con le loro faccende private, che sempre abbiano a ridire sul nostro piccolo operato, che sempre abbiano qualcosa da insegnare e sempre o preferibilmente montino in cattedra. Immaginiamo tuttavia di metterci nei panni del simpaticone, visto che l’antipatico non ci piace farlo, lo aborriamo e siamo arcisicuri di non esserlo personalmente. Poiché non siamo antipatici non siamo neanche arroganti, perciò non ci arroghiamo la presunzione di essere in tutto simpatici e cortesi. Figuriamo perciò la nostra transustanziazione in codeste «delizie del genere umano». Il mite, o è tonto o è represso. Nel primo caso sarà anche suo il Regno dei cieli, ma plausibilmente non quello della terra; nel caso di repressione interiore è un frustrato che detesta il genere umano compresi anzitutto coloro che lo pesano quale «simpatico». Il terzo caso è dato dalla condizione di «scelta». L’esperienza, il dolore della vita, la riflessione lo conducono alla conclusione che l’umana è la brutta e pessima bestia, vorace e sopraffattrice, e feroce. La sua opzione è scientemente quella di cedere il passo, il terreno, di ritrarsi, di accondiscendere per l’appunto ai deliberata d’altri. E quale si crederà che sia il suo segreto sentire? Non è un «povero di spirito» e pertanto, non solo gli è negato il Regno, è altresì consapevole della propria condizione d’esistenza; e non è un represso, perché la scelta è sua, oltre che volontario e quotidiano lo sforzo. Quanto al giudizio che sente nell’intimo segreto dell’emozione non lo dichiara per buona educazione.


A passo d’uomo

Rifletti sull’espressione «a passo d’uomo». Una società davvero avanzata, permeata come si auspicherebbe dalla Kultur e pertanto egualitaria, paritaria, intensamente convinta dunque delle «opportunità pari» (almeno tra i sessi) e della nequizia di quelle «dispari» deve sentire intollerabile la discriminazione avverso la «donna» che il passo d’uomo commina. Anzitutto a quale passo procede l’uomo? Se è un fanatico del footing il suo incedere può anche sfiorare i 20 Km all’ora ed essere foriero di rischi e collisioni non meno perniciosi del biciclo e dell’auto. Secondariamente, per quanto l’uomo vada al passo, se proprio non è oramai decrepito e vecchierello, andrà comunque più alla svelta della donna (eccettuato il caso che anche costei sia forsennata praticante il footing). Non rimane quindi che porre rimedio all’arretratezza giuridico-linguistica di questa per altro civilissima nazione, il cui solenne consesso legiferante, ognora operoso e intento al pubblico beneficio, metterà mano al decretare l’emendato «a passo di donna» o, al più «a passo di donna e di uomo alla pari».


Del merito

Il «merito» viene, come non ignoriamo, dal verbale − latino − mĕrĕo (merŭi, merĭtum, merēre; ovvero mĕrĕor ecc. forma deponente1) di sema intuitivo di «guadagnare», «lucrare», «acquistare», «meritarsi», «ricevere in pagamento» e altro ancora. Donde si sconta proprio il sostantivo «merito» e «merenda» e «meretricio». Se ne deduce che la «meretrice» la puoi qualificare lessicalmente quale «femmina che fa commercio del suo corpo», e nel contempo quale bene-fattrice: colei che merita, (evidentemente per le prestate attenzioni di pregiata qualità sessuale). La connotazione morale, di segno non positivo, non è purtuttavia scontata come suonerebbe allo sprovveduto. Dipende. Per esemplificare, l’infamia di «puttana», semanticamente non equivoco, vale per «meretrice» nel caso di essere umano di sesso femminile che mercanteggi i servigi di cui sopra sulla pubblica via o, in ere remote e più civili, nel comfort di «case» all’uopo allestite. Nondimeno, qualora la persona (di sesso maschile) sia facoltosa e anche molto, moltissimo facoltosa, la «meretrice» non solo «guadagna» più della «passeggiatrice», ma riconquista tutto il merito che le conferisce l’autorità del dizionario latino. Tant’è che di preferenza e per distinzione la chiami «scorta»2; quest’ultimo lemma ha natali anch’esso dal latino (med. per medievale; XIII sec. per la penna, ci attestano, dello Jacopone) e dunque bastevolmente patrizi. Difatti ve n’è assimilazione nel francese escorte e nello spagnolo escolta, nominazione quest’ultima prolifica del verbale escoltar. Scorta, escorte, escolta ed escoltar sono figli tutti dello «scorgere», sicché la scolta di rilevanza meretricia non è altri che colei che si scorge: certo, perché si mette in mostra; d’altronde se non si esibisse non la potresti neanche scorgere, e allora dove starebbe il suo «merito»? e come se lo potrebbe conquistare? «La scorta» del resto trova prestigioso avallo nel consentaneo «prostituta». Quantunque la prostituta possieda connotazione semantica di per sé assiomatica, anche in questo frangente socialmente più increscioso, ci soccorre il latino dei padri: perché l’origine − prōstituere − è infinitamente meno mostruosa dell’area si significato che la infama; e non significa altro, come non sfugge alla mente latinamente scolarizzata, «stabilire prima», come dire: patti chiari e amicizia lunga. Ora, dalla pedante chiacchierata, discendono per forza alcune conclusioni. La prima, immediata, è che se v’è, com’è irrefutabile, del «merito», desso merito andrà equamente rimunerato e retribuito in conformità alla legge che muove tutto il resto dell’umano contesto, ovverosia il merito andrà pesato sulla bilancia sacra «della domanda e dell’offerta».


In secondo luogo non è meno onesto desumere che l’«offerta», sulla scorta del principio medesimo, è data unicamente e in modo esclusivo dall’esistenza della «domanda», il che ci induce al passo successivo: come mai il cosmo virile dell’umanità è, da epoche immemori, «cliente-acquirente» di muliebri grazie? La risposta è macchinosa e al contempo elementare e la si lascia perciò a chi ci si vuol rompere le corna. Una cosa soltanto: se è così che gira il mondo e con lui i coglioni, perché complicare la vita con divieti, multe, morali sanzioni, peccaminose comminazioni? Dopo tutto la soluzione è così chiara e limpida! o togli il divieto o tagli i coglioni.


Borgo e corte

Non è del tutto priva di interesse la constatazione dell’evoluzione linguistica di questo Paese, se non altro perché la pellicola verbale − non che velare − disvela e rende manifesta una realtà che tenderebbe di per sé a travestirsi. Poniamo il caso della parola «borgo» dentro la quale c’è tutta la civiltà edilizia dell’ultimo ventennio. Questa nostra «verde Lombardia» come la chiamò a suo tempo il grande Carlo Emilio (Gadda) lagnando non senza motivo la distruzione del verde e l’insorgente cementizio, ha disfatto la secolare povertà dello zappatore commutando prati e campagne in capannoni ed edifici di residenza. Questi ultimi li chiamavi due decenni or sono «condomini», non tanto perché vi risiedessero comunità di «domini» cioè padroni di casa, bensì per la spettacolare architettura parallelepipedoidale e cubica e non di rado cubista, immaginata e poi fatta percettibile materia. Si vede che la coscienza non era tranquilla, a dispetto della transustanziazione dell’erba in conto corrente. Perché al principiare del terzo millennio il «condominio» è diventato «il borgo»; «borgo delle rose», «borgo degli oleandri», «borgo dei gelsomini» e anche «corte», come «la corte delle querce» ovvero «degli oleandri», quantunque delle prime non solo non vi sia l’ombra né in senso proprio né in quello figurato, ma c’è da scommettere che costruttori e acquirenti e assessori concessionari edilizi non ne abbiano oramai la più pallida immagine. Così sono i tanti, tanti i «borghi» e le «corti» ancora, floreali, odorosi o inodori, con piscina, cinta, giardino doppio garage, fornella per il barbecue, piccolo parco pel sollazzo puerile e tante, tante infinite comodità e opportunità che fanno l’esistenza degna di chiamarsi vita. Le citate nominazioni hanno in comune la malia di richiamare sapori campagnoli, «nostrani», «autentici», «sapori e odori di una volta», del bel tempo andato che, siccome è proprio «andato» lo rimpiazzano con le belle porcate d’oggi, remunerative, è fuori discussione. Ma porcate restano e resteranno. E a differenza del «condominio» di vecchia concezione, il «borgo» non si estende in altezza bensì in lungo e in largo; e il cosiddetto «impatto visivo» che suona assai increscioso oltre ad apparire sommamente deprecabile alle commissioni edilizie locali (e quindi passibile di bocciatura in sede progettuale), viene in tal modo smussato; epperò quell’altro, quello bancario − nel senso del conto-corrente degli interessati edificatori − si espande in ragione della campagna scavata, chirurgicizzata, impiantata di piloni e solette, sicché il «borgo» soppianti le piante e i filari.



Parolacce

Le «brutte parole», la «volgarità» nell’uso della lingua concernono di norma i riferimenti escrementizi e sessuali. Per tutti e due i contesti è consentita citazione solo nell’ambito «scientifico» dei gerghi di mestiere: la medicina e la linguistica (o il vocabolario). Nel secondo caso si tratta di considerazione d’obbligo, dall’esterno: una lingua che parla della lingua dove la lingua si eleva e giustifica con il suo distacco telescopico la dicitura triviale. Nel caso medicoscientifico viene operata una traduzione dalla volgarità al superiore livello tecnico: perché le cose, comunque, bisogna chiamarle col loro nome. Ma per quale motivo «cazzo», «fica» o «figa», «culo», «merda», «coglioni» ecc. sono parole brutte vietate all’innocente anima puerile? che stan male in bocca alle signorine per bene, che una brava madre di famiglia non deve pronunciare (anche se le può pensare dentro di sé)? E che proferite da chicchessia qualificano l’individuo per individuo «volgare», «adirato», «repellente», e perlomeno «maleducato»? Il problema di fondo è un aspetto del processo evolutivo, diciamo della Zivilisation che, visto da vicino, è straordinariamente comico, e pertanto generatore di sana ilarità. La moralizzazione della lingua in effetti partecipa di quel corso di eventi di cui fa parte l’illusione dell’immortalità umana. Se la bestia è mortale perché priva di anima, l’umano è immortale perché l’anima ce l’ha. Ma per testimoniare il possesso del lato non-mortale è indispensabile la cesura tra le funzioni percepite come immediatamente animalesche perché condivise con le «bestie» (a noi inferiori), la riproduzione e l’espulsione dei residui alimentari. La censura verbale dei riferimenti genitali e della copula, e degli escrementi, è parte integrante del modellamento illusorio della superiorità umana sul lato animale. Il dato visceralmente faceto è che la cosiddetta «Storia» della sedicente «umanità» è un seguito incessante di massacri per il cibo (e quindi implicante l’espulsione, lo smaltimento e il controllo «igienico» delle scorie, altresì dette «la cacca») oltre che per il contenimento e la regola della riproduzione, il possesso della femmina e il suo godimento, la tutela delle proli e il loro benessere, cioè la sicurezza della relativa eternità della specie attraverso la ri-generazione della stessa. In altri termini è lecito sostenere che la censura verbale suddetta non è che il travestimento del potere o della «volontà di potenza» che sono alimentati dal terrore della morte e dalla chimera che vi si sopravviva (come anime!). Allora dire «fica» e «chiavare» è come buttare in faccia


all’ascoltatore la cruda verità della sua bestialità senza spirito. Ma per salvarsi − psicologicamente − dal trauma la convenzione linguitico-civilizzatrice si rivale sul parlante con tutta l’autorità censoria; come dire: «Bestia sarai tu!» Va aggiunto, per amore di completezza, che all’umano realizzato nella potenza, vale a dire «al potente» è tuttavia permessa anche la trasgressione, se non altro in privato: la crapula e le sue conseguenze scatologiche; il dominio sulle femmine e la fruizione illimitata del piacere sessuale e, presumibilmente, anche la trivialità verbale. Questo perché il «potente», in virtù del suo «potere» è forse il più utopista e cieco tra i suoi simili nel sogno d’immortalità. E così il comico della faccenda sfonda i confini nell’infinito dell’idiozia e del buffonesco. Poiché l’identità idiotica, subnormale, microcefalica del potente, dell’«uomo di potere» è convalidata se non altro dalle moderne teorie del sapere scientifico relative al cervello. Le quali assegnano al «sistema limbico» (che è la parte del cervello più antica in cui dicesi abbiano sede le pulsioni istintuali) la responsabilità del «male» e le tensioni aggressive dell’umano; sicché la progressiva anestetizzazione del limbico a favore della «materia grigia» comporterebbe l’incremento delle facoltà razionali e quindi etiche. A prescindere dal fatto che l’eticità del comportamento non è che il controllo della tensione alla violenza, ma sussiste solo perché la sua base granitica è la violenza, l’interessante tesi scientifica viene a dar conferma all’intuizione schopenhaueriana della «volontà negativa», del vitalismo della natura. Nel contempo è quindi legittimo arguire che l’uomo di potere, viene determinato e condotto − e più è autorevole e autoritario, più è determinato − dal sistema limbico; la sua bestialità, che affascina i sottomessi o li irrita e comunque li rende sottomessi, di conseguenza trionfa a scapito delle facoltà superiori, più evolute e peculiari della Kultur. In parole povere, il potente e il cretino pericoloso sono una medesima istanza esistenziale, una «qualità» dell’umano evoluto. E sebbene (e per fortuna) non tutti i cretini siano potenti (quantunque costituiscano la stragrande maggioranza del genere umano), bisogna arrendersi all’evidenza che, purtroppo, tutti i potenti sono senza remissione idioti, anche se la loro demenza è direttamente proporzionale alla volontà di potenza, vale a dire alla voglia di dominio (non per forza alla riuscita).


Voce del verbo fare

La dilatazione semantica del «fare», qualora nell’uso riflessivo del «farsi» lo si accompagni col suffisso pronominale «la» è tanto straordinaria da meritare spazio di riflessione. «Farsela» è gioco linguistico (per dirla con Wittgenstein) che rammemora all’immaginario virile, all’istante, l’esito positivo della congiunzione carnale; intendiamoci, non una «chiavata» qualsivoglia, bensì il coito avventuroso con la desiata pulzella, con la sposa avvenente (d’altrui), con la virginea carne muliebre purché in forma saltuaria, non continuativa e comunque appartenente al passato del libertino. Il quale dirà sempre col sorriso del compiaciuto: «Me la sono fatta»; non mai «me la faccio» o «stasera me la faccio» o «vado a farmela». Quest’ultima dizione non contempla solo una variazione di nuance ma, altresì, un cambiamento di rotta semantica. L’uso del presente intenzionale lo riferirai a una gozzoviglia, a una mangiata: «mi faccio la pizza» per quanto nulla osti l’aggancio tra «me la sono fatta» e una meritevole torta di pasticceria. Così è d’uopo «ci facciamo un bel gelato» quale conclusione della gita o della serata o adempimento del dolce desiderare la frescura sulle gengive. È tuttavia sufficiente la coniugazione del farsi-la sunnominato con l’avverbio non meno riflessivo del verbo in questione «addosso» per svoltare bruscamente un’altra volta dalla rotta godevolissima dell’eros a quella assai meno intrigante dell’igiene. L’aspetto notevole di quest’uso è nella sua coniugabilità in tutti i tempi e modi del verbo − più o meno come nel senso dell’intrugliare cibarie − poiché il «farsela addosso» corre sul filo rosso che unisce il passato prossimo (vergognoso) di un «me la son fatta addosso», al presente «scappo perché me la faccio addosso», con sfumatura nel primo caso che può incorrere nel figurato: tanta paura da farsela addosso; al letterale dell’incontinenza per impellente necessità e concomitante lontananza/assenza del ricettacolo d’ordinanza. D’altronde è anche giusto che il «farsela» nel significato di «gran mangiata» e relativa goduria, abbia il corrispettivo simmetrico nello scarico. Tra i due corni semantici coniugati da identica sonorità corre l’esistenza umana al completo: mangiare e cacare, per quanto trattasi di un cacarsi addosso. Null’altro cale.


Maturazione

«I tempi non erano maturi» è ricorrente in documenti di presunta analisi storiografica. Ma cosa fa «maturare i tempi»? e perché si parla di «tempi» e non semplicemente di «tempo»? Esiste una pianta del tempo i cui frutti pendenti siano i tempi? C’è una stagione della maturazione e dunque della raccolta? In caso affermativo dovrà esistere anche una fase di fioritura; eppure nessuno ha mai parlato di tempi fioriti, perché i tempi − sempre plurali − o sono maturi o sono immaturi, giammai «acerbi». Per giunta, a quanto pare, i tempi non giungono alla fase della raccolta o della cascola prematura in ragione del calore e dei raggi solari. Ci sono tempi che maturano d’inverno come le arance, e se pure è autunno accade che non maturi né si colga un fico di niente in termini di tempi. Perché «i tempi» maturano chiaramente solo per effetto del tempo, non già delle azioni umane le quali − a dispetto della presunzione di cui si paludano − stanno ancorate all’oscura dipendenza dei tempi. Lo stesso atto, se intempestivo, cioè in tempi troppo poco o troppo tanto maturi, è destinato al clamoroso fiasco di cui la storia poi si fa ricettacolo ed eventuale rimpianto. L’azione «storica» compiuta in tempi maturi invece è destinata al successo e i suoi autori vengono elogiati e immonumentati dai posteri sulle insegne delle strade, delle scuole e su tante altre lapidi che pur costano denari sonanti ai cittadini che − non per colpa loro − sono vissuti e vivono nell’immaturità dei propri tempi e pertanto sono incatenati dal buon senso e dalla sorte alla saggia inazione di chi sa che «i tempi non sono ancora maturi» e che dunque è inutile dare testate al muro e spaccarsi le corna. Eppure a tutta questa gente che capisce tante cose − a differenza di chi opera nell’immaturità del tempo − nessuno erige monumenti, sebbene è certo che nella sua lungimiranza neanche li vorrebbe. Quello che si ricava dall’espressione testé considerata è che la condizione umana galleggia sopra un magma bollente di buie circostanze e che, solo a posteriori, solo dopo le batoste e, molto raramente dopo la riuscita (che non per forza significa un avanzamento, anzi le più volte un regresso sicché la faccenda, espressa in termini strettamente finanziari, comporta sempre una perdita superiore al guadagno), ebbene solo a distanza è dato conoscere se quei tempi sono stati maturi e se i tapini protagonisti degli stessi hanno avuto la vista lunga o corta. Ma la conclusione più verosimile è che non lo sapessero neanche loro e la condotta − premiata o bocciata dai tempi − venne determinata unicamente dalla demenza di quella che il gran Federico Nietzsche chiama «volontà di potenza», che altro non è (a dispetto del suo nobile padre ideatore) che il vitalismo più cieco, violento e cretino.



Collanti

«Starsene incollati alla tivù» sembra essere atteggiamento significativo di vivissimo interesse visionario: partita di calcio o catastrofe. «L’incollaggio» televisivo per essere tale impone il consentimento di massa. È vero che anche il singolo lo puoi cogliere «incollato davanti al televisore» ma in tal caso c’è sempre una sfumatura semantica di compatimento, di bonaria ironia e forse di non malevolo dileggio. Perché lui che sta incollato ti risulta in una condizione di dipendenza un poco beota, mentre tu, che sei ovviamente scevro da colla televisiva, hai il distacco necessario o sufficiente a considerare le due realtà, quella coinvolgente e ottusa del televisore e quella magnanima e fredda alla quale ti pregi d’appartenere. Al contrario se a bagnomaria nel collante ci sta la folla, insorge un significato di quasi maestosa autorevolezza: qui la televisione non è più l’oggetto, torna bensì a essere il mero strumento di una tecnologia trasmettitiva di ben più solenni e alte verità: la partita della nazionale ai campionati mondiali e la catastrofe − pur che visivamente documentata − foriera di morti non meno che a migliaia. E, a rifletterci, è questo un caso davvero meraviglioso oltre che straordinario che vede la quantità transustanziarsi, alla stregua del pane e del vino nell’eucaristico corpo santo del Cristo, nella qualità. E l’evento è degno di registrazione e trasmissione ai posteri poiché sappiamo bene in che modo la qualità sia in toto noncompatibile con la quantità; in altre situazioni correnti nessuno di noi pretende infatti che il servizio alla «tavola calda» sia lo stesso di un ristorante «a quattro stelle», che un prodotto di serie a basso scosto dia le stesse prestazioni di un prodotto di «alta qualità» (presumibilmente garantita dal costo alto); e che le buone carotine «biologiche» dell’ortolano di contrada non sono lo stesso delle confezioni nel frigo del supermercato, e via discorrendo. Ma come tutti sappiamo, la televisione non è solo e non è più soltanto quella «maestra di vita» che è stata la storia ai tempi di Cicerone. È la storia stessa ed è noi stessi. Certe religioni orientali ritengono che gli apparecchi fotografici rubino l’anima e impongono ai fedeli di sottrarsi all’istantanea. Noi, che siamo gli istitutori del furto, l’anima l’abbiamo sottratta e dunque − qui nell’occidente della Zivilisation − resta unica e sola la realtà dell’apparenza e l’incollaggio al televisore è per questa ragione il momento di massima sintonia e celestiale felicità; insomma qualcosa che il padre Dante ha già intuito e cercato di rappresentare nei versi superbi del suo Paradiso.


Il criterio della durezza

«Metterla giù dura» lo dici di persona che, per impresa di minimo valore, ovvero in pubblica o privata interlocuzione, fa le cose alquanto difficili, le pervade di aura e aureola onde dare a se medesima estrema importanza ma, con ogni evidenza, senza avere contezza della propria scarsa significanza; donde il campo semantico dell’«indurire» la cosa. Nondimeno l’etimo impone l’esplicitazione del riferimento scatologico. Poiché colui che viene chiamato in causa come termine di confronto fisico è lo stitico. Si potrà anche fare dell’ironia sullo sforzo della spinta, la fatica e i sudori di quando ti scappa ma non fuoriesce, non vuole uscire, la dannata. E ti tocca frugare dentro il buco, o farti frugare da dita esperite all’intercettazione del «fecaloma» e alla sua trazione forzata mediante digitazione, guantata o no. Ma quantunque altri, non colpiti da stipsi, possano fare i gradassi, dal momento che il prodotto iniziale del deporla dura è generalmente scarso − e dunque giustificativo del deprezzamento sunnominato − resta il fatto drammatico del budello intasato, della sofferenza corporea, nonché dell’imbarazzo. Senza contare che colui che depone dure le sue cacche, almeno è riuscito a farle, e ne percepirà sollievo indubitabile quantunque forse sproporzionato all’impegno. Viceversa il loquace che «la mette giù dura» lo fa solo a parole: è un millantatore dell’operato non compiuto ancora, o della trattazione che altri, con più modestia e forse maggiore intelligenza, sanno stendere senza mantelli e pompa. Il suo prodotto escrementizio è qui rapportabile alla spinta evacuatoria, come la montagna celeberrima al topino partorito. Da ciò è lecito concludere che non sempre è calzante l’aggancio del figurato al letterale e, in secondo luogo, è pure doveroso segnalare che il fare la cacca è faccenda assai più seria che non tornir discorsi.


Conversazione

La parola «conversare», voce verbale della prima coniugazione (intransitiva) viene dal latino cum versari, cioè trovarsi assieme. Il fatto che poi sia un trovarsi a chiacchiere è colpa della moderna semantica che stravolge il senso delle cose vecchie. D’altra parte la «conversazione» non è oramai il ritrovo di persone ammodo dove eventualmente accade lo scambio di opinioni. Sempre più vieni a «conversare» senza trovarti con nessuno e senza la fatica fisica del superamento d’un intervallo spaziale, senza appuntamento, senza la discrezione che discerne l’ora più atta al contatto, eccetera, grazie all’arnese della telefonia più evoluta, cosa che, tra l’altro, ci segnala una delle tante bizzarrie del «progresso»: che a ogni passo in avanti se ne compiono due all’indietro, per cui mentre ti pare di avanzare la tua posizione in quanto essere umano e terricolo è vieppiù arretrata; nello specifico, per dire, la facilità, l’agio comunicativo infrappone tra le creature parlanti distanze incolmabili, spazi fisici mai più contraibili di modo che all’immediatezza della loquela (il passo in avanti) fa da contrafforte la disinfestazione del contatto personale (i due passi indietro) donde è lecito affermare che non v’è progredimento senza autentico regresso. E chissà che questa seguitante retrocessione non giunga un giorno a combaciare col punto di partenza dei mille e mille anni or sono. La conseguenza dell’abrogazione spaziale, dell’elisione dell’impegno deambulatorio, del «recarsi a casa» della persona a «trovarla», è lo stanziare a uno dei due capi del filo a blaterare, visto che non costa niente specie con le tariffe forfettarie d’oggidì. Questa premessa dalla parvenza misoneista ha però sodo basamento nell’esperienza: difatti la conversazione è lo scambio amabile di pareri e opinioni che sono pressoché identici nei due interlocutori, per cui non si capisce davvero in cosa consista lo scambio, o meglio si comprende bene che è un vicendevole dare e avere di complicità, di emotività certamente confortanti ma affatto vacue. Se alla fine, deposta la cornetta, ti senti meglio, buon per te, nulla toglie però alla frivolezza della sostanza interlocutoria. In effetti se il conversare, anche a tuper-tu, trascendesse il garbo del concedere (più o meno di buon grado) la ragione all’altro, non si tratterebbe più di una «conversazione» ma di una «discussione» più o meno animata nella quale va a farsi benedire l’intenzione benevola del conversare. E la discussione, come sappiamo tutti, può anche incorrere nell’attributo di «animata» e se è molto animata, si può anche «andare per le brutte». La morale che vi sta racchiusa è che è del tutto sciocco esporre le proprie opinioni anche quando l’amor proprio venga solleticato dalla lusinga dello scontato consenso altrui; né ti verrà


da «conversare» telefonicamente con un forestiero o con uno che, quanto a opinioni personali, sai dal principio che non valgono un’acca. A questo lapidario precetto si aggiunga che se sei maschio è doppiamente inutile discutere (anche non in maniera animata) con una femmina e viceversa, per il semplice motivo che le due «mentalità» sono reciprocamente impermeabili. Nella deprecabile condizione in cui ti trovi qualora le cose tu le scriva è d’importanza fondamentale che chicchessia non legga. Come? dirai. A che pro? Allo schiarir le idee; e tanto basta. Anche perché di notevole sotto il sole non c’è niente da dire, e il meglio è già stato detto e stradetto. In conclusione, se «Un bel tacer non fu mai scritto» è vero che «Il silenzio è d’oro».


Luogo comune

Peculiare di ciò che chiamasi «luogo comune» è innegabilmente una certa viltà di contenuto; è come se l’uso reiterato e diffuso implicasse consunzione semantica; siccome lo sappiamo tutti, che ce lo vieni a dire? Considera pertanto l’espressione «sono sempre i migliori che se ne vanno», che connota un gioco linguistico giocato nei riti funebri, dove l’intensità semantica vorrebbe segnalare partecipazione al cordoglio, familiarità con l’estinto, esorcismo dell’angoscia di morte ecc. Troppe cose per un saluto, un convenevole, quantunque estremo. Nondimeno, a spiare più nel fondo, si riesce a cogliere una gradazione meno indecente nel «luogo comune» della solidale complicità propria ai sopravvissuti: perché se ad andarsene «sono sempre i migliori», c’è un residuo di sofferenza vera, di disperazione quasi, che questo mondo sia in qualche modo salvabile. Senza i migliori siamo destinati, e in maniera ineluttabile, alla rovina collettiva. A meno che non lo si pronunci insinceramente e tanto per dire. Per fortuna non sono sempre né soltanto i migliori ad andarsene. Anche se nella fattispecie è del tutto opinabile, in quanto soggettivo, il concetto (criterio) di «migliore», ogni tanto accade pure e capita la dolce evenienza della dipartita di chi ci sta sulle scatole.


Follia

Usiamo dire: «Ma questa è una follia!» o «È pura follia!» e consimili giochi linguistici che segnalano lo stupore conseguente la discrasia tra ciò che appare «normale» o «giusto» o «corretto» alle nostre opinioni (convinzioni/consuetudini), e l’evento analizzato. Il primo rilievo che viene immediato è la soggettività e dunque incerto del giudizio. Quello che è «folle» per noi non lo è quasi mai per altri, anche se la condivisione con chi sappiamo a priori del nostro parere genera una certa soddisfazione (compiacimento emozionale). Né ci sogniamo di dare pubblicamente del matto a qualcuno (pena la querela); lo facciamo però pacificamente nella cerchia domestica e dei conoscenti. Una seconda osservazione è che, stranamente, la «follia» è la qualità che connota sommamente la condotta umana. Si può dire che siano più le azioni dei nostri simili che ci piace qualificare «folli» che non quelle degne di plauso, forse perché l’apprezzamento non vellica quel piacere di noi stessi che è propulsore della valutazione corrosiva. Il problema di fondo, nondimeno, solleva inquietanti considerazioni. Se ci si chiede qual è lo schema o, meglio, qual è l’origine della matrice che applicata agli eventi produce il giudizio di «follia» o adeguatezza, non c’è dubbio che abbia radice nella morale. Il che non fa che ritardare l’altro quesito relativo all’origine della morale medesima. Il punto è che la morale, il codice di comportamento per essere tale dev’essere condiviso. E in linea di massima lo è di fatto, o come si dice, «a parole». Se lo fosse nella sostanza il verdetto di «follia» sarebbe impronunciabile, tranne che nel caso di individui e fatti eccezionali. In effetti se tutti condividiamo il codice morale, i nostri comportamenti sono coerentemente «saggi» e anche «normali», cioè il contrario di quanto abbiamo appena constatato: massimamente incoerenti e quindi «folli». È lampante che il massacro di massa, lo sterminio di popoli, la loro abiezione, la macellazione di esseri umani in astratto sono esecrati dalla morale e da ogni dottrina etica. Il che non toglie che la «follia» dell’invasione afghana, irachena, la spogliazione violenta e cruenta del continente africano non siano né denunciati come folli né tanto meno menzionati come esecrabili, bensì affermati come equi e «democratici» dalle autorità del pianeta che sovvenzionano a parte i volontari soccorritori dei miserabili su cui le autorità stesse infieriscono con eserciti ed enti economici «a norma», ovvero «autorizzati» alle carneficine. Anche questa dissonanza assordante è lecito e moralmente corretto − per quel che può valere − battezzarla «follia».


Infine c’è un aspetto piuttosto comico: la considerazione compassionevole e la pubblica assistenza per i «folli», vale a dire gli individui «certificati» per «matti» veri e propri dalle competenti istituzioni, in quale misura e per quale ragione diviene modulo di dannazione etica delle azioni umane correnti, pubbliche? Ciò che è dato dedurre per forza sillogistica è che deve avere fondo di verità la saggezza popolare che asserisce che «i matti veri non stanno in manicomio»; ergo o è matta la morale e va abrogata o sono matti gli umani e il mondo ne è il manicomio ingovernabile.


Al Plurale

L’aspetto propriamente coinvolgente del termine non risiede nelle sue molteplici applicazioni pratiche e filosofiche (più volte nominate, in Schopenhauer e Nietzsche, tra i tanti) ma nella combinazione della «volontà», nome comune indeclinabile, con l’aggettivo «ultimo». Difatti per declinarsi al plurale, la «volontà», così pervicace, granitica che appare, necessita di attributo donde l’espressione «ultime volontà». Ora, se la volontà è il requisito che massimamente inorgoglisce il vivente che «la fa valere» e, qualora vi riesca, s’inebria della sensazione di potenza, di realizzazione, sente il piacere orgasmatico del proprio vitalismo affermato, ebbene nel caso delle «ultime» non si tratta più della sferza declinata al singolare che tanto godimento ha inflitto al soggetto volitivo. Non sappiamo dire se sia colpa della parcellizzazione o della moltiplicazione che di una, sola e unica come il figlio di dio, fa mille polpette infarinate di volontà. Fatto sta che le volontà per essere le «ultime» pretendono la forzata dipartita dell’orgoglioso deliberante le stesse. Sotto questo aspetto è una volontà che non-vuole quella che alza la voce minacciosa dal momento che il volente è oramai nolente, anzi impossibilitato a qualsivoglia espressione impositiva. Difatti, quelle volontà tanto tassative e sacre gli è toccato − ancor vivo − assegnarle alla lunga mano dell’«esecutore». Qui incontriamo la condizione patetica, peculiare dell’umano civilizzato e socializzato, che non si rassegna proprio a sparire dal mondo e ancor vivo proietta la propria esistenza fasulla oltre il limite assegnato, in supremo gesto di tracotanza, a dire: − Adesso vi faccio vedere IO chi sono! Son morto, ma voialtri farete come VOGLIO io! Ecco dunque il candidato defunto occuparsi di cremazione, d’interramento, di lapide, di averi che non gli appartengono più. Si crogiola a figurare congiunti e amici in gramaglie, in lacrime, attorno al suo letto di morte mentre gli si addice l’essenziale espirazione del kafkiano protagonista del Processo: «Come un cane» sospira mentre gli girano il coltello da cucina nel cuore. «Come un cane» ma non perché sia − come nel romanzo − una fine miseranda bensì, com’è d’uso dire, nella beata solitudine del migliore amico dell’uomo.


Scienze e Dottrine

L’umana facoltà del conoscere adopera diversi attrezzi semantici per qualificare se stessa; passa da un generico e universalizzante «il sapere», al campo semanticamente circoscritto della «scienza». La «scienza», a sua vece, ama sezionarsi − proprio per essere «scientifica» − nelle varie discipline o scienze; ma «scienza» e «scienze» in maniera bizzarra non si gloriano del proprio sapere bensì del processo in virtù del quale lo attingono, vale a dire il «metodo» (ovviamente scientifico). Si potrebbe arguirne in prima analisi che il «sapere» non sia poi quella cosa di straordinaria importanza che ci hanno fatto credere da piccoli, visto che neanche quello certificato dalla/dalle scienza/e sembra valere gran che; il «metodo» scavalca incessante i saperi acquisiti, li smentisce e li fa vecchi in men che non si dica. Per tacere poi del sapere che non è figlio della scienza; è quel qualcosa di molto approssimativo, di imparaticcio, di pressapochista che chiamasi magari «erudizione», cioè una massa indefinita di cognizioni che lungi dal definire meglio il sapere saputo, attesta che chi la possiede può insignirsi del titolo di «erudito». Per fortuna, al di sopra e ben oltre il «sapere», c’è la «sapienza» molto prossima alla «saggezza». Anche in questo caso nessuno ha contezza di cosa siano concretamente «sapienza» e «saggezza», né in cosa siano affini o in cosa differiscano tra loro. Non è dato nemmeno conoscere come si conseguano, nondimeno accade nella pratica che se t’imbatti in una persona «saggia» hai la sensazione immediata che lo sia. Il «sapiente» purtroppo è figura da tempo estinta. Sappiamo, per quel che la «scienza storiografica» permette di accertare, che nelle ere antiche sono pur vissuti i «sapienti». Ma pare che il loro boia spietato sia stata proprio la scienza che per essere tale ha diritto al titolo di «moderna». Ma a questo punto insorge un nuovo scoglio: poiché la «scienza» − sia essa matematica, fisica, astronomica, antropologica o che altro − con tutta la sicumera, il rigore, la severità dottrinaria di cui si circonda, senza parlare del «metodo» e della cautela e circospezione nell’emanare i suoi verdetti, alla fine ama fare il «salto della quaglia»? Può essere che la prudenza eccessiva sconfini nel suo opposto? Fatto sta che è proprio la scienza a evadere nel nebuloso, nell’indefinito, nel probabile ma forse non plausibile delle «ipotesi», le quali, in quanto «ipotesi» si compiacciono di far crocchio attorno alla disciplina madre sicché, dal muliebre cicaleccio (essendo «ipotesi» termine di genere femminile) esce fuori e cresce una «teoria» bell’e fatta.


Teorie ce ne sono tante: quella della «relatività», della «gravitazione» cosiddetta «universale», quella alquanto oppugnata dell’«evoluzione della specie». Una «teoria», quantunque scientifica e quindi prodotto dei lombi del sapere più certo e del suo «metodo» di acquisizione è tale solo a condizione di essere «falsificabile», ovvero a patto che la si dimostri sbagliata. Dev’essere questa, tra parentesi, la ragione che solletica «creazionisti», «geoviti», «preti» e «papi» a contestare la nominata «teoria dell’evoluzione» e non è da escludere che sia stata elaborata proprio per loro grattacapo. Infine, un’ultima nota consente di rilevare che se la «teoria» è una specie di proiezione, come si diceva una sorta di «salto della quaglia» in avanti, della «scienza», c’è nondimeno un salterello all’indietro, dato che al di sotto della scienza ci sta la «dottrina». «Dottrina» chiamiamo una scienza che non è proprio scienza del tutto, è come un diacono che non ha celebrato tutti i «voti» del sacerdozio. L’aspetto notevole è che, malgrado gli sforzi, la «dottrina» non riesce giammai a salire sul podio della «scienza». E questo diciamo che è il lato negativo. Quello positivo è che se di scienze ve n’è una sola come il dio d’Israele (una sola per ogni disciplina ma, come nel dio trino, distinta eppur una) di dottrine ce ne possono essere quante piace, e nessuno se n’adonta. Anzi, ciascuno è libero di sposare la «dottrina» che meglio gli aggrada in modo che nei «convegni», nei «consessi» i fautori di ogni dottrina si affrontano e litigano e discutono e non è detto che da due contrapposte dottrine il genio umano non sappia generare una terza e una quarta dottrina che piglia il buono da tutte e cerca di trionfare sui contendenti, per quanto − come c’è da aspettarsi − anche la vincitrice sarà subitaneamente aggredita, impugnata e battuta in breccia. Un esempio a tutti noto di dottrine concerne le «verità religiose», che si chiamano infatti e non a caso «dottrine» e sono inconciliabili e litigiosissime per statuto. Un altro, meno clamoroso ma oggidì assai più pernicioso è quello delle «dottrine economiche» che concordano tutte su un solo principio davvero strambo, definito «la legge della domanda e dell’offerta» e che pongono a fondamento di se stesse e di quell’araba fenice nota col nome di «mercato». L’elemento critico che rende «dottrine» le dottrine economiche invece che «scienza» è il come governare «la domanda» e «l’offerta», ma da che mondo è mondo le soluzioni e le proposte sono mera culinaria che prima o poi finisce per bruciare e attossicare la pietanza. Cosa si può concludere da tutto ciò? Non molto, a parte la constatazione che è tutto molto, molto sconfortante e che, a conti fatti, era meglio assai non dare principio al contestato principio che viene illustrato in qualche maniera dalla contestata «teoria» dell’«evoluzione della specie».


Bimbi

Se ripensiamo alla nostra infanzia di ultra sessagenari abbiamo memoria di giochi, di affetti materni, di rigori e sgridate paterne ma, in sostanza di un mondo infantile ben staccato e «a parte» dal mondo «vero» dei «grandi». Agli adulti concernette il lavoro, il sudore, il mensile da posare sul tavolo alla moglie onde ottemperare alle bisogna alimentari e di vestiario, alle bollette di luce e gas (non già del telefono la cui invenzione impestava solo i ricchi, per buona pace dei non abbienti). Dopo è successo qualcosa che ha scombussolato le carte, le case, le famigliole. Adesso un bambino sotto i sei anni è da guardare con timore, mostriciattolo di vizi e prerogative, despota, se non assetato di sangue (virtù celebrata nei despoti) avido di denaro, di piacere, di godimento, di bramosa soddisfazione istintuale. Ma più atroce della sua epifania immonda è l’indecenza e l’impudicizia e lo scandalo dell’adulto che al bambino si rapporta. Non c’è «grande» che non provi irresistibile la voglia di rendersi accetto alla «creatura», di farlesi «interessante»: ecco che ne richiama l’attenzione con doni, con versi onomatopeici, appelli, quando non con comandi, comminazioni ridicolmente autorevoli, minacce se il piccino non l’ascolta, adusato com’è a essere riverito e coccolato. E ti domandi chi sia l’infante tra i due, e ti sovviene il monito del dantesco Convivio che t’avverte con ben settecento e due anni di anticipo a guardarti dagli «omini in guisa di pargoli»; e così non è stato. L’adulto di oggi è semanticamente infante − non fante, non ancor parlante (difatti emette grida e versi) − è il buffone alla corte del piccolo monarca: e come si sente «realizzato», com’è contento di questo servizio, di questo suo avvilimento servile. Ma perché? ti domandi. Perché «si sente» importante, perché la straordinaria conquista moderna della consapevolezza, la coscienza cioè della nostra personale inconsistenza, della nostra nullità, della vanità del reale e del cosmo umano dopo mille e mille anni di «storia» e «vanagloria», è troppo dura da reggere. Meglio l’auto-avvilimento nell’imbecillità del pagliaccio che, mentre beffeggia, pensa di saper fare anche il serio, di giocare due ruoli e di essere dunque superiore al beffato, piuttosto che assimilare l’umile constatazione del nulla, in attesa mite e cheta della fine. Che comunque non si fa aspettare.


Verso l’eterno

Dicono che Wolfgang Goethe nel momento di esalare abbia pronunciato le fatidiche parole «Più luce!»; Theodor Roosevelt le non meno pregnanti «Spegnete la luce»; e Karl Marx, per parte sua, sembra stigmatizzasse i pronunciatori in extremis con: «Le ultime parole famose vanno bene per gli idioti che non hanno detto abbastanza in vita», simpaticamente terra terra. Non è inverosimile che il padre del marxismo si sia così dichiarato unicamente perché qualcuno non gli dava tregua neanche sul letto funebre, altrimenti, a giudicare dal tono, se ne sarebbe stato volentieri zitto. Ma, in mancanza d’altro, il raccoglitore delle preziose istanze finali ha registrato il marxiano commiato dal mondo e dagli umani che possiamo interpretare senza arbitrio come un: Andate tutti a farvi benedire! Ciò conferma quanto sia bizzarra codesta esigenza, per uno che crepa, di dire parole importanti ai posteri e ai rimanenti. È come se non gli bastasse la «grandezza» goduta da vivo; come non volesse proprio passar la mano e dopo aver tanto detto, scritto e fatto, visto che a quel punto terminale gli resta forse appena un filin di voce, si sente in obbligo, verso la propria gloria più che verso i suoi simili, di elargire una memorabile sentenza, che dev’essere breve ma intensa, proprio perché ultima e inderogabile. La seconda cosa su cui viene da riflettere è: «Ma sarà poi vero?»; sarà andata così, come la raccontano? perché bisogna proprio essere dei gran bontemponi per sedere, carta penna e calamaio, al capezzale di un morente − grande fin che vogliamo − epperò non olente certo di rose e gelsomini; la sua barba gli nereggia il «nobile profilo» e il fiato, vecchio e malato qual è, sarà un’autentica chiavica, senza nominare per decenza il resto, biancheria madida della fatica del morire − non per niente lo si chiama «sudario» −, intimità corporali, specie in epoche non proprio attrezzate d’igiene infermieristico. Comunque lo scritturale è lì, cornacchia, falconiforme corvo ma torvo, le meste sopracciglia abbrunate prima ancor dell’evento, ma l’orecchio ritto perché l’insigne trapassante si fa fatica a udirlo e, dio non voglia, ti potrebbe scappare qualcosa di eternamente valido, di validamente eterno. L’altro dato a margine è che, da un pezzo ormai, non si ha rapporto né di grandi persone trapassate con parole grandi, né di grandi parole registrare a monito nostro, e nel complesso neanche di individui − quantunque celebri − capaci di proferirle; forse la morte è una seccatura talmente «grande» di suo che oggigiorno per sbrogliarla non c’è chiacchiera che tenga. Diverso


una volta, quando il tempo abbondava e non c’era televisione né telefonia cellulare o fissa ad alluvionar la lingua. E poi non è detto affatto che le ultime siano parole in verità così memorabili e degne di memoria. A Chaplin, per esempio è toccato vedersela con un prete, oltre che con lo scriba; ed è da presumere che lo spedisse diritto a quel paese se è cosa attendibile che il sant’uomo proferisse un: «Possa il Signore avere pietà della tua anima!» (ma in inglese quell’yours sappiamo tutti che vale altrettanto di un «vostra», alquanto più consono all’importanza cinematografica del morituro mentre, in definitiva, il prelato è restato un anonimo qualunque). Al che, impareggiato signore del comico che è nel tragico, l’interessato avrebbe rimandato: «Perché no? Dopo tutto, gli appartiene». L’addio della Gabrielle Bonheur Chanel, al secolo Coco Chanel, invece, pare rispondere abbastanza alla natura «stilistica» e cioè intrisa dell’aura un poco fatua, frivola e insieme ammaliatrice che è peculiare della «moda», della quale discetta il nostro Leopardi nella maestosa Operetta, non a caso dialogante con madama la morte. Sarà per questo che la signora sartora principe tra i sartori − certamente senza leopardiana rimembranza, perlomeno nel frangente che la faceva defunta − si rivolse alla cameriera (alfabetizzata e munita di fabbisogno calligrafico) con il mitico detto: «Vedi, così si muore», abbastanza enigmatico, nell’insieme e ambiguo nella sua qualità tra il rassegnato, il disperato e il banale. Se al sommo poeta teutonico dava fastidio il buio ma al presidente americano il chiaro, la richiesta di aprire le imposte e, rispettivamente, di chiuderle possiederà certamente quell’epigrafica pregnanza semantica che ce l’ha fatta trasmettere fino ad oggidì, anche se, per quanto la si ponderi, è ardua da conseguire. Serbiamo invece ricordo di un caso di encomiabile limpidità: quando si andava alle elementari, in quarta, leggevamo di Francesco Ferrucci e del suo indomito «Vile! tu uccidi un uomo morto», dichiarazione degna di rispetto su più versanti; anzitutto perché esente da pretesa di monito avvenire; secondariamente perché il «vile» di nome Maramaldo è coerentemente passato alla storia per essere l’eponimo di tutti i maramaldi; e in terza istanza perché il Ferrucci ne risalta giustamente arrabbiato, sia per il male cane delle ferite che per l’infierire gratuito del nemico vincente. È come se ci urlasse un «Lasciatemi in pace, almeno da morto!»


Brache

Poche condizioni umane paiono meno allettanti di quella icasticamente illustrata dal «farsi trovare con le brache calate». I calzoni allentati e affastellati sulle caviglie danno evidentemente luogo alla situazione di estremo impaccio, come avere i piedi impigliati, ed essere dunque predisposti a cascare come il classico «sacco di patate». Anzitutto è da rilevare l’osservazione che «le brache calate» non rimandano alla normale spogliazione serale, prima della cuccia, e neanche al cambio di vestiario per l’uscita serotina o l’andar dal dottore, dal leguleio, dal professore. Sono bensì la congiuntura del deteranesco denudamento totale, del coucher interlacciato alla defecazione. Il fatto che ti si colga nel mezzo della spinta non è quindi mero ingombro alla fuga, anzi auto-inceppo alla stessa e foriero di ripercussioni immani; è nel contempo la vergogna, perché la cacca la fai appartato ed è certo il momento più intimo, più privato, più sacrosantamente personale dello scorrere quotidiano. Questo il senso figurato della comminatoria, donde si ama proferire l’espressione con la guardinga anticipazione del negativo «non»: non farsi trovare ecc.; mentre l’essere stati colti, ovvero scevri dall’avverbio di negazione comporta la descrizione di un gran male venuto di conseguenza all’incauto defecatore, ancorché in senso figurato, sia esso protagonista o semplice narratore di sciagure altrui. Nel qual caso il referto di «quello che si è fatto trovare» in codesto stato deprecabile non sarà alieno da note di dileggio, più o meno benevole. Una seconda considerazione rimanda al genere per forza maschile dell’essere beccati con le brache sui piedi: nessuna femmina ha mai adoperato l’espressione in esame, neanche se trattasi di matrona occidua, civilizzata e portatrice di calzoni. Perché l’uso figurato del «farsi trovare con le brache calate» implica prima di tutto che si tratti di «brache» e non già di pantaloni, pantaloncini, calzoni o calzoncini; e le «brache» sono da che mondo è mondo contrassegno dell’uomo, della sua imponente virilità. Del resto se così non fosse il detto perderebbe quasi tutto della propria potenza immaginifica: una donna con o senza brache, o con le brache su ovvero sotto le ginocchia, femmina resta e frale e dunque soggetta alla soggezione del prepotente di turno. In secondo luogo l’immagine donnesca è delimitata dalle sottane, ragion per cui al massimo di lei potresti dire: «trovata con la sottana levata», ma in tale evenienza la sua fuga sarebbe sicuramente più celere di quella del maschio a brache calate, pur che la stessa si sia accortamente liberata dalle mutandine.



Un’ispezione gineco-logica

Il dipinto titola L’Origine du monde3, per la mano di Gustave Courbet (figura tra le più influenti dell’ottocentesca pittura gallica), del 1866, non necessita di spiegazione per come illustra magistrale la «sorca», termine che nel rimandare al vello del pube fa menzione immaginifica della femmina del ratto la quale compare impronta e si cela tosto tra sottane e mutande; pellicciotto che − l’onnipotente non voglia − abraso, leva molta dell’attrattiva e se intatto ammanta a velluto, dal monte venereo fin quasi al buco del culo le cœur du Monde. Con animalesca allegoria non dissimile chiamiamo «passera» detta Origine, con intonazione alquanto più gentile e allettante al delicato carezzare quel piumaggio, che ancor non è penna. Trascurando l’anamnesi vernacolare di «puchiacchia» d’etimo a noi oscuro e pur icastico nell’immaginifica slabbratura dell’organo abusato e flaccido; come anche di fregna d’intuitivo gocciolar godurioso, leggiamo essere la «mona la parte principale del bipede chiamato donna e la prima cosa che vede un uomo quando nasce». Detta «mona» rimarrebbe impressa nella sua mente virile per tutta la vita» diventando «per alcuni uno scopo di vita». Qui tuttavia si impongono urgenti due obiezioni; anzitutto il nascente la vede dal di dentro; e nessuno potrà sostenere che sia la stessa cosa che vista da fuori; per giunta guardata al buio, non deve ricevere che l’immagine d’un miserevole e modestissimo tubolare con in fondo la luce agognata della sala operatoria, cioè del «reale»; un «bucherello» in definitiva che (al nascente) gli strizza il capo, il collo mentre s’affanna per venire al mondo: incombenza che gli dà ben altro a cui pensare che alla fica.


Ma il rilievo capitale è che da lì sortiscono pure le donne, e qui la faccenda si fa incresciosa per il semplice motivo che, se mai è ipotizzabile l’imprintig per il maschio, da quell’imprinting la femmina dovrebbe a sua volta trarre una qualche lezione, cosa che non è, se si considera obiettivamente che solo pochissime in proporzione apprendono a slargar le gambe e a tenerle aperte a beneficio del signor cazzone. Le più tante al contrario le tengono ben serrate le cosce loro, a custodia di madonna «la mona». «Mona», per amor di precisione, ha illustri natali in Ellade: munì, mûnos, dall’antico bunè (monte di Venere); a quest’ultimo risponde la popolare «gnocca», sostantivo che non rende affatto giustizia al genitale femminile, delimitante oltre che limitantesi al gonfiore che lo sovrasta; lo prelude sì, come l’ouverture di un bel melodramma, ma ancor non è melodia né dramma. Una certa qual opulenza semantica presenta il campo ortofrutticolo: abbiamo qui la «prugna», nominazione abbastanza approssimativa che non discerne tra la susina, le cui valve realisticamente si spaccano a maturazione come la ferita delle «grandi labbra», e la prugna vera e propria che è tonda e rotondeggia e nessuna simiglianza ha con la «fessa». Bizzarria delle bizzarrie per chiudere l’ispezione in atto, è la più comune, universale e diffusa delle appellazioni: fica, o figa, in altre parole, grammaticalmente, la femmina del fico. Né quando è colto, né quando lo spelli partendo dal picciolo e slabbrando a scoperchiare la polpa, il frutto del fico ha qualche somiglianza con la vulva. E neanche il sapore. Resta da capire chi o quale fantasia menomata l’abbia figurata a ‘sto modo, l’Origine du Monde, anche perché − se vogliamo spaziare a tutto tondo − «la fica» trabocca di connotazioni meno ermetiche e sibilline nelle corrispettive allogene translations: tieni conto che la fica francese la si chiama elegantemente «con», che viene dal «cunnus» latino (it. «conno» cioè la vulva, da cui il voluttuoso «cunnulincto», che è il ghiotto leccargliela, cŭnnus lĭnctus participio passato di lingěre)4>. I britanni, per conto loro, volteggiano dal corrente «pussy» (a woman’s genitals) al più efficace «snatch»5 che vuol dire anche «presa», «stretta», e «scippo» (la quale accezione connessa al volg. fica (ita.) solletica dilettevoli associazioni, tipo «scippo dell’uccello», «riscossa delle passere», e crucciante spettro del «penis captivus»). Purtroppo i tedeschi usualmente così ricchi e immaginifici, si dà il caso, sono contestualmente meno eloquenti; si barcamenano alla peggio nell’ordinario die Feige 6 (soltanto «fica») e il davvero poco intrigante die Scham7 che è la «vergogna» tout court, e per estensione i genitali in genere, quindi − sempre il medesimo die Scham − le pudenda specificamente donnesche solo a tirarcelo dentro per i capelli; non c’è molto da fantasticare! Per il resto, l’idiomatica rimanenza indoeuropea, vogliamo dire, si chiede venia del nostro


sapere del tutto inadeguato, insufficiente e di conseguenza pure eroticamente sconfortante.


Pornolalie

Il discorrere che intercali riferimenti genitali qualifica nel senso comune la volgarità, grossolanità, cattiva creanza dell’individuo pronunciante termini quali «cazzata» e «figata». L’etimo di entrambi è di trasparenza assoluta con riferimento e rimando alla rispettiva genitalità virile e muliebre. Eppure c’è un abisso tra i due termini sotto il profilo del significato, vale a dire dell’intenzione di chi li pronuncia e, di conseguenza, c’è tra di essi una distanza polare e in mezzo ai loro estremi si può ben dire che c’è tutta la storia del mondo. Fare una cazzata, o imbattersi in una situazione (in un oggetto oggetto) che abbia consistenza di cazzata equivale a marchiare di somma asineria la condotta della persona o la sostanza della cosa. Invece diciamo figata quando si tratta di cosa mirabile, e da ammirare senza riserve; e così si dice di persona persona o azione che è «fico», parola che niente spartisce con la pianta omonima ma è bensì la traslazione maschile del femminino fiore della «fica». Ora, non può essere davvero casuale il fatto che la deprecazione venga pennellata sul sesso del maschio mentre l’ammirazione si spalma incondizionata su quello della donna. Evidentemente è rimasto un qualcosa nella coscienza della specie che fa rimpiangere i millenni dell’evoluzione civilizzatrice. Dopo tutto si dice che la fica è la matrice della vita e del mondo (almeno di quello umano). Se poi si pensa a che genere di paradiso dev’essere stata la società matriarcale (o meglio, matrilineare 8) almeno per come la raccontano, rispetto alla virulenza, alla prepotenza del mondo patriarcale dal quale è venuta questa bella ricreazione del progresso... beh non c’è da stupire che ci siano ficate e cazzate a costellare la nostra esistenza nella valle delle lacrime.


Orto, ovvero il diritto di quel che è storto

Nello specifico pronuncia stretta la «o», poiché non è di campicello ortolano e verzuriero che qui si discorre, bensì dell’«orto» che discende da ellenica sonorità e che vuol dire «diritto» come le proiezioni che per essere «orto-gonali», t’hanno dato rovello un poco alla scuola media. L’orto-diritto ha infatti importanza capitale e persino superiore all’orto-botanico e a quello ortolanico non solo in campo rottura delle ossa e loro «retto» aggiustamento, bensì sul terreno lucrevole della dentizione. Non è ancora tutto, perché se è vero che i «bei dentini» dei bimbi di oggi sono l’orgoglio di mammete, a dispetto dei sorrisi agghiaccianti ferro-muniti, dei consecutivi putenti aliti, puerili e adolescenziali di fanciulli e fanciulle che già sono − a codesta età delicata − poco propensi all’igiene non solo orale, c’è un altro contesto scientifico cui l’orto-logia dà ampio spazio di manovra, quantunque non vi si sia ancora applicata con tutta la solerzia che la discerne e le è peculiare: ed è l’orto-zampìa, ovverosia il celeberrimo raddrizzamento delle gambe di dietro dei cani. I tapini è pur noto quanto dai primordi della loro evoluzione siano segnati da codesto intoppo antiestetico, che sono le zampe storte, tant’è che si dice proprio «raddrizzare la gambe ai cani». L’ortozampìa si prefigge pertanto di conseguire il triplice profitto; primo: completamento dell’ancora mutila applicazione dell’orto (pronuncia stretto) a settori non trascurabili della cultura umana; secondo: conseguimento formale della bellezza delle zampe dei cani; terzo e ultimo: abrogazione del detto suddetto, che s’impiega a designare il poco profitto di imprese inutili (quali per l’appunto drizzare le zampe ai cani). Difatti l’ortozampìa responsabile della dirittura canide anche a-posteriori, costringerebbe la sorella linguistica e glottologica alla ricerca di una forma più aggiornata onde tacciare gli operatori di vacue azioni della spettante vacuità medesima. Non senza vantaggio per l’onore dei cani che, in fin dei conti, non hanno colpa della stortura delle loro zampe (sempre ammesso che dessa deformazione appaia tale a loro medesmi).


Né ragni né mosche

Il bon ton pretende che a tavola, o al cospetto gentile di una dama e in altre consimili situazioni «delicate» non nomini la cacca e le funzioni che la concernono, e non chiami i genitali coi comuni nomi (volg. per «volgare», del «volgo») di «cazzo», «coglioni», «fica», e neanche le consistentemente dilettevoli operazioni cui sono deputati da madre natura. Insomma vige, per la persona «educata» bene, una censura ben più rigorosa, inflessibile di quella dello Stato. Cosa bizzarra, tuttavia, la severità svanisce e lascia spazio alla celebrazione, nel caso di un lemma che possiamo senza esagerazione segnalare per essere il più sconcio, il più turpe e osceno dell’intero lessico. «Chiavare» e, peggio, «inculare», con i rispettivi participi passati attributivi o nominativi di «chiavata» e «inculata» (o «inculato») ti qualificherebbero in maniera inqualificabile se li pronunciassi in un contesto appena formalizzato, privato o pubblico che sia. Invece puoi recitare un milione di volte la parola «amore» senza che suoni offensiva delle sensibilità più raffinate. L’«amore» lo dichiarano nelle chiese, lo insinuano ai sensibili apparati emozionali dei bimbi, è addirittura sinonimo di «persona cara» e dunque «amata». Eppure basta appellarsi all’etimo, che è notoriamente eros, e rammentare gli apprendimenti scolastici per trovarsi diritti nell’infido acquitrino dell’«erotismo», cioè del sesso e della copula che per il Socrate del platonico Simposio sono l’essenza dell’«amore»; amore che è «mancanza» e reclama il completamento nell’unione delle carni eccetera, eccetera. L’amore erotico è per suo conto lubrico − almeno per come il mondo civilizzato l’ha barricato nei due ghetti: o la famiglia o il mercimonio. Così parrebbe, se la religione e la retorica in senso lato (letteratura, bellettristica, melodramma, musica e via discorrendo) non ne facessero la pastella nutrice delle teste bacate. «Ama il prossimo tuo»! «Dio è amore» 9, «amatevi per tutta la vita» «sei il mio amore». Ecco che «amore» si fa bàlia dalle infinite tettone dove il latte guasto scorre a impestare gl’impestatissimi umani. È così evidente che nessuno, anelante alla sconcia abbeverata, se n’avvede. Percepisce, è vero, quella «mancanza», quel senso di incompiutezza ed è convinto che l’accoppiamento vi dia tregua. Gli esseri umani sono asini in calore nel tepore maggiolino e mentre il somarello innocente dopo è sedato, la natura umana non si sazia giammai. Ha tanta sete d’«amore» che ammazza e trucida, scanna e soverchia, schiavizza e sottomette, tale e quale l’idea della divinità nella quale raffigura se stessa chiamandola «dio». Considera, per chiarire il concetto, la condotta dell’umano verso la bestia e le piante in luogo dei rapporti tra simili. In questo caso abbiamo già due categorie di «amore»; perché è ovvio


che il «pastore ama le sue pecorelle» e le pascola e le accudisce; però è innegabile che il suo amore ha sbocco mercantile e macellaio. Pure non è affezione ipocrita. Forse gli piange il cuore, non meno che alla massaia attaccata alle sue chiocce, ai coniglietti che accoppa col taglio della mano e gli spacca l’osso del collo tenuti per le lunghe orecchie e poi se li spenna e scuoia; se ne dispiace e dolora però, lo sappiamo tutti quanto la «gallina vecchia» faccia «buon brodo». Lo stesso possiamo sostenere per la verde lattuga, lo spinacio, il fragrante pomodoro e tutte le verzure che − fomentatrici vitaminiche − la scienza dell’igiene alimentare raccomanda. Prova a vedere se il bifolco non «ama» il suo orto, se non lo cova con occhio paterno e lo veglia e lo preserva da insetti e crittogame, e come si dispera e s’abbatte per la tempesta, pel gelo primaticcio che gli secca le «amate» foglie. Sì, certamente, l’amore edule è vero amore. Poi c’è quello non-mangereccio di «amore»: la passione pei fiorellini, la coltura del giardinetto di casa, delle «piante grasse» che poco beveraggio impongono. Sono così inermi che ci vuole autentico «amore» a tutelarne l’effimera esistenza! E lo stesso diremo delle bestie, le domestiche non-commestibili lenitrici dell’umana solitudine. Ebbene, osserva quanta cura veterinaria, culinaria e domiciliatoria c’è nel «padrone» o nella «padroncina» del cane o del gatto. Tanto per cominciare se lo fa castrare se è maschio onde non schizzi di sperma la cucina e la tappezzeria di poltrone e divani. Indi, se femmina, la «sterilizza» perché non porti in casa nidiate «ospiti» di bastardelli. Cosa comprensibile data la qualità totalizzante dell’amore: che è come il patrimonio d’un facoltoso pater familias; quanti più sono i pargoli, tanto più magra è la fetta che spetta a ciascheduno. Se «ami», lo fai in toto; non sono ammesse frazioni né mezze misure, né promiscuità, e come non ti è dato amare più femmine o più maschi in una volta, non ti si concede un eros che indori la cagna o la gatta e anche i bastardi suoi che genera se non castri e non secchi ovaie. A meno che non sia per disegno e nel nobile intento d’un accoppiamento certificato, e pertanto lucrevole e dunque logico, giusto e anche raccomandato dal gran rispetto che dobbiamo ai tallerucci belli. Però l’«ama» il suo animale il padrone o la padrona, e quando muore, come trapassa a cagione della media durata del suo terricolo transito − inferiore a quella umana − piange e dispera e forse non correrà a «comprare» altro chaperon a quattro gambe perché «non vuole patire così tanto» un’altra volta. Non lo sopporterebbe. L’amore per la bestia − pur che sgradita alla macellazione − è tanto grande e schietto che fa da canone all’emozione che gli umani chiamano con l’oscena parola e sconcia, scandalosa, indecente, impudica, laida, scurrile, volgare, triviale, turpe, immorale, pornografica, e invereconda, orribile, orrenda, e schifosa di «amore» vale a dire il dominio. Il «bravo» cane, il «mì picinin», la «mì stela d’ora» è quello che ubbidisce, che ti fa festa, che ti viene incontro e scodinzola, non ti morsica, è sempre contento, ti segue e t’invoca al passeggio cotidiano con


quegli occhi che «gli manca solo la parola». Ma se codesto impareggiabile «amicone» latra nottempo, abbaia alla luna, infastidisce il passante che fa denuncia al vigile e te sei nei guai per colpa sua: quello non è un «bravo cane» bensì un cane «così così», se non addirittura «cattivo», di «brutto carattere» che bisognerà «fargli la puntura» cioè «sopprimerlo», così nessuno ti secca più. Come il cane è il bimbo, è l’«amata» prole, ch’è un «amore» finché piccolina ti «ascolta», è «ubbidiente», magari − dio lo voglia − pure «servizievole», «accomodante», a scuola «studiosa» e «diligente». Ma guai se «discola», «negligente» e per grafia ha «zampe di gallina». Il bello dell’«amore», perché funzioni, è che appaia disinteressato e «amorevole» come te lo schiaffano le canzonette, e le grandiosamente indimenticabili romanze verdiane; in altri termini marcia finché ami uno che si fa amare, e che tu comandi. Invece se quello/a ti ama anche lui/lei e ti comanda perché ti «ama», tocca azionare i freni e questa lavica colata d’«amore», invece di scolarne, rifluisce e ti scassa le palle. Te le scassa il figliolo disubbidiente e ciuchino e lazzarone e magari «drogato» e «tossico» e la consorte stizzosa, brontolona, scontenta almeno quanto stizzoso, brontolone e scontento sei tu. Allora al posto dell’«amore» − chiamala pure «cenere dell’amore» − o ci metti l’avvocato e sancisci la «separazione» o ci devi piazzare qualcosa di meno ingombrante dell’«amore». Diciamo: il rispetto? Interroga la tua coscienza: Per quale mai ragione nessuno ama i ragni? Pazienza detestare le mosche (per tacer di zanzare). La mosca è «noiosa» per definizione e anche l’umano noioso per antonomasia lo è «come una mosca». Ma il ragnetto che la cattura e te ne libera, invece di «amarlo» gli disfai l’architettonica, ingegneresca e geometrica ragna: con la scusa che è antiestetica, che dà senso di sporco alla tua confortevole e linda magione. No, nessuno ama il ragno che è alacre cacciatore di mosche, e non gli vuol bene per la semplice ragione che non si fa comandare da nessuno, neanche dal capo del governo. Il ragno o lo lasci nel suo brodo silente o ne fai sterminio. Corrisponde senza dubbio a realtà il fatto che il ragno non è commestibile, quantomeno dalle nostre parti, e non lo puoi nemmeno menare a spasso col guinzaglio; è davvero poco socievole e per niente affettuoso, rintanato come se ne sta nei suoi cantoni a filare come la vecchina delle fiabe l’arcolaio misterioso e fatato (o come le Parche); ed è da escludere che tu lo possa castrare o sterilizzare acciocché non deponga uova e nidi di ragnini come il babbo solerti. Nondimeno non negheremo che un po’ di compagnia la fa, anche senza volerlo, epperò senza disturbare; neanche reclama dispendiose scatolette alimentari, o vaccinazioni veterinarie e se pure non ti consente di «scaricare» le spese rispettive sull’annuale «730» o «modello unico», diremo senz’altro che ha il suo lato utile; ciononostante non lo ami solo perché è riluttante alla sottomissione. Se però ti venisse incontro


sventolando le otto zampine, e fosse anche dotato di coda scodinzolante, e soprattutto dimostrasse sudditanza, un poco di affetto non glielo negheresti. Ecco perché all’«amore», se hai testa, devi subentrare il «rispetto». E meglio di tutto, l’«indifferenza», che è l’astinenza dal sentimento, il gelo della passione, dove entra il cervello a ragionare invece dei coglioni e delle tube di Falloppio. L’indifferenza non c’è in natura e la guadagni se adoperi la ragione: per cui sei solidale per scelta, non già per impulso. Ma, in fin dei conti, se «tutto il genere umano» fosse indifferente, sarebbe pure rispettoso. Senza amore, certamente, ma anche senza intenti al comandare, imporre, violare chi a sua volta non ubbidisce e non ne vuol sapere. Sarebbe un mondo di uomini non-felici, ma infinitamente meno indigesti e antipatici; sarebbero indifferenti e rispettosi dei simili e probabilmente − meno amorevoli con le bestie − non asservirebbero neanche quelle.


Qualche scusa al signor porco-suino

Adoperiamo la parola «porco» in almeno tre funzioni grammaticali, più una: nome del predicato, «sei un porco»; complemento oggetto, «non fare il porco»; sostantivo (sostenuto da attributo) «porco schifoso» e «vecchio porco»; in un solo caso comunque è data al «porco» la funzione attributiva: nel caso della suinità assegnata alle divinità, quasi per teologica consapevolezza – dentro la grammatica – d’un campo semantico di competenza esclusiva della celeste nominazione, e sovrumano. La sostantivazione suina dell’umano (declassato ad attributo) designa il vizio sessuale imputridito dall’età (senile) segnata pertanto dall’ostinazione del desiderio. La voglia di coniugazione sessuale, mentre sembra combinarsi armoniosa con la gioventù, qualora si accompagni alla decrepitezza dà luogo alla figura del «vecchio sporcaccione» poiché la qualificazione di «vecchio» implica castigatezza e astinenza erotica, nel qual caso può alle volte risultare simpatico e anche sopportabile; in altri termini la conditio sine qua non dell’indulgenza è che il vegliardo se ne stia a posto, a distanza di sicurezza da fanciulle e femmine passibili d’appetenza. Tutto ciò induce una questione di fondo: Cos’è il desiderio? e, in seconda istanza: Il desiderare è senilmente esecrabile anche nel caso in cui ponga da sé e a se medesimo i netti confini? si rinserri nel limitare dello sguardo e del pensiero? Il tedesco, cavilloso qual è, coniuga il «desiderio» a seconda dell’intensità della brama. C’è der Wunsch, che è desiderio puro e semplice, inespresso e intimo; e poi das Begehren, che equivale più o meno a das Verlangen, desiderio che ha implicita la richiesta di soddisfazione, e quindi già d’un grado più acuto, quantunque das Verlangen possieda nel contempo sfumature al ribasso (richiesta, domanda, e anche desiderio nel senso di der Wunsch) oltre che al rialzo: bramosia e brama (prossime a die Lust, vedi di seguito); e persino una nuance che chiameremmo patetica nel caso in cui sinonimizzi die Sehnsucht, la nostalgia, il rimpianto. Die Lust, infine, è voglia autentica, tanto febbrile e violenta da tracimare nel «piacere» e nel «godimento»; insomma è smania che impelle l’appagare. Ora, sappiamo bene quanto l’invecchiare sia già per conto proprio prodigo di rogne e fastidi d’ogni sorta; per giunta la natura fa la sua parte ottundendo Lust e Begehren e Verlangen ma col lascito d’una vena di Sehnsucht, di nostalgico memento di erotiche glorie del tempo che fu.


Sollevare il «vecchio» da comminazione maialesca è perciò doveroso, è segno d’ humana pietas specie nella malinconia del perduto amore, dell’inattingibile bellezza del corpo di donna, delle sue forme e curve e sinuose anfrattuosità, svelate, note eppure circonfuse ognora di misteriosa, segreta dolcezza.


Dell’amore

Karl Marx scrive da qualche parte che l’uomo è l’unico animale che fa l’amore vis-à-vis. Ai tempi di Marx gli studiosi di etologia non erano granché informati; l’osservazione appare oggi smentita almeno dai comportamenti di certi nostri cugini primati, capaci di ogni malizia erotica, compreso il faccia-a-faccia scopereccio. Ma è chiaro che non era questo che il pensatore intendeva significare; gli premeva probabilmente segnalarci che, anche nel contesto delle azioni più animalesche, noialtri – gli umani – ci sappiamo distinguere dalle bestie. E sotto questo aspetto aveva e ha sicuramente ragione sebbene, a pensarci un momento, non sia poi quell’osservazione di rilievo che vorrebbe: insomma c’era tanto bisogno di essere Marx per cogitarla quanto di fare il «Dux» perché i treni fossero in orario. L’animale, effettivamente, viene detto anche «bestia» in senso spregiativo, di modo che pur essendo «animali» tutti i viventi dotati di mobilità (noi inclusi) le bestie (umane o no) sono collocate al gradino infimo dai loro simili dotati di «una morale». Quanto all’evento riproduttivo, l’animale-maschio per accoppiarsi abbisogna di tre condizioni: due sufficienti e una necessaria. Se quest’ultima è la presenza della bestia dotata di apparato ricevente, che la versatile facoltà nominatoria degli umani chiama «la femmina», le prerogative sufficienti consistono nella disponibilità della femmina alla ricezione e in quella del branco come agnizione, ossia come riconoscimento che il soggetto voglioso di trasmissione genetica sia all’altezza della situazione. È solamente sul versante del branco che gli tocca fare i conti con i forti e i prepotenti e se, forte troppo poco, o non prepotente a bastanza, «va in bianco», e torna nel cantuccio con coda (e membro) tra le zampe di dietro. Ma, in linea di massima la femmina non fa storie: è lì per essere ingravidata e porgere il proprio impassibile contributo al lurco ghigno di madre-natura. Per il resto, libero da cure e assilli quali «il consenso» (addirittura del complesso familiare o parentale o sociale) l’animale non deve fare altro che attendere l’avvento dell’«estro», uno stato ferino e periodico nel quale viene a trovarsi – ma senza particolari atti di volontà – la femmina della sua specie. Succede tutto automaticamente perché, quando sussista lo stato di grazia, la femmina lo annuncia, lo fa sapere a tutti, usualmente spandendo i caratteristici appelli olfattivi che arrapano la voluttà degli esemplari di complemento al dettato di natura. E in tal caso essa lo accoglie alla copula. Ma allorché l’estro non sussista, neanche lo sfiora – il complemento mascolino – l’urgenza sessuale che è peculiare degli umani. L’urgere e


l’avvampare delle pudende e dintorni, unitamente alla scomparsa dell’estro nella femmina fa sì che tra gli umani la femmina sia «la donna», e questo avvenimento decisamente storico dell’evoluzione della specie è probabilmente responsabile di quella specifica postura rilevata dal Marx quale distintivo della monta umana rispetto alla belluina; quantunque la copula more pecorum non sia per nulla caduta in disuso e questo dimostra che gli umani sono versatili non solo nel forgiare nomi per gli altri e per le cose.

Il caso umano, tanto per cominciare, è diverso non solo perché i due, intenti e succubi all’identico compito di cui sopra, si guardano in faccia, di solito uno sopra e l’altro sotto, ma perché la «copula» non la chiamano quasi mai con il nome «tecnico» che s’addice all’intrusione dell’organo dell’uno dentro l’anfrattuosità dell’altra (maschio e/o femmina): semmai la definiscono «l’amore». Quando due individui – limitando qui l’analisi alla tipologia eterosessuale cioè a quella che la natura sembra certificare le sia prediletta all’ottemperanza misteriosa degli intenti riproduttivi – vengono colti in flagrante dall’«amore» accade quell’evento che nel regno animale gli umani definiscono appunto «la copula» o «accoppiamento» e di sé connotano preferibilmente con l’espressione «chiavare». Ora, l’atto elementare d’inchiavardare un uscio suggerisce l’immagine di un gesto rotatorio, a perfezionamento dell’introduzione della chiave nella toppa. Ma sbaglierebbe di grosso chi, inesperto d’amore, si figurasse la «chiavata» come un mulinare del cazzo. Nossignori! Forse perché con sagace inversione consonantica la «toppa», nel caso dell’amore, si chiama «potta» la «chiavata» invece di ruotare su di sé (dinamica tutt’altro che agevole da praticare) infilata la chiave, bizzarramente, la tira fuori, o meglio la ritrae come se la mano – a tastoni come si trova procedendo al buio – tentasse il buco a più riprese, e così la reinfila, e poi la leva e poi la mette per nettampoco di volte, fino a quando, forse spazientito, l’intrudente desiste. Uno che aprisse o fermasse una porta in questo modo sarebbe preso per sciocco. Farebbe prima a sfondare l’accesso con una spallata. Il fatto è – ed è un aspetto non meno curioso dell’intera questione – che il padrone della chiave non è affatto proprietario né della porta né, coerentemente, della toppa. Ed è anche per tale ragione che l’effrazione della stessa risulta illegittima e viene ascritta tra i reati «contro la persona»: un problema che le bestie, al livello molto basso che loro compete, ignorano, succubi come si trovano del capriccio, che proprio perciò gli umani chiamarono «l’estro», serbando a sé stessi la qualifica di «estrosi» e dotati di estro per incombenze dette «creative» (e non più pro-creative) e dunque ben più spirituali. Comunque sia lo stesso soggetto possessore di chiave, quando «chiava» trova naturalissimo l’andirivieni dalla cavità, anzi lo fa apposta, sebbene alla conclusione accada un fenomeno non


meno intrigante: la chiave di lì a non molto perde la propria metallica consistenza e dal momento che non serve al suo scopo – e che abbia chiavato o schiavato la toppa non cale –, viene riposta nell’apposito porta-chiavi (o mutanda) dove posava prima dell’estrazione. E in questo stadio del complicato procedimento dell’«amore» si verifica una congiuntura ulteriormente stuzzichevole per gli intelletti speculativi: infatti, quantunque la «mutanda» sia per antonomasia mutevole e destinata al cambiamento, e non dovrebbe allora sorprendere che la si cangi levandosela sovente, l’umano tocco da amore prova il più profondo sollazzo nell’atto di cavarla via all’altro umano compartecipe d’amorosi sensi, in modo da rendere palese ciò che il portachiavi custodisce e scopo per il quale è stato laggiù predisposto. Ed è questo pure attributo che ci discerne dalla bestia la quale, nella propria totalizzante assenza di moralità, non usa indossare mutande di sorta, sempre ammesso che ne conosca vagamente l’esistenza. Ma non è tutto, perché la toppa-potta invece di liberarsi dell’ingombro fin qui subito, alle volte s’ingolfa e s’intasa e s’ottura. È per questo motivo che l’azione «chiavatoria» viene anche denominata «riempire», da cui si dice di chi impregna una femmina (umana): «Ah, sì! quello là! il tizio (Caio ad esempio) che ha riempito la figlia del tale (Sempronio)». E ancora una volta la lingua umana viene a soccorso mostrando quanto il fenomeno, concisamente riferito, sia davvero degno di interesse, poiché «la donna» riempita si dice d’ora in avanti in «istato interessante». L’«amore» sin qui descritto sembra all’apparenza la cosa più semplice da capire, ma non è così. Per cominciare gli in-amorati sentono l’amore però, strano ma vero, non è col sentimento che combinano qualcosa di dilettevole: difatti si dice «fare l’amore» a sottolineare un’azione, un verbo che implica dell’attività. E solo nel caso in cui lo si faccia, l’amore, si chiava; finché lo si sente è detto «platonico», perché è statico e impalpabile, ed è questa una contraddizione in termini che neanche il principio del terzo-incluso ispiratore di questa piccola trattazione può sanare: se non si palpa e non ci si palpa l’amore non si fa e se anche si facesse non ci sarebbe gusto. Un altro problema che mostra il carattere tutt’altro che lineare e perciò disagevole dell’amore è il luogo comune che coloro che ne siano invasati «si vogliono bene» perché «si completano». Il concetto di completezza comporta la sussidiarietà, cioè un equilibrio tra quel che a uno manca, al quale l’altro può sopperire, e quel che è carente a quest’altro con rispettivo colmamento. Ma se si riflette un istante si vede bene che la teoria, una volta di più, è ben altra cosa della prassi. Per cominciare il possessore della chiave si limita a infilarla e se pure reclama una certa esclusività – sancita da ritualità sacramentali o civiche – all’introduzione e al maneggio, finito l’armeggiare non gli resta che la chiave in mano. Del tutto discordante è la situazione della toppa; la sua condizione di partenza è di ordine fisico: si tratta in definitiva di un semplice buco, per quanto sagomato, accogliente e confortevole; vale a dire che è con un vuoto che si ha a che fare, con qualcosa che non c’è e se c’è, è per virtù e in ragione di un


meccanismo che chiamiamo «serratura». Ma neanche la serratura sussiste senza maniglia, né la maniglia senza porta. Nessuno poi piazza un uscio in mezzo alla via senza avervi prima eretto una casa. Così da quel buco da niente insorge il concetto di «famiglia» il cui centro è un foro, indubbiamente importante ma esageratamente pretenzioso. Ma se poi gli studiosi del diritto attorno alla piccola vacuità in questione impalcano l’intera «struttura sociale di cui la famiglia è il fondamento» e vi fanno una cagnara a non finire, si comprende perché tanti nuclei familiari vadano a gambe all’aria; già il Cristo Gesù ammoniva di non edificare sulla sabbia, figurarsi su un buco pieno d’aria.

Il «chiavare» ad ogni modo è e rimane il vertice delle aspirazioni di un maschio umano. Non altrettanto si può sempre asserire delle femmine. Senza impelagarci qui in spinose e mai risolutive faccende di matematica statistica in merito a chi e quante siano coloro che lo diano e se siano di più o di meno di quelle che non lo danno, il buco della chiave, concentriamo piuttosto l’attenzione sull’«amore». L’«amore» comporta almeno una «chiavata», che è a buon diritto la bandierina sul Monte dell’amore, sebbene in merito all’evento in esame si possa dissertare copiosamente: interrogandosi su chi «chiavi» e chi venga «chiavato» non è dato per definizione che il primo sia da identificare con il maschio e il secondo con la femmina. È peculiarità originale dell’«amore» che, tirate le somme di una addizione amorosa abbastanza lunga, sia il maschio a proferire un conclusivo «che chiavata!» nel senso di averla presa invece che data. Comunque sia, all’inizio, quando il poeta canta il canto che «sboccia l’amore», i due comprimari «chiavano» e «alla grande», il che significa: con una certa non spiacevole frequenza e quasi sempre di gusto. E che vi sia parecchio gusto, o abbastanza, lo attestano taluni rituali di «moine» che precedono la copula nelle bestie (inferiori) e che chiamiamo «il corteggiamento»; una volta finita, ognun per sé e l’onnipotente per tutti. Al contrario gli umani – che sono risaputamente più intelligenti del più perspicace dei modelli bestiali – mettono a frutto le superiori capacità del cervello (ben «sviluppato») per corteggiare «dopo», o anche dopo, vale a dire prima di chiavare e dopo aver chiavato: segno, nel secondo caso, che la «chiavata» è andata a buon fine e che, anzi, sarebbe auspicabile reiterarla quanto prima. Ed è proprio questa istanza chiavatoria a far cortigiani gli umani.

Per altro, la tensione alla replica godereccia fa sì che l’amore non ottenga la propria identificazione soltanto nel moto dell’inchiavardamento della femmina detta «la donna», ma anche nella pratica domestica detta dello «scopare»: anche qui non senza una qualche confusione immaginifica, sia perché di solito è (o fu) la femmina a impugnare il manico (della


scopa) e a rassettare nel contempo che il maschio stava fuori casa: all’opposto in amore, dove il bastone non è niente affatto arnese donnesco e, quanto al ramazzare, solo un idiota scoperebbe la stanza tirando su e giù il manico invece di menarlo a destra e a manca: e non per il puro piacere di dondolarlo, bensì con l’attenzione alle setole e al loro raccolto, tutte cose che niente hanno a che spartire con il bastone in esame. Vero è che la conseguita parità (opportuna) tra la femmina e il maschio ha dovuto passare l’arnese scopatore dalle dita gentili di lei al pugno fermo di lui, ma ciò non giustificherebbe di per sé che si dica «scopata» colei che fu e resta a tutti gli effetti, «regina della magione», e «scopata» in luogo della dimora stessa. È davvero un gran passo avanti. Va aggiunto, come si osservava prima, che lo «scopare» in senso traslato invece di nettare finisce per lordare e la cognizione di quanto disordine arrechi il menaggio maldestro della scopa induce in parecchi maschi-umani, scopatori eppur non disattenti al rassetto, a calzare l’estremità della scopa di cappucci: la cautelosa tutela dal lordume difatti determina la denominazione del rivestimento quale «preservativo». Per chiudere questa minima divagazione lessicale si pone in evidenza come i termini «chiavare» e «scopare» siano di pertinenza semantica squisitamente umana. A nessuno – neanche a un balzano di testa – verrebbe in mente, spettatore e teste di monta equina, bovina, ovina, caprina, suina o meramente gallinacea o fulmineamente conigliesca, di definire l’atto chiavatorio altrimenti che col «montare»; viceversa la femmina umana più scatenata potrà pure lanciarsi nell’arrapante «scopami» e «chiavami»; non pronuncerà giammai «montami» proprio perché – probabilmente – tanto la chiave che la scopa sono invenzioni umane, quantunque il verbo «fottere», donde «fottimi» e l’ambiguo e plurisemico «fottuto» mercé le sinistre implicazioni e variegate applicazioni, sia denotazione perfettamente astratta e niente affatto strumentale: segno ulteriore, e definitivo se ve ne fosse necessità, della supremazia umana sul costume riproduttivo bestiale.

Ma restiamo in argomento «amore». Ometteremo per motivi di sintesi di occuparci della gamma infinita di complicazioni che l’amore porta seco e la cui pertinenza ha sbocco in molteplici istituzioni quali «matrimonio», «divorzio», la «separazione», il «diritto di famiglia», la «tutela dei minori», l’assegnazione delle proli ai separati, i «tribunali» e le «cause» e «gli avvocati di parte» e poi gli «assi ereditari» e gli uffici del registro e delle entrate: tutte entità dell’agglomerato umano organizzato che pur denotando e suggerendo l’ingresso, stranamente si risolvono nell’uscita, fisica o monetaria o affettiva. L’amore pertanto è «la chiavata» (altresì «scopata»): e il diletto è tale e tanto, che quando l’amore c’è – per definizione – «la gamba la tira il piè»; in parole povere da cotanta passione


(amorosa) deriva per forza il prodotto della «creatura». Essi – i responsabili delle genesi – naturalmente «l’amano», «l’adorano» con un attaccamento che si dice sia insito in natura; fatto sta che il troppo amore per sé e pel frutto dei lombi amati dona ai bravi chiavatori la sensazione celestiale di essere come il loro Signore Iddio. Difatti l’hanno «creata» loro la meravigliosa «creatura» perciò con qualche diritto si sentono divini, sebbene pure in questo ambito non senza divergenze tra la loro personale divinità e quella del dio-dio; perché mentre Lui, per mostrare il suo tanto e davvero smisurato amore agli umani è arrivato all’ammazzamento del proprio genito (figlio unico, tra l’altro e poi in maniera che più cruenta non si poteva), i genitori evidentemente non amano il generato dalla «chiavata» con identica energia – o non amano «il prossimo» come ordina il precetto evangelico – perché non lo mozzano del capo appena in culla; sono fin troppo rari gli esempi d’amore in questo senso; tra l’altro con la conseguenza inquietante del sovraffollamento del nostro pianetucolo.

Alla fine, anche senza volerlo, qui ci si imbatte nella circostanza luttuosa di cui sopra: chi chiava? Chi è il chiavato? Scontatamente il prodotto involontario (per non averla personalmente richiesta) della generazione. E per essere l’esito di una chiavata (quantunque gustosa, quantunque colante amore) il chiavato all’istante lo si introduce a pratiche incresciosissime che hanno lo scopo di tradurre la bestia che è in lui al supremo grado della Zivilisation, cioè di renderlo uguale a dio, cioè ai suoi due dèi (se ancora stanno insieme). Peraltro il chiavato non sa di esserlo fino all’età della ragione e, quasi sempre, mai ne acquisisce contezza. Percepisce come un senso di qualcosa che non va per il suo verso, ma fa parte della chiavata avuta assegnare quella sensazione molesta «all’andamento delle cose», «al peccato originale», «al demonio», al «capitalismo» con il presentimento parallelo e grandemente molcente che «un giorno cambierà», che vi sarà «ricompensa» terrena o eterna, o eternamente terrena, e anche «la rivoluzione» e la sua «giustizia». Per intanto seguita a percepire l’arsura della chiavata che si busca da tutti coloro che per disposizione incomprensibile del fato o dello «stato delle cose» – ma comunque superiore – possono chiavare gli altri, ovvero tutti coloro che non chiavano ma son tuttavia imperituramente chiavati. Ma certo, un dato sarà da tener presente: tutto quanto funziona per amore, ed è per amore che ti si chiava dalle fasce alla cassa da morto e se non sei un irriconoscente perso, lo ammetterai: l’amore è il motore del mondo e della vita. Ed è allora naturale che l’amore, essendo legge universa che regge le cose, in quanto legge sia «reciproco». La mutualità dell’«amore» fa sì che il participio passato «chiavato» – con valore passivo – si faccia attivo, di modo che il «chiavato» si muta in «chiavante» e «chiavando» trasforma in atto la sua attività, sebbene il participio presente, con la vigoria che gli è propria possa falsare anche di molto il bersaglio e il chiavante in tal caso lo è, ma in potenza e il


«chiavando» rientra nella tipologia della aspirazioni.

Ad ogni modo è precisamente la reciprocità a far sì che il chiavato giunga alle volte a chiavare a sua volta e a far di se stesso quel participio attivo (presente) che imprime una svolta al passivo e passato, e assapora dunque il nettare dell’infilzare la chiave nella potta ovvero di schiudere la stessa all’infilzamento: in questa stupenda alternanza di scambi umorali i due che son nati e chiavati perché altri han chiavato «per amore», per il tanto irrefrenabile amore, chiavano e si chiavano, finché dalla chiavata non disgorga l’astro cupido di un’altra inerme creatura sopra il globo: il novel «chiavato»; e amen!


E-scatologia

All’epoca adesso abbastanza remota delle nostre elementari, dopo «le palafitte» la cosa più importante da imparare furono le parole «cloaca massima» alla pari con i nominativi dei sette re di Roma. Né il «sussidiario», nel pudore di quei tempi, spiegava cosa fosse «cloaca» e «massima»; né, tanto meno, la nostra maestra la quale, per essere anche catechista, era perfettamente armonica con i tempi. Però l’efficacia della sua dottrina è attestata dal fatto che ne serbiamo memoria a distanza di sei decenni. Questa semantica rilevanza serbata alla cacca anche senza nominarla, conferma quanto la cultura merdosa sia contrassegno della civiltà del civilizzato Occidente. Infatti se i popoli indostani a tutt’oggi pare si scarichino liberamente per strada, sul ciglio, e nessuno ne stupisce, Giorgio Manganelli per contrasto marchia l’usanza europea di «depositare gli escrementi in tazze di ceramica», il che denota quantomeno il grande rispetto che si porta alla merda da queste parti. O non la tratteremmo con i guanti. È pur vero che i letterati di cui è prolifica la nostra terra solare lasciano traccia di epoche più oscure, segnate da incoltura scatologica; raccontano di vicoli e strade cittadini dove guardarsi dai pitali rovesciati sul passante al mattino; domestici e inquilini che spedivano il contenuto dei «vasi da notte» – solido o liquido – a scorrere cheto nello scolo centrale del selciato, all’uopo predisposto. Goethe stesso ne dà indiscussa e autorevole testimonianza nel suo illustre Viaggio in Italia. Malgrado la fase medievale, notoriamente convulsa di fermenti e dunque scusabilmente trascurata nell’igiene, la merda ha sempre occupato un posto di risalto nella nostra cultura: pensiamo all’interpretazione dei sogni, non la freudiana, bensì la popolare, la quale conferisce felicità e quattrini all’onirica visione delle proprie e altrui feci. Del ruolo determinante dello sterco in medicina è vano discorrere tale è la portata diagnostica della sua anamnesi, coltura batterica, indagine sostanziosa; e perciò è pure lecito tacere la sensazione impagabile di levità intestinale che segue ogni espulsione consistente e «regolare»; tant’è che tra i problemi cui presta conveniente attenzione la comunicazione mediatica vi è la stipsi – in ispecie muliebre – e la corrispettiva divulgazione dei rimedi all’intoppo budellare onde recuperare «la naturale regolarità».

In epoca contemporanea il valore sociale della merda è decretato dal contrassegno di rubinetteria in metallo prezioso – significativamente oro – nei bagni del vate Grabriele10 e, più


o meno nella scia di quel grande, nelle stanze defecatorie di maggiorenti, politicanti ricchi sfondati, insomma della classe superiore che certamente non può non esser tale quando caca. Anzi.

L’arte stessa d’altro canto non ha tralasciato – magari in modo un poco irriguardoso – di applicarsi alla cacca sicché tra i massimi esponenti, tra «dadaismo» e riflessione intellettuale sul rapporto artista-mercato-pubblico, luccica per rinomanza Piero Manzoni (non si sa se dal ceppo dei Promessi) suicida nel ‘63 del secolo andato dopo aver sigillato e saldato in barattoli numerati e forniti di etichetta firmata, un certo quantitativo del proprio fructus defecatus, oltre che titolati Merde d’Auteur. Egli riposa in pace e – caso raro – la sua merda, provocatoria, gli sopravvive sempiterna in qualche museo d’arte moderna; segno che nonostante la censura linguistica comminata dalle buone creanze alla fabbrica del culo, la centralità virtuosa della merda nel pensiero occidentale è fuori discussione: anche nel momento in cui si sforza d’inscatolarla tra parentesi e marchi lessicali quali «volg.» per «volgare» e «pop.» per «popolare» e anche «gerg.» abbreviante «gergo» o «gergale». «Volg.» parlando la lingua forgia tutto un lessico settorial-scatologico: diamo dello «stronzo» a chi si porti da individuo impertinente e sgarbato, o affatto indisponibile nei nostri o gli altrui riguardi. Epperò di «faccia» o, altresì «muso di merda» a chi non possiede nella propria villania irrispettosa la medesima solidità del bastone fecale in questione. Ma si taccia di «pezzo di merda», in conversazione, un terzo solitamente assente, a segnalare, all’improvvido, di stare in guardia, come si suole in presenza di fetore e vista escrementizi: tale il prototipo umano in discussione; mentre «sei una merda» vale per il consimile «stronzo», ma con intrinseca maggior cattiveria, o volontà di ferire. «Néger de mèrda» è locuzione del padano patois additante più la faziosità (in senso razziale) del parlante e la di lui insofferenza, che non la reale qualità fecale del destinatario. Il francese dà nome d’«emmerdeur» (merdatore, alla lettera) a chi «rompa le palle» (o rompiscatole) ma adopera la merda, altresì «merde» [s.f. (volg.)] a siglare «un tempo schifoso», un temps de merde; ce film, c’est de la merde, «questo film è una schifezza»; tu sais, tes amis, je leur dis merde, «dei tuoi amici non me ne importa un cavolo»; être dans la merde, essere nella merda fino al collo; foutre, semer la merde, «fare casino»; ne pas se prendre pour une merde, «credersi chissà chi»; avoir un œil qui dit merde à l’autre, «essere strabico», e poi (inter. [interiezione] (molto fam.) [molto familiare] «accidenti!»; ma per un esame «in bocca al lupo!»; e anche oui ou merde!, «o si o no!» impositivo alla delibera, e intimidatorio.

Tornando al «dolce idioma dove il sì suona», la «diarrea» la si nomina in relazione al profluvio di inutili discorsi in quanto «diarrea di parole», ovvero quale indisposizione accidentale – si


spera – di grave incomodo, specie in viaggio o nel corso di importanti attività, o a distanza insuperabile dalle summenzionate «ceramiche» di cui il bravo Manganelli; evenienza quest’ultima davvero imbarazzante che sbilancia un pochino la nostra superiore civilizzazione al cospetto della libera costumanza indostana. Prima di toccare un ultimo e fondamentale aspetto in tema scatologico, non è di marginale interesse rimarcare quanto la lingua sia strumento di chiarificazione della condizione umana: nel caso in esame impone l’ennesima aporia, laddove lo sviluppo o, meglio, la Zivilisation, come si è cercato di mostrare, da una parte colma una cosa – la cacca – di ogni attenzione e premura, mentre sull’altro versante obbliga il linguaggio, l’arnese della relazionalità interindividuale per eccellenza, alle acrobazie sinonimiche grazie alle quali la semplice merda diviene un baby-talk di «pupù», o un anonimo e distaccato «sterco» ed «escremento» e «guano»; o, infine lo scientifico e inappellabile «feci», alla lettera «impurità» e «feccia» dal latino faeex.

Constatata perciò la permeabilità del mondo – di quello civile – alla concettosità merdosa, incorre ora l’evenienza di sfiorare un ambito piuttosto delicato, quello della credenza religiosa e della santità. Non ci si avventurerà su un territorio troppo impervio a sondare se il figlio di Dio, fatto uomo e dunque uomo a tutti gli effetti, si scaricasse, e lo facesse con regolarità: quaranta giornate e nottate nel deserto senza toccare cibo né bevanda, devono comunque aver messo a dura prova le divine interiora e rispettive funzionalità. A quel tempo non si aveva nozione di bifidus e compagni né c’era d’altronde l’indispensabile mezzo televisivo a divulgarne l’esistenza e i benefici. Comunque se l’Unto andava di corpo, il prodotto deve, in maniera cogente, essere stato santo e dal momento che non risulta dai sacri testi che nessuno – neanche tra gli intimi e i fedelissimi – si sia mai dato da fare per raccoglierlo e conservarlo come il cauto e dissacrante Manzoni (Piero), è certamente da indicare come una perdita di valore incalcolabile. Per ovviare alla quale gli alti prelati di ogni religione pongono sollecita cura agli sfoghi rettali e mintori dei terricoli rappresentanti del buon padre celeste. Ancora non ne fanno mercato ma corre voce vi siano imponenti scrigni sotterranei – in basiliche e moschee d’ogni grande religione – a custodia della santa merda dei padri-santi. Riusciamo a vedere le suorine cristiane, e ortodosse, le monachelle di Allah e quant’altre (poiché si sa quanto la donna sia molto più destra del maschio nelle fisiologiche incombenze) raccattare dalle apposite tazze – presumibilmente d’oro e abbellite di pietre – gli stroncelli quotidiani consacrati e le venerabili urine; e nettàre i recipienti con panni di lino da riporre anch’essi, con la stessa mano di finezza che accudisce i calici della messa o il corrispettivo coranico. Quanta applicazione sia necessaria alle bisogna lo attestano gli imprevisti ricoveri


clinici di vari pontefici massimi: in codesti edifici la promiscuità con i comuni ammalati (o non ancora fatti santi) può anche comportare lo scambio delle «padelle» con quale disdoro e spavento non è difficile ipotizzare. Un poco di agitazione, un pizzico di confusione e accadrebbe il disastro – e senza rimedio! – della merdosa adorazione di una cacca profana. A parte ciò, avanzeremo – senza pretendere expertise in materia – la seguente tesi teologica. Del resto non vogliamo personalmente, né potremmo, rimanere in arretrato rispetto all’avanzamento del millennio; il quale tra le non poche né infime conquiste annovera la conformità religiosa; trasvolando sulle differenze esteriori dei riti, è diffusa la sensazione di un universale avanzante integralismo teologico «cattislamico», d’una religiosità moderna che nelle sue verità ultramondane combina il materialismo di cui vive l’umano con le profonde esigenze dello spirito all’eterna sopravvivenza della specie. Con ciò vengono a cadere una volta per tutte le ridicole diatribe dei negatori-di-dio. I filosofi di ogni tempo si sono impelagati nelle astruserie dimostrative dell’inesistenza dell’ente supremo unitamente, sull’opposto versante, agli isterici fautori della provabilità razionale del divino. Ora, anche un bambino se, radendosi ogni mattina, si accorge che il pelo invece di desistere dallo spuntare, insiste pervicace e più cocciuto e rinforzato e risorge – ma non dove ti occorre se sei pelato –, sa arguire che se l’uomo – e la donna sua compagna che battaglia in misura non minore col «pelo superfluo» – fosse opera di dio, questo dio sarebbe un deficiente bell’e buono ad aver fatto le cose così alla carlona! Di una divinità di tal fatta non si sa davvero che farsene, se neanche sa schivare alla creatura il fastidio cotidiano della barba e, all’inverso, pare dilettarsi alquanto ad acuirlo. Ciò non toglie che iddio, per mantenere codesta denominazione corrente, esista. È in noi. È, per così dire, noi. Perché questa umana considerazione della merda non può essere senza rimando dalle creature al creatore: «a sua immagine e somiglianza sta scritto», dunque il buon fattore di cacca è insieme prodotto, poiché ben sappiamo come «dal niente non vien niente», e quindi è di cacca il buon dio. Non è forse vero che il suo spirito santo fuoriesce impronto – ma con ristoro – dalle nostre budella enfiate? E non è vero che anche da morti, esalato l’ultimo fiato (dalla bocca) rilasciamo a oltranza un quanto della preziosa fecale divina entità che va via dalla defunta e oramai vana carcassa? e la monda l’infermiere guantato? Tanto lascito è l’eredità più vera, la memoria di noi al mondo e alle generazioni avvenire, una cucchiaiata e forse più di merda odorosa; ed è l’azione conclusiva dell’individua, grave e solenne esistenza, di ogni individua esistenza. Certo, taluni – non molti in verità – che la sorte privilegia, trapassan del «mal del miserere» sicché espurgano non solo dal «didietro» ma altresì dal davanti. Tanto son pieni di nostro signore che la cacca oltre che dal retto torna indietro al pertugio della primitiva introduzione, e ributtano merda su dal ventre alla bocca. I beati!


D’altro canto, ancora una volta è la lingua a soccorrere e a sgombrare il campo da fraintendimenti. Il ricorso ai greci antichi e sapienti ci dà contezza della notevolissima assonanza tra «scatologia», o trattazione scritta o parlata della merda come nell’esposto presente, ed «escatologia», disciplina che compendia – tra mito, religione, teologia – le pensazioni elaborate in merito al destino ultimo dell’uomo. L’etimo rispettivo, skatòs e éschatos, come non sfugge, è limitrofo; non differisce che per un «ch» e una compassionevole «k», discrasia che non solo s’elide alla pronuncia, ma che alla fine, nella grafia attuale, si uniforma, se non per la vocale in apertura, del tutto trascurabile, la quale non inficia punto l’identificazione della merda quale destino ultimo della specie.


Sulle Fate

Chi non ha inteso da piccinino, e non ha memoria da quei giorni, delle «fate»? enti benefattori opposti alle malefacenti «streghe» cattive. La scienza dell’etimo ci addottrina nondimeno con l’informativa che «la fata» non è affatto − linguisticamente discorrendo − l’essere possente comminatore di magici talismani; a tutti gli effetti non è altro che la moglie del «fato», colei che è «destinata» e alberga dentro la trama delle sorti intessute, evidentemente, dalle parche eterne. Dunque con accezione piuttosto passiva che attiva nella determinazione delle fortune umane. L’intuizione della coincidenza tra l’immagine della fata e il concetto di fatalità − posta la radice ingenuamente popolare della prima − fa capire quanto profonda sia l’ansia della propria sorte a ogni livello sociale; «fato», «destino», «sorte», lo scadere della «sua ora», la «fortuna», la «provvidenza», la «volontà di dio» sono cortine stese di volta in volta sul determinismo presunto degli eventi individuali, su quel solco dal quale non sarebbe dato lo scavalco. L’umana esistenza come rotaia, tronca in quel punto preciso fin dall’inizio della corsa. In verità sappiamo fin troppo che nulla c’è di fissato e che sono i nostri sguardi sbigottiti a disegnare un tracciato fatidico e pertanto irreparabile discernendo (in effetti con poco o nullo discernimento) una sequenza di accadimenti dentro il magma della tenebra casuale. E, in modo curioso, il procedimento ci dà pure l’illusione della luce, della comprensione e ci sentiamo sollevati dal macigno dell’inconoscibile. La nota dolente, se si vuole, è che alla tiritera puerile, alla feroce e ingenua scempiaggine delle religioni, del provvidenzialismo di una divinità amorevolmente spietata, fa eco il causalismo, massima espressione della razionalità: la scienza, il per causas scire, come afferma il saputo Aristotele («verum est per causas scire»). Sicché neanche nel ricorso alla ragione c’è scampo alla fatalità, realmente magica, della sequenza, della catena di cause ed effetti. Segno che dall’infanzia delle fate, dal mondo onirico della felicità possibile, non c’è via di uscita. Almeno per i più tanti.


Altre comminazioni scatologiche

Quando proferisci a chicchessia, ma in maniera indelicata «Va’ a cagare» e «Stronzo!» non violi candidamente il codice dell’etichetta relazionale, bensì, anzitutto quello della coerenza linguistica. In primo luogo l’appellativo di «stronzo», quantunque semanticamente di pertinenza del medesimo campo evacuatorio, cioè del «cagare», è una contraddizione in termini; uno «stronzo» se è vero «stronzo» non è attivo bensì passivo, e dunque può al massimo essere cacato, privo come si trova dell’indispensabile sfintere (o «buco» che dir si voglia). Risulta conseguentemente incompatibile con l’azione comminata, anche nel caso in cui l’intento sia la coniugazione dell’aroma fecale, della consistenza e della dimensione con l’indole maleolente del disgraziato. Secondariamente non si capisce davvero per quale motivo l’invito tassativo al defecare e liberare le budella assuma connotati emotivi di tale nefandezza da esprimere il disappunto, la decezione e l’ira del parlante. Se, putacaso, l’inviato al cesso per giunta fosse stitico, il gioco linguistico del «ma va’ a cagare» diverrebbe auspicio augurale, quanto e forse anche più delle formule natalizie e genetliache: a dispetto del maleducato l’espulsione dell’ingombro fecale − o perlomeno il suo patrocinio − inverte l’oltraggio nella manifestazione dell’affetto, della simpatia umana, e della solidarietà che si spalma sull’egro.


Hegeliana

L’espressione «idiot savant» segnala ai francesi un soggetto mentecatto eppure padrone di una settoriale abilità intellettiva: come per esempio un poveretto colpito da «autismo» eppur dotato d’una possente facoltà di calcolo numerico. Nondimeno sussiste l’uso invertito dove il «savant» precede «l’idiot». Se dunque l’idiot viene corretto dal savant che in qualche misura lo redime, ebbene il savant è ridimensionato cospicuamente dall’epiteto di idiot. Il «savant idiot» è persona semi-colta e anche erudita, i cui esemplari sono sempre più diffusi nel mondo contemporaneo anche per virtù della scuola gratuita e obbligatoria. Il certificato di «maturità» e la «laurea» conferiscono a chicchessia e al «savant idiot» nella fattispecie, l’autorevolezza di essere «savant» assieme alla non dichiarata benché implicita certificazione di «idiot». La differenza tra un «savant» normale e uno scemo patentato di sapienza è che quello autentico, proprio perché sa, è consapevole − com’è noto − dei limiti comunque angusti della propria «scientia» e del sapere umano in generale; in parole povere se è davvero «savant» non può che essere pervaso da incurabile «scetticismo» nei riguardi delle «verità». Viceversa il sapiente «idiot» è contentone di sé proprio per la mole (che appare impressionante) di ciò che orecchia; le sorgive a cui si abbevera sono le tele-trasmesse documentazioni «storiche», «scientifiche» e «culturali»; dalle quali apprende anche titoli di scritture contemporanee e in vetta alle vendite. Egli le acquista con una certa sollecitudine dal momento che da questi pozzi complementari attinge «verità» ad usum delphini, sicché la materia oltre che digeribile sia soffusa dell’autorevolezza «scientifica» del primato di vendita. Grazie all’autorità televisiva e mercantile il savant idiot sa di sapere e se ne compiace e si complimenta con se stesso. La differenza basilare tra «savant» e «savant» implementato d’idiozia è però un’altra. Mentre il «savant» tout-court non solo diffida della verità sedimentata, ma gioisce dolorosamente delle discrasie, delle disarmonie di ciò che chiamiamo «la realtà» e «il sapere» in quanto circostanze degne di riflessione, e faticosa ricerca, un «savant idiot» è fondamentalmente hegeliano senza aver letto l’Hegel: da hegeliano cerca l’armonia del creato dove ogni cosa ed evento ha un luogo, dove una causa dà luogo a un effetto. In quanto hegeliano inconscio, ancora, necessita di ordine, di logica, di spiegazione razionale, sicché il suo cuore infantile dorma sonni pacifici. Così tra le sciagure massime in cui può incorrere un «savant» senza attributo è l’errore ingenuo


ma non emendabile di discorrere con un «savant» dall’attestato di «idiot». Anzitutto nell’idiota è assente quell’esprit de finesse (la sensibilità) che Pascal accompagna sagace a l’esprit de géométrie (la ragione matematica); quest’ultimo esprit, signoreggia dentro l’idiot, ed è appunto ciò che lo rende sicuro di essere savant, ancor che inconsapevole d’essere idiot. Difatti l’ordine matematico egli lo considera l’apice della conoscenza. La conversazione ad ogni modo non può che terminare in una rissa qualora il savant non faccia, da «savant», marcia indietro e si chiuda con garbo nel silenzioso consenso che è dovuto all’«idiot» onde si cheti e sia di nuovo contento di sé; silenzio nel quale sarebbe stato meglio fosse rimasto.


Logos

In principio era il «logos» scrive l’apostolo Giovanni nel suo evangelo. Il verbo, la parola. E il logos sta alla radice della sapienza greca, delle antiche dottrine filosofiche, dell’ardua lezione platonica. Tanto radicato nella nostra mentalità che − a parte le matematiche, le quali d’altronde stanno in filo diretto e perpetuo con la «logica» − le scienze tengono il logos dentro il proprio nominativo: «bio-logia», «zoo-logia», «antropo-logia», «geo-logia», «traumato-logia» e anche l’ultima nata la «psico-logia» che di logos poco s’intende (e pertanto affascina in ispecie le femmine) pretenderebbe di avere a che fare con il logos. Dal che deduciamo che neanche il «logos» scampa a una prospettiva evolutiva: nasce come ente divino, poi come parola del supremo e finiamo per ritrovarlo in strada: nelle «isole ecologiche». Di primo acchito saresti indotto a pensare che «l’isola», conformemente all’ôikos dell’etimo sia la dimora, la casa, l’ambiente della logica. Nondimeno se logos può esservi costì, la sua applicazione si occupa del discernimento della «monnezza», la sua separazione onde farne le celeberrime «balle» anch’esse eco-logiche, dimora di ogni sorta di schifezza radunata diligentemente per insiemi venniani ma niente affatto dimora del logos, né tabernacolo di logos bensì spettacolo, espressione, manifestazione, ludo circense dell’umano dissipare, dello sperpero, della distruzione. Codesto percorrimento semantico: dal «logos» a quello che si manifesta realisticamente come «a-logos», è in qualche misura lo specchio del progresso, dell’umano cammino − stando al Darwin − dalla scimmia sorella al pretestuoso omo due volte sapiente (homo sapiens sapiens); a furia di correre in avanti si va a trovare col naso nel sedere del mondo: non sulle chiappe, ma proprio nello sfintere, dal quale, come non è ignoto, fuoriesce «quel che resta» del giorno.


Progresso

Etimo cristallino per chi non sia digiuno di rudimenti latini (prōgrĕdǐor, -gredĕris, -gressus sum, -grĕdi) ha per sema l’«andare avanti», «procedere», «andare oltre», bilanciato dal correlativo rĕgrĕdǐor, (-grĕdĕris, -gressus sum, -grĕdi) che è invece l’andare come i gamberi, incedendo alla rovescia, azione non del tutto disagevole quando innesti l’atta «retromarcia» del tuo macinino. Tuttavia, quantunque l’origine del lemma appaia limpida, sembra che il concetto non risponda con pari nitore. Decenni or sono, allorché il declino era solo al principio e la sua corsa aveva inebriante la fisionomia (ingannevole) di traguardo, il poeta Pasolini ci mise i puntini (benché sprovvisto di «i») sulle i del progresso e disse che si doveva − e lui lo faceva − discernere tra «sviluppo» e «progresso»; in quanto il secondo era auspicabile e il primo deprecabile alquanto; poiché «sviluppo» concerneva a suo avviso la materia, i beni, il consumo, la dissipazione e l’abbrutimento laddove «progresso» sarebbe avanzamento etico, ideologico (delle idee che migliorano l’omo). Il problema però, sebbene affrontato di petto, non si risolve, si aggrava bensì nella sua tragica evidenza: basta mettere occhio ai rimarchevoli e contemplati «progressi» (nel senso pasoliniano) di civiltà un dì grandiose − l’Atene di Pericle, la Roma augustea, l’Atene dell’ottocentesca Europa, che fu Berlino − per toccare con mano la dura realtà dello sviluppo «imperialistico», della rapina armata che ci stan dietro. In parole povere: non c’è affatto «progresso» di idee (Kultur) senza violenza e sangue di «sviluppo» (Zivilisation) di modo che il «progresso» altro non è che ganga, materiale di scarto, residuo non deliberato né programmatico di «sviluppo»; un veridico surplus che non per forza discende dalla Zivilisation summenzionata: come evinci senza perspicacia vagliando l’imponente «sviluppo» degli Unites States of America affatto o quasi avulsi da «progresso» nel senso di Kultur (almeno per l’idea classica che ne abbiamo noialtri). Sulla faccenda tutt’altro che scontata del pro-gredire, aveva già ragionato Robert Musil per bocca del Conte Leinsdorf11; come lo caratterizza l’A. «era conservatore». Il Conte Leinsdorf riteneva in effetti che «la borghesia aveva disdegnato lo spirito universale della Chiesa cattolica e adesso ne pativa le conseguenze». Giudicava «anche consigliabile elogiare le epoche del centralismo assoluto, quando il mondo


era ancora guidato secondo punti di vista unitari da persone consce di responsabilità». Ma mentre è immerso nei nobili sentimenti di valutazione di quella che per lui è Kultur (il valore dell’idea) gli viene in mente che «sarebbe stato davvero spiacevolmente sorpreso se una mattina si fosse dovuto destare senza bagno caldo né ferrovia e, in luogo dei giornali del mattino per le vie cavalcasse semplicemente un imperial banditore», che è come trovarsi col sedere per terra, defraudati di «sviluppo». Difatti Leinsdorf conclude, non senza logica: «Ciò che è stato un tempo, non sarà mai più di nuovo nello stesso modo» e Musil chiosa sagace: «mentre lo pensava, era assai meravigliato. Perché ammesso che nella storia non vi sia nessun regresso spontaneo, ebbene l’umanità assomiglia a un uomo che venga condotto avanti da un istinto migratorio inquietante, per il quale non sussiste ritorno alcuno e nessun arrivo, e quella era una condizione notevolissima». Per quanto la si giri, allora, non pare proprio esserci via d’uscita come certamente non c’è, poste le premesse circostanze. Sarà colpa dell’allitterazione che consona così armonici, come i soffi del flauto traverso sotto labbra esperite e dita ben avvezze, il fatto che il «pro-gresso» abbia alla fine tanta gemellare simiglianza con «re-gresso» da scambiare l’uno con l’altro?


Il dono della vita

Il sema di «dono» coniugato a «vita» è tra i consolidati capisaldi − né potrebbe altrimenti essere − della comunicazione umana. Nondimeno lo possiamo ragionare da due diverse, per quanto magari complementari, prospettive. L’una fisiologica, fisica, materica; l’altra spirituale, se si vuole, religiosa. Nel secondo caso la vita è ponderata quale munifico regalo della divinità. Donazione d’inestimabile preziosità che va salvaguardata − anche a costo del rogo, di carneficine, massacri, belligeranze, eccetera −. Nel primo caso è il dono elargito dai genitori, dalla «mamma» in ispecie. Tutte e due le volte è lecito guardare la «cosa» da quest’altra angolatura. Il dono materno non è che una «chiavata». Il maschio (forse il padre) entra con forza e vigore nella vagina della donna; va e viene una decina di volte sforzandosi − pel godimento supremo − di arrivare spingendo fino in fondo, fino al mischiare i tricomi. Quando finalmente viene, si stacca e riposa da tanta fatica. La femmina ingravidata, nolente o volente, porta a sua vece a conclusione la fattura: ecco bell’e confezionato il «dono della vita». Cosa ti venga regalato non lo sai. Non lo puoi immaginare. Solo nel corso dei tanti anni avrai contezza della minchiata che t’hanno appioppato per «donare» i due bellimbusti, a sé, una manciata d’istanti di gaudio carnale, o quantomeno di sfogo all’impellenza dei coglioni. Sebbene il coglionato resti tu, il donato. Siamo tutti usciti dalla punta del cazzo, in transito dal canale di scolo del piscio a quello non meno lurido della fica. Cosa c’è di elevato e nobile nella riproduzione? Nella vita umana? Quanto al divino dispensare sarà almeno concessa sic et simpliciter la considerazione: E chi t’ha mai chiesto niente!


Sul dono della morte

In un’apprezzabile versione filmica dell’Iliade, dalle labbra del Pelide, fuoriescono le seguenti parole degne di menzione: «Gli Dei ci invidiano perché siamo mortali»: espressione più che mai insigne in ogni tempo e per ogni mortale che abbia coscienza di esserlo. Quando si dice «aver coscienza» (della propria estinzione) non si dichiara nulla di ovvio dal momento che l’Occidente si prodiga dalle sue origini di «civiltà» all’occultamento, quando non alla cancellazione dell’idea stessa della morte. Indubbiamente si tratta di un’illusione ridicola, lo sappiamo tutti. Ma le cose stanno così. Medita un poco sul gioco linguistico seguente: «È morto (è morta) di crepacuore». Il crepacuore è di pertinenza del secolo diciannovesimo, tutt’al più dei primi decenni del ventesimo e d’uso delle classi popolari. L’immagine del muscolo cardiaco che si spezza per immane dolore spirituale possiede intrinseca dignità; è il ferale decoro di una madre o sposa, di un genitore o consorte feriti con tanta crudezza negli affetti che il motore stesso dell’esistenza va in frantumi. E confronta questa desueta figura del linguaggio emotivo con la cognizione obnubilata del terzo millennio, dove l’offuscamento dei sensi, e cioè della sensibilità verso il dolore umano, si paluda di scienza e medicina: oggi non muori di crepacuore bensì di colesterolo e, con coerenza medico-scientifica, di infarto. Il che ci permette di arguire la banale conclusione che tutto il progresso del mondo, a conti fatti, ci consegna alle mani prezzolate della badante, che ci netta da pipì e pupù, ci porta a prendere aria, ci espone sul balcone se l’abbiamo, e poi ci ritira quando è ora della pappa e ci imbocca se è il caso. Ma in ogni caso il punto fermo è e resta: liberare il mondo dalla nostra presenza; la qual cosa in verità avveniva senza dispendio, senza rumore, e senza fastidi per nessuno al tempo che l’orrore badante non conobbe: perché c’era il «crepacuore» a liquidare chi la vita segna come superfluo. Ed è questo dono estremo, dono ai mortali che la civiltà del progressi ci ha finalmente sottratto, carpito.


Note 1 e cioè, ha «deposto» il pelo, ma non il vizio, dell’attività di cui serba il nocciolo semantico sotto il vello passivo dell’agnellino.

2 in italiano «escort».

3 Qui, in particolare.

4 è di qualche interesse la considerazione di come con sia nel contempo sinonimo e di coglione, stronzo, fesso e di cretino e fesso; e perfino di «cazzo!» (esclamativo: c’est con! j’ai oublié l’adresse, oh cazzo! ho scordato l’indirizzo). Sarà che i francesi assemblano gli attributi in una regione, e dunque si servono di un pratico criterio topologico, più generale di quello meramente grammaticale, e cioè di genere?

5 pronuncia snèc (con la ci molle).

6 pronuncia di faighe.

7 pronuncia di sciam.

8 Cfr. Come le capre, dello stesso autore.

9 Cfr anche Esegesi dell’infinito amore, di seguito, III Parte.


10 il D’Annunzio, al secolo Rapagnetta.

11 L’uomo senza qualità, Parte seconda, 57. Importante sviluppo. Diotima compie esperienze singolari con l’essenza di idee importanti. Trad. di-emilio 2007.


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