CONFINI: RACCOLTA ARTICOLI 2016

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Il magazine degli Uomini liberi

LINO LAVORGNA Raccolta Articoli 2016 www.confini.info


GENNAIO


RUBRICA “EUROPA” - LINO LAVORGNA TURCHIA ED EUROPA: L’ETERNO NODO DI GORDIO La leggenda è nota. Nell’antica Anatolia il popolo dei Frigi costruì una nuova città, gettando le basi per un proprio stato, politicamente strutturato. L'oracolo di Telmesso (l’attuale Fethiye), predisse che il primo uomo che vi fosse entrato su un carro trainato dai buoi sarebbe diventato re. La bella sorte toccò a un contadino di nome Gordio. La cittadina, che corrisponde all'attuale Yassihüyük, prese il suo nome. Il figlio adottivo di Gordio, Mida (proprio quello che trasformava tutto in oro), divenuto re a sua volta, legò il carro a un palo con una corda annodata in modo così complesso da renderne impossibile lo scioglimento, sancendo con una profezia “l’indissolubilità del potere Frigio”: solo chi fosse stato in grado di sciogliere il nodo avrebbe dominato l’intera Asia Minore. Per oltre quattro secoli il carro restò ben attaccato al palo. Nel 333 A.C., Alessandro Magno, dopo un rapido e infruttuoso tentativo, recise il nodo con la spada e iniziò il suo cammino di conquistatore. L’episodio, che mischia storia e leggenda, è il fulcro di un vecchio testo scritto a due mani da Ernst Jünger e Carl Schmitt: “Il nodo di Gordio”. Varrebbe la pena leggerlo (ma è introvabile in italiano) per meglio comprendere ciò che oggi ci spaventa. Il destino dell’Oriente e dell’Occidente è indissolubilmente legato a quella profezia. Chiunque tentasse di “amalgamare” le due anime del mondo, dovrebbe fare i conti proprio con la scure che recise il nodo con la forza, rivelando una verità incontrovertibile: mai Oriente e Occidente sono riusciti a prevalere l’uno sull’altro. Ogni tentativo, in passato, dall’una e dall’altra parte, ha solo creato disfacimenti immani sui fronti esterni e su quelli interni. L’inciso “in passato” non è stato utilizzato a caso: la storia si ripete, ma a volte cambia. Ritorneremo a parlare del confronto tra “Oriente e Occidente”, riservando quest’articolo esclusivamente al ruolo della Turchia nello scenario europeo, alla luce della sua volontà di “entrare nell’Unione” e tenendo conto, quindi, dell’intricata matassa di cui oggi si discute quotidianamente. La Turchia è un problema per l’Europa; diciamolo a chiare lettere e senza tanti giri di parole. Preziosa (ma ora non si sa fino a che punto) alleata militare nello scacchiere NATO; in rotta di collisione con la Russia (che dell’Occidente è primario alleato nella lotta all’Isis), pur continuando a intrattenere con essa imponenti relazioni commerciali; minata al suo interno da conflitti insanabili; popolata da una maggioranza di musulmani (il 99%), che fanno storcere il muso agli Europei più saldamente legati alle radici cristiane e fanno venire il mal di testa agli analisti meno coinvolti emotivamente, i quali hanno il difficile compito di elaborare complesse indagini sociologiche: quanti sono, tra gli oltre settanta milioni di musulmani, coloro che godono nel vedere i fondamentalisti colpire uomini e simboli della Civiltà Occidentale? Oggi i “nodi di Gordio” da sciogliere si sono amplificati a dismisura. Che la Turchia abbia mire egemoniche ed espansionistiche non è un mistero; tra l’altro è un vizio antico. Il primo Ministro Ahmet Davutoğlu l’ha spiegato chiaramente già nel 2001, nel suo poderoso volume di circa 700 pagine, “Profondità Strategiche”, purtroppo mai tradotto in italiano, ma disponibile in Inglese. La Turchia deve diventare un attore decisivo in


RUBRICA “EUROPA” - LINO LAVORGNA Medio Oriente, smarcandosi dall’ombra statunitense, necessaria un tempo per proteggersi dalla minaccia sovietica. La vocazione espansionistica prevede otto aree d’influenza: Balcani, Mar Nero, Caucaso, Caspio, Asia Centrale, Golfo Persico, Medio Oriente e Mediterraneo. Porte aperte ai cittadini degli ex territori imperiali, con un invito che più chiaro ed emblematico non può essere: “Per tutti i musulmani balcanici, la Turchia è un porto sicuro. L’Anatolia vi appartiene, fratelli e sorelle di Bosnia. E state certi che Sarajevo è nostra”. Se a questo aggiungiamo le forti relazioni con il principale partner commerciale, la Germania; i rapporti con i nemici storici, Russia e Iran, in nome degli interessi comuni (pecunia non olet, come ben dimostrano le diatribe sul petrolio venduto dall’ISIS) e la manifesta volontà di cavalcare due scenari – “La Turchia può essere europea in Europa e orientale all’Est, perché siamo entrambe le cose” – abbiamo, allo stesso tempo, un quadro “chiaro e scuro” sul paese che chiede di entrare in Europa. Un bel casino, aggravato da altri aspetti che per noi occidentali rasentano la barbarie, fugando ogni dubbio sul possibile processo d’integrazione. Nel 2015 si è celebrato il centesimo anniversario del “Genocidio Armeno”: oltre 1.500.000 persone trucidate dai “Giovani Turchi”, sempre afflitti dal sogno della “Grande Turchia”. Il mondo intero ancora aspetta il riconoscimento del genocidio, di cui in patria è vietato parlare, pena la galera. Le vessazioni subite dai Curdi sono sotto gli occhi di tutti, ma la storia di quel popolo è antica e terribile, ancorché complessa e poco nota ai distratti occidentali. Il rispetto dei diritti civili e la libertà di stampa sono fortemente compromessi. La donna vive ancora in uno stato di profonda sottomissione. Hanno fatto il giro del mondo le “gaffe” del vice premier Bülent Arinç, per il quale le donne non devono ridere in pubblico, allo scopo di difendere “i valori morali di decenza e castità” e possono essere tacitate con un caustico: “Stai zitta tu, che sei donna!”. Nell’agosto del 2014, una signora che aveva osato indossare i pantaloni e sedere in auto accanto a un uomo, è stata definita dai magistrati “una provocatrice” e pertanto le coltellate ricevute dall’ex marito sono state giudicate con le attenuanti, determinando uno sconto di pena di ben NOVE ANNI, rispetto a quanto chiesto dalla Procura. Lo stesso premier ha più volte sostenuto che “le donne non dovrebbero lavorare, ma stare a casa a generare almeno tre figli". Si potrebbe continuare all'infinito, ma il concetto è chiaro. Esistono tante brave persone in Turchia, che pagheranno un prezzo alto per una maggioranza che vive in netto ritardo con la storia. Ma fin quando gli oppositori di un sistema marcio e ben radicato, non riusciranno a "levarsi (in armi o con altri mezzi possono deciderlo solo loro) in un mare di triboli per, combattendo, disperderli", le porte della Grande Madre Europa dovranno restare ben chiuse.


SPECIALE VENTI DI GUERRA – LINO LAVORGNA

VENTI DI GUERRA: VERITA’ NASCOSTE E PAURE PALESI USA, 2003 – L’ex Ambasciatore Joseph C. Wilson parla in un’aula universitaria affollata. “Chi di voi conosce le sedici parole del discorso del Presidente Bush che ci hanno portato in guerra?” Nessuno risponde. “Chi di voi sa come si chiama mia moglie?” Tutti in coro: “Valerie Plame!” “Allora, come fate a sapere questo e non quello? Quand’è che la domanda è cambiata da “perché stiamo entrando in guerra?” a “chi è la moglie di quest’uomo?” Io ho posto la prima domanda, ma qualcun altro ha posto la seconda. E ha funzionato. Perché nessuno di noi conosce la verità. L’attacco che è stato sferrato, non è stato sferrato contro di me, non è stato sferrato contro mia moglie. E’ stato sferrato contro di voi. Tutti voi. Se questo vi fa arrabbiare e non vi fa sentire rappresentati come vorreste, fate qualcosa, ragazzi. Quando Benjamin Franklin uscì da Indipendent Source subito dopo la seconda stesura della costituzione, in strada fu avvicinato da una donna, che gli chiese: “Signor Franklin, che sorta di Governo ci avete lasciato in eredità?” E Franklin disse: “Una Repubblica, Signora, se saprete mantenerla”. La responsabilità di un paese non è nelle mani di pochi privilegiati. Noi siamo forti e siamo liberi dalla tirannia e lo saremo finché ognuno di noi avrà sempre in mente qual è il suo dovere di cittadino. Che sia per chiedere conto della buca in fondo a una strada o DELLE BUGIE IN UN DISCORSO SULLO STATO DELL’UNIONE, FATEVI SENTIRE! FATELE QUELLE DOMANDE! PRETENDETE LA VERITÀ! Nessuno vi regalerà mai la Democrazia, statene certi. Ma questa è la nostra Democrazia! E se facciamo il nostro dovere, sarà la Democrazia in cui i nostri figli vivranno”. Joseph Wilson era ambasciatore in Niger, nel 2002, e scoprì che il rapporto sulla presunta vendita dell’uranio all’Irak, redatto con la complicità dei servizi segreti italiani, era falso: Saddam Hussein non aveva alcuna possibilità di costruire una bomba atomica. Le sedici parole bugiarde di George Bush, con le quali si decise di attaccare l’Iraq, furono le seguenti: “The British government has learned that Saddam Hussein recently sought significant quantities of uranium from Africa”. Valerie Plame, moglie di Wilson, è l’ex agente della CIA incaricata di condurre indagini segrete sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa. I due coniugi decisero di contrastare la manipolazione delle informazioni, orchestrata da Bush per giustificare l'intervento militare. Nel luglio del 2003, pochi mesi dopo l'inizio della guerra, l’ex ambasciatore pubblicò un articolo sul New York Times, scoprendo il bluff. Per vendetta Bush fece rivelare l’identità sotto copertura della moglie, che fu costretta a lasciare la CIA. Tutto ciò che sta accadendo oggi è la risultante di quei fatti. Un imbecille alla Casa Bianca e tanti complici pronti ad assecondarlo, con fini puramente economici, cinicamente tutelati sulla pelle di tantissime persone: oltre tredicimila


SPECIALE VENTI DI GUERRA – LINO LAVORGNA

i morti della coalizione internazionale; oltre venticinquemila i morti dell’esercito di Saddam; 1.220.000 i civili morti. A tali cifre vanno aggiunte le decine di migliaia di morti registratesi dagli albori della “primavera araba”, nel 2011, ai giorni nostri. E’ praticamente impossibile, in questo articolo, esporre i fatti in modo esaustivo, perché non si può prescindere dai molti “antefatti”, che hanno origine con le controversie tra Sciiti e Sunniti e si dipanano attraverso quattordici secoli di complessa Storia, resa ancor più intricata dalle massicce ingerenze occidentali, iniziate con il colonialismo e amplificatesi a dismisura negli ultimi decenni. Conto di scrivere un saggio su queste vicende nel corso del prossimo anno. Qui, sinteticamente, si possono solo esporre alcuni concetti chiave, per inquadrare il problema in un’ottica “realistica”, partendo da dati inoppugnabili, come quelli sopra esposti. Saddam, come sappiamo, fu deposto nel 2003. Nel mese di maggio, Lewis Paul Bremer, l’uomo che governava l’Iraq in nome e per conto di George Bush, emise due decreti: messa al bando del partito Baath (quello di Saddam) e smantellamento dell’esercito. Oltre quattrocentomila militari si trovarono esclusi da ogni ruolo e privati anche del trattamento pensionistico. Il risentimento fu forte e costoro iniziarono a organizzarsi in gruppi paramilitari, ostili agli USA, ai loro alleati e al governo Scita imposto dall’Occidente. Ecco i primi germi del futuro Stato Islamico, che dopo alcuni incisivi “prodromi”, qui omessi per amor di sintesi, vedrà la luce ufficialmente il 29 giugno del 2014, con la proclamazione di Abū Bakr al-Baghdādī a Califfo dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante. Il dibattito di queste settimane s’incentra sulla “paura” degli attentati terroristici, possibili ovunque, e sulle strategie da attuare per rendere “inoffensivo” l’ISIS. Improvvisati strateghi, soprattutto italiani, esaltati dalla ribalta televisiva, parlano di offensiva terrestre da effettuare con un esercito di almeno centomila uomini. In realtà, militarmente parlando, un’offensiva strutturata in modo serio non potrebbe prevedere meno di duecentomila uomini, con oneri economici, al netto di armi, munizioni, vettovagliamento e altre necessità logistiche, di circa 60milioni di euro al giorno. L’Europa, DIVISA, non è in grado di organizzare un esercito d’invasione. Chi lo guiderebbe, come sarebbero strutturate le Divisioni, le gerarchie? Passerebbero mesi, se non anni, solo per la quadra di questi problemi, con scarse speranze di raggiungerla. Gli unici in grado di attaccare via terra, quindi, come sempre, sono gli USA, che però non ne vogliono sapere. Obama non vuole chiudere la sua presidenza scatenando una guerra dai risvolti imprevedibili e Hilary Clinton, che gli succederà e già parla da Presidente, (sa bene che dopo aver toccato il fondo con Bush, gli Stati Uniti non possono permettersi il lusso di mandare alla Casa Bianca un babbeo come Trump), ha già detto che all’invasione non vi pensa proprio. Sarebbe tutto diverso, ovviamente, se esistessero gli STATI UNITI D’EUROPA, confederati sotto un’unica bandiera, con un unico esercito, un Governo Federale e un solo Parlamento. Ma la Storia, si sa, non si fa con i “se”. Cosa accadrà, quindi? Ne parliamo nei prossimi mesi.


FEBBRAIO


LINO LAVORGNA SCHENGEN: IL DITO E LA LUNA Il proverbio lo conosciamo tutti: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Voglio iniziare quest’articolo con un concetto forte per far percepire soprattutto lo stato confusionale che, attualmente, vige intorno al trattato per la libera circolazione delle persone in ventisei paesi Europei. “Absit iniuria verbis”, ovviamente, nei confronti dei vari soggetti, non solo politici, e il termine stolto s’intenda come “provocazione”, come violento schiaffo proteso a “scardinare” il torpore mentale che, nei momenti drammatici, come la storia insegna, condiziona le scelte dei potenti di turno. Abito in una zona che ha un pessimo servizio di erogazione di energia elettrica e ADSL, a causa delle centrali zonali e dei cavi obsoleti che né l’Enel né la Telecom si decidono a sostituire. Se collocassimo delle costose pale eoliche nei nostri giardini, associate a costosi generatori elettrici; se per il collegamento a Intenet usassimo i router Wi-Fi dei nostri smartphone a costi insostenibili (che però all’interno delle abitazioni perdono l’80% della potenza) o costosi impianti satellitari, il problema, “forse”, si risolverebbe. E ancor meglio si risolverebbe se tornassimo all’antico: candele nelle case; lettere con francobolli al posto delle Email, tante ore in biblioteca per le ricerche. E pazienza per tutto il resto che offre Internet. Roba da ridere, vero? Beh, per Schengen è quasi la stessa cosa: invece di affrontare il problema “lì dove deve essere risolto”, si cerca di aggirarlo con soluzioni pasticciate, incuranti della sua crescita esponenziale. I FATTI All’interno dell’Area Schengen ci si può muovere liberamente, anche se si proviene da un paese che non ne faccia parte. Il trattato impone l’obbligo di proteggere l’Area con controlli alle frontiere “esterne” e cooperare efficacemente per mantenere un alto livello di sicurezza “all’interno”. Grecia e Italia, ad esempio, devono fare bene attenzione a chi proviene dal Medio Oriente, o da qualsiasi altro paese extra europeo, perché chi entra, poi, potrebbe agevolmente recarsi ovunque, indipendentemente dal suo “status”. Il problema del massiccio flusso migratorio ha indotto molti paesi, in particolare dell’Est Europeo, a chiederne la sospensione. Svezia, Danimarca, Austria, Norvegia, Germania e Francia hanno introdotto unilateralmente i controlli, tradendo non solo lo spirito del trattato, ma anche quello “comunitario”. La sospensione, infatti, può essere approvata solo dal Consiglio dell’Unione Europea e per un periodo massimo di due anni. Ciascun paese, però, può effettuare controlli “a campione”, per ragioni di sicurezza, senza preventiva autorizzazione. La norma è diventata un “escamotage” di cui si è abusato, con una distorsione estensiva che è sotto gli occhi di tutti. I sei paesi, di fatto, hanno detto a italiani e greci: “Sono cavoli vostri i migranti che accogliete, che ora restano bloccati da voi”. I provvedimenti complicano la vita anche ai cittadini europei e qui, mi si perdoni la digressione, voglio far riferimento a qualcosa che mi “tocca” molto da vicino. Tra i miei eventi più belli e interessanti vi è senz’altro la mostra internazionale “I Ponti di Leonardo”, realizzata quale


LINO LAVORGNA supporto culturale al progetto ingegneristico che culminò con la realizzazione del Ponte di Øresund, che unisce le città di Malmö e Copenaghen. La mostra, risalente al 1992, per la parte scientifica affidata al più grande esperto di Leonardo al mondo, il Prof. Carlo Pedretti, ebbe grande successo in Svezia. Quel ponte che unisce due stati e simbolicamente inneggia alla “fratellanza tra i popoli”, è una realtà dal 2000. Ora, i pendolari che lo attraversano quotidianamente, sono di nuovo sottoposti ai controlli. Ricordo la mia prima volta in Svezia, giovanissimo, al porto di Malmö, dove ero giunto con il traghetto proveniente da Copenaghen: mentre a tutti i passeggeri furono controllati documenti e bagagli, io e gli altri italiani fummo introdotti in una stanza isolata e perquisiti accuratamente, quasi nudi. I pregiudizi nei confronti degli italiani, a quel tempo, erano ancora più marcati di quelli attuali. E’ amaro ammetterlo, ma occorre prendere atto che nei paesi in cui la qualità della vita è considerata “eccellente”, “eccellono” anche i rigurgiti di quel male terribile che si chiama nazionalismo, intriso delle ancor più terribili metastasi xenofobe e razziste. I RISCHI DI UN RITORNO ALL’ANTICO Tutti i media, nelle ultime settimane, hanno fatto a gara a snocciolare dati “economici” sui rischi connessi all’eventuale sospensione del trattato. Sessanta milioni di veicoli che annualmente attraversano una frontiera, perdendo mediamente trenta minuti per i controlli, butterebbero al vento circa due miliardi di euro. Danni ancora più rilevanti per le merci deperibili, per i camionisti costretti a pernottare, etc. Insomma, si è detto di tutto e di più sul fronte “economico”, perché è quello che oggi domina l’esistenza umana. Grosso errore, ovviamente, anteporre l’economia a tutto il resto, perché ciò fa perdere di vista “l’essenza politica” del trattato, intesa nella sua accezione più ampia e nobile. Una politica sana risolve tutti i problemi, a cominciare da quelli economici. La prevalenza dell’economia sulla politica ha creato il mondo nel quale viviamo. E non è un bel mondo. L’UOVO DI COLOMBO L’aneddoto lo conosciamo tutti: a volte con una soluzione semplice si possono risolvere problemi molto complessi. Lungi da me, ora, l’idea di paragonare gli scenari globali all’uovo che Colombo riuscì a mantenere diritto, ma il paradosso serve a fornire una diversa chiave di lettura di tutta la triste vicenda. E ritorniamo sempre alo stesso punto. Solo un’Europa “veramente unita”, sotto un’unica bandiera, con un unico governo, un unico parlamento, un unico esercito, un unico presidente federale, una sola capitale, può creare le premesse per “mettere ordine” lì “dove regna il disordine”. E per “lì” intendo ovunque: all’interno e “fuori”. Tutto il resto sono chiacchiere al vento e azioni dilatorie, destinate a spostare in avanti il problema che ci complica maledettamente la vita, senza risolverlo, con quali più gravi conseguenze per le future generazioni, è facilmente prevedibile.



LINO LAVORGNA LA REPUBBLICA DEI PARVENU Il tema del mese, dedicato al referendum confermativo sulla riforma costituzionale, previsto nell'autunno 2016, risulta intrigante non tanto per il “tronco”, ossia l’argomento principale, quanto per i molteplici “rami” che da esso si snodano, creando una fitta chioma di elementi “sociologicamente” molto più interessanti. Il tutto, tra l’altro, si può liquidare in due battute, visto che un convegno vi è stato, lo scorso 10 febbraio, organizzato dalla Fondazione “Liberadestra”. Il Prof. Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte Costituzionale, all’inizio del suo intervento, ha asserito testualmente, in 18 secondi: “Per la terza volta consecutiva si dà avvio a una riforma della Costituzione nel modo in cui TUTTI i professori di Diritto Costituzionale dicono che non si deve fare: la maggioranza che si fa la sua riforma contro l’opposizione”. L’incipit basta e avanza per chiudere ogni discorso. Chi avesse voglia, però, e tempo disponibile, si può sorbire dal sito di Radio Radicale le due ore del convegno e meglio comprendere le mostruosità che caratterizzano l’operato dell’attuale governo e dei burattini in parlamento. (Per non perdere tempo, magari, si potranno saltare a piè pari gli inutili interventi dei “politici”, che Gianfranco Fini ha voluto invitare, inducendo chi scrive a restarsene a casa). Ritornando ai “rami”, è senz’altro utile analizzare le cause che hanno consentito a dei parvenu di impossessarsi di un paese intero, bistrattandolo come se fosse un vecchio taxi dal quale il conducente cerchi di ricavare quanti più utili possibili, prima di rottamarlo. La tentazione di partire da lontano, come sempre, è forte. I vizi italici hanno radici antiche, ma non possono essere sviscerati in un articolo e pertanto, necessariamente, dovremo sorvolare su quella sorta di “retaggio antropologico”, che prende corpo nel 753 A.C e si dipana fino ai giorni nostri, in circa 3000 anni di storia che, pur nella loro complessa e multiforme caratterizzazione, presentano un comune denominatore: il peggio ha sempre sopraffatto il meglio. (Qualche anno fa, parlando di storia romana ad alcuni giovani, cercavo di offrire loro degli spunti critici sulla distorta visione di fatti e personaggi acquisita dai testi scolastici. Un ragazzo, a un certo punto, mi chiese: “Ma dalla fondazione di Roma alla caduta di Romolo Augustolo, vi è stato qualcuno che abbia vissuto degnamente, immune da colpe?” Parliamo di 1221 anni di storia e mi vennero i brividi mentre consideravo che, alla mente, affiorava d’acchito un solo nome, Tiberio Gracco, e che occorse qualche minuto di troppo per ricordare quelli dei cinque “imperatori bravi”. Poi buio pesto). La causa principale della triste condizione attuale è la mancanza di una Destra illuminata, sociale, moderna, europea, che possa fungere da catalizzatore delle forze sane del Paese, esprimendo quelle eccelse personalità con i “numeri giusti” per governare. Intendiamoci: in Italia, una vera “Destra” non è mai esistita. Non lo era quella cosiddetta “storica” e sarebbe improprio riconoscere al Fascismo tale attribuzione. Nel dopoguerra abbiamo registrato l’anomalia di un Partito Liberale che, mentre ovunque guardava a sinistra, in Italia si collocava a “destra”, salvo poi accettare i loschi compromessi con i partiti al potere e senza avere,


LINO LAVORGNA ovviamente, nulla a che spartire con i princìpi e i valori della Destra. Storia a sé, e di rilevante importanza, quella del Movimento Sociale Italiano, nel cui seno germogliavano, sia pure tra mille contraddizioni, “i più prelibati fiori della società civile”. Il partito, sorto dalle ceneri del Fascismo e quindi, a causa di ciò, “condannato” a un consenso non in grado di impensierire i detentori dei vari poteri, era dominato da un uomo straordinario, Giorgio Almirante, che riusciva a plasmare, con il suo carisma, le tante anime che in esso si “incontravano” e si “scontravano”: nostalgici irriducibili, monarchici, liberali e liberisti, socialrivoluzionari, tradizionalisti, conservatori, populisti, qualunquisti e una buona masnada di “opportunisti” che, non trovando casa altrove, chiesero asilo, predicando bene e razzolando male. In questo turbinio esistenziale, però, dalla metà degli anni settanta, incominciarono a emergere dei giovani capaci di guardare avanti con occhi diversi e soprattutto a fare i conti con il passato, in modo netto, sotto tutti i punti di vista. In chiave scientifica si incominciarono a mettere in discussione i “dogma” dell’anti-evoluzionismo e dell’anti-relativismo; si ipotizzava che fosse lecito non avere necessariamente un “Dio” per esaltare la propria spiritualità, che poteva trovare alimento non meno appagante nella scienza. Dirompente, poi, dal punto di vista propositivo, fu la lenta ma inesorabile abiura del “nazionalismo”, che da valore assoluto incominciò a essere considerato il male assoluto. L’europeismo “di maniera” assunse una valenza pregnante e fu proprio in quegli anni che qualcuno degli esponenti di questa moderna, entusiastica e per certi versi “rivoluzionaria area”, coniò la frase: “Nessun essere umano ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. Questi giovani eccellenti erano destinati a raccogliere una difficile eredità, a porsi come esempio, a trasformare un partito nostalgico in qualcosa di diverso, a proporsi come guida, a conquistare il consenso delle masse, a rieducare un paese dedito alla sudditanza, a governare per il bene comune. Davvero troppo. La cosa non piaceva proprio a nessuno e accadde quello che, nella storia, è sempre accaduto in simili circostanze: il “peggio” (che insieme fa sempre maggioranza) si coalizzò per sconfiggere il “meglio”. I giovani della “Nuova Destra” non furono gettati nelle fosse di Katyń, come accadde all’intellighènzia polacca, che perì sotto la scure di Stalin per impedire ogni sorta di ribellione alla volontà egemonica del dittatore, ma furono messi in condizione di non nuocere. In parte cacciati e in parte schiacciati, con sommo gaudio di coloro che, soffrendo un forte complesso d’inferiorità, soprattutto culturale, si trovarono un campo di battaglia sgombro, da percorrere agevolmente. Il resto è storia d’oggi. Quei giovani mediocri, diventati famosi, ricchi e potenti, scalarono vette ancora più alte sotto l’ombrello del cavaliere di Arcore, contribuendo in modo sensibile al disfacimento del Paese. Nel momento in cui, sul fronte opposto, qualcuno con indubbie capacità, giusta ambizione e vitalità giovanile, è in grado di formare un esercito fedele e ben strutturato, è naturale che non trovi ostacoli alla sua marcia trionfale. L’unica speranza degna di essere presa in considerazione, quindi, è una “implosione” interna supportata dagli attacchi dei pentastellati, che possono essere, allo stesso


LINO LAVORGNA tempo, per l’esercito renziano, preziosi alleati e pericolosi avversari. Un po’ poco, comunque, per guardare con ottimismo al futuro. E chissà quando, in Italia, vi sarà davvero una Destra degna di questo nome, capace di conquistare il potere e governare nell’interesse del bene comune. Nell’attesa, chi è causa del suo mal pianga se stesso. E pazienza per gli innocenti, costretti, loro malgrado, a pagarne anch’essi il fio.


MARZO


UTOPIA: LUCI E OMBRE LINO LAVORGNA Il gentile direttore di questo magazine ha voluto gratificarmi, pubblicando da molti mesi la pubblicità del romanzo “Prigioniero del Sogno”, che per certi versi è un (triste) inno all’utopia. Il protagonista, disceso sulla Terra da un pianeta lontanissimo, indossa le vesti di quel “puro folle” della immaginifica Corte di Camelot, che dedicò la sua vita a inseguire l’ancor più immaginifico Graal, per migliorare il mondo, eterna fissazione di tutti gli utopisti. I due più famosi, a onor del vero, Tommaso Moro e Tommaso Campanella, si mantennero in confini territoriali più ristretti e bisogna fare un salto indietro nel tempo, fino a Platone, per reperire concetti che trascendano la “geografia”, configurandosi come “universali”. Siamo sempre, però, in un ambito letterario e filosofico, che non consente di chiudere il cerchio. Per farlo, infatti, occorre arare i campi della scienza e della storia. E’ in essi che albergano le tante luci e, ahimè, le tantissime ombre. Il mondo di oggi, di fatto, è il risultato, nel bene e nel male, delle utopie succedutesi nel corso dei secoli. Paradossalmente è proprio la scienza, apparentemente lontana da ogni utopia, a incarnarne la natura più recondita. Lo scienziato ha sempre bisogno di dimostrare ogni scoperta. Per farlo, però, deve partire da un assioma che andrebbe anch’esso dimostrato e ciò, spesso, è possibile solo in chiave “deduttiva”. La grande aspirazione degli scienziati e dei matematici di dimostrare tutto, pertanto, è irrealizzabile: è un’utopia! Ma quanto bene, produce, questa utopia. Ben altra musica, invece, si ascolta nel campo storico, anche quando le gesta degli “utopisti” sono ancorate ai più nobili sentimenti. Accantonando le tematiche religiose, che richiederebbero molto più spazio, analizziamo, succintamente, le tre più grandi utopie: Democrazia, Illuminismo, Comunismo. Nessuno può negare i “buoni propositi” alla base delle tre dottrine, i cui fautori aborrivano ogni forma di tirannide e non potevano certo prevedere le nefaste conseguenze scaturite dal loro pensiero. I limiti della democrazia furono ben evidenti sin dai suoi albori, se Aristotele fu costretto addirittura a suddividerla in “politeia” (quella buona) e “demokratia” (la cattiva, che negava la libertà). La democrazia, in effetti, concepita come “antidoto” alla tirannide, ne divenne subito il principale alimento. Anche su Pericle, che per secoli ha diviso gli storici, confluiscono ora pareri quasi unanimi che lo inquadrano in una più realistica veste di “populista”, la cui volontà egemonica generò sconcerto e malcontento negli alleati della lega Delio-Attica, inducendoli a “revocargli la fiducia” e a ribellarsi anche con azioni belliche. Se ciò vi ricorda qualcuno dei tempi nostri, non state sbagliando riferimento. Da oltre venticinque secoli stiamo ripetendo che la democrazia non è perfetta come sistema di governo, ma non ne esiste uno migliore. Fatto sta che, ovunque nel mondo, sono stati eletti democraticamente i peggiori farabutti e nullità assolute, fautori di guasti immani. Non serve perdere tempo a rievocare la storia italiana, in particolare dal dopoguerra in poi. E’ cronaca attuale, infine, quella che vede la più grande


“democrazia” al mondo in preda a un delirio collettivo, che potrebbe portare alla presidenza un babbeo come Trump. Forse è arrivato il momento di mettere in discussione il dogma della democrazia come migliore forma di governo e avere il coraggio di cambiamenti rivoluzionari, protesi a delegare la gestione del potere alle persone realmente capaci e non ai demagoghi di turno, intenti solo a imbambolare masse sempre più rincitrullite. Come attuare questo processo rivoluzionario, poi, esula dal tema di questo articolo. Montesquieu, Voltaire e Rousseau sono dei giganti del pensiero politico. Questo è fuori discussione. Sbaglia di grosso, quindi, chi critica “l’Illuminismo” partendo da loro, come è spesso avvenuto, in passato, negli ambiti di una certa “destra” ottusa e confusionaria. (In passato, perché le pseudo destre attuali sono del tutto avulse da ogni dibattito culturale, eccezion fatta per poche e piccole isole felici, tra le quali senz’altro alberga questo magazine). E’ del tutto naturale, quindi, che un popolo vessato da una monarchia oscena e insensibile a ogni grido di dolore, s’ispirasse alle loro teorie per affrancarsi dalla tirannide, divenendo il germoglio che ha generato quel mondo nuovo di cui siamo figli. Da qui, poi, a pensare che l’Illuminismo abbia davvero debellato ogni male sociale, ce ne corre. Mi fa piacere citare, a tal proposito, quanto magistralmente scritto da Nello Di Costanzo nella prefazione del mio romanzo “Prigioniero del Sogno”: “Il fallimento della società post-illuminista è sotto gli occhi di tutti ed è da ciechi non prenderne atto. La natura irrazionale dell’uomo non è stata plasmata dalla volontà razionalista affermatasi nel 18° secolo e lo scontro titanico tra la “natura” e “la volontà di dominio della natura” non ha ancora sancito la vittoria definitiva di quest’ultima, avendo solo generato quel mostro chiamato “ipocrisia”, che a livello planetario regola la vita dell’umanità. Che differenza vi è tra la tirannide pre-illuminista e la tirannide dell’occidente contemporaneo? Nessuna, salvo che la prima non aveva bisogno di alcuna copertura per essere legittimata; la seconda, sia che si tratti di invadere l’Iraq, sia che si tratti di bombardare un campo di palestinesi, ha bisogno di “alibi”. E l’alibi, lo sappiamo tutti, in questi casi, è sempre figlio dell’ipocrisia”. Parole sante, che riportano alla mente quelle più famose di due grandi “illuministi”, Adorno e Horkheimer, che però della dottrina sono stati anche autorevoli dissacratori, nel libello “Dialettica dell’Illuminismo”, pubblicato nel 1947. Sull’illusione comunista, infrantasi sul sogno utopico della rivoluzione delle masse e della lotta di classe, non serve certo sprecare troppe parole per i dotti e ben orientati lettori di questo magazine. Oggi, tra l’altro, i pochi comunisti che ancora abbiano il coraggio di professarsi tali, non spaventano più nessuno e, quando non si trasformano in macchiette comiche (che però non vanno prese sottogamba, in particolare se munite di armi pericolose), risultano addirittura pateticamente simpatici, alla pari di tutti coloro che, testardamente, perseverano in un sogno utopico destinato a perpetuarsi all’infinito o a disperdersi per consunzione fisiologica, come le lacrime nella pioggia.


EUROPA: J’ACCUSE! LINO LAVORGNA Vi sono momenti, nella vita di ogni uomo, che impongono uno “Stop”. Non si tratta di arrendersi all’evidenza dei fatti, tra l’altro nefasti e terribili, ma di fermarsi quel tanto che basta per prendere atto della realtà e gestirla in modo più congruo di quanto non sia possibile perpetuando, caparbiamente, la marcia lungo i sentieri ritenuti più meritevoli di essere percorsi. Sentieri attualmente intrisi di troppi (inutili) ostacoli e resi ancor più impraticabili da troppo sangue innocente. Va bene. Anzi no: non va bene per niente, ma fermiamoci. Alcuni cari amici mi stanno dicendo, già da molto tempo, a cosa serva insistere sul “sogno europeista”, quando la realtà, quotidianamente, ci offre uno sconcertante spaccato di terribili divisioni e il crescente rigurgito, ovunque, di quel nazionalismo frammisto al populismo, non scevro di razzismo, che si ritiene possa essere legittimato dalla paura e dalla rabbia. Paura di un’invasione incontrollata. Paura dei troppi delinquenti che rubano, stuprano, molestano e rendono la vita impossibile a milioni di persone. Rabbia generata dall’assenza della politica e dalla netta percezione che si tiri a campare, con chiacchiere senza costrutto, per non assumersi difficili responsabilità. I politici guadagnano bene, non hanno i problemi dei cittadini comuni e cercano solo di tutelare il proprio status più a lungo possibile, con comportamenti sostanzialmente dilatori, protesi solo a “rimettere” il problema nelle mani di chi verrà; pazienza se ingigantito a dismisura. Loro sono quelli che hanno sempre la scialuppa di salvataggio a portata di mano. Gli altri si arrangino; oramai siamo al “si salvi chi può” e bisogna anche fare i conti con il terrorismo, che sempre più prepotentemente bussa alle porte. Con questi presupposti, è chiaro, parlare di Europa in termini d’integrazione politica, di “fratellanza”, di unione dei popoli sotto un’unica bandiera, non solo è frustrante per chi ascolta, ma può addirittura apparire patetico. “Che vuole questo? Parla di Stati Uniti d’Europa in un continente dove ciascuno pensa a se stesso a discapito degli altri! Deve essere uno scemo o un visionario. O uno che non si rende conto di cosa stia accadendo”. E’ questo, più o meno, il pensiero di tante persone, magari verbalmente espresso con altri termini, solo per educazione. Fermiamoci, allora, e cambiamo registro. Sono stato educato a celebrare il primato della politica sull’economia, nella certezza che a una “buona politica” debba necessariamente fare seguito una “sana economia”. Mai, da giovane, mi sono occupato di problematiche economiche, perché le battaglie combattute erano ancorate esclusivamente agli “ideali”. Oggi gli ideali non interessano più a nessuno, perché le tasche vuote, la fame e la protervia dei potenti, offuscano la mente. Levando forte il mio “J’ACCUSE”, pertanto, nei confronti di tutti coloro che sono responsabili, per incapacità o complicità, del “male” imperante, voglio esprimere innanzitutto la mia solidarietà alle “vittime” di questa “nefasta Europa”, che non è


certo quella bramata e sognata dagli europeisti a “denominazione di origine controllata”. Penso da Europeo, ma vivo in Italia. Ai miei connazionali, allora, mi rivolgo in primis: agli agricoltori siciliani, a quelli del Nord Est, a quelli delle zone sane della Campania e di qualsiasi altra regione, vessati dalle leggi inique concepite solo a vantaggio delle multinazionali, che con le loro lobby sono in grado di comprarsi “tutto” e “tutti”. Sono con voi e sostengo le vostre ragioni. Comprendo il vostro “antieuropeismo” e lo giustifico. Questa Europa non piace nemmeno a me e la metto sotto accusa. “J’ACCUSE” il PARLAMENTO EUROPEO del reato di inerzia, che diventa palese complicità con il “male”, quando si presta il fianco alle manifeste azioni strumentali che favoriscono pochi e feriscono molti, fino a ucciderli. “J’ACCUSE” LA COMMISSIONE EUROPEA di aver tradito il proprio mandato di tutela degli interessi dell'Unione Europea nella sua interezza, divenendo strumento manovrato dalle lobby. “J’ACCUSE” i GOVERNI NAZIONALI di “inefficienza operativa”, quando non di palese complicità con le lobby affaristiche delle multinazionali e delle banche, tutelandole a discapito degli inermi cittadini. Accuso tutti i potenti d’Europa di non riuscire a trovare una soluzione al grave problema dei flussi migratori e di accettare, cinicamente e vigliaccamente, che donne, bambini, anziani, muoiano durante il disperato esodo da quell’area geografica martoriata, in primis, dalla cecità occidentale. Li accuso di aver trasformato i migranti in merce lucrosa e di tollerare le bieche speculazioni sulla loro pelle, da parte di autentici criminali, evidentemente protetti perché di essi complici. La mia accusa più violenta, però, è rivolta agli intellettuali, a coloro che “condividono” il sogno degli Stati Uniti d’Europa e pur avendo le idee chiare su come si debba agire, tacciono per opportunismo o viltà. M’inchino in silenzio al cospetto delle persone esasperate, arrabbiate e impaurite, che operano scelte populiste sull’onda delle continue tensioni emotive e delle sofferenze provocate dalla criminalità dilagante e dalla malapolitica. Facciano pure. Alla luce di ciò che si vede in giro, il danno non può essere maggiore di quello provocato dai “mercanti”, che proprio non ne vogliono sapere di abbandonare il “Tempio”, anche perché mancano le forze sane in grado di “cacciarli”. Sarà sempre così? Non lo so, ma continuo a sognare un’Europa Unita. Nietzsche sosteneva che occorre un grande caos per generare una stella danzante. E caos sia, allora! Lo cavalcherò con il sorriso sulle labbra e poi, emulando uno dei miei tanti maestri, mi fermerò sulla sponda di un mare nero, lasciandomi accarezzare dal vento. Sarà quello il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla. Sull'orlo di quell'abisso continuerò, indomito, a combattere la mia battaglia, attendendo quel magico coro che arriverà, prima o poi, accompagnato da dolci note: “Europa Nazione sarà”. Europa, Patria mia! Tu sei già Nazione nei cuori di chi è “avanti”, di chi è nato postumo. Quanti problemi sparirebbero, in un colpo, se gli altri comprendessero ciò che si stanno perdendo


e si togliessero le catene che li rendono schiavi di se stessi! Se si rendessero conto che si vive una volta sola, ed è magnifico, vivere da “Europeoâ€?.


APRILE


C’ERA UNA VOLTA. CI SARA’ ANCORA? LINO LAVORGNA Sei milioni di anni fa i nostri antenati vivevano sugli alberi. A mano a mano che diventavano più numerosi, però, furono costretti a scendere per recarsi “altrove”, in cerca di cibo. Attraversare la savana era molto pericoloso: l’erba alta impediva l’orientamento e li esponeva agli attacchi degli animali feroci. I primi ominidi pertanto, pensarono bene di “sollevarsi” e di camminare su due soli arti, in modo da sovrastare l’erba e avere una visione d’insieme più ampia. Si resero conto, poi, che i due arti liberati potevano essere sfruttati per tante altre funzioni. Artrosi ed ernia del disco sono alcune tra le più note conseguenze di questo processo evolutivo non ancora ultimato, che ha visto i quadrupedi trasformarsi in bipedi, concentrando sulla colonna vertebrale e le gambe il peso che prima si dipanava su quattro arti. Quanta strada è stata percorsa da allora. Da un piccolo spostamento per reperire nuovi spazi vitali, l’Uomo è oggi in grado di concepire viaggi intergalattici per esplorare lo Spazio e raggiungere Pianeti lontanissimi. Se realizzassimo un grafico che evidenziasse il progresso scientifico, vedremmo una retta lunghissima che s’innalza progressivamente dal punto di partenza fino ai giorni nostri. Se analizzassimo, invece, la capacità degli esseri umani di vivere in armonia con se stessi e con il prossimo, non avremmo lo stesso risultato. Il “gap” tra progresso scientifico e progresso umano costituisce la difficile e fascinosa “queste” che appassiona tanti studiosi e che è ben lungi dall’aver offerto risultati certi e condivisi. La tesi più plausibile, a mio avviso, è quella che imputa al progresso scientifico una continua fagocitazione del genere umano, incapace di reggerne il passo. Ai tempi di Alessandro Magno era l’Uomo, con il suo pensiero, la forza e la capacità d’azione, il centro dell’Universo. Pensiamo, ad esempio, cosa fu capace di scrivere Dario III, morente, proprio ad Alessandro, che gli aveva sventrato il vasto impero: “Figlio mio, Alessandro, pensa cosa ero e guarda cosa sono. Senza neanche una persona vicina per chiudermi gli occhi. Fa che i Macedoni e i Persiani sostino in lutto per me, prendi mia figlia Statìra per moglie, così che il seme di Dario e di Filippo si mescolino in uno e che i nostri due mondi divengano uno solo. Nelle tue mani affido il mio spirito”. Non vi è


odio, non vi è rancore nell’imperatore sconfitto, bensì una superiore visione della vita. Come noto, Alessandro inseguì per un anno Besso, il satrapo che assassinò Dario sperando di ingraziarsi il nuovo dominatore del mondo, e lo giustiziò: “perché solo un re può uccidere un re”. Diciamo la verità: questi concetti, prima ancora che lontanissimi, ci appaiono inesplicabili, anche se a nessuno può sfuggire la loro forza intrinseca, soprattutto considerando cosa sarebbe il mondo di oggi se l’auspicio di Dario si fosse avverato. Alessandro era contemporaneo e allievo di Aristotele, a sua volta discepolo di Platone. Prima di loro vi erano stati Socrate e i presocratici. La storia della Filosofia, più di ogni altra cosa, è in grado di delineare il cammino dell’uomo nelle sue varie fasi epocali. Ma con Nietzsche questo processo s’interrompe, perché dopo di lui il “pensiero” muore e vive di luce riflessa, o di disgustosi rimescolamenti. Perché? La rivoluzione industriale crea nuovi modelli sociali, nuovi interessi, nuovi bisogni. Inizia la scissione tra l’uomo e ciò che l’uomo crea. L’economia incomincia ad avere il sopravvento sulla “politica” e quando poi partorisce il mostro chiamato “finanza”, la disgregazione è totale. Un virus s’impossessa del genere umano, condizionandolo in tutti gli aspetti dell’essere. Alcuni sono così abili da riuscire a convivere con il virus, sfruttandolo a loro esclusivo vantaggio, pur essendone contaminati. Altri, invece, in maggioranza, lo subiscono trasformandosi in zombi, incapaci anche di vedere e assumere i tanti antidoti che comunque esistono, periodicamente creati dai pochi “eletti”, appannaggio di ogni era e per retaggio ancestrale immuni da ogni sorta di virus. La lotta tra bene e male, che è antica quanto l’uomo, diventa una lotta impari perché il male riesce a dotarsi di strumenti di distruzione di massa molto più potenti e “fagocitanti” degli antidoti prodotti dagli eletti al servizio del “Bene”. In Occidente, soprattutto, si creano le più gravi disarmonie, che ben presto si trasformano in un boomerang. Nessuno è in grado di fronteggiare il problema e ciascuno si comporta come il rospo buttato nell’acqua calda, che diventa via via sempre più calda. Invece di reagire saltando dalla pentola, il rospo cerca di adattarsi al crescente calore, producendo uno sforzo tremendo. Quando l’acqua diventa bollente, però, il rospo muore. Non per l’eccessivo calore, ma per le forze che gli sono venute meno nel momento in cui ha deciso di


saltare. Le ha sprecate tutte cercando di “adattarsi”. E’ quello che sta succedendo alla nostra società. Volontariamente ho tenuto lontano da questo articolo qualsivoglia tono nostalgico. La nostalgia ha il suo fascino, indubbiamente, anche se talvolta è un sottile artifizio per mascherare le proprie manchevolezze. E’ un dato di fatto che il mondo contemporaneo ha tante crepe che ieri non c’erano. Ma queste crepe non sono nate d’incanto dall’oggi al domani. E le crepe, comunque, non sono mai mancate. Capire bene cosa c’era una volta, pertanto, scindendo il grano dal loglio, è fondamentale per correre ai ripari, ammesso che sia ancora possibile. L’uomo contemporaneo sta tentando scioccamente di inserire in un sistema “finito” – il pianeta in cui vive - qualcosa di “infinito”, ossia la crescita esponenziale. Non è possibile continuare su questa strada e il perché, molto meglio di me, lo ha spiegato magistralmente, già nel 2005, uno dei miei tanti maestri: Alain de Benoist. Consiglio senz’altro, pertanto, di leggere il suo saggio “Comunità e Decrescita - Critica della Ragion Mercantile. Dal sistema dei consumi globali alla civiltà dell'economia locale”, che consente di aprire una finestra su quel mondo nuovo cui tutti aneliamo, senza essere però ancora capaci di costruirlo. Quando avremo realizzato questo processo, sarà bello, anzi bellissimo, raccoglierci attorno a un camino e viaggiare nel tempo per raccontarci, anche con un pizzico di nostalgia, ciò che c’era una volta. Ora, purtroppo, non c’è tempo per questo, perché è tempo di combattere.


L’EUROPA E’ MALATA: AIUTIAMOLA A GUARIRE. LINO LAVORGNA Scrivo questo articolo con il cuore in subbuglio per le tristi vicende che la cronaca quotidiana ci riversa addosso. L’Europa è in preda al delirio e governata da politici che, nella migliore delle ipotesi, sono incapaci di comprendere gli scricchiolii della storia. A tali deficienze, infatti, si accompagnano spesso le solite propensioni a concepire in modo distorto il potere esercitato, sfruttandolo a proprio vantaggio. Finanche in Islanda si è dovuto dimettere il capo del Governo, coinvolto nello scandalo del “Panama Papers” e mentre scrivo è ancora incerta la sorte di Cameron. Degli Italiani presenti nel corposo elenco non è nemmeno il caso di parlare: nessuno nutriva dubbi sui nomi che sono emersi e caso mai la sorpresa è scaturita dalla mancanza di altri. Ricordo una bella lezione di giornalismo di Alberto Giovannini: “Non lasciarti mai condizionare dai problemi contingenti quando parli di temi atemporali; li indeboliresti fino a sminuirli o ad annullarli”. Cercherò di essere all’altezza di quel monito, anche se non mi nascondo la difficoltà. Avverto forte l’inattualità di un pensiero europeo e il diffuso desiderio di un ritorno all’antico, fomentato dal rigurgito di un malsano e anacronistico nazionalismo, che si diffonde a macchia d’olio. Ancora più triste, inoltre, è l’inadeguatezza di coloro che tale propensione contrastano, senza comprendere le complesse cause da cui scaturisce. Come più volte ho sostenuto, non vi è cosa peggiore di una buona causa difesa in modo sbagliato dalle persone sbagliate. Annaspiamo in una vera palude intrisa di sabbie mobili, quindi, dalla quale è difficile venire fuori. E’ inutile farsi illusioni, pertanto, perché con questa triste realtà dovremo convivere a lungo. A me tocca parlare di Europa ogni mese, tuttavia, dalle colonne di questo magazine, e non intendo venire meno all’impegno assunto per perpetuare un sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Onorando il monito di Giovannini, pertanto, non vi parlerò dei muri che stanno nascendo dappertutto, della gente esasperata e impaurita per il massiccio flusso di migranti, delle minacce terroristiche, delle lerce speculazioni economiche di chi, come sempre è accaduto nella storia dell’uomo, è capace di arricchirsi sulle miserie altrui. Non ne parlerò perché è perfettamente inutile: non svanirebbero le paure, non sparirebbero i muri, non sarebbero arrestati i malfattori. L’unica cosa che mi resta, pertanto, è continuare a stimolare l’Amore per questa nostra Patria bella, pervicacemente convinto che solo quando sarà davvero unita potrà risolvere i suoi problemi di vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni. L’unione come medicina, quindi. Ma non sarà mai unita, l’Europa, se non impareremo ad amarla. E per amarla occorre conoscerla. Conoscerla bene, in ogni suo “angolo”; conoscere la sua storia millenaria, in modo più esaustivo di quanto non si impari a scuola, perché solo addentrandosi nei suoi meandri più reconditi se ne potranno percepire le mille sfaccettature capaci di generare la “passione” e la voglia di saperne sempre di più. E’ importante conoscere, ovviamente, anche il tanto di bello che ha prodotto in campo artistico e culturale. In Italia, soprattutto, dobbiamo colmare profonde lacune favorite anche da un ridicolo complesso di “superiorità”, che è tale solo nelle nostre teste. Stiamo campando di rendita sulle grandi opere di artisti, letterati e scienziati che hanno dato lustro al nostro Paese sin dai tempi dell’Epopea Romana. Conosciamo poco o nulla, però, di ciò che è stato partorito altrove, in particolare nel Nord Europa. Avvicinarsi a queste culture vuol dire allargare di molto i propri orizzonti e sarà stupendo, poi, visitare i luoghi che avremo avuto modo di scoprire nei saggi, nei


romanzi, nelle opere teatrali. Oggi voglio parlarvi di due Norvegesi: Henrik Ibsen e Knut Hamsun. Sia il drammaturgo sia lo scrittore, nelle loro opere, lanciano alto il grido di dolore per il disfacimento del mondo moderno, del quale intravedono tutte le crepe. Con “Il risveglio della Terra” Hamsun vince addirittura il Premio Nobel, nel 1920. Il romanzo narra la storia di Isak e di sua moglie Inger, che vanno a vivere nel Nord del Paese, occupando un terreno senza padrone (tema che rimanda al Tom Bombadil del “Signore degli Anelli”, padrone del bosco ma non proprietario), dedicandosi al duro lavoro dei campi. Un idillio con la natura selvaggia, scandita dal fluire delle stagioni e suggellata dall’utopia dell’eterno possibile. La modernità spaventa la coppia, perché in essa vedono il naufragio della loro dimensione più autentica, legata appunto alla natura, e la deriva del genere umano verso un ignoto tenebroso, che non lascia presagire nulla di buono. Knut Hamsun (il cui vero nome, è bene dirlo, è Knut Pedersen: l’equivoco nacque per colpa di un tipografo che, in occasione della pubblicazione di un poemetto, fece confusione con la fattoria di Hamsund, tra le mete preferite dello scrittore, che a quel punto decise di “legittimare” l’errore, firmando tutte le opere successive con lo pseudonimo) può essere definito un “viandante” che predilige le piccole comunità rurali. In questo si sente forte l’influsso nicciano, che traspare ancora più evidente in opere come “Misteri”, “Pan”, “Sotto la Stella d’autunno”, “Un vagabondo suona in sordina”. Tanto dolce appare la scrittura di Hamsun, quanto “irruente” si rivela quella di Ibsen. Il padre della drammaturgia moderna, purtroppo pochissimo rappresentato in Italia, è un uomo “rigoroso”, che schiaffeggia in modo violento la mediocrità imperante e l’ipocrisia che regola le relazioni umane. Pur non potendolo definire un “esistenzialista” tout-court, il suo pensiero è fortemente condizionato dalle opere di Søren Kierkegaard, che ha studiato attentamente. Fustigatore della società bigotta e nazionalista, Ibsen si sente soffocato e decide ben presto di allontanarsi dalla sua terra, cercando altrove, soprattutto in Danimarca e in Italia, una dimensione più appagante per il suo spirito inquieto. Il teatro di Ibsen, di non facile decantazione se non dopo una profonda conoscenza dell’uomo, del suo pensiero, del suo tempo e della sua terra, è stato definito di volta in volta naturalista, simbolista, anarchico, surreale. In realtà è tutte queste cose, ma anche molto di più, perché forse manca l’aggettivo che meglio lo caratterizza: “realistico”. I personaggi di Ibsen riflettono la decadenza di un mondo corrotto e malato e naturalmente non mancano gli eroi, sempre “individui”, che si ergono solitari contro il male imperante. Parlo – e non a caso – del dramma “Un nemico del popolo”, tristemente attuale (ma lo sono tutte, le opere di Ibsen). Un medico scopre che le terme pubbliche e il territorio circostante sono inquinati dagli scarichi industriali tossici. Si adopera subito per denunciare il disastro ambientale, ma ha un fratello sindaco, capo della Polizia e capo delle Terme, con forte ascendente sulla stampa locale, che lo asseconda senza batter ciglio. Non serve aggiungere il resto. L’invito è di scoprire da soli, con calma, ma senza tergiversare, questi due grandi autori, che vi spalancheranno una finestra su un mondo fascinoso, dove troverete senz’altro delle cose “vecchie”, ma soprattutto tante cose nuove che vi faranno sentire, d’incanto, più ricchi. Dopo aver preso confidenza, concedetevi una gita con il battello postale che da Bergen vi porta fino a Capo Nord, possibilmente nel mese di giugno, quando è possibile godersi appieno il sole di mezzanotte. Sentirsi Europei, in quella dimensione, è una sensazione indescrivibile. Provare per credere. Nel prossimo numero parleremo dell’Irlanda, del suo splendore e dei suoi martiri. Impariamo a conoscerla, la nostra bella Europa.


MAGGIO


POPOLI D’EUROPA: I FIGLI DI ERIN LINO LAVORGNA L’Irlanda, come meta turistica, piace a molti. Pochi, però, ne percepiscono il fascino misterico che scaturisce dalla sua storia millenaria, che si confonde con le mitiche leggende, per lo più ignote a chi vive anche di poco, a Sud. Il problema, a onor del vero, riguarda molti paesi d’Europa e rappresenta una delle principali cause del mancato “affratellamento”, indispensabile per poter seriamente ambire agli Stati Uniti d’Europa. Negli altri paesi, però, a prescindere da una maggiore confidenza generata dalle più intense frequentazioni, vi è un elemento che aiuta molto a ridurre il senso di lontananza: il retaggio della dominazione romana, reso tangibile dai tanti siti storici e archeologici. In Irlanda, invece, è come se si entrasse in un “mondo nuovo”, completamente avulso da ogni nostra idea sul passato. Limitarsi a goderne gli stupendi squarci paesaggistici, pertanto, magari in frettolosi tour organizzati, equivale a visitare un museo pregno di opere pregevoli, senza conoscere nulla dei loro autori. Aprire la porta sulla “vera” Irlanda consente di percorrere un viaggio a ritroso nel tempo più unico che raro, intriso di magiche suggestioni. E una volta che lo si sia intrapreso s’intuisce subito che val la pena di percorrerlo tutto e di farlo proprio, quel mondo, che è davvero speciale, proprio perché è rimasto immune dalla contaminazione romana. (Se qualcuno dovesse essere indotto ad approfondire gli argomenti qui solo accennati, potrebbe leggere da qualche parte che recenti scoperte archeologiche testimoniano “la presenza dei romani”. E’ una bufala. Le scorrerie degli Irlandesi, durante la dominazione romana dell’Inghilterra, erano frequenti: qualcosa si saranno pur portati a casa. Agricola potrebbe essere davvero andato in Irlanda, come dice qualcuno, ma non certo a guerreggiare e il suo “eventuale” sopralluogo, di cui parlo per onestà intellettuale, precisando che non vi credo, non ha intaccato minimamente la realtà sociale di quel territorio, allora chiamato “Hibernia”). Partiamo da qualcosa che è ben nota soprattutto ai giovani, sia pure in modo distorto: la festa di Halloween, importata dagli Stati Uniti ed emulata in tutti i suoi aspetti superficiali e consumistici. In maggioranza la considerano una festa “americana” e sono davvero pochi coloro che ne conoscono le radici “europee”, ancorate ai territori d’Irlanda, Inghilterra e Bretagna (Francia del Nord). Samhain è il suo vero nome ed è intrisa di alti valori simbolici, qui inesplicabili e che andrebbero adeguatamente approfonditi insieme con le altre tre importanti ricorrenze: Imbolc (31 gen- 1 feb), Beltane (30 apr-1 mag), Lughnasadh (31 lug – 1 Ago). Sarà possibile, in tal modo, penetrare in quel fascinoso universo celtico, cui una buona parte d’Europa è tributaria per molteplici lasciti in tutti i campi, ivi compresi quelli presenti nel DNA di milioni di persone. Un brava cantante, Fiorella Mannoia, ha cesellato in una celebre canzone la bellezza del “cielo d’Irlanda”, assimilandolo a meravigliose visioni. “Il cielo d’Irlanda è Dio che suona la fisarmonica”, si ode, a un certo punto della canzone. E chi ben conosce l’isola verde sa che ciò è vero, mentre con la mente ripercorre l’infinito panorama di una musica che non ha eguali al mondo, perché è la musica della natura sublimata da cantori che assomigliano agli Dei. Tutti conoscono gli U2, che pure irlandesi sono, e naturalmente bravissimi. Ma non è di loro che sto parlando, bensì di coloro che incarnano la più pura essenza del celtismo e di coloro che raccontano, con toccanti canzoni, la tormentata storia d’Irlanda. Sotto quell’oceano di nuvole e luci, quel tappeto che corre veloce, infatti, si sono consumate immani tragedie. L’Irlanda è stata terra di conquista sin dalla fine dell’ottavo secolo.


Vichinghi e Normanni s’integrarono gradualmente con le popolazioni autoctone. Nel 1171, però, sbarcarono gli Inglesi di Enrico II e iniziò una dolorosa colonizzazione, che perdura ancora oggi, inasprita dalle inevitabili contrapposizioni religiose, insorte e via via amplificatesi dopo lo scisma anglicano, generato dalla voluttuosità di Enrico VIII. Oggi l’Irlanda è divisa in due territori. Indipendente l’Eire, parte integrante della Gran Bretagna l’Irlanda del Nord, dove nel romantico sogno di “A nation once again” decine di migliaia di giovani hanno immolato la loro vita in sette secoli di continue diatribe e nei più recenti tragici anni dei “troubles”, segnati dalla feroce repressione del governo britannico. Tristi pagine di storia, annualmente commemorate: “Bloody Sunday”, “Ballymurphy massacre”, “Hunger Strike”. Non è difficile reperire in rete film e documentari su tali avvenimenti e li consiglio vivamente, insieme con il film capolavoro di Neil Jordan, “Michael Collins”, dedicato al più grande condottiero irlandese, che sottoscrisse il primo trattato per il nuovo Stato libero d’Irlanda. Maggio, poi, è il mese dedicato a Bobby Sands, l’eroe che si lasciò morire di fame, nel 1981, insieme con altri nove membri dell’Irish Republican Army, nel silenzio imbarazzato di un mondo intero, che non seppe far sentire la vibrante voce di protesta che pure scuoteva tutti i cuori, per le solite bieche logiche politiche. Al Governo vi era la Thatcher, che con cinico disprezzo della vita umana lasciò che i giovani eroi morissero uno dietro l’altro. Il regista Steve McQueen (da non confondere con l’attore) ha realizzato nel 2008 il film “Hunger”, nel quale uno straordinario Michael Fassbender interpreta il ruolo di Bobby Sands. E’ appena il caso di citare, a conclusione di questo articolo, che l’Irlanda ha dato all’umanità scrittori del calibro di James Joice, George Bernard Shaw, Samuel Becket, Oscar Wilde, Bram Stoker (sì, proprio lui, l’autore di “Dracula”), Wiliam Trevor e quello straordinario portento della Poesia che risponde al nome di William Butler Yeats, insieme con tanti altri che qui non cito per amor di sintesi. Chissà quante gentili lettrici di questo articolo sono rimaste affascinate dalla bellezza (e dalla bravura) di attori come Liam Neeson, Colin Farrel, Jonathan Rhys-Meyers , Pierce Brosnan, Michael Fassbender, Cilian Murphy, Peter O’ Toole, Gabriel Byrne, Robert Sheean, Liam Cunnigham, Colin O'Donoghue (mi fermo, ma la lista è lunga): tutti Irlandesi. E se non avete mai sentito parlare di “Riverdance”, “del Lord of The Dance”, al secolo quel portento di Michael Flatley, beh, vi siete perso parecchio. Un capitolo a parte, poi, meriterebbero i cantantii: I Dubliners, The Chieftains, The Clannad, Enya, Moya Brennan, Van Morrison, Sinead O’ Connor, solo per citare i più famosi di una lista lunghissima. L’invito, pertanto, è quello di penetrare nell’universo irlandese e scoprirlo gradualmente, per arricchire lo spirito e inebriarvi di bellezza. Poi, qualche volta, quando vi sentirete pronti, salite sulla collina di Tara e socchiudete gli occhi affidandovi al canto del vento. Sentirete le voci dei Túatha Dé Danann e quella di Lug che vi racconteranno storie fantastiche di un tempo lontano. (Chi sono costoro? Scopritelo da soli.) Non dimenticate di rendere omaggio ai luoghi sacri, che ricordano i Martiri della Libertà. Sono disseminati ovunque, soprattutto nell’Irlanda del Nord. A Béal na Bláth, invece, nella contea di Cork (tappa “obbligatoria”), si potrà depositare un fiore ai piedi del monumento costruito proprio dove fu ucciso Michael Collins, nel 1922, “forse” su ordine di un suo vecchio amico, poi divenuto presidente d’Irlanda. Non vi sentirete mai sazi d’Irlanda e basterà visitarla una volta per desiderare di ritornarci ancora. E chissà, magari i più giovani di


voi, un giorno, potranno anche vedere realizzato quel sogno struggente di “A Nation Once Again�.


UOMINI DI SCIENZA CON CATTIVA COSCIENZA: SIATE MALEDETTI! LINO LAVORGNA Una regola di buon giornalismo impone di non utilizzare mai riferimenti personali quando si parla di problematiche sociali. L’ho sempre rispettata e faccio appello, pertanto, alla sensibilità umana del direttore, per questa isolata deroga. Parlerò di scienza e coscienza con riferimento alla medicina, al progresso scientifico e alla cultura, ricordando tre persone speciali, che “rappresentano” molto per me: Bruno Iorio, l’amico del cuore; Felice Rossini, mio cognato; Giuseppina Federico, mia Madre. Bruno, enfant prodige, a 22 anni insegnava “Storia delle Dottrine Politiche” e io, ventenne, ero suo allievo. Ben presto diventammo amici inseparabili. Felice, bello come il sole e retto come pochi, semplicemente, è l’uomo che ogni padre sogna come marito per la propria figlia. A mia Madre devo tutto e sarebbe impossibile riportare ciò che dovrei e vorrei dire di lei. Queste tre persone mi sorridono dal Paradiso, ma potrebbero ancora sorridermi, quotidianamente, sol che si fossero imbattute, quando ne avevano bisogno, in uomini “coscienziosi”. La malasanità è diventata una vera piaga sociale in tutto il Paese, raggiungendo livelli insostenibili nel Mezzogiorno d’Italia. Bruno fu mandato a casa, dall’ospedale, con una diagnosi di dolori intercostali. Aveva un infarto in atto. Mio cognato fu operato per un tumore da un “luminare” che, pur di incassare la lauta parcella, decise di intervenire nascondendoci che l’intervento richiedeva anche la presenza di un neurochirurgo. Non contento, dopo pochi mesi, quando le analisi dimostrarono che il tumore era ancora presente, (si parlò di recidiva, ma in realtà era ancora quello iniziale), intervenne spudoratamente una seconda volta, in modo devastante. Ci affidammo a lui con fiducia, in virtù del suo “nome”. Egli, invece, cinicamente, condannò a morte mio cognato, al quale furono diagnosticati solo sei mesi di vita. Combattei con tutte le mie forze e riuscii a ottenere il permesso per il ricovero in Francia (che tutti volevano negarmi, perché tutti si sentivano “superiori” ai loro colleghi d’oltralpe), dove fu operato da un “Italiano”, “scappato” da Napoli dopo la laurea e divenuto uno dei più grandi neurochirurghi al mondo. La mia determinazione gli assicurò altri dieci anni di vita, ma sarebbe ancora vivo se l’intervento giusto fosse stato praticato subito. Per la vicenda di mia Madre rimando a quanto scritto nel blog www.galvanor.wordpress.com: “Quell’ultimo abbraccio”. Ho denunciato i responsabili della sua morte e non posso aggiungere nulla in questo contesto. La degenerazione etica che pervade il mondo medico atterrisce. Mentre scrivo, in TV si parla di un famoso ginecologo arrestato per aver aperto un “supermarket degli ovuli”. E’ stato scoperto grazie alla denuncia di una paziente. Come si è giunti a tanto? La medicina non è primariamente una missione? Sì, lo è, ma non certo per i medici che conquistano ruoli importanti grazie alla “malapolitica” e quindi senza “esserne degni”, per di più penalizzando i colleghi più capaci. La malasanità, innanzitutto, è figlia della malapolitica, grazie alla quale è stato possibile “frodare” migliaia di miliardi. Ora che i nodi stanno venendo al pettine, da una parte si continua imperterriti a


perpetuare sciagurate speculazioni, dall’altra si cerca di mettere qualche pezza tagliando risorse economiche e chiudendo ospedali lì dove ve n’è bisogno. E intanto la gente muore. Non occorre essere degli esperti per comprendere la pericolosità delle centrali nucleari e delle scorie radioattive. Dal 1952 al 2011 sono stati ben 34 gli incidenti nel mondo, alcuni dei quali gravissimi. Le conseguenze di questi disastri sono incalcolabili, alla pari del numero dei morti: centinaia di migliaia, forse milioni, diluiti nel tempo. Eppure, nonostante ciò, vi sono fior di scienziati che continuano a sancirne “la sicurezza”. Ignoranti? No: criminali al servizio dei poteri forti. Non è lecito, infatti, concedere la buona fede a chi abbia severi studi in materia alle spalle, ma solo la pervicace volontà di mentire per scopi reconditi, quasi sempre legati al “potere” e “ai soldi”. Questo è il caso più eclatante di cattiva coscienza in campo scientifico, ma gli esempi potrebbero riempire molti volumi. Quotidianamente, sulle riviste generiche e specializzate, leggiamo articoli tesi a “orientare” i nostri consumi in un senso o nell’altro, firmati da “autorevoli esperti settoriali”. Il cioccolato contiene antiossidanti e combatte la depressione (di sicuro provoca piacere mangiarne, ma da qui a considerarlo un cibo terapeutico, ce ne corre!); il tal cibo è “fondamentale” per una buona salute; gli OGM non sono dannosi, e così via. Da qualche mese, addirittura, è iniziata una campagna pubblicitaria per promuovere la vendita dell’olio di palma, dichiarato “salubre” da eminenti specialisti. Per fortuna è ancora ben superiore il numero di coloro, con i giusti titoli, che ne hanno sancito, da decenni, l’alto tasso di tossicità. Per lo più sono gli stessi che spiegano a chiare lettere tutti i rischi che si corrono con gli OGM. “L’istruzione è l’arma più potente che abbiamo per cambiare il mondo”, affermava Mandela, ricalcando il pensiero di Che Guevara, per il quale “un popolo di ignoranti è un popolo facile da ingannare”. I politici conoscono queste massime e si attrezzano bene affinché l’istruzione sia funzionale all’ignoranza. Hanno lavorato bene in tal senso e si “affinano” sempre più. La cultura è uno dei campi in cui la cattiva coscienza produce i danni peggiori, perché destinati ad avere conseguenze future irreparabili. Il potere ha paura degli uomini colti, perché quasi sempre la profonda cultura porta alla rettitudine, vista come fumo negli occhi. Ecco, quindi, che un capo di governo si affanna a raccomandare ai propri cortigiani di non affannarsi a studiare i classici della politica, ma di guardare attentamente le puntate della fiction “House of cards”, affinché s’impari bene a gestire il potere per tutelare i propri interessi. La scuola è ridotta a brandelli e i giovani arrivano alla laurea, non importa in che disciplina, senza aver mai letto un classico della letteratura, inaridendo la propria professione, quale che essa fosse. Di ciò sono colpevoli in prima persona, certo, perché “faber est suae quisque fortunae”. Una società seria, però, dovrebbe prendersi cura delle future generazioni, preparandole al meglio a percorrere i sentieri della vita. Io vi maledico, uomini di scienza con cattiva coscienza. So bene, tuttavia, che le mie maledizioni vi fanno sorridere sardonicamente, perché a voi interessa solo la vostra bella vita. Nel maledirvi, pertanto, auspico che dei bravi Magistrati vi


colgano nella fragranza delle vostre malefatte e vi confinino in una buia cella, per poi buttare le chiavi in un pozzo profondo.


GIUGNO


BREXIT: LA VITTORIA DELLA STUPIDITA’ LINO LAVORGNA La vita di ogni essere umano è funestata da giorni tristi. Il 23 giugno è stato un giorno triste per molti “veri” Europei. Per chi scrive questo articolo, che il sogno europeo ha coltivato da tempo immemore, è stato un giorno tristissimo. La ferita inferta dal popolo inglese fa male, perché destinata a non rimarginarsi facilmente. Cupi scenari si addensano all’orizzonte, del resto facilmente prevedibili, a cominciare dall’effetto domino. Prima delle pur necessarie considerazioni sul voto, mi sia consentito (lo chiedo da presidente di un movimento europeista e non da giornalista) di rivolgere un affettuoso pensiero a chi sta soffrendo più di altri. Il primo va ai Genitori, al marito, ai figli, ai parenti e agli amici di Helen Joanne Cox, "Jo", che ha immolato la propria vita sull’altare di quei sacri valori che non avrebbero dovuto essere messi in discussione. Il suo sacrificio non è servito a nulla e questo rende ancora più triste il tutto. Un caloroso abbraccio, poi, va al meraviglioso leader del Sinn Fein, Gerry Adams, che di giorni tristi ne ha conosciuti tanti, nel corso di una vita segnata dalla tante battaglie in difesa della libertà e costretto, egli che della Grana Bretagna patisce il giogo, a combattere al fianco del tiranno, nella vana speranza d’impedire guai maggiori. Non solo l’Irlanda del Nord continua a restare sotto il dominio inglese, ma non è più parte dell’Unione Europea e ciò, per il piccolo stato, sarà fonte di problemi ancor più gravi di quelli che vesseranno i dominatori. Un abbraccio affettuoso, infine, ai giovani inglesi. Circa l’80% di loro, in particolare tra i 18 e i 24 anni, ha dimostrato una maturità e una capacità analitica che agli adulti è mancata del tutto, votando in massa per il “Remain” e impedendo che la vittoria dei malpancisti di Nigel Farage e di Boris Johnson (che di fatto, molto più del primo, è il vero artefice del “Leave”) assumesse proporzioni da Caporetto, o per meglio dire, da Dunkerque. Bye Bye Gran Bretagna allora. L’Europa è più piccola geograficamente, ma voi, cari inglesi, ora siete più piccoli in tutto e ve ne accorgerete presto. Il titolo dell’articolo è pesante e me ne rendo conto. E’ stato il primo che mi è venuto in mente, subito dopo aver capito che avrebbe vinto il “leave”, senza pensare, per altro, di utilizzarlo davvero. Leggendo le cronache post-voto, però, sul “Corriera della Sera” mi ha colpito lo sfogo di Lisa Hilton, autrice del best-seller “Maestra”. Con chiarezza esemplare la scrittrice ha parlato di vittoria degli “sciocchi e dei selvaggi”; di un “leave” gettonato da chi ha un basso livello di istruzione, da chi non ha capito, da chi si è lasciato abbindolare da un personaggio come Farage. Poi, lasciandomi a bocca aperta, ha scritto: “E’ la vittoria della stupidità”. Esattamente ciò che avevo pensato io all’alba del 24 giugno! E via allora. A quel punto non ho avuto più esitazioni e ho “ripristinato” il titolo autocensurato. I giovani inglesi non meritavano questo schiaffo dai genitori e dai nonni, che ora si stanno già pentendo del male reso a coloro che pur amano. Il voto si può paragonare a un raptus omicida perpetrato da quei soggetti che


covavano da tempo un malsano malessere interiore, senza essere in grado di comprenderne la natura. (Appartengo a una scuola di pensiero che non crede al raptus improvviso). Ora che il disastro incomincia a delinearsi in tutte le sue sfumature, i “killer” si stanno rendendo conto di ciò che hanno compiuto, anche per le severe rampogne ricevute da figli e nipoti, e si stanno già pentendo. Molti vorrebbero tornare indietro; la richiesta di un nuovo referendum ha raggiunto in poche ore milioni di adesioni, ma il dado è tratto e indietro non si torna. Profetiche, in tal senso, le parole di Jean Claude Junker, presidente della Commissione Europea, che ha chiesto il rapido avvio dei negoziati per la ratifica dell’uscita: “Non capisco perché il governo britannico abbia bisogno di attendere fino a ottobre. I populismi? Presto dimostreremo che Londra stava meglio dentro l'Unione”. Un sonoro ceffone non scevro di disprezzo, infine, le sue conclusioni: “Quello tra l’UE e Londra non sarà un divorzio consensuale, ma non è stata neppure una grande storia d’amore”. Difficile dargli torto. La Gran Bretagna, nella storia d’Europa, più di altri ha sempre giocato una partita a sé. Non voglio certo dire che gli altri paesi non siano pervasi da analogo malsano nazionalismo, ma quello inglese lo è di più, anche per antico retaggio culturale. Basti pensare, per esempio, alle parole che Shakespeare mette in bocca al Conte di Richmond, nel secondo atto del “Riccardo II”: “Isola incoronata, terra di maestà, sede di Marte, un altro eden, un semi paradiso, una fortezza costruita dalla Natura contro le infezioni della guerra, una felice culla di uomini, un piccolo mondo, una pietra preziosa incastonata in un argenteo mare che le serve da muraglia contro l’invidia di terre meno felici, una zolla benedetta”. Questa immagine, che fuori dal contesto teatrale fa solo ridere, è quella che hanno in testa milioni di inglesi, soprattutto di una certa età, ed è quella che ha condizionato il voto. Purtroppo i giovani, che la pensano in tutt’altro modo, per un dato meramente numerico, non sono stati in grado d’impedire lo scempio. Non meritavano questo schiaffo, come detto innanzi e, a onor del vero, non lo meritava nessuno, nemmeno i nostalgici malpancisti. L’ignoranza non è una colpa e non a caso la democrazia impone che anche gli ignoranti votino. Ecco, provocatoriamente, a conclusione di questo articolo, forse è il caso di incominciare a parlare della necessità di riconsiderare alcuni principi dogmatici sui diritti acquisiti in tema di elettorato attivo e passivo. La complessità del mondo moderno non è cosa che può essere affidata al libero arbitrio di soggetti che non abbiano un sufficiente livello culturale e un sufficiente coefficiente di intelligenza. Cameron ha fatto sì una grande cavolata, proponendo il referendum. La cavolata, però, sarebbe stata “parata” se il corpo elettorale non avesse contemplato “anche” i soggetti culturalmente di basso profilo. Test di storia e misurazione del coefficiente intellettivo (almeno 90) a 18 anni per ottenere il certificato elettorale? Prendiamola pure come una mia provocazione, per ora, ma incominciamo a ragionarci sopra, considerando anche che, chi fosse escluso dall’elettorato attivo, lo sarebbe automaticamente anche da quello passivo. (E sotto questo profilo proviamo a immaginare, solo per un attimo, quanta zavorra in meno avremmo in Parlamento). Nel frattempo cerchiamo di trasformare un evento negativo in un’opportunità. Gli inglesi malpancisti hanno parlato di


“Indipendence day” perché si sono liberati dell’Europa. L’Europa, però, ora potrebbe avere più carte in regola per attuare quel sano processo d’integrazione politica da tanti auspicato, essendosi a sua volta “liberata” di un peso che condizionava, e non poco, la politica comunitaria. Aspettando Scozia, Irlanda del Nord e Gibilterra, quindi, guardiamo avanti, sempre con speranza e avendo ben chiara la meta: “STATI UNITI D’EUROPA”. Per la (oramai) PB (Piccola Bretagna), poi si vedrà.


Helen Joanne "Jo" Cox, nata Leadbeater (Batley, 22 giugno 1974 – Leeds, 16 giugno 2016). Deputata alla Camera dei Comuni. Il 16 giugno 2016 mentre stava per iniziare un incontro elettorale, è stata colpita da tre colpi di arma da fuoco e successivamente accoltellata più volte fuori alla biblioteca di Birstall, nei pressi di Leeds da un nazionalista affiliato al movimento neonazista. La Cox si era dichiarata apertamente contro l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea. L’assassino è stato condannato all’ergastolo nel novembre 2016.


TTIP: QUANDO LA STORIA NON E’ MAESTRA DI VITA LINO LAVORGNA

Il primo dato che emerge dal “Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti” è che la storia, anche per questa vicenda, non ha insegnato nulla. Abbiamo sotto gli occhi, non da poco tempo, il fallimento dell’Europa dei mercanti ed è chiaro a tutti, oramai, il grosso errore commesso con l’anteporre l’integrazione economica e monetaria a quella politica. Ora stiamo replicando l’errore in modo più esteso, coinvolgendo circa un miliardo di persone in scelte riservate esclusivamente a chi penserà, precipuamente, ai propri interessi e non certo al bene comune. In linea di principio i presupposti non sono sbagliati: arginare la dilagante invasione dei prodotti cinesi, indiani e brasiliani, i cui costi sono condizionati dal massiccio sfruttamento dei lavoratori e quindi altamente concorrenziali. I metodi utilizzati, tuttavia, in particolare le trattative segrete e la scarsa chiarezza su alcuni comparti di primaria importanza, uniti agli effetti deleteri sotto il profilo socio-economico, impongono una chiara e netta opposizione alla ratifica. Europa e Stati Uniti sono caratterizzati da princìpi e regole di vita non compatibili. Sinteticamente si possono individuare quattro punti da sottoporre all’attenzione dei cittadini, senza scivolare nelle contrapposizioni pregiudizievoli, che aggiungono solo problemi ai problemi. 1) SICUREZZA ALIMENTARE E BIOTECNOLGIE Tra Europa e USA vi sono sostanziali differenze nella valutazione dei rischi connessi al consumo dei prodotti biologicamente modificati. Negli USA non sono considerati pericolosi per la salute e quindi non è prevista nemmeno l’etichettatura specifica. In Europa siamo molto più attenti e a giusta causa. Sotto il profilo scientifico hanno priorità le tesi di coloro che ne hanno acclarato la pericolosità, sulla base di studi qui sottaciuti per amor di sintesi, ma che ciascuno può facilmente reperire con una semplice ricerca. Sotto il profilo etico, poi, (concetto semplicemente incomprensibile per le multinazionali statunitensi e


per i politici a esse asserviti), si osserva che la Natura non deve essere “violentata” e che l’alterazione degli ecosistemi può avere effetti devastanti. La possibile immissione di virus nel patrimonio genetico può causare una mutazione del processo evolutivo verso forme di vita al momento non definibili o, addirittura, la distruzione del genere umano. Non sono solo gli OGM, tra l’altro, a preoccupare. Negli allevamenti intensivi statunitensi si fa largo uso di ormoni e antibiotici, fonte primaria di gravi malattie e concausa di quella “obesità” che sta trasformando la stragrande maggioranza dei cittadini statunitensi in buffe palle di lardo ambulanti. 2) CONTROLLI SUI PRODOTTI – PRINCIPIO DI PRECAUZIONE In Europa le “analisi” sulla pericolosità dei prodotti “precedono” la loro commercializzazione. E’ proprio in base a questo principio che è vietato il consumo di polli trattati con clorina (dannosi per le reazioni chimiche, le variazioni del gusto e gli effetti tossici generati dall’ingestione dei residui delle sostanze) e il manzo trattato con gli ormoni, su cui effetti nocivi nessuno nutre dubbi. Negli Stati Uniti, invece, il principio di precauzione non vale: le sostanze chimiche sono considerate sicure fino a prova contraria. In pratica si deve prima morire e poi si deve stabilire che la morte è stata generata dal pollo o dalla bistecca. Ma poche morti non bastano a bloccare l’utilizzo dei prodotti: occorre una vera e propria epidemia. Lo so che state ridendo… ma qui c’è da piangere. 3) SALVAGUARDIA DELLA QUALITA’ Chiunque abbia confidenza con le abitudini culinarie statunitensi comprende bene l’espressione: “Gli americani mangiano schifezze”. Al cibo spazzatura va associata la massiccia imitazione dei prodotti europei di qualità, in particolare italiani, consumati come se fossero delle vere e proprie prelibatezze. “Mozzabella”, per esempio, (avete letto bene: mozzabella) e tutta una varietà di formaggi e insaccati che fanno vomitare anche alla solo vista. Questi prodotti ce li ritroveremmo tutti negli scaffali dei supermercati. In Europa, inoltre, vige la tutela del marchio di origine, che conferisce la giusta reputazione a un dato prodotto. Negli USA, invece, le lobby delle multinazionali hanno imposto la protezione del marchio, indipendentemente dal luogo di produzione. Con questo principio in Italia si potrebbe spacciare per “Amarone” un vino prodotto a mille chilometri di distanza, in una vigna che non presenti la “particolare struttura” di quelle ubicate in Valpolicella, dalle quali proviene uno dei “vini rossi” più prelibati al mondo. 4) TUTELA DEI PICCOLI PRODUTTORI DI NICCHIA Già sono in crisi. L’approvazione del trattato determinerebbe la loro scomparsa. Tutto ciò premesso, vi è da considerare che l’arbitrato, in caso di controversie, è affidato a un organismo costituito da arbitri scelti con metodi extragiudiziali: “Investor-state dispute settlement”. Se una multinazionale accusasse uno Stato di intralciare i propri affari, si vedrebbe quasi sempre riconosciuta la ragione. I governi, di fatto, perderebbero ogni autonomia nella tutela dei propri cittadini e dovrebbero inchinarsi (più di quanto già non facciano) allo strapotere delle


multinazionali, per le quali conta solo il profitto e non certo i morti che provocano in ogni parte del mondo. La Philip Morris, per esempio, non ha esitato a chiamare in giudizio Uruguay, Norvegia e Australia, che avevano introdotto norme a tutela dei consumatori, attivando campagne promozionali per dissuaderli il più possibile dall’acquisto delle sigarette. A conclusione di questo articolo, anche se non c’entra nulla con il TTIP, voglio divulgare quanto dichiarato dai dirigenti della potente associazione statunitense dei produttori di armi. A poche ore dal massacro di Orlando, riferendosi a una possibile norma che ne vieti la vendita “almeno” a coloro che risultino schedati dal FBI come possibili terroristi, hanno espresso una netta opposizione, asserendo che “prima si deve verificare la loro effettiva pericolosità”. Senza vergogna! Nemmeno una strage di siffatta portata li ha indotti a “un briciolo di umanità”. E’ questa la cinica mentalità che pervade le lobby affaristiche statunitensi e le multinazionali da loro protette. E’ una mentalità che fa schifo, prima ancora di fare orrore e dalla quale è preferibile stare lontani mille miglia. Anzi no: almeno 4.280,59 miglia, ossia quelle che separano Roma da New York.


OTTOBRE


ADDIO, PARTITI! Lino Lavorgna L’inizio della “cosiddetta” crisi dei partiti in Italia, convenzionalmente, si può indicare con una data ben precisa: 29 giugno 1993. (Poi vedremo perché “cosiddetta”). Era un martedì e, nello studio del Notaio Roveda, a Milano, Silvio Berlusconi e un manipolo di fedelissimi (Marcello Dell'Utri, Antonio Martino, Gianfranco Ciaurro, Mario Valducci, Antonio Tajani, Cesare Previti e Giuliano Urbani) fondarono “Forza Italia! Associazione per il buon governo”. Mani Pulite aveva scoperchiato il vaso di Pandora, portando alla luce un sistema marcio fino al midollo. Sistema che aveva reso la vita felice alle potenti lobby industriali, a cinici affaristi di ogni ordine e grado e a tanti politici senza scrupoli. L’intrepido costruttore si rese subito conto che vi era un vuoto da colmare e pensò di individuare qualcuno che potesse “sostituire” il suo amico Craxi, sepolto da un mare di monetine dopo essere stato torchiato a fuoco lento da Di Pietro, nel famoso interrogatorio. Puntò, come noto, su Mariotto Segni, figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio, al quale propose di guidare una coalizione di centro-destra. Le cronache riportano che Mariotto rifiutò, ma per quanto ne so io le cose andarono diversamente: fu scartato quando in Fininvest si resero conto che modalità comportamentali, idee e propositi erano inconciliabili con gli scopi del gruppo. (Nella fiction “1992”, ideata e interpretata dal popolare attore Stefano Accorsi, vi è un preciso riferimento alla “bocciatura” di Segni). Berlusconi, che non ha mai perso tempo, capì che toccava a lui scendere in campo, “per risolvere i suoi problemi”, e in pochi mesi mise in moto quella formidabile armata che, dopo il varo ufficiale come movimento d’opinione (nascita dei “Club Forza Italia” nell’ottobre del 1993, dei quali nega, mentendo, la futura evoluzione in partito), in partito si trasforma il 18 gennaio 1994. Dopo solo due mesi “Forza Italia” fu capace di raccogliere la bellezza di 16.585.516 voti alle elezioni politiche, sgretolando la “gioiosa macchina da guerra” di un attonito Occhetto, che sulla propria vittoria avrebbe scommesso anche un miliardo. Quello che è accaduto dopo, è ben noto. Tutti i partiti si sono dovuti “adeguare” alle regole imposte dal novello primo ministro, trasformandosi rapidamente in “comitati elettorali” scevri di qualsivoglia connotazione ideologica. Le sigle si moltiplicano a dismisura, salvo poi sparire e rinascere sotto altre forme; prendono forma i partiti “fai da te” e quelli improntati sulla figura di improvvisati leader. Si formano coalizioni forzate e pasticciate, tra soggetti che si detestano vicendevolmente, accomunati solo dalla volontà di vincere le elezioni e gestire un po’ di potere. Tutti, in buona sintesi, da destra a sinistra, emulano le nuove formule comunicative e propositive imposte dall’affabulatore di Arcore. La televisione sostituisce le piazze e coloro che non riescono ad adeguarsi al nuovo corso, che richiede di “apparire” piuttosto che di “essere”, sono irrimediabilmente destinati a una fine ingloriosa. Con l’avvento di Grillo, poi, le cose cambiano ulteriormente.


Si potrebbe scrivere a lungo, ma su quanto accaduto nell’ultimo quarto di secolo si è detto praticamente tutto quello che è possibile dire “oggi” e quindi è inutile ribadire concetti triti e ritriti. Molto più interessante, invece, è cercare di comprendere cosa vi sia “realmente” dietro l’implosione dei partiti tradizionali. Ciò che “appare”, infatti, è cosa ben diversa dalla realtà. Spesso si dice che i politici (e quindi i partiti di cui fanno parte) siano lo specchio della società e ne riflettono tutte le distonie. Questo dato, ancorché veritiero, non è sufficiente a inquadrare il problema nella sua essenza più recondita, che afferisce precipuamente al comportamento delle persone, mutevole a seconda delle diverse sollecitazioni. Prima dell’avvento di Berlusconi i partiti erano caratterizzati da una forte caratura ideologica. A destra e a sinistra più marcata che altrove, certo. Tutti, però, erano pervasi da un profondo substrato di carattere culturale, che affondava le radici nel pensiero dei vari ispiratori. I miei coetanei sanno bene che, fino alla metà degli anni ottanta del secolo scorso, tanti giovani (e anche meno giovani) trovavano del tutto naturale rischiare la vita e la galera per difendere le proprie idee. Fino a che punto però, queste persone, meritevoli del massimo rispetto a prescindere dalla collocazione politica, sono state capaci di “mantenere” analoghi alti presupposti quando, riuscendo a emergere su altri, hanno conquistato fette di potere? Gli esponenti della cattolicissima “Democrazia Cristiana”, non devo certo ricordarlo, con le connessioni mafiose e le ruberie di stato hanno meritato molti più posti all’inferno che in paradiso. I loro colleghi del pentapartito, eredi della tradizione liberale, repubblicana, risorgimentale, a chiacchiere celebravano i Maestri Pensatori e nei fatti rubavano a man bassa. Dove albergava la consistenza ideologica di alto profilo dei partiti tradizionali? Di sicuro nelle sezioni frequentate dagli “idealisti infervorati”, non certo nei palazzi del potere dove imperavano coloro che in passato avevano dimostrato pari fervore ideale. Lo stesso Partito Comunista, che più di altri aveva puntato sulla cultura come elemento fondante per la conquista del potere, non era immune dalle contaminazioni discutibili e dei socialisti non è nemmeno il caso di parlare. La Destra post-bellica si ritrovava nel Movimento Sociale Italiano, dove convivevano, non senza difficoltà, correnti di pensiero eterogenee e talvolta palesemente contrastanti, amalgamate solo dallo straordinario carisma di Giorgio Almirante. Vi erano soggetti di altissimo profilo culturale, nel vecchio MSI, e uomini che facevano tremare i polsi ogni volta che aprivano bocca. Ve li ricordate, voi lettori che avete affinità culturali con il “Pianeta Destra”? Spero di sì. Di sicuro vi ricordate meglio coloro che “sono emersi”, nessuno dei quali appartenente al gruppo di cui sopra e tutti attratti dalle lusinghe berlusconiane, le cui paludi, in massima parte, continuano a navigare con pieno godimento. La crisi dei partiti, di fatto, non è mai avvenuta. E’ solo capitato, un po’ per caso e un po’ per necessità, secondo i princìpi magistralmente illustrati da Jaques Monod nel suo celebre saggio, che sia stata rimossa la massiccia coperta di ipocrisia che copriva una intera umanità, portando a nudo non già le problematiche di “strutture


organizzate”, ma le debolezze degli esseri umani. Non è stato sempre così forse? La storia cosa c’insegna se non l’incapacità dell’uomo a interpretare in modo degno gli insegnamenti scaturiti dal suo stesso pensiero, concepiti per autogovernarsi al meglio? Non stiamo vivendo “una crisi dei partiti”. Non esiste. Semplicemente stiamo registrando la fase (conclusiva? ancora transitoria?) di quel processo di trasformazione sociale iniziato con i tre grandi avvenimenti del 18° secolo: rivoluzione industriale, affrancamento degli Stati Uniti dalla madre patria, rivoluzione francese. Non mi stancherò mai di ripeterlo: l’uomo contemporaneo nato dagli sfaceli rivoluzionari non ha ancora decantato un processo evolutivo che gli consenta di essere arbitro “imparziale” del proprio destino e di quello dei propri simili, quando è chiamato a decidere anche per loro. Devo forse ricordare ai lettori di questo magazine di che pasta fosse fatta la stragrande maggioranza dei gerarchi fascisti e degli stessi membri del Gran Consiglio, fatte salve le dovute eccezioni? Devo ricordare le casse di oro rinvenute a Dongo con le fedi offerte dalle estasiate donne italiane? Il forte gap tra progresso tecnologico e progresso umano, i bagliori offerti da un mercato fortemente soggiogante, la progressiva perdita di “cultura”, accresciuta in modo esponenziale nell’ultimo trentennio, cosa potevano produrre di diverso da ciò che hanno prodotto? Chi, oggi, perde tempo a studiare i classici della politica e della filosofia? Siamo capaci di guardarci intorno con occhio vigile per vedere da cosa e da chi siamo circondati? Qualche tempo fa provai a chiedere, a un giovane studente universitario di Scienze Politiche, di parlarmi del “mito della caverna”. Mi guardò con l’aria compiaciuta di chi è ben felice di fornire una risposta gradita. Il caso volle che fosse appena rientrato da una vacanza a Dublino e ben conoscesse la mia passione per l’Irlanda e per il mondo celtico. Non ebbe alcun dubbio, quindi, circa l’essenza della domanda. “Oh Lino! Meraviglioso!!! Un ristorante italiano nel cuore di Dublino, nel quale sia possibile degustare anche la cucina tradizionale irlandese, ascoltando tanta musica celtica, è davvero il massimo! E che ambiente!!! Ma come sai che vi sono stato???” Di cosa vogliamo parlare più? Di ciò che sarà? Spazio terminato, per fortuna. Dovrei spiegare, altrimenti, perché Di Maio sarà il prossimo capo del governo e soprattutto perché è giusto che ciò accada. Roba da mal di testa.


BYE BYE AMERICAN DREAM LINO LAVORGNA Comunque andrà a finire, l’8 novembre, gli Stati Uniti avranno un pessimo presidente e ciò rappresenterà un problema per il mondo intero. Azzardo una previsione: vincerà Trump, anche se mentre scrivo sta montando il caso sulle sue frasi sessiste che, proprio per le ragioni esposte in questo articolo, potrebbero penalizzarlo e non di poco. E’ indubbio, tuttavia, che lo strambo personaggio possa contare su una enorme messe di sostenitori, dato di non facile comprensione, soprattutto per un europeo, nonostante gli USA ci abbiano abituato a presidenti mediocri figli dell’alta borghesia, sempre vincenti contro i pochi “illuminati” figli solo del proprio talento. Per capire il suo appeal sull’opinione pubblica, “un appeal” che ha sedotto anche molti “democratici” (sia pure nei limiti che tale termine assume nella società americana, capace di esprimere individui che coniugano buoni principi con il più esacerbato razzismo), non basta soffermarsi sulle vicende recenti, sulla paura nata dal diffuso terrorismo e dalle angosce post 11 settembre. Bisogna andare molto indietro nel tempo, fino agli albori del “Nuovo Mondo” e alla colonizzazione europea delle Americhe, quando iniziò a formarsi un embrione di “ideologia americana”, che il filosofo Alain de Benoist vede solo come rifiuto di quella europea, essendo l’America stessa il rifiuto materiale dell’Europa. Tutto ciò che l’Europa non sopportava e tutti coloro che l’Europa non sopportavano, trovarono terreno fertile nel “Nuovo mondo”, realizzando quel “melting pot” che sopravvive tutt’oggi: puritani perseguitati dagli anglicani, cattolici perseguitati dai protestanti, protestanti perseguitati dai cattolici, ebrei vittime dei progrom, insofferenti con pulsioni anarchiche, visionari di ogni ordine e grado. A costoro si aggiunsero gli “affamati”, che il vecchio continente abbandonarono loro malgrado e con sommo rammarico, per necessità vitali legate alla mera sopravvivenza. Dall’incontro-scontro di queste due componenti nacquero gli Stati Uniti d’America e le sue mille contraddizioni. Molto negativo il retaggio generato dai “rifiuti”, che diedero origine alle varie organizzazioni criminali. Vitale quello degli “affamati” che, lavorando sodo, crearono il mito “dell’american dream”. Le colonizzazioni, del resto, sotto questo profilo, si assomigliano tutte. Gli italiani di oggi, in massima parte, sono i discendenti dei tanti “dominatori” che si sono succeduti nel corso dei secoli e portano nel DNA sia il retaggio ancestrale delle dominazioni positive (Normanni, Svevi, Longobardi) sia quello nefasto delle colonizzazioni negative (Aragonesi, Spagnoli, Angioini). Sorvolo su quelle degli Arabi e dei Francesi, la cui analisi sociologica, dicotomica tra bene e male, richiederebbe troppo spazio, portandoci fuori tema. Ritornando agli USA, il primo dato da prendere in considerazione è il marcato “calvinismo, intriso di quel puritanesimo che, sostanzialmente, genera una società incapace di individuare dove si annidi “il vero male”.


In Europa siamo abituati a concepire le guerre d’indipendenza come la rivalsa dei popoli tiranneggiati. La guerra d’indipendenza americana fu solo l’arrabbiata reazione dei coloni alle restrizioni commerciali imposte dalla madre patria. Il collante fu determinato dal primato del profitto su ogni altro elemento sociale e il possesso di beni e dollari come unico termine di paragone per sancire le differenze. Lo stesso concetto di “uguaglianza naturale” che, è bene ricordarlo, precede quello affermatosi in Francia, è antitetico al modello europeo. In America è dalla “libertà” che deriva l’uguaglianza e non viceversa e la differenza, che a prima vista potrebbe apparire effimera, essendo analogo il presupposto originario – tutti gli uomini nascono liberi e uguali – assumerà un rilievo fondamentale nel processo evolutivo della società americana. Un altro aspetto che può aiutarci a capire fenomenologie sociali sconvolgenti per un europeo, è la naturale propensione al cattivo gusto, in ogni contesto, ereditata dai progenitori. Nella madre patria, però, la mancanza di gusto e senso estetico è stata sempre coperta e mascherata dalla “vicinanza” con l’Europa. Con il distacco dei coloni e senza il supporto della civiltà europea, in America si è registrato un progressivo involgarimento della società, in tutti i campi. Mentre in Inghilterra la società aristocratica precipitava verso la borghesia, negli USA si affermava la parodia della società europea, conferendo “nobiltà” esclusivamente al “dio denaro”. La parola “gentleman” non ha varcato l’Atlantico e non esiste nel costrutto sintattico statunitense, alla pari di “lady”. Il termine “business”, che originariamente intendeva caratterizzare un individuo semplicemente “impegnato a fare qualcosa”, è stato mutuato in quello più consono al tipo di mentalità che si andava affermando, divenendo “affare”. Di rilevante importanza, a tale proposito, il saggio di Guglielmo Ferrero, “Fra i due mondi”, del 1913. In esso lo storico distingueva le civiltà quantitative da quelle qualitative, spiegando che l’accumulo delle ricchezze porta al progressivo declino della società. Nelle società qualitative (il Ferrero si riferiva precipuamente al mondo greco-romano) si producono capolavori, opere d’arte in grado di elevare lo spirito, muovendosi entro limiti prestabiliti. Nelle società quantitative l’unico scopo è l’accrescimento della ricchezza, senza limiti (e senza regole), generando quelle fratture sociali che, inevitabilmente, sfociano in guerre. Già nel 1913 quindi, Ferrero vedeva nel dinamismo americano uno sviluppo incontrollato e incontrollabile della tecnica produttiva. Una civiltà, quindi, senza valori stabili e senza freni interni, che preparava da sé la propria catastrofe. E’ stato un valido profeta. Lo storico statunitense Henry Steele Commager, nel 1952, con il saggio “Lo spirito Americano”, ripropone la tesi di Ferrero: “La peggior disgrazia che potesse capitare a un partito politico era una crisi economica e la più grave obiezione a una legge era la sua nocività per gli affari. Tutto ciò tendeva a dare una forma quantitativa al pensiero, conducendo l’americano a mettere pressappoco al di sopra di tutto una valutazione quantitativa. Quando domandava quanto valeva un uomo, voleva parlare del valore materiale, e si irritava di ogni altro sistema di apprezzamento. Anche la soluzione che proponeva a numerosi problemi era quantitativa, e che si


trattasse dell’educazione, della democrazia o della guerra, il trattamento attraverso i numeri era il rimedio sovrano”. L’american way of life trasforma una società viva in una società meccanica, avulsa dai reali valori e tutta imperniata sull’apparire, in funzione del conto in banca e del “ben-essere” che si riesce a mettere in mostra. Il concetto di “essere” è del tutto sconosciuto. Voglio citare, in merito, un episodio emblematico di cui sono stato diretto testimone. Qualche anno fa, a New York, conobbi un facoltoso businessman che veniva spesso in Italia per motivi di lavoro, innamorato della costiera amalfitana e desideroso di acquistare una villa a Positano. Aveva già acquistato presso uno dei più prestigiosi cantieri nautici italiani, per la modica cifra di sette milioni di euro, un lussuoso 13 metri munito di ogni confort. Gli feci notare che la scelta non mi sembrava pertinente. Avrebbe speso un sacco di soldi per la villa e avrebbe avuto problemi con la barca. Molto più “razionale” risultava l’acquisto di una villa a Vietri sul Mare o a Salerno, che dispone di un porto turistico all’avanguardia. La costiera l’avrebbe potuta godere in toto via mare, raggiungendo i vari siti con il gommone. Soprattutto avrebbe risparmiato un buon 50% sul prezzo dell’immobile, a parità di superficie. Mi guardò come se avessi detto la baggianata più grande del mondo. “Oh yeeeea… posso capire che le case a Vietri sul Mare o a Salerno costano di meno e che la barca deve stare a Salerno, ma ai miei amici una cosa è dire che ho una villa a Positano e altra cosa è dire di averla a Vietri o a Salerno, che nemmeno sanno dove siano”. Il dato più importante di tutta la storia era “poter apparire” agli occhi degli amici come il proprietario di una villa a Positano. E pazienza se ciò significava “sprecare” qualche milione di dollari e perdere un’oretta solo per raggiungere il porto. (Parlare dello “spreco” non è possibile in questo articolo, anche se sarebbe molto interessante: basti dire che NON con ciò che si consuma, ma SOLO con ciò che si SPRECA quotidianamente negli USA, soprattutto in campo alimentare, si potrebbe risolvere il problema della fame nel mondo). Una società sostanzialmente mediocre, quindi, vuole essere rappresentata da uomini mediocri, che sente “vicini”. Uomini colti e raffinati, che pure vi sono, non hanno alcuna possibilità di affermarsi oltre certi limiti. Al Gore, che sarebbe stato il miglior presidente della storia degli USA, è un esempio eclatante di questo postulato. Il Capo dello Stato deve essere un uomo come gli altri, un “brav’uomo”; se fosse superiore, un “uomo bravo”, inquieterebbe. In una democrazia normale si spera che siano i migliori a prevalere. In America, invece, si amano i “winners”. Non importa come siano diventati tali, purché siano e appaiano il più possibile delle persone comuni. Nella campagna elettorale il politico che vuole vincere le elezioni deve preoccuparsi di “assecondare” gli umori della massa, recitando la propria commedia con un tasso di ipocrisia che non ha eguali al mondo. Il secondo emendamento, che costituisce un abominio, è argomento “tabu” per ogni politico che aspiri a vincere le elezioni. Parlarne significa mettersi contro la maggioranza degli elettori e le potenti lobby delle armi: la sconfitta è sicura. La cinematografia, del resto, non ha mai mancato di evidenziare le molteplici e gravi distonie della politica statunitense. Recentemente, poi, con la fiction “House of cards”, si è passati a una divulgazione quasi “didattica” del sistema.


Paradossalmente, invece di “aprire gli occhi”, gli americani sembrano affascinati dallo scarso o nullo senso etico con il quale vengo rappresentati i cinici politici, pronti a tutto pur di raggiungere il potere. Tale virus, tra l’altro, grazie allo straordinario potere condizionante dei media, si sta diffondendo in modo virale anche in Europa. Non a caso, l’attuale presidente del consiglio italiano, ha imposto ai suoi discepoli di abbandonare i classici del pensiero politico e di dedicarsi esclusivamente alla visione della fiction, invitandoli ad emulare i loro colleghi d’oltremare. Un altro aspetto da non sottovalutare è la scarsa propensione degli americani a conferire un potere immenso a una donna. Ho ascoltato il parere di molti amici che hanno sempre sostenuto i candidati democratici, i quali, con sconcertante naturalezza e senza alcun imbarazzo, hanno dichiarato “che non è possibile affidare la valigetta a una donna”. Una estrema sintesi di un ragionamento molto più profondo e complesso, tra l’altro ben sviluppato in un vecchio film del 2000, che invito a vedere: “The contender”, diretto da Rod Lurie. Nel film la vittima del misoginismo statunitense era una semplice “vice-presidente”, che nell’impianto costituzionale americano conta come il due di coppe a briscola, quando la briscola è di un altro colore. Figurarsi ora, nella realtà, con la Clinton! Da qui all’affermazione di Trump, il passo è breve. La Clinton, ovviamente, gli è superiore in tutto, anche se per certi versi rappresenta il lato “B” della stessa medaglia. Se vincesse lei avremmo “il male minore”. Ma a conclusione di questo articolo non me la sento di auspicare la sua vittoria. Bisogna smetterla sia con il male maggiore sia con quello minore. E’ ora che questo mondo inizi ad affidarsi ai migliori. Ovunque.


“EUROPA” E “STATI UNITI D’EUROPA” (1^ Parte) Lino Lavorgna Premessa Gentile Lettore, ho scelto un argomento che, me ne rendo conto, meriterebbe di essere trattato da qualcuno più autorevole di me, cosa che anche il deprecabile stato dell’Europa esige. Spero che non me se ne vorrà per questo saggio, che potrebbe spingere degli scrittori più abili a migliorarlo e a realizzarlo con maggiore discernimento e successo. Non dirò altro in mia difesa se non che questo lavoro è frutto delle mie attente meditazioni intorno alla pace dell’Europa. La gente dovrebbe davvero mancare di carità tanto quanto il mondo manca di quiete per essere seccata da una proposta così pacifica! Carina la premessa, vero? Peccato solo che, pur avendola fatta mia, sia stata scritta da qualcun altro: un certo William Penn, autore della prima proposta di un Parlamento europeo eletto, con il compito di risolvere pacificamente le controversie tra stati. Correva l’anno 1693 e il fatto che risulti attualissima quasi quattro secoli dopo, la dice lunga sulla strada da percorrere, prima di vederlo davvero realizzato quell’antico sogno degli “Stati Uniti d’Europa”, le cui tematiche, che accomunano persone di diversa estrazione sociale e diverso credo politico, propongo mensilmente su questo magazine. Che la strada fosse lunga lo so da sempre e me lo ha ricordato qualche settimana fa uno dei pochi programmi RAI interessanti, “Overland”, mettendo in luce la confusione sulla struttura geografica del continente che, inevitabilmente, si riflette sul concetto di “Europa Nazione”. Ho pensato, quindi, di affrontare l’argomento con un articolo che, necessariamente, devo dividere in almeno tre parti. In questa prima parte parlerò del problema legato ai confini geografici sul lato orientale, precisando subito che è irrisolto e lo sarà sempre, essendo possibile stabilirli solo convenzionalmente. Far convergere su una posizione condivisa coloro che potrebbero ratificarla, infatti, è impresa più ardua dell’attraversare un oceano con una barca a remi. A tal proposito trascrivo quanto chiaramente riportato nell’enciclopedia “Treccani”. “Dal 17° secolo venne proposta, quale confine tra Europa e Asia, la catena degli Urali. Soluzione ancora abitualmente seguita, ma non soddisfacente per vari motivi: a) la catena uralica, poco elevata, non costituisce in alcun modo una discontinuità o una barriera e non ha significato politico, economico, culturale; b) i paesaggi, naturali e umani, si ripetono pressoché identici ai due lati della catena; c) gli Urali terminano alla latitudine di circa 50° Nord. Più a Sud nessun elemento fisico può essere ragionevolmente assunto quale confine dell’Europa”. Quest’ultimo dato determina delle posizioni contrastanti: alcuni ritengono che il confine sia segnato dal corso del fiume Ural; altri dal fiume Emba, entrambi con bacino nel Mar Caspio, distanti poco meno di un centinaio di chilometri. Irrilevante e da scartare a piè pari la tesi di coloro che fissano il confine naturale nella catena caucasica, che si dipana da Ovest a Est tra il Mar Nero e il Mar


Caspio. Non si comprende, infatti, la linea di demarcazione tra Nord e Sud, che convenzionalmente dovrebbe collocarsi intorno al meridiano che taglia al centro il Bassopiano Sarmatico, spostando in tal modo di oltre 1000 chilometri a ovest il confine segnato dagli Urali e avvicinandosi, quindi, alla soluzione più accreditata, sancita dal geografo Philip Johan von Strahlenberg, che fissa i confini sulla linea di demarcazione della depressione del Kuma-Manyč, nel sud-est della Russia. Resta da comprendere, però, come si faccia a conciliare tale ipotesi con l’inserimento nel “continente” dei tre paesi a sud della catena caucasica: Georgia, Armenia e Azerbaigian, dei quali parlerò più diffusamente nella seconda parte e che oggi figurano nell’elenco degli Stati Europei, mentre ai tempi dell’URSS erano inseriti nell’area asiatica, come facilmente verificabile sul Grande Atlante Geografico De Agostini. Sempre dall’Enciclopedia Treccani si apprende che, “nell’impossibilità di definire con esattezza il limite dell’Europa verso Est, si utilizzerà la linea ideale che unisce le foci del Don (Rostov) e della Dvina Settentrionale (Arcangelo), lasciando quindi al di là la massima parte del territorio russo e l’intera regione caucasico-caspica”. Un bel caos, come si vede, perché ogni soluzione prospetta delle “divisioni” territoriali di stati che si trovano un po’ di qua e un po’ di là. Non per mera volontà semplificatrice, ma solo perché ritengo che le “affinità” elettive, laddove persistano (Armenia e Georgia, per esempio, e ovviamente gran parte della Russia, non solo quella meramente occidentale, già inserita nel contesto europeo), possono essere coltivate a prescindere dalla effettiva collocazione geografica, non condivido nessuna delle tesi succitate. Trovo fuorviante e manichea la confusione imperante e soprattutto irrazionale, proprio perché tenta di conciliare l’inconciliabile. Come si fa a stabilire che a dieci metri (o a cento, o a mille metri) più a est dell’ipotetica linea di demarcazione, vi siano tipi umani che possano a giusta causa definirsi diversi da quelli residenti sul lato opposto, ad analoga distanza dal confine? E’ ben chiaro, pertanto, che la struttura dei confini può essere stabilita solo “convenzionalmente” e, soprattutto, va “ridimensionata nella sua importanza”, a favore di un principio universalista capace di creare i migliori presupposti per vivere in pace e in piena armonia. La “mia” Europa, pertanto, sul confine orientale, segue la linea di demarcazione che separa la Finlandia, i tre paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina (oramai senza la Crimea) dalla Russia. Restano fuori, quindi, (ripeto: “geograficamente parlando”) le cosiddette parti europee di Russia e Kazakistan, Georgia, Azerbaigian e Armenia. A sud resta fuori la parte europea della Turchia e, di conseguenza, a maggior ragione ne resta fuori la parte asiatica, tanto per chiudere in modo netto e definitivo ogni discorso sul possibile ingresso della mezzaluna nell’Unione Europea. Cipro del Nord costituisce un abominio e va considerato un territorio occupato indebitamente da una potenza che si avvale del suo ruolo di alleato dell’Occidente per perpetrare, all’interno e all’esterno, crimini e misfatti intollerabili. Cipro del Nord è destinato a ricongiungersi al suo territorio naturale, secondo i dettami della risoluzione 541 dell’ONU e dell’Unione Europea.


Definiti in modo razionale i confini geografici del continente, (non parlo di quelli a Ovest perché non costituiscono alcun problema) passiamo ora alla definizione di “Europa Nazione”, ossia l’insieme degli Stati Europei che possono federarsi sul modello degli Stati Uniti d’America, creando, di fatto, gli Stati Uniti d’Europa. (Continua nel numero di novembre)


NOVEMBRE


A.A.A. STATISTI CERCASI. Lino Lavorgna GLI ANTEFATTI Dall’alba di mercoledì 9 novembre stiamo registrando un diluvio di: “Io l’avevo detto”, insieme con gli immancabili balletti di coloro che, nel cambiare pensiero, sono più veloci dei meccanici di Formula 1 quando cambiano le ruote ai piloti. In realtà, su questo pianeta e dintorni, oltre i diretti interessati e i “tifosi”, che non fanno testo, solo due persone avevano previsto la vittoria di Donald Trump: l’autore di questo articolo (sin dal 29 luglio, in virtù delle analisi e dei sondaggi effettuati autonomamente) e il regista Michael Moore. A risultato acquisito, tutti gli scienziati politici, analisti, giornalai… pardon… giornalisti, economisti, politici e politicanti, hanno consumato fiumi di inchiostro per spiegare il perché di un evento da loro stessi ritenuto “impossibile”, in passato, con altrettanti fiumi di inchiostro. Il tema del mese di questo magazine è incentrato sull’analisi del voto negli USA. Avendo avuto la fortuna di nascere “postumo”, proprio come il principale dei miei maestri, l’analisi l’ho effettuata con largo anticipo: a luglio nel blog personale galvanor.wordpress.com; in questo magazine, nel numero 48 (dalla home page raggiungibile cliccando sul link alla piattaforma issuu.com); sul “Secolo d’Italia”, il 26 ottobre. Non posso fare altro, pertanto, che rimandare i cortesi lettori a quanto “già” scritto prima che le cose accadessero davvero: potrei solo ribadire, infatti, ogni parola. Approfitto dello spazio rimanente, pertanto, per considerazioni di stampo sociologico sugli scenari che si addensano all’orizzonte in virtù della svolta “storica” registrata negli USA, con particolare riferimento alla nostra cara Europa. LA LEZIONE AMERICANA Un vecchio adagio recita testualmente: “Chi non comprende gli scricchiolii della storia, prima o poi precipiterà nella voragine che da essi si formerà”. A prescindere da tutte le complesse cause esposte negli articoli precedenti, il solo fatto che tanti americani avessero ritenuto possibile l’elezione di una donna alla presidenza, la dice lunga su come siano messi da quelle parti. Alain Friedman, che anche se in ritardo qualcosa l’ha capita, ha affermato candidamente che gli USA sono sostanzialmente un paese di scemi e ignoranti: da un lato per il marcato misoginismo e dall’altro per la mancata percezione di questo importante aspetto. Si fosse candidato Sanders al posto della Clinton, ora staremmo a parlare di tutt’altro. Ma così non è stato e quindi è di Trump che dobbiamo parlare. Ribadisco quanto di negativo ho già scritto di lui in passato, mettendo in luce i suoi limiti e le sue ombre. Ho anche scritto però, che è ora di finirla con “il male minore” e la sua elezione, pertanto, risulta benefica perché imporrà a noi europei, finalmente, di darci una mossa. Tutte le dichiarazioni post-elezione fanno chiaramente intendere che è incentrato sugli USA, se ne frega dell’Europa e la stessa Alleanza Atlantica va riconsiderata sulla scorta di nuove prospettive. Di


conferire pratica attuazione al Trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico, poi, non se ne parla proprio. Musica per le orecchie di un vecchio europeista come me. Ora dobbiamo davvero darci una mossa perché non possiamo contare su chi, da decenni, ci toglie molte castagne dal fuoco. (Stendiamo un velo pietoso sulle polpette avvelenate, invece, altrimenti trasformiamo questo articolo in un romanzo). E’ arrivato il momento di crescere davvero e dimostrare quella maturità che serve ad affrancarsi per camminare con le proprie gambe. Basta, pertanto, con il politically correct, osservato anche da chi scrive, in ossequio a un presupposto di tolleranza nei confronti di coloro che sono in ritardo nella comprensione degli scricchiolii della storia, nella speranza (purtroppo vana) che prima o poi potessero “illuminarsi”. Diciamo a chiare lettere, pertanto, che solo un’Europa Unita – veramente unita – può salvarsi dalla “voragine” di cui sopra. I saccenti nazionalisti di ogni latitudine, pieni di crassa prosopopea frammista a profonda ignoranza, sempre pronti a ritenere che il luogo in cui sono nati sia il più bello del mondo, è bene che si scrivano a caratteri cubitali la seguente massima, incollandola in ogni stanza della propria casa: “Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. Imparassero, pertanto, che il mondo non gira intorno a loro e, in molte circostanze, sentire qualcuno ritenersi “fiero” delle proprie radici territoriali, anche quando esse sono fradicie da secoli, fa venire il voltastomaco. “STATI UNITI D’EUROPA”, signori cari: bere o affogare. DESTRA E SINISTRA La questione terminologica per definire l’appartenenza politica delle persone non è mai passata di moda e oggi ritorna prepotentemente alla ribalta, aumentando a dismisura la confusione che già regna sovrana da sempre. Un uomo definito di “destra”, come Trump, vince con il sostegno dei poveri, degli sfruttati, degli arrabbiati, ossia classi sociali che, almeno sotto il profilo dell’immaginifico mediatico, dovrebbero vederlo come il fumo negli occhi, alla pari delle donne, che lui tratta come mero oggetto di piacere e che invece lo hanno sostenuto in massa. Una “democratica illuminata” (si fa per dire, ovviamente) come Clinton, è sostenuta dalle potenti lobby dell’alta finanza e delle multinazionali, dai ricchi di ogni ordine e grado che, sempre secondo l’immaginifico mediatico, dovrebbero costituire l’apparato portante di ogni politica destrorsa. E’ appena il caso di ricordare che la Clinton ha speso dieci volte di più di quanto non abbia speso Trump. Stenio Solinas, in un articolo pubblicato su “Il Giornale” qualche giorno dopo le elezioni, si pone il problema concludendo che può divenire una “patologia” il continuare a definire di destra e di sinistra gli schieramenti in campo, basandosi su una dicotomia che non corrisponde più alla realtà, divisa, a suo giudizio, tra i teorici della globalizzazione e i loro critici. Non lo scrive chiaramente, ma sembra quasi volesse presagire la necessità di una radicale riconsiderazione della terminologia politica, per meglio adeguarla al fluire dei tempi. E’ in buona compagnia sotto questo profilo. Non della mia, però. Ritengo,


infatti, che tanti osservatori abbiano preso un grosso abbaglio. Non occorre cambiare un fico secco, ma prendere coscienza, finalmente, di cosa siano veramente la Destra e la Sinistra. L’errore è quello perseguito da sempre, in una dicotomia pasticciata, confusa e di difficile decantazione. Io sono un uomo di Destra e lo sono sempre stato. Non ho nulla a che vedere con Trump, ma tanto a che vedere con i suoi elettori, che sono nel mio cuore. Il vero problema, quindi, è comprendere “e far comprendere” che essere di Destra vuol dire, semplicemente, essere dalla parte del “Bene”: del bene di tutti! Vi è un intero universo di “Destra”, nel Pianeta. Ciò che manca, ancora, sono gli uomini giusti in grado di incarnarne le istanze, plasmandole in un contesto che le separi adeguatamente dalle contaminazioni negative rappresentate dal qualunquismo e dal populismo. Per essere più precisi, anzi, ben sapendo che rischio molto con quanto mi accingo a scrivere (ma come dicevo innanzi: basta con il politically correct), non è che manchino del tutto. Sono senz’altro pochi, certo, ma vi sono. In Italia, oggi, Gianfranco Fini, dopo aver commesso errori più grandi di una catena montuosa, ha raggiunto una maturità tale che gli consente di configurarsi a giusta causa come l’unico “leader” in grado di rappresentare degnamente una Destra moderna, sociale, europea. Io lo so e lo dico senza riserve. Quando lo capiranno anche altri, avremo fatto un bel passo avanti, almeno in questo Paese. Occorre affrettarsi però. E’ inutile capirlo a voragine aperta.


DOPPIO COGNOME: SCENARI FUTURI LINO LAVORGNA

Qualche mese fa i coniugi Franco Bianco e Milena Rosso hanno avuto un pargolo: Rosario. I coniugi, refrattari a ogni contesto che si configuri come Tradizione, hanno deciso che Rosario debba avere entrambi i cognomi e la Corte Costituzionale ha sancito che possono farlo. Il pargolo, pertanto, ora si chiama Rosario Bianco Rosso. Un’altra coppia di giovani sposi è in attesa della prima figlia: Umberto Verde e Virginia Seppia. I due sono amici di famiglia della coppia Bianco Rosso e hanno già deciso il nome della bimba, che nascerà tra un paio di mesi: Patrizia. Anche loro, manco a dirlo, vogliono il doppio cognome per la figlia che, pertanto, si chiamerà Patrizia Verde Seppia. E’ molto probabile che Rosario e Patrizia, frequentandosi in virtù dell’amicizia dei rispettivi genitori, s’innamorino e decidano di sposarsi. Avremo, in tal modo, la coppia Rosario Bianco Rosso e Patrizia Verde Seppia. Chi si sposa, generalmente, mette al mondo dei figli e noi tutti auguriamo a Rosario e Patrizia di averne tanti e tutti bravi, belli e buoni. Magari il primo lo chiameranno Walter, nome che, a detta degli studiosi, ritornerà di moda fra una ventina di anni. Il primogenito, pertanto, si chiamerà Walter Bianco Rosso Verde Seppia e, ironia della sorte, frequentando il prestigioso liceo internazionale di Verona, s’imbatterà in un’avvenente fanciulla che gli farà battere forte il cuore: Margot Della Valle Dello Stretto Piano. E’ un colpo di fulmine! Fidanzamento immediato e matrimonio subito dopo le rispettive lauree, baciato dalla nascita di un bellissimo pargolo, cui daranno il nome di Ivan, altro nome che, sempre a detta degli studiosi, ritornerà di moda tra una quarantina di anni. Ivan cresce splendidamente, coccolato dai genitori e dai nonni. Quando s’iscrive alla prima elementare, però, un destino crudele gli spezza il sorriso. La maestra, infatti, facendo l’appello, chiama Ivan Bianco Rosso Verde Seppia Della Valle Dello Stretto Piano, suscitando l’ilarità della classe. Ivan, rosso in volto per la vergogna, prende una penna e la conficca nell’occhio del suo compagno di banco, che stramazza al suolo. Attonito, vedendo il sangue che scorre a fiumi e gli altri bimbi che scappano terrorizzati, subisce un terribile shock. Il compagno di banco, che si chiama semplicemente Biagio Brambilla, dopo un delicato


intervento chirurgico e un trapianto, riacquista la vista e torna a vivere normalmente, diventando, grazie a quella triste esperienza, una importante star televisiva, uno scrittore di successo e un seguitissimo attore. Ivan, purtroppo, non si riprende e peggiora anno dopo anno. Viene ricoverato in una clinica psichiatrica di Zurigo, famosa per nuove formule terapeutiche studiate appositamente per curare i figli di genitori cretini. La terapia, però, è ancora allo stato sperimentale e non sempre funziona. Ivan, un pomeriggio, riesce a eludere il controllo e sgattaiola nella zona cucine, dove è ubicata una enorme cella frigorifero tarata a venti gradi sotto zero. Vi entra e si sdraia sul lato opposto dell’ingresso, tra due gigantesche spalle di manzo. Lo troveranno dopo due giorni, con l’espressione che aveva Jack Nicholson, alias Jack Torrance, nella scena finale di Shining. Gentili Mamme che bramate il doppio cognome, non me ne vogliate per questo mio scritto e non consideratemi un vostro nemico: è vero l’esatto contrario. Sono un vecchio cavaliere errante, oramai, che considera la Donna il fiore più prelibato di quel magico giardino, ubicato nello spazio infinito, convenzionalmente chiamato Pianeta Terra. Alla pari di tutti i cavalieri erranti, la venerazione tributata all’universo femmineo trascende i limiti dell’umano sentire e s’impregna dei colori percepibili solo sulle vette del “sublime”. Da quelle vette osservo i fremiti di una umanità sempre più smarrita, nella vana ricerca di un senso lì dove un senso proprio non esiste. E intanto le lancette dell’orologio avanzano impietose, incuranti di chi non riesca a godersi le albe perché imbragato nelle tenebre di una insulsa esistenza. A conclusione di questo articolo, pertanto, consentitemi di invitarvi a tornare a sorridere, abbandonandovi tra le braccia di colui che amate e restandovi a lungo, rinunciando ai pensieri e dando sfogo solo alle sensazioni. Vedrete che sarà bello (ri)scoprire una nuova dimensione del vostro essere. Una dimensione che sa d’antico, certo, e proprio per questo ha radici solide per “proiettarsi” in modo sano nel futuro, che anche grazie a voi sarà sempre più roseo e scevro delle troppe distonie che avvelenano il presente. Acquisita questa consapevolezza, sarà bello accarezzare i vostri figli, ben sapendo che i loro non correranno il rischio di finire in una clinica di Zurigo. Tutti gli “Ivan” che verranno, vi ringraziano anticipatamente.


DOV’E’ LA DESTRA? LINO LAVORGNA I recenti fermenti nel variegato universo del centro-destra, con svariati personaggi che scalpitano per proporsi come possibili leader di una coalizione dai contorni sempre indefiniti, impongono una pacata riflessione. A prescindere dai possibili sviluppi connessi all’esito del voto referendario, infatti, le elezioni non sono lontane e vi è una messe enorme di potenziali elettori “disorientati e perplessi”, per lo più caratterizzati da un profilo culturale medio-alto che, se non “adeguatamente” ricondotti nel loro alveo naturale, perpetueranno la loro condizione di soggetti schifati dalla politica, disertando le urne o incrementando i consensi ai 5Stelle. E’ arrivato il momento, pertanto, di smetterla con le progettualità da week end, per tirare a campare alla meno peggio, e affrontare il problema con la maturità che i tempi impongono, arando il terreno per una buona semina. La querelle sull’attualità dei termini “destra” e “sinistra” è vecchia. Oggi ha solo raggiunto una intensità più marcata, che può essere smontata con un semplice assunto: i termini non sono vetusti, come da più parti si ripete, ma è la confusione nella classe politica, avvilita da un trasformismo senza precedenti e dalla pessima qualità dei soggetti, che li rende tali. Per stroncare la querelle, pertanto, basta elevare il livello della rappresentanza e ridefinire per bene le aree politiche di riferimento. La confusione, a Destra, regna sovrana e da molto tempo. Nell’ultimo ventennio, poi, l’assoluto vuoto culturale ha complicato maledettamente le cose. Questo aspetto del problema è stato diffusamente trattato nel numero 37 di “Confini”, che invito a rileggere. (https://issuu.com/confini/docs/confini37) Oggi assistiamo all’auto-candidatura di soggetti come Salvini e Toti a rappresentare “anche” quella parte di italiani che si definiscono, a pieno titolo e con giusta causa, di “Destra”. Sia detto con il massimo rispetto per la libertà di ciascuno e con tanta serenità: questa è una barzelletta che non fa ridere. L’Italia ha bisogno di una Destra vera, moderna, sociale ed europea, che raccolga la parte migliore e più sana della società, oggi alla deriva, senza rappresentanza politica e costantemente amareggiata nel vedere il termine “destra” associato a personaggi ed entità a loro estranei. Non vi è giorno che le cronache non ci sbattano in faccia la scarsa consistenza etico-qualitativa di tutta l’area che si auto definisce di destra. La contaminazione con il potere, mal assimilato, ha generato un male non curabile in troppi soggetti. Come uscire dal pantano? In un solo modo: bonificandolo e trasformandolo in un “giardino”. Bonificare vuol dire innanzitutto non vedere più associato il termine “delinquente” a qualcuno che la stampa definisce di “destra” e lavorare sodo affinché tale assunto entri bene nelle teste di tutti. L’associazione è impropria e scaturisce da un equivoco durato troppo tempo: un uomo di destra non delinque; chi delinque


non può essere considerato di destra. Punto. Occorre un nuovo soggetto politico, pertanto, guidato da un vero “leader”, che coniughi al meglio le istanze di quella nutrita fetta di popolazione che attende, da troppo tempo, “l’isola che non c’è”. Non sono un illuso ed è chiaro che la strada è in salita. Vi è troppo disorientamento nell’opinione pubblica e mancanza di effettiva volontà propositiva da parte di coloro che, una vera destra, potrebbero crearla davvero. Fare passi indietro non è facile. Sono tanti, però, coloro che dovrebbero avere questa forza, perché le loro contaminazioni con la malapolitica, non sanate con quel momento catartico scaturito dalla nascita di “Futuro e Libertà”, che vide molti soggetti capaci di ritrovare un singulto di dignità, renderebbe il progetto irrealizzabile per il naturale rigetto da parte di coloro che di esso dovrebbero essere i destinatari. So bene che tanti amici stanno guardando con interesse a un nuovo centrodestra capace di catalizzare il consenso della cosiddetta area moderata, da proporre come alternativa al centro-sinistra e ai 5Stelle (Eh sì… non dimentichiamoci che ora il sistema è tripolare!) Guardiamoci negli occhi da “Uomini” e diciamoci le cose con franchezza. A cosa serve questo contenitore? A garantire l’elezione a una nutrita pattuglia di soggetti? Benissimo! Buon pro ne segua. Non si dica, però, che un centro–destra guidato da Salvini o Toti, o da qualsiasi altro “personaggetto”, tra quelli che stanno scalpitando, possa avere la possibilità di vincere le elezioni e governare, perché questa sarebbe un’offesa all’intelligenza di milioni di italiani. Si vive una sola volta e posso capire che qualcuno se ne freghi di regalare il paese a Di Maio o a Renzi pur di sedersi su una comoda poltrona, ma non si spacci il loglio per grano. Nel fronte degli astensionisti e tra gli stessi elettori dei vari partiti dell’attuale centro-destra, vi sono milioni di italiani che non avrebbero esitazioni nel sostenere un vero e “serio” progetto di Destra, capace di coniugare la tradizione con il presente, guardando al futuro. Non ha senso un paese senza una Destra ed è oltremodo grave averne tante, sconclusionate, pasticciate, distorte, prive di linee guida che scaturiscano da un pensiero solido, di alto profilo “culturale”. Vogliamo continuare a lasciare nella condizione di naufraghi le forze più sane del Paese? Vogliamo continuare a vedere i giovani più talentuosi scappare all’estero? Sarebbe un vero scempio! Cerchiamo di ritrovare la retta via e creiamolo davvero un nuovo soggetto politico che si configuri realmente come “Destra” e basta. Poi potremo anche pensare a un programma di governo, da sviluppare con l’area moderata che guarda al centro, con buone possibilità di offrire agli elettori una valida alternativa politica. Prima, però, diamo un approdo valido ai tanti naufraghi che vagano nel Paese con la mestizia nel cuore. Il leader capace di guidare per i primi anni questo nuovo soggetto politico c’è e lo conosciamo tutti. Ha commesso molti errori e lo sappiamo. Ha saputo anche ammetterli, però, e oggi ha raggiunto una maturità tale che gli consentirebbe di essere un vero punto di riferimento e di creare i presupposti per un progetto destinato a crescere nel tempo. Vi sono tante persone serie e capaci nel nostro Paese. Hanno solo bisogno


di una casa da abitare e di occasioni per mettere a disposizione di tutti il proprio talento. Non deludiamoli. Soprattutto pensiamo all’Italia.


HOLODOMOR: IL GENOCIDIO DIMENTICATO Lino Lavorgna Che la storia del mondo debba essere riscritta, è un dato di fatto. Da un lato vanno corrette con un metro più obiettivo le pagine ben note, tramandate con una mistificazione che dura, nei casi più estremi, da millenni; dall’altro vanno rivelate le pagine oscure, quelle antiche e quelle recenti, occultate per i più svariati motivi, non ultimi quelli ancorati alla cinica “ragion di stato”, che sempre privilegia gli equilibri malsani. E’ quanto accaduto, per esempio, con le “foibe”, artatamente dimenticate per non urtare Tito; con il “genocidio armeno”, del quale non si parla come si dovrebbe per non far arrabbiare i turchi e in particolare il suo attuale leader; con il massacro della classe dirigente polacca, occultato per non far dispiacere il prezioso alleato russo nella lotta al nazi-fascismo; con le tante repressioni dei dittatorelli del Sud America, che essendo stati “amici” degli “amici” vanno lasciati in pace, nonostante si fossero macchiati di crimini orrendi. (Provate a trovare, per esempio, il film “La rivoluzione delle farfalle” e il romanzo da cui è tratto, “Il tempo delle farfalle”, e poi ditemi se vi siete riusciti: si narrano le vicende delle vittime di Trujllo, dittatore della Repubblica Dominicana e fantoccio degli USA). Il genocidio di cui parlo in questo articolo è quello perpetrato da Stalin, in Ucraina, dal 1929 al 1933: “holodomor”, ossia “infliggere la morte attraverso la fame”. Non tragga in inganno il titolo: vi furono anche deportazioni, omicidi, esecuzioni, massacri atroci. In totale, sia pure nell’immancabile balletto delle cifre che vede contrapporsi diversi studiosi, è lecito ritenere che in cinque anni furono oltre cinque milioni le vittime della ferocia staliniana. Questo è il numero più accreditato, da citare per dovere di cronaca. Devo precisare tuttavia, che appartengo a una schiera di analisti, minoritaria, che sostiene altre tesi e indica ben altre cifre: circa dieci milioni di vittime, inserendo, quindi, anche quelle perite negli anni successivi al 1933 a causa delle angherie subite, che non figurano nel computo ufficiale del genocidio. E’ appena il caso di citare, poi, cosa abbia rappresentato siffatto sterminio sotto il profilo delle nascite: almeno 3 milioni di bimbi mai nati. Ma procediamo con ordine. L’Ucraina, come noto, diviene parte integrante dell’URSS nel 1922. Nel 19° secolo, quando il territorio faceva parte per metà dell’impero russo e per metà di quello austro-ungarico, divenne il "granaio d'Europa". Il processo di russificazione, già avviato ai tempi dello Zar, fu portato alle estreme conseguenze dopo la fine dell’impero austro-ungarico e la completa annessione del paese. I contadini dell’Ucraina, chiamati kulaki, possedevano grandi appezzamenti di terreno, erano benestanti e potevano utilizzare mezzadri scegliendoli tra i contadini poveri: i kombèdy. Gli utili conseguiti consentivano ai kulaki una vita più che dignitosa, del tutto incomparabile a quella dei kombèdy, intrisa di stenti e sofferenze.


Tale presupposto discriminatorio fu conseguenza della riforma agraria del 1906, che consentiva l’assegnazione delle terre ai contadini, ma solo dietro pagamento di un tributo. In tal modo i contadini poveri diventarono ancora più poveri, mentre quelli in grado di riscattare del terreno si trasformarono in benestanti possidenti. Lenin cercò di correggere la discrasia concedendo delle terre anche ai kombédi. Alla sua morte, però, prese corpo la politica repressiva di Lev Trotskij, che riteneva i kulaki una minaccia per i princìpi comunisti, in virtù della loro condizione privilegiata. Con Stalin si arrivò al genocidio vero e proprio, iniziato nel 1929, dopo un periodo in cui il dittatore sembrava addirittura sostenere le tesi di Bucharin, che auspicava “l’arricchimento dei contadini”, ritenendo l’agricoltura fondamentale per lo sviluppo economico dell’URSS. Stalin cambiò ben presto idea (anche se è più lecito ritenere che il suo pensiero fosse analogo a quello di Trotskij e mistificato per mantenere saldo il distacco con il suo principale avversario interno, che farà poi assassinare in Messico) e attuò un piano di collettivizzazione forzata delle terre, con lo scopo precipuo di trasferire risorse dall’agricoltura all’industria. I kulaki furono colpiti duramente da tali provvedimenti e iniziarono un’azione di protesta e di boicottaggio della politica staliniana. Mal gliene colse. Stalin approfittò dell’occasione non solo per sterminare i dissidenti, ma per realizzare un altro suo proposito (che poi avrebbe attuato anche in Polonia), ossia distruggere il carattere nazionale del popolo ucraino, estendendo, di fatto, le atrocità repressive contro tutti. Furono distrutte le chiese e perseguitati i cattolici. Fu vietato finanche lo “scampanio”, che rappresentava l’identità dei villaggi. Manco a dirlo, sulla scia di quanto già perpetrato dai turchi con gli armeni, fu sterminata l’intellighenzia dell’Ucraina al fine di cancellare la memoria storica del Paese e renderlo più facilmente addomesticabile. Non ebbe pietà neppure per i sostenitori del comunismo, che anelavano a una sorta di autonomia rispetto ai diktat di Mosca. Dal 1929 al 1932 lo sterminio si configurò con gli eccidi materiali e la deportazione in Siberia di milioni di contadini, che perirono tra mille sofferenze. Nel biennio 1932-33 fu attuato lo “sterminio per fame”, perpetrato con la requisizione totale dei generi alimentari e l'obbligo di cedere allo stato tutto il grano prodotto, in modo che ai produttori non restava che morire di fame. Il genocidio è stato qualcosa di mostruoso, in termini numerici superiore addirittura a quello perpetrato da Hitler contro gli Ebrei. La sinistra, per decenni, ha nascosto la testa nella sabbia, nonostante fosse in possesso di tutti gli elementi per “scrivere” una pagina di storia nel rispetto della verità. Solo nel marzo del 2008 il Governo dell’Ucraina e 19 nazioni hanno sancito che si configura come “genocidio” quanto accaduto dal 1929 al 1933 e il 23 ottobre dello stesso anno il Parlamento europeo ha riconosciuto l'Holodomor come un crimine contro l'umanità. Il giorno della memoria è stato fissato, annualmente, nel quarto sabato di novembre. Tra i 19 paesi che hanno riconosciuto l’Holodomor come genocidio manca l’Italia.


“HOLOMODOR” – DINO VALDELLI – PITTORE E ARCHITETTO – ALBINO BG


“EUROPA” E “STATI UNITI D’EUROPA” (2^ Parte) Lino Lavorgna Definiti i confini geografici dell’Europa continentale, passiamo ora a rappresentare il progetto politico proteso all’istituzione degli Stati Uniti d’Europa, che hanno confini diversi. Una entità nazionale, infatti, anche se caratterizzata da una federazione di più stati, deve essere supportata da elementi di omogeneità che possano configurarsi come “idem sentire”, prescindendo dalle inevitabili differenziazioni retaggio della millenaria storia. Già così traspaiono le insidie che rendono l’impresa ardua; la realtà, poi, è ancora più complicata e pregna di delicatissimi problemi, per lo più mal gestiti da governanti specialisti nelle attività dilatorie e capaci solo di rendere l’attuale Unione Europea invisa a tante persone. Con questi presupposti, marcate disomogeneità determinerebbero sul nascere il fallimento del progetto federale. Partendo proprio da quest’ultimo punto, pertanto, prima di individuare l’ossatura della possibile Federazione, cerchiamo di stabilire dei punti fermi. PAESI CAUCASICI: LA SCELTA SOFFERTA. Georgia, Armenia, Azerbaigian. Tre paesi che contano complessivamente circa 17milioni di abitanti, dipanati su un territorio di 186.000 km² (più o meno il centro-sud dell’Italia, isole comprese). Un crogiuolo di culture asiatiche ed europee che costituiscono una fetta importante della storia dell’umanità; un territorio ancora oggi caratterizzato da forti tensioni politiche ed economiche. Come abbiamo visto, alcuni studiosi fissano nella catena montuosa del Caucaso il confine geografico tra Europa e Asia; altri, invece, pongono il serio problema che una catena montuosa non separa proprio nulla e che se si guarda agli aspetti storico-politici e culturali, tutta la regione caucasica “può” essere considerata parte dell’Europa. Ho virgolettato il “può” proprio per sottolineare la difficoltà nello stabilire “serenamente” una collocazione. Non devo spiegare ai lettori di questo magazine i vincoli di amicizia e di umana solidarietà che mi legano al popolo armeno: da decenni, quasi in mesta solitudine, ripropongo le tematiche connesse al genocidio perpetrato dai turchi, che solo lo scorso anno ha subito un impulso conoscitivo più ampio, grazie a Papa Francesco. Basta visitarla l’Armenia, per rendersi conto che l’europeità si percepisce e anche marcatamente. In Georgia e Azerbaigian un po’ meno, ma è chiaro che i tre paesi costituiscono un’unica regione continentale. Cionondimeno, nell’Europa geografica disegnata nel capitolo precedente, questi paesi si trovano a Est del confine fissato e quindi in Asia. Ogni discorso sul possibile processo d’integrazione, pertanto, è chiuso in partenza, fermo restando l’importante presupposto di promuovere una cultura che spinga i popoli ad abbassare quanto più possibile le barriere divisorie imposte dai confini e imparare a convivere civilmente, esaltando al massimo i punti comuni, privilegiando l’aspetto politico su quello economico e gestendo quest’ultimo in modo che, a prescindere dalle aree geografiche convenzionalmente


definite, non si creino squilibri. Utopia? Certo! Per ora lo è! Ma questa è la strada da seguire e questi sono i princìpi da inculcare alle nuove generazioni. Per i tre paesi caucasici, poi, vanno tenute in debita considerazione anche le rispettive realtà contingenti. Fanno tutti parte del Consiglio d’Europa che, è bene precisarlo, è un organismo esterno all’Unione Europea e si propone di “promuovere la democrazia, i diritti umani, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa”. (Con quanto scarso successo, è un dato ben percepibile da chiunque. Meno noti sono i costi della struttura, che ha sede a Strasburgo, e la bella vita dei dipendenti e di tutti coloro che, a vario titolo, a essa sono legati con specifiche funzioni, nei 47 stati membri). Dei tre paesi, l’Armenia è quello che avrebbe più numeri per una possibile integrazione continentale, in virtù della sua storia. Il sentimento è condiviso da larghi strati della popolazione. Paradossalmente, però, l’attuale governo armeno ha tirato un sonoro schiaffo all’Unione Europea, rifiutando di sottoscrivere l’accordo di libero scambio con Bruxelles per rifugiarsi sotto l’ala protettrice di Putin, con l’entrata del Paese all’interno dell’unione doganale euroasiatica guidata da Mosca. Le ragioni di questa decisione sono molteplici e complesse e non possono essere sviscerate in questo contesto. Ne riparleremo. L’Azerbaigian, a livello politico, spinge per l’ingresso in Europa, mentre nell’opinione pubblica non vi è lo stesso fervore che si registra in Armenia. Il paese è ancora impegnato in un latente conflitto con l’Armenia, avanzando “illegittime” pretese sul Nagorno- Karabakh. Tutte cose che già ora confliggono con i presupposti per l’ingresso nell’Unione e si tramuterebbero in un ostacolo ancora più insormontabile per l’eventuale progetto federale. La Georgia vuole entrare nell’Unione, ma la sua democrazia è ancora traballante e sarebbe illusorio sperare in miglioramenti a medio termine, come da più parti si scrive, più ipocritamente che diplomaticamente, per spiegare le ampiamente condivise riserve sul suo ingresso. Nel suo seno, poi, permangono sostanziali e insanabili divisioni, per le quali vale quanto scritto sopra, relativamente all’Azerbaigian. L’Abcasia e l’Agiaristan reclamano l'indipendenza e si sentono fortemente legate alla Russia. La prima regione ha addirittura un proprio esercito e l’odio nei confronti dei georgiani sfociò in un vero e proprio massacro durante la guerra 1991-1993, riconosciuto dall’OCSE come “genocidio dei georgiani in Abcasia”. Circa 30.000 le vittime di una vera e propria “pulizia etnica”. Analoghi problemi si registrano con l'Ossezia Meridionale, che vorrebbe unirsi con l'Ossezia Settentrionale, ossia rientrare nella Federazione Russa. Una complessa matassa, qui solo accennata per grandi linee, ma sufficienti a far percepire quanto sia opportuno considerare inattuabile l’ingresso della Georgia nell’Unione. ALTRI PAESI DELL’EX URSS Bielorussia: sarebbe un’offesa all’intelligenza dei lettori obbligarli a leggere le ragioni del NO secco al paese guidato da un dittatore, “democraticamente” eletto con percentuali vicino all’80%.


Moldavia: bel problema. Vedrei volentieri gli eredi dei Daci nell’Unione e invito tutti a visitare il delizioso staterello, per cogliere il calore di una popolazione ospitale e gentile e godersi i vari siti lungo il corso del Dniestr, a partire dai monasteri dove trovarono rifugio i cristiani durante l’invasione dei Tartari, nel 13° secolo. Sarebbe politicamente complicato, però, accettare la Moldavia ed escludere la Romania, che proprio non ha i presupposti per entrare negli Stati Uniti d’Europa, anche se fa parte dell’Unione Europea dal 2007, portando nel suo seno un bel po’ di problemi. Nella terza parte, tuttavia, siccome la mia “visione europea” è ancorata esclusivamente a presupposti “ideali”, vedrete la Moldavia presente tra i paesi inseriti nella Federazione e la Romania esclusa, pur nella consapevolezza dell’assoluta impossibilità che tale assunto possa trovare pratica attuazione. PAESI DELL’EX JUGOSLAVIA (Con eccezione della Slovenia) Occorrerebbe un intero saggio per spiegare le complesse ragioni che mi spingono a escluderli dal progetto federativo. Se è sempre doveroso pesare le parole quando si parla di certe problematiche, infatti, in questo caso bisogna pesarle con il bilancino del farmacista, per evitare facilissimi equivoci. In mancanza di spazio adeguato, pertanto, meglio tacere, assumendosi solo la responsabilità di dire NO, in scienza e coscienza, senza addolcitori tipo “per ora”, che rappresenterebbero solo una presa in giro. Ciò va fatto anche in segno di rispetto per tutti coloro che, nei vari Stati dell’ex Jugoslavia, alle pene per le tante sofferenze passate, aggiungono quelle scaturite dalla consapevolezza di aver raggiunto un equilibrio personale in linea con i dettami richiesti per ottenere, a pieno titolo, la patente di “europeo”. (Continua)


DICEMBRE


STATO SOCIALE: LA CHIMERA POSSIBILE LINO LAVORGNA 1. PREMESSA Non sembri un ossimoro il titolo dell’articolo: occorreva sintetizzare il concetto da sviluppare e mi è sembrato il più adeguato. Lo stato sociale resta l’unica meta perseguibile per garantire accettabili condizioni esistenziali, ma è sotto gli occhi di tutti il suo fallimento, determinato dal graduale trasferimento dei veri poteri dalla politica alla finanza transnazionale e dalla malsana gestione delle risorse pubbliche. Parlarne rapportandolo a una singola nazione, in una società globalizzata, non è facile; impossibile, di converso, caratterizzarlo a livello planetario in un semplice articolo. Sforziamoci, pertanto, di prendere in esame precipuamente i fatti di casa nostra, riservando solo larvati accenni al resto del mondo. Accantoniamo anche ogni forma di “politically correct”: nell’ultimo trentennio, infatti, molti osservatori hanno oscurato tematiche valide solo per non apparire anacronistici, adeguandosi a stilemi sociologici sempre più somiglianti alle continue riverniciature di pareti fradicie. Grave errore. Si è dimenticato, per esempio, che la strada per la soluzione dei problemi sociali era già stata asfaltata da Socrate e Platone. Gli ossimori veri, di fatto, sono stati ben altri e hanno cesellato un’ipocrisia largamente condivisa nella coniazione di improbabili locuzioni, concepite per mettere insieme il diavolo e l’acqua santa (centro-destra, centro-sinistra, destra liberale). Il tutto condito da un mantra quotidianamente ripetuto fino alla nausea da decenni: “Stiamo precipitando verso il fondo del baratro”. Il fondo, per la verità, lo abbiamo raggiunto da un pezzo ed è nelle sue acque putride e melmose che annaspiamo. 2. CONFUSIONE CONCETTUALE Se chiedessimo a chicchessia di spiegare cosa preveda uno stato sociale, sentiremmo concetti che, anche nella esposizione più banale, descrivono uno stato assistenziale. I più preparati parleranno del “welfare state” e delle tante conquiste ottenute dal diciassettesimo secolo ai giorni nostri su vari fronti: sanità, pubblica istruzione, indennità per i meno abbienti. La sostanza non cambia: i provvedimenti, pur avendo una matrice politica, vengono recepiti nella loro essenza economica. Uno stato sociale, in realtà, è una cosa ben diversa da quello assistenziale, anche se quest’ultimo contemplasse soluzioni innovative e senz’altro valide come il reddito di cittadinanza e lo svolgimento di lavori socialmente utili retribuiti. Siamo ancora alla mano di vernice su una parete umida. Solo in pochi saprebbero rappresentarlo adeguatamente, sancendo il primato dell’Uomo sullo Stato, quello della Politica sull’economia e retrodatando i suoi prodromi di molti secoli. Gli antichi romani avevano compreso l’importanza di soddisfare i bisogni primari dei cittadini e istituirono “l’annona”, ossia la distribuzione gratuita del grano, cui fece seguito quella di altri generi di prima necessità e l’accesso gratuito alle terme e al teatro. Ritenevano, infatti, che “un


popolo affamato è un popolo arrabbiato”. Questo concetto è ben sviluppato in un buon saggio dell’attuale sindaco di Londra, Boris Johnson, “Il sogno di Roma”, scritto nel 2010 e pubblicato in Italia da Garzanti. In esso, il pittoresco politico inglese (che è bene ricordare discende da una famiglia con origini inglesi, turche, russe, ebraiche, francesi e tedesche), sostanzialmente spiega che l’antica Roma dovette affrontare una sfida non dissimile da quella affrontata oggi dall'Europa, alle prese con i problemi interni e con quelli generati dall'immigrazione. Vi è un solo errore nella sua pur valida analisi: la definizione della politica romana come “assistenziale”. L’annona, invece, sia pure embrionalmente, aveva tutti i presupposti di una vera politica sociale: non creava disarmonie ed era strutturata con regole protese a bloccare sul nascere il convincimento che “Papà Stato” pensa a tutto. Il prosieguo della storia dell’uomo, purtroppo, ha via via annichilito questo aspetto e la realtà contingente dimostra – diciamolo senza tanti giri di parole – che la nostra epoca non è in grado di individuare una soluzione al problema sociale, nonostante essa esista, come vedremo in seguito. Questa difficoltà era già stata compresa da Argo Vilella, nel 1978, quando scrisse che “Tutte le riforme e tutte le rivoluzioni sono destinate a fallire se l’uomo non identifica nell’essenza della propria interiorità le cause che conducono dalla decadenza delle antiche istituzioni al vuoto attuale”. (“Una via sociale” – Società Editrice il Falco). L’intero saggio, manco a dirlo, è incentrato sull’importanza della centralità dell’Uomo. 3. CRISI DEL MONDO MODERNO E DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA Negli ultimi settanta anni, soprattutto in Occidente, si è registrato il trionfo della “democrazia rappresentativa”, che consentirebbe di delegare il potere a soggetti in grado di garantire una soddisfacente qualità della vita. Come mai, ovunque, l’uomo è stato così stolto da tirarsi continuamente la zappa sui piedi? Essendo impossibile, per ragioni di spazio, la disamina delle cause temporalmente più lontane, si può solo fare riferimento ad alcuni testi fondamentali, in aggiunta a quelli già citati: “Gli uomini e le rovine” di Julius Evola; “Rivolta contro il mondo moderno”, sempre di Evola e “Il Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Non sorprenda la citazione di un testo scritto nel 1918. Soprattutto i giovanissimi, propensi a considerare vetusto e inutile ciò che precede “l’oggi”, riconsiderino in fretta tale scemenza e tornino allo studio serio dei classici, perché è lì che troveranno molte risposte ai propri tormenti e forse la strada per sconfiggerli. Ritorniamo al tema, pertanto, analizzando due fattori della produzione, capitale e lavoro, che condizionano pesantemente le scelte di ogni individuo. I lavoratori conoscono bene la loro condizione: vi sono i privilegiati, che beneficiano di uno stipendio sicuro, a volte guadagnato scaldando sedie, soprattutto nella pubblica amministrazione; vi sono gli sfruttati, che sgobbano molte ore al giorno, spesso in contesti miserabili. Anche gli imprenditori sanno “ciò che sono”: sia i pochi che si comportano onestamente sia i tanti che schiavizzano le persone (in tutti i modi, anche con ricatti sessuali), corrompono i


politici, evadono le tasse. Un quadro desolante, reso ancora più triste se vi aggiungiamo altre categorie che incidono profondamente sui due fattori: i sindacalisti e i politici. Culturalmente di infima qualità, propensi solo a tutelare se stessi grazie ai continui compromessi con coloro che dovrebbero combattere, a percepire lo stipendio senza lavorare, a concedersi belle vacanze a spese degli iscritti mascherandole da convegni e, quando il ruolo lo consente, a rubare a man bassa nelle casse federali, i sindacalisti rappresentano un corpo non meno marcio di quello politico, per il quale è superfluo ribadire critiche trite e ritrite. Con questi presupposti, quale stato sociale vogliamo creare? In Italia manca la cultura del lavoro e senza di essa si possono solo recitare le sceneggiate che trasudano quotidianamente dagli schermi televisivi e dai giornali buoni per incartare le cozze. Una società marcia fino al midollo non può che farsi rappresentare da persone marce, nella folle speranza di sopravvivere nel proprio orticello, grazie alla “protezione”, indipendentemente da ciò che accade negli altri orticelli. E’ solo quando iniziano a scarseggiare gli ortaggi che si creano le premesse per un cambiamento, anche se molto lentamente, perché nell’occidente l’epoca delle rivoluzioni è terminata e l’ideale romantico che consentiva di rischiare qualcosa per l’affermazione di un principio ritenuto giusto, valido fino alla metà degli anni ottanta, è stato completamente spazzato via dalla veloce mutevolezza dei costumi e il suo assunto è del tutto incomprensibile per i giovani di oggi. 4. IL CORAGGIO DELLA VERITA’: PARLIAMO DI CORPORATIVISMO Da otto anni la crisi economica – che come più volte ripetuto è una crisi dei valori – domina la cronaca quotidiana. I tredicenni di otto anni fa sono cresciuti bruciando un periodo importante della loro vita in una realtà sociale turbolenta e drammatica. La mia generazione, in analoga fascia di età, ha sì vissuto anni turbolenti e drammatici, maturando però esperienze che sono servite a temprare un carattere, a trovare un sentiero, a crescere in fretta. I giovani di oggi vivono esperienze frustranti che li rendono insicuri, con quali nefaste conseguenze è facilmente immaginabile, quando non ampiamente riscontrabile. I vincenti, coloro che emergono dalla massa amorfa e impaurita, volando verso le alte vette del successo, lungi dall’essere i “migliori”, sono solo coloro che più rapidamente riescono a marciare al passo con i tempi, assimilandone le distonie e lasciandosi contaminare da esse, per poi gestirle affinché risultino funzionali ai propri progetti. La genialità trova pratica attuazione precipuamente in quelle attività che generano facili guadagni grazie alle potenzialità del mondo virtuale, non ancora ben decantate dalla moltitudine degli esseri umani, che quindi diventano facili prede. Non è accaduto nulla di diverso quando spagnoli e portoghesi soggiogarono le civiltà precolombiane del Sud-America, depredandole dei beni preziosi il cui reale valore era ignoto ai possessori. Lo stesso settore produttivo si nutre del condizionamento manicheo dei consumatori, cui sfugge la differenza tra un utile aziendale configurabile come corretto profitto e il surplus pazzesco favorito dai prezzi finali fuori controllo, che generano da un lato povertà diffusa e dall’altro


una massiccia concentrazione di capitali. Chi spende ottocento euro (o anche più) per un telefonino che potrebbe essere venduto tranquillamente a centotrenta, consentendo margini “onesti” a tutti, è un idiota. Ma quanti sono gli idioti, sotto questo profilo? Miliardi di persone e quindi non c’è partita, perché il telefonino è solo uno dei mille e mille prodotti con medesime caratteristiche. Nel settore terziario, infine, si pratica una violenza delle coscienze che genera veri mostri. I giovani che si affacciano al mondo del lavoro, magari con le migliori intenzioni, vengono formati ed avviati ad attività truffaldine, da estrinsecare soprattutto a danno delle persone più deboli e più facilmente abbindolabili, a partire dagli anziani. A questi giovani viene inculcato, da autentici criminali che gestiscono società anche importanti e dai fatturati plurimilionari, il principio del “mors tua vita mea”. Sicuramente tra chi legge vi saranno le vittime di compagnie energetiche e telefoniche che hanno stipulato contratti di subentro fasulli, nonché coloro che hanno riscontrato l’azzeramento del credito telefonico in virtù di abbonamenti a servizi mai richiesti. Queste società, ancorché legali sotto il profilo giuridico, basano la loro attività sulle truffe, sulle capacità truffaldine di dipendenti appositamente istruiti e sulla vulnerabilità delle vittime. Uno stato sociale non sarà mai possibile fin quando non si realizzerà un vero equilibrio nei fattori della produzione, superando il capitalismo e la sua degenerazione rappresentata dalla finanza, nonché educando i cittadini a una sana gestione delle proprie risorse economiche, anche attraverso una corretta informazione sui reali costi di produzione. Un processo possibile solo quando la politica assumerà un ruolo che le consenta di essere scritta con la “P” maiuscola e l’economia sarà incanalata nel suo alveo naturale, che è quello di organizzare l'utilizzo delle risorse per soddisfare al meglio i bisogni collettivi e non di essere manipolata per creare disparità sociali e l’arricchimento di pochi. Un sistema economico “sposabile” con questo presupposto esiste e si chiama “Corporativismo”. E’ l’unico! Qui non vi è più spazio per parlarne e pertanto rimandiamo al prossimo numero un’articolata trattazione di teorie tanto valide quanto misconosciute. Qualche anticipo, tuttavia, è riscontrabile nell’articolo dedicato al compianto Gaetano Rasi.


GAETANO RASI: L’UOMO CHE SAPEVA VEDERE IL FUTURO LINO LAVORGNA Correva l’anno 1977 e da meno di due ero stato eletto presidente della Consulta Provinciale Corporativa, in quel di Caserta. Gaetano Rasi, fondatore e presidente della Consulta, lo avevo incontrato una sola volta, in un convegno ufficiale, senza avere avuto la possibilità materiale di interloquire con lui se non per un formale scambio di saluti. Pur appartenendo a una scuola di pensiero che aveva “già” fatto i conti con il passato e si proiettava verso il futuro auspicando una destra moderna, sociale ed europea, guardavo con interesse al Corporativismo, le cui tematiche, se sapientemente interpretate, avrebbero potuto costituire una valida alternativa alle derive marxiste e capitaliste, superando l’anacronistica lotta di classe e legando in modo indissolubile due primari fattori produttivi: capitale e lavoro. E’ bene precisare, tuttavia, che siffatta concezione economica della società, più che azzardata e temeraria, appariva ai più semplicemente incomprensibile e impraticabile. All’interno dello stesso MSI, del resto, la Consulta non è che avesse grande seguito, obnubilata dagli elementi di natura sentimentale e di facile presa per la stragrande maggioranza degli elettori, fortemente ideologizzati. Anche tra i soggetti culturalmente più evoluti, poi, erano tanti coloro che guardavano con disinteresse alle tematiche di natura economica, essendo ben altre le discipline che affascinavano e catturavano l’attenzione. A giusta causa si predicava il primato della politica sull’economia, ma a quest’ultima non si prestava nemmeno l’attenzione che avrebbe meritato e ciò costituiva un serio problema. Gaetano Rasi queste cose le aveva capite benissimo e le predicava con forza e determinazione, soprattutto in prospettiva, avendo ben previsto le radicali trasformazioni sociali che si addensavano all’orizzonte, senza, per altro, riuscire a scuotere più di tanto l’ambiente. Non accadde nulla di nuovo, del resto. Anche in epoca fascista il Corporativismo funse più da “bandiera” propagandistica che da reale elemento di politica sociale. Osteggiato dalla Confindustria, che ne temeva l’ingerenza nella regolazione dei rapporti economici, fu ben presto coperto da una cortina di polvere. Giuseppe Bottai ne fu un convinto assertore, almeno fino al momento in cui Farinacci non gli disse: “Lascia un po’ stare il tuo corporativismo. Tanto, neppure Mussolini lo fa sul serio”. (Diario di Bottai – Rizzoli Editore). Gaetano Rasi ha svolto un lavoro eccellente con il suo Istituto, pubblicando una rivista nella quale scrivevano studiosi e analisti i quali, ancorché schierati, rispondevano precipuamente alla loro coscienza e costituivano un vero punto di riferimento culturale sia per l’approfondimento delle vicende storiche sia per la comprensione della realtà contingente. Il suo sforzo consisteva nell’illustrare la validità del Corporativismo, discostandolo tanto dall’ingombrante passato quanto da una superficiale caratterizzazione prettamente economica, fuorviante e limitativa. Più che una dottrina, infatti, per lui era una filosofia di vita insita nella natura stessa dell’uomo e quindi in vitale effervescenza evolutiva, capace di interpretare la società presente e di incidere


nella società futura con i naturali adeguamenti alla mutevolezza dei tempi. Grazie al mio ruolo iniziai una assidua frequentazione con l’Istituto. Non gli sembrava vero che un giovane di ventidue anni si appassionasse a una disciplina ostica e molto snobbata. Mi regalò molti libri, esortandomi a studiare bene i fondamentali, per poi adeguarli alle mutate esigenze della società, proprio in ossequio al principio sopra esposto. Quando l’intesa divenne più marcata trovai il coraggio di parlargli della mia forte vocazione europeista, ritenendo opportuno confessargli che, non fosse altro per un fatto generazionale, il mio approccio con la storia doveva essere necessariamente diverso da quello di coloro che avevano vissuto, magari con ruoli importanti, l’esperienza fascista. “Puoi dirmi tutto quello che vuoi” replicò, esortandomi ad aprirmi senza riserve. Fu così che gli manifestai il proposito di scrivere un articolo “europeista” sulla rivista, scevro della retorica che portava da un lato a cantare “Europa nazione sarà” e dall’altra a considerare l’Italia il centro del mondo. Il dado era tratto e pertanto, vincendo tutte le ritrosie, gli esposi, sia pure in modo raffazzonato, quello che poi è diventato un punto saliente del mio pensiero: degli uomini possono venire da mondi diversi e anche contrapposti, ma se in buona fede intenti a operare per il bene comune, inevitabilmente molte barriere sono destinate a cadere. E sotto questo profilo, sulle tematiche europeiste, non vi erano sostanziali differenze tra le mie tesi e quelle propugnate da Altiero Spinelli e dai suoi adepti del Movimento Federalista Europeo. Mi sorrise e mi disse che era d’accordo, esortandomi nel contempo a stare “molto attento”, ricordandomi la fine che avevano fatto tutti coloro che avevano precorso i tempi. Cionondimeno accettò di pubblicare l’articolo, nel numero di dicembre 1977. In esso parlavo “anche” del Movimento Federalista Europeo e si può ben immaginare l’ostracismo che dovetti subire da consistenti fette di “amici”. La rivista, però, non era letta dai facinorosi e ciò mi risparmiò un po’ di fratture multiple agli arti. Non mi pesava l’incomprensione, del resto, forte del monito del Poeta che troneggiava, allora come ora, in un poster affisso nel mio studio: “Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui”. A ventidue anni avevo scritto su una rivista nella quale figuravano nomi che facevano tremare i polsi, per storia personale, cultura, statura etica. E avevo parlato di Europa, superando i pregiudizi del tempo. Questa gioia, da sola, valeva tutti gli ostracismi possibili e immaginabili. Sono trascorsi quaranta anni e continuo a scrivere di Europa. Anche l’articolo del 1977 potrebbe essere pubblicato oggi, senza cambiamenti. E questo, senza dubbio, è il dato più triste. Gaetano Rasi ora ci sorride dall’Olimpo dei Giusti, avendo ultimato il suo cammino lungo i sentieri della vita lo scorso venti novembre. Se n’è andato in silenzio, dopo aver vissuto in silenzio. Resta il suo pensiero, che va coltivato come lascito prezioso perché intriso di speranza per un futuro migliore e poggiato su solidi pilastri. Io posso solo ringraziarlo per tutto ciò che mi ha insegnato e soprattutto per avermi capito. Riposa in pace, Maestro.


Gaetano Rasi (Lendinara, 15 maggio 1927 – Roma, 20 novembre 2016). Nelle foto i libri da lui ricevuti in omaggio e l’articolo pubblicato nel numero di dicembre 1977 della Rivista di Studi Corporativi.


“EUROPA” E “STATI UNITI D’EUROPA” (3^ Parte) LINO LAVORGNA Il primo documento scritto in cui compare il termine Europa è il terzo dei trentatré inni omerici, dedicato ad Apollo, risalente all’800 A.C. Parlando di un tempio da edificare a Delo, il Dio del sole e di tutte le arti annuncia: “Qui ho deciso di costruire un tempio glorioso, un oracolo per gli uomini, e qui porteranno offerte pubbliche coloro i quali vivono nel ricco Peloponneso, coloro che vivono in Europa”. Europa è anche il nome della figlia di Agenore, re di Tiro, sedotta da Zeus, che la raggiunse sulla spiaggia della città fenicia dopo aver assunto le sembianze di un toro. L’episodio è narrato da secoli come “ratto di Europa” e presumibilmente manterrà la stessa dicitura anche nei secoli a venire, con il corollario della “violenza carnale” perpetrata dal sovrano degli Dei alla stupenda fanciulla. Ha poco peso, infatti, il pensiero isolato dell’autore di questo articolo, che in precedenti scritti e alcuni convegni ha invitato a guardare attentamente la corposa iconografia che rappresenta quel momento, tutta di altissimo pregio. I pittori, ciascuno per proprio conto e in epoche diverse, hanno avuto una più realistica percezione dell’incontro: nei dipinti non si vedono segni di violenza; i volti di Europa e delle ancelle appaiono sereni e sorridenti. Nessun ratto, quindi, ma solo un cortese invito a montare in groppa, entusiasticamente accettato dalla Principessa. Quale donna, del resto, farebbe storie sentendosi corteggiata da un Dio! E’ proprio insopportabile, inoltre, il solo associare, anche leggendariamente, il nome “Europa” a uno stupro. Furono proprio coloro che veneravano Zeus, del resto, a generare quella cultura senza della quale non si sarebbe mai formata la “nazione europea” così come oggi si presenta, anche nelle sue contraddizioni. Civismo, individualismo, cosmopolitismo, culto della conoscenza, democrazia, da elementi fondamentali della civiltà elladica ed ellenica sono stati assunti gradualmente quali archetipi della civiltà europea. Già Aristotele iniziò a differenziare gli europei dagli asiatici, sia pure con una chiave di lettura pretenziosa e superficiale. (I più curiosi possono sfogliare il libro settimo di “Politica”). Con l’impero romano si crea un forte elemento di coesione tra i popoli europei assoggettati e prende forma il diritto scritto come limite all’arbitrio dell’uomo: “Legum servi sumus ut liberi esse possimus”, pontificava Cicerone, non prevedendo la nascita di coloro che delle leggi avrebbero fatto strame proprio per negare la libertà agli altri. (Correttamente occorre dire anche che non si dovette aspettare a lungo prima che il suo monito iniziasse a essere vilipeso). L’altro elemento unificatore fu il cristianesimo, che creò un forte legame politico e spirituale tra i popoli. Con l’avvento di Carlo Magno si forma una nuova idea di Europa, anche se ancora oggi persiste il dilemma tra chi ritiene che l’impero carolingio fosse un’evoluzione dell’antico impero romano e chi invece lo codifica come prodromo dell’Europa moderna. Di sicuro, proprio con la successione carolingia, inizia quella spartizione dell’Europa che può configurarsi come prodromo di tanti problemi futuri. Nel Medioevo il sentimento di unità europea


assume una valenza essenzialmente religiosa e per Dante non vi sono dubbi circa il primato dell’Occidente sull’Oriente e il compito riservato all’Europa, addirittura per volontà divina, di formare un impero universale destinato a una missione comune di ordine, civiltà, armonia. Agli albori del quindicesimo secolo, Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II, conia il termine “Europeo”. Nel sedicesimo secolo, però, “l’idea Europa” registra un sensibile rallentamento. Profonde lotte intestine generano gli stati nazionali; il decadimento della morale “romana” scandalizza i popoli del centro-nord e anche i cristiani si dividono in cattolici e protestanti. La crisi è profonda, nonostante il consolidarsi dell’Umanesimo e del Rinascimento, correnti di pensiero letterario, filosofico e artistico sorte nel secolo precedente. Tra i più illustri esponenti di questo periodo vi è Erasmo da Rotterdam, che crede fortemente nell’Europa unita, ma solo sotto l’egida del cristianesimo: “Il mondo intero è una patria comune (dove per il mondo s’intende l’Europa cristiana), non gli inglesi, né tedeschi, né francesi; perché ci dividono questi stolti nomi, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?”. Gli fa da spalla un altro eminente umanista e convinto europeista: lo spagnolo Juan Luis Vives, che nel 1529 scrive il “De concordia” ed esorta i popoli europei a trovare una più efficace coesione per respingere la minaccia ottomana. In Italia si leva forte il grido di Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella a favore della piena restaurazione dell’autorità papale. Per descrivere il caos continentale del diciassettesimo secolo occorrerebbe un vero saggio: guerre, discordie politico-religiose e rivolte per l’indipendenza sembrano offuscare in modo irreversibile il sogno europeo. Fu proprio in quel periodo, invece, che il duca di Sully, ex primo ministro di Enrico IV di Francia, redige il “Gran Disegno” e prospetta una “Confederazione di Stati” composta da cinque monarchie elettive (Sacro Impero Romano Germanico, Stati Pontifici, Polonia, Ungheria, Boemia) e quattro repubbliche sovrane (Venezia, Italia, Svizzera, Belgio). La confederazione sarebbe stata retta da un “Consiglio d’Europa” e da un “Consiglio Generale”. Di William Penn ho parlato nel primo articolo di questo mini-saggio: qui basti dire che è sua l’idea del lasciapassare in grado di far viaggiare le persone attraverso gli stati d’Europa senza problemi. La sua intuizione anticipa di molti secoli il futuro passaporto europeo. Gli eventi dal diciottesimo secolo in avanti hanno fortemente condizionato la società contemporanea: di fatto costituiscono la “nostra storia” e quindi è inutile ricalcarne le complesse vicende. E’ d’obbligo solo citare la dichiarazione di un membro dell’Assemblea Costituente francese nella seduta del 21 aprile 1849: “Giorno verrà in cui Francia, Italia, Inghilterra, Germania o non importa quale altra Nazione del continente, senza perdere le loro qualità peculiari e la loro gloriosa individualità, si fonderanno strettamente in una unità superiore e costituiranno la fraternità europea. (Nell’elenco figurava anche la Russia e mi assumo la responsabilità della rimozione, effettuata con il solo scopo di evitare confusione: la contestualizzazione storica non è una pratica facile). Giorno verrà in cui le pallottole e le bombe saranno rimpiazzate dai voti, dovuti al suffragio universale dei popoli. Un Senato sovrano sarà per l’Europa quello che il Parlamento è per


l’Inghilterra, la Dieta per la Germania, quello che l’Assemblea Legislativa è per la Francia. L’edificio del futuro si chiamerà un giorno Stati Uniti d’Europa. Giorno verrà in cui si vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro tendersi la mano attraverso i mari”. Il suo nome era Victor Hugo. Questo excursus, che sintetizza il “sogno europeo” sin dai suoi albori, serve soprattutto a evidenziare gli elementi fondamentali per la costituzione di una federazione di stati sovrani configurabile come “nazione”. La definizione corrente, infatti, che vede nella nazione una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni come la lingua, il luogo geografico, la storia, le tradizioni, la cultura, l'etnia ed eventualmente un governo, non solo non è sufficiente a caratterizzare in modo compiuto il concetto di “Europa Nazione”, ma addirittura risulta ostativa: la lingua comune sarà un problema di non facile soluzione; la storia non ha ancora sanato vecchie ferite; all’interno di molti stati sono ancora forti le contrapposizioni tra entità regionali che aspirano all’indipendenza e governi centrali. La strada, inutile, nasconderlo, è in salita. Una salita resa ancora più impervia da ciò che più chiaramente emerge in quanto innanzi scritto: il forte impulso religioso inferto ai passati progetti federativi. Sarebbe facile, ora, affermare che l’elemento religioso potrebbe costituire un valido elemento di coesione continentale, ma ciò significherebbe condizionare pesantemente il progetto federativo, ancorandolo a presupposti che presentano, contestualmente, una forza (il coinvolgimento di tutti i fedeli) e una debolezza (il limite rappresentato proprio da questa possibilità). Non dimentichiamo, del resto, che già nell’attuale costituzione europea, entrata in vigore il 1° dicembre 2009, è stato escluso il riferimento alle radici cristiane dell’Europa, privilegiando un laicismo ritenuto più in linea con il fluire dei tempi. Bisogna prestare molta attenzione a questo aspetto, che a suo tempo generò un vero conflitto tra la Chiesa e i Governi europei, con dichiarazioni infuocate e bellicose da parte del Vaticano. “La Chiesa in Europa si sente a casa propria e pertanto attende che le venga riconosciuta la cittadinanza europea. Le Chiese si aspettano di vedere riconosciuto giuridicamente il loro ordinamento proprio, in modo da sottrarsi all’arbitrio delle opzioni politiche del momento. La Chiesa dovrà sempre poter parlare di Dio a tutti gli uomini. Nessuno dovrà meravigliarsi di questa pretesa! Non può esistere una “Chiesa del silenzio”: sarebbe un controsenso, tanto più oggi che il Papa chiede che nell’Europa di domani vi sia ancora posto per Dio. (Mons. Jean-Louis Tauran, 14 maggio 2002). “Riconosco all’Italia, in virtù della sua storia, della sua cultura, della sua attuale vitalità cristiana, la possibilità di un grande ruolo per non far perdere all’Europa le proprie radici spirituali”. (Giovanni Paolo II, 21 maggio 2002). “Il futuro Trattato costituzionale dell’Unione Europea deve contenere un richiamo a Dio e al Trascendente”. (Frase estrapolata dal documento della Commissione delle Conferenze episcopali dei vescovi dell’Unione Europea, 22 maggio 2002). Il laicismo insito nella carta costituzionale, lungi dal voler limitare i diritti della Chiesa, tende a salvaguardare quelli di tutti, ossia anche dei non credenti e solo in tal guisa va concepito. Ogni altro riferimento, in particolare alla luce della


realtà attuale, si configurerebbe come una nuova “guerra di religione” e ciò va evitato assolutamente. Gli Stati Uniti d’Europa, pertanto, devono essere caratterizzati da uno spirito che contenga innanzitutto la volontà di stare insieme per essere “più forti” in tutto, preservando le peculiarità culturali. “Uniti nella diversità”, l’attuale motto dell’Unione Europea, è quanto mai azzeccato. Il sogno di inglobare tutti gli stati del continente nel progetto federativo, sin dai suoi primi passi, è meraviglioso, ma irrealizzabile. Sotto questo profilo anche gli europeisti più romantici e incalliti, come l’autore di questo articolo, hanno il dovere di essere realisti. I limiti e i problemi dell’attuale Unione sono ben noti. Travasarli anche in un progetto federativo sarebbe da folli. Nella prima fase, pertanto, una federazione che possa realmente configurarsi come elemento aggregante può essere composta dai seguenti stati: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia - tutti membri dell’attuale Unione Europea ai quali andrebbero aggiunti: Andorra, Islanda, Liechtenstein, Moldavia, Monaco, Norvegia, Regno Unito, San Marino, Svizzera. Poi, per gli altri stati, se son rose fioriranno, perché già così le spine sono tante.


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