Kainòn

Magazine ufficiale del Liceo "F. Fiorentino" n°3

A.S. 2021/2022

kainòn

N°3 Un magazine con cui vi racconteremo di noi, dei nostri studi e delle nostre passioni

L'Editoriale

di Nicolantonio Cutuli E mentre quest’anno volge al termine, mentre un po’ stanchi portiamo a compimento tutte le attività curriculari ed extracurriculari di questo anno scolastico 2021/2022, che hanno impegnato docenti e studenti nel processi di insegnamento-apprendimento, penso agli stati d’animo che hanno attraversato le nostre giornate. Momenti in cui la fatica ha preso il sopravvento, momenti in cui le difficoltà ci hanno duramente provati (malattie, lutti, dispiaceri, delusioni, insoddisfazioni, fallimenti); momenti in cui abbiamo condiviso gioie e soddisfazioni per i successi ottenuti; momenti impegnativi in cui abbiamo sperimentato metodologie educative e didattiche che meglio rispondano alle esigenze di una società in continuo cambiamento; momenti laboriosi di promozione e condivisione di esperienze formative: culturali, artistiche, sportive, teatrali, sociali; momenti di emozioni intense come la Messa del precetto Pasquale; momenti di routine quotidiana di una scuola che cammina in un mondo complesso e contraddittorio, in cui l’insegnamento più che una professione diventa una missione. Diventa sempre più difficile accompagnare i nostri studenti nel loro percorso di crescita personale e culturale, promuovere conoscenze e competenze, creare ambienti inclusivi, per questo accanto alla tradizionale attività di insegnamento, sono stato e sarò sempre pronto ad accogliere e promuovere, le numerose offerte di esperienze e di attività di elevata qualità culturale che, messe a disposizione delle nostre studentesse e dei nostri studenti, consentono loro di sperimentare se stesse/i anche in contesti informali o non formali, così da riconoscere e sperimentare le proprie capacità e intelligenze, la cooperazione, le emozioni, le regole.

A scuola i nostri giovani trascorrono molte ore insieme, manifestano bisogni e difficoltà, manifestano anche risorse e talenti, imparano a conoscere se stessi e gli altri, imparano l’appartenenza ad una comunità, imparano a crescere nel rispetto reciproco e verso tutti, formano il senso civico, condividono passioni, valori, speranze, crescono nel corpo, nella mente e nello spirito, vivono il presente e costruiscono il futuro. Alla scuola vengono affidate numerose responsabilità, dalle famiglie e dalla società, sono sempre più numerosi i problemi educativi legati alla crescita, accanto a quelli tradizionali emergono nuove forme di disagio: disturbi alimentari, disturbi psichici, videodipendenze, bullismo, omofobia, tendenze suicidarie. La scuola, oggi, deve saper far fronte a tutto questo e deve formare persone che sappiano affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri, persone resilienti, quindi capaci di adattarsi e reinventarsi in ogni momento della propria esistenza. Un compito non facile che richiede impegno e dedizione, ma un compito necessario che abbiamo

cercato di svolgere nei modi che, anche attraverso le pagine di questo giornalino, vi raccontiamo.

La nostra scuola: docenti, studenti e personale tutto, con la sua identità storica e culturale, radicata in un contesto di appartenenza, in una comunità locale ma, aperta al mondo, ha accolto la sfida cercando di compiere il passaggio dall’insegnare ad “apprendere” all’insegnare ad “essere” e si è prodigata con tutti i mezzi a disposizione ad ampliare la propria offerta formativa fornendo opportunità di crescita, di esperienza, di socializzazione, di conoscenza.

“L’obiettivo dell’educazione deve essere la formazione di individui che pensino e agiscano autonomamente ma che vedano nella comunità il loro più alto problema di vita” dice Albert Einstein, questo principio guida e orienta la mia personale azione e di conseguenza l’indirizzo che mi impegno a trasferire a tutti coloro che operano e opereranno in questa Istituzione.

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I LUOGHI DELL’ANIMA “Il Teatro Grandinetti” a cura della classe IIC

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“Tutto parte dalla tensione di un corpo, passa poi a quella di una corda, a quella di una trave, subito dopo a quella di un teatro, per finire poi a quella di un cuore.”

L’uomo e il contesto storico-sociale.

Nei primi anni del ‘900 alcuni artisti, giunti nel nostro territorio, suscitarono un forte interesse nella popolazione, particolarmente in Francesco Grandinetti, segretario del Comune di Nicastro.

Egli, spinto da questi richiami artistico-culturali, decise di costruire a Sambiase un primo teatro interamente in legno, che in seguito fu distrutto da un incendio. Alla fine degli anni ‘30, i nuovi fermenti culturali e l’assetto economico e sociale affermatosi a Nicastro, convinsero Francesco Grandinetti a progettare un nuovo teatro, l’odierno Teatro Grandinetti.

Come è stato costruito.

Nonostante lo scoppio della Seconda guerra mondiale e i drammatici risvolti che essa comportò, F. Grandinetti non abbandonò mai il suo progetto culturale, realizzando così uno dei Teatri più importanti a livello regionale sia per acustica che per dimensioni. È importante sapere che, se la guerra non ci fosse stata, noi oggi vedremmo un teatro diverso: moltissimi fregi, infatti, non vennero completati e la loro realizzazione fu ripresa tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ’90 dall’omonimo nipote.

Il teatro e il suo patrimonio artistico.

All’inizio degli anni ’90 Francesco Grandinetti, nipote dell’omonimo costruttore, cominciò ad apportare migliorie al Teatro, commissionando molte opere a svariati artisti calabresi. All’esterno del Teatro si nota la struttura bronzea raffigurante Giangurgolo, maschera calabrese, realizzata dal celebre artista lametino Maurizio Carnovale nel 2010. Questi, assieme a Grandinetti, decise di far volgere lo sguardo della statua verso chi entra, quasi a voler invitare e accogliere l’ospite. Sulla porta d’ingresso, sono visibili dei piatti significativi realizzati dall’artista Antonio Saladino e all’entrata, subito dopo la biglietteria, delle sculture, raffiguranti il teatro napoletano, in

particolare quello di Eduardo De Filippo, persona cara al committente. Salendo le scale, si nota un affresco ritraente molte figure angeliche, in parte ispirate a membri della famiglia Grandinetti realizzate dal pittore Zsolt Lencsès. Subito dopo quest’affresco, percorrendo l’androne delle scale, è presente un’opera di Giuseppe Mainieri che raffigura il mondo unito. Nella sala principale del teatro all’italiana, Francesco Grandinetti ha fat-to porre delle maschere in capo ai capitelli d’oro delle colonne e due grandi maschere sul boccascena realizzate dallo scultore Zoltan Csemniczky; ha, inoltre, fatto realizzare gli affreschi posti sotto i palchi, sempre realizzati dal pittore Zsolt Lencsès. A seguito della gestione comunale subentrata a quella della famiglia Grandinetti nel 2015, una saletta a sé stante, contenente affreschi e un grande quadro di Antonio Caporale, che disponeva 110 posti in galleria, venne sostituita da camerini per gli attori.

Ringraziamo calorosamente tutta la famiglia Grandinetti, in particolare l’ing. Francesco Grandinetti, persona disponibile, che ha subito accolto con entusiasmo la nostra richiesta e che ci ha raccontato con estrema gentilezza la storia di quello che è un importante luogo per tutti noi, cittadini di Lamezia Terme.

PSICHE-SOMA “La minaccia della guerra”

di Jacopo Giuseppe Saturno

“La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire” Albert Einstein

enormi cambiamenti nella società e nel pensiero umano. Dalla guerra sono nati Stati e Imperi che hanno cambiato per sempre (nel bene o nel male ) la storia del mondo, dall’Impero Romano all’Unione Sovietica e molte nazioni sono state edificate sulle fondamenta della guerra, dall’antica Sparta alla Prussia: proprio in quella che Voltaire definì “una grande caserma”, nacquero le più importanti teorie filosofiche del diciannovesimo secolo, da Kant a Hegel, i filosofi prussiani che, cresciuti osservando parate militari, hanno maturato le proprie teorie e riflettuto sulla guerra come negazione stessa dell’istinto umano di autoconservazione, giungendo poi a conclusioni diverse.

Il conflitto ha da sempre caratterizzato la storia dell’uomo fin dalla nascita delle più antiche forme di civiltà.

Già Eraclito sosteneva che padre di tutte le cose fosse il “polemos” e che il mondo non si fondasse sulle placide acque, né sulla volubile aria ma sul “fuoco”, fonte di distruzione e requisito del cambiamento.

Per molto tempo la partecipazione attiva alla guerra è rimasta riservata alle classi superiori, in sostanza a coloro che avevano le risorse per procurarsi un buon equipaggiamento, dai cavalieri medievali ai samurai giapponesi e, in effetti, molte sono state nella storia le categorie di nobili guerrieri che hanno dato vita a leggende sulle loro imprese belliche. Tuttavia nella cruda realtà essa ha sempre significato povertà e dolore per tutti i popoli coinvolti; ideologia, interessi economici, religione indipendentemente dalla causa…la guerra non cambia mai i suoi connotati di morte e devastazione! Non è un caso che nell’immaginario collettivo “Guerra” fosse uno tra i 4 cavalieri dell’Apocalisse.

Ed è del resto innegabile che proprio dalla distruzione, arrecata dalle fiamme della guerra, nascano

Per Hegel la guerra è necessaria, al fine di evitare la fossilizzazione dei popoli. Per Kant, invece, essa è un male e gli uomini e le nazioni dovrebbero unirsi per evitare la reciproca distruzione.

Le avanguardie del Novecento si avvicinarono con le loro radicali idee al pensiero di Hegel, spingendosi a considerare la guerra come fonte di progresso, o addirittura igiene del mondo (basti pensare ai Futuristi) in un’epoca in cui l’avanzamento tecnologico e sociale era visto come l’unica via per migliorare la condizione umana, ma le loro aspettative si scontrarono con la brutale realtà della prima guerra mondiale e vennero così silenziosamente smentiti dai milioni di cadaveri ammucchiati nel fango delle trincee.

Ma non fu Hegel il primo a giustificare la brutalità della guerra come un male necessario, visto che già alle origini della filosofia Platone riteneva che il conflitto tra le nazioni fosse inevitabile e necessario, motivo per cui ogni nazione aveva il dovere di prepararsi al meglio: non è un caso, infatti, che tra le “stirpi”, in cui Platone divideva la società perfetta nella sua “Repubblica”, rivestisse un ruolo di primo piano la cosiddetta stirpe argentea, formata dai guerrieri con il compito di difendere la città. Persino Sant’Agostino ammetteva la guerra se posta al servizio della “Provvidenza divina” e, giungendo poi al Cinquecento, Machiavelli, statista e stratega, scrive-

va “Arte della Guerra”.

Innegabile constatare, pertanto che, la guerra ha sempre suscitato non solo la paura ma anche l’interesse dei più saggi tra gli uomini, che in essa hanno intravisto una componente fondamentale della natura umana: lo stesso Hobbes riteneva che alle loro origini gli esseri umani vivessero in uno stato di natura caratterizzato da “bellum omnium contra omnes” e che quindi la spinta al conflitto fosse endemica e insita nella natura umana, basti ricordare il suo “homo homini lupus”.

Ora, al di là dell’excursus storico- filosofico, ciò su cui vale la pena riflettere è il fatto che la guerra porta con sé enormi quesiti etici: In quali occasioni può essere giustificato uno scontro che si fa, comunque, portatore inevitabilmente di morte?

Qual è il limite al progresso, se esso porta a nuove terribili creazioni di armi di distruzione? Quali confini devono essere imposti alla scienza?

Meno di un secolo fa questi problemi vennero accantonati quando sul mondo si prospettò una nuova terribile minaccia e la più grande delle guerre sconvolse ogni equilibrio, la potenza distruttrice dell’uomo raggiunse il culmine e per la prima volta l’uomo ebbe non solo il potere di fare la storia, ma anche di

mettervi fine.

In epoca recente gli Stati hanno provato a creare Organizzazioni Internazionali, a stipulare accordi e alleanze, ma le fiamme della guerra continuano a bruciare nel mondo, dal Congo ai Balcani, dalla Siria all’Afghanistan, solo per citare alcuni luoghi simbolo di confltti noti ma spesso dimenticati, nei quali gli innocenti oggi come mille anni fa continuano a morire.

Ora che le fiamme del conflitto bruciano nuovamente nel cuore dell’Europa, il mondo ricorda ancora una volta che una pesante spada di Damocle incombe sull’umanità minacciandone l’autodistruzione.

POESIA E MUSICA “Leggeri come fili d’erba”

di Giulia Pagano

L'uomo come un filo d'erba, unico e meraviglioso nella sua bellezza e nella sua fragilità

L’erba ha poco da fare sfera d’umile verde per allevare farfalle e trastullare api.

Muoversi tutto il giorno a melodie di brezza, tenere in grembo il sole ed inchinarsi a tutto.

Infilare rugiada la notte come perle, e farsi così bella da offuscare duchesse.

Quando muore, svanire in odori divini come dormienti spezie e amuleti di pino.

Ed abitando nei granai sovrani i suoi giorni trascorrere nel sogno.

L’erba ha poco da fare ed io vorrei essere fieno.

(traduzione di Margherita Guidacci, BUR, 2012)

Questa lirica di Emily Dickinson è una personificazione dell’erba, percepita sia come elemento naturale che come ecosistema collettivo di immagini. Ogni compito dell’erba è poetico e invidiabile, calmo e delicato; l’intera poesia è ricca di stimoli sensoriali che rimandano a una sensazione di calore e quiete: la natura è sia madre tenera e protettrice che donzella giovane e sognatrice; ogni filo d’erba sembra

danzare leggiadro tra i propri compagni in un ritmo armonioso e impossibile da rompere.

Anche la morte viene vista come portatrice di gioia e ricchezze. Persino la notte, tipicamente cupa e associata alla tristezza, riporta alla mente immagini create per scaldare il cuore; sebbene manchi la luce e quindi non ci sia permesso ammirare lo spettacolo dei fili d’erba, siamo comunque in grado di percepirne il profumo e, la mattina seguente, l’amato tappeto verde si inonderà di perle lucenti.

Alla fine del componimento viene espresso un desiderio interno all’inconscio di ogni uomo ovvero quello di voler diventare fieno: spesso nella società moderna l’uomo è sopraffatto dal frenetico ritmo della vita che scorre rimanendone tramortito e perciò corre perdendo la luce, allontanandosi dal colore e dalla musicalità della vita e, ingoiato e imbottigliato nel fumo grigio dei suoi pensieri, non può far altro che crollare. Arrivare alla consapevolezza di essere solamente dei fili d’erba, renderebbe il continuo tormento dell’uomo molto più sopportabile; sapere di essere nulla in confronto allo spettacolo che fornisce l’intero insieme è un pensiero oltremodo rilassante. Il semplice, ma per nulla banale, comprendere che non è necessario caricare tutto il peso del mondo sulle proprie spalle, alleggerirebbe le ingarbugliate menti che compongono la società.

Sarebbe stupendo essere erba, essere tutti coordinati l’un l’altro e capaci di offrire uno spettacolo straordinariamente fiabesco e inesprimibile a parole, essere in grado di godere

di ogni attimo nella sua interezza, consapevoli di lasciare un segno indimenticabile su questa terra. Questo insegnamento è stato da poco impartito ai giovani attraverso una serie tv molto in voga di un famoso fumettista di nome ZEROCALCARE che, con la sua opera “Strappare lungo i bordi”, ha espresso con parole e mezzi diversi lo stesso desiderio della Dickinson. La frase che meglio racchiude il pensiero di ZEROCALCARE è in uno dei primi episodi e recita così: “Ma non ti rendi conto di quant’è bello? Che sei soltanto un filo d’erba in un prato? Non ti senti più leggero?”.

Anche la musica offre tantissimi altri modi per esporre lo stesso concetto: una cupa richiesta di aiuto da parte di un uomo intrappolato, letteralmente, nel suo grigiore è presente nella canzone “Paint it Black” dei Rolling Stones, soprattutto nella strofa “Maybe then, I’ll fade away / And not have to face the facts / It’s not easy facing up / When your whole world is black” che tradotta dall’inglese è una presa di coscienza della propria condizione di vita in cui l’uomo è talmente disperato da chiedersi se tutto il suo dolore passerà quando lui stesso riuscirà a svanire, consapevole di non essere in grado di affrontare la vita e tutto è dipinto di nero. Essendo però un pensiero così ricorrente tra le menti più elevate, possiamo trovare lo stesso concetto espresso da Walt Whitman nella sua raccolta “Leaves of Grass”, soprattutto nella suggestiva poesia “Canto di me stesso”: Che cos’è l’erba? Mi chiese un bambino portandomene a piene mani; come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia.

Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, fatto col verde tessuto della speranza.

O forse è il fazzoletto del Signore, un ricordo profumato lasciato cadere di proposito, con la cifra del proprietario in un angolo sicché possiamo vederla e domandarci di Chi può essere?

O forse l’erba stessa è un bambino, il bimbo

generato dalla vegetazione.

O un geroglifico uniforme che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di terra, fra bianchi e gente di colore, Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.

(Traduzione di Igina Tattoni, Newton Compton, 2014)

In questa poesia l’erba non è una certezza come per la Dickinson, ma una intensa novità che genera nel poeta la curiosità di un bambino e il bisogno di scoprire. Qui il filo d’erba è il fazzoletto da tasca di Dio, un regalo meraviglioso quanto banale, che rappresenta qualcosa di ultraterreno, maestoso e quasi inimmaginabile. Subito dopo però ritorna l’idea di natura fanciulla, addirittura bambina, che non vede l’ora di crescere e scoprire, espandersi in ogni vicolo del mondo di corsa, veloce ed energetica. L’uomo non può fermare la sua avanzata, può solo guardarla crescere sotto i propri piedi e lasciarsi andare alla visione unica che gli si porrà davanti. La natura non fa distinzioni e grazierà ciascuno di noi con il proprio splendore, nessuno escluso; anche la più insulsa e banale parte della nostra terra, ovvero l’erba, trova centinaia di modi per farsi notare.

LA NOSTRA VOCE SU...

“Lo Sport” di Chiara Doria

Al giorno d’oggi, purtroppo, la maggior parte degli studenti non pratica uno sport; invece, lo sport dovrebbe far parte della vita di tutti, specialmente di noi giovani, questo perché grazie ad esso si instaurano amicizie, si dà libero sfogo alle proprie emozioni, si cresce e si provano nuove sensazioni. Per noi giovani, lo sport rappresenta una possibilità di esprimerci, di comunicare i nostri stati d’animo, di divertirci e di scoprire parti di noi che ignoravamo. Lo sport è una “fabbrica” di continue emozioni che si provano collettivamente con chi condivide le stesse passioni. La possibilità di vivere in gruppo, infatti, è ciò che lega principalmente all’attività sportiva: sentirsi parte di un contesto sociale e raggiungere obiettivi come membri di un gruppo sono dei bisogni primari di chi vive l’adolescenza. Ma lo sport è soprattutto, sinonimo di impegno, sacrificio e grande voglia di mettersi alla prova! Testare i propri limiti e superare paure ed ostacoli, sono le vere lezioni che lo sport ci insegna. Con lo sport, inoltre, impariamo anche ad organizzare i tempi della nostra vita e a gestire più impegni in contemporanea: la vita di uno sportivo, infatti, implica tanto sacrificio sia nell’assolvimento degli impegni scolastici (che non devo-

no venire da meno), nel coltivare le amicizie e nella ricerca del tempo per dedicarsi ad altre attività.

Non sempre è facile, ma il bello di inseguire la propria passione, è proprio mettersi in gioco e testare le proprie capacità di adattamento alle situazioni difficili o insolite. Per noi avere successo nello sport, significa porsi degli obiettivi, e raggiungerli grazie all’impegno e alla tenacia, assaporando la piacevole sensazione di soddisfazione per avercela fatta. Però, essere sportivi significa anche saper accettare la sconfitta, non solo nello sport, ma nella vita in generale: accettare di avere dei limiti e rialzarsi sempre dai fallimenti. Lo sport non è solo un semplice passatempo: per chi decide di intraprendere percorsi agonistici, è come un lavoro a tempo pieno ed è una grande responsabilità; tuttavia riuscire a farcela in mezzo a queste circostanze dure e complicate, è appagante come poche altre cose. Anche se molti di noi ragazzi sono impegnati nello studio, bisognerebbe sempre trovare il tempo per fare un’attività extra scolastica, lo sport in particolare è il perfetto anti-stress alla scuola. Se si vuole veramente qualcosa, la volontà ci aiuterà a riuscire nell’impresa, perché niente è impossibile!

“La settimana dello studente”

Antonio Conte, Paola D’Amico, Camilla Latelli, Federica Pia Vaccaro

Anche quest’anno, a cavallo tra la fine del primo quadrimestre e l’inizio del secondo, gli studenti del Liceo Classico-Artistico F. Fiorentino hanno organizzato la “settimana dello studente”, diventata oramai una consuetudine amata, attesa e apprezzata da tutti.

Con la disponibilità concessa dai docenti, infatti, gli studenti si sono cimentati in attività particolarmente coinvolgenti, le quali hanno favorito la socializzazione, essenziale dopo il periodo così duro originatosi a seguito della pandemia. Gli studenti hanno avuto modo di dar sfogo alla loro creatività grazie all’organizzazione di corsi veramente originali, i quali affrontavano diverse tematiche: orientamenti universitari, debate, cultura generale, musica, arte, simulazione di test in area scientifico-sanitaria, incontri con ospiti esterni e tornei sportivi. Questi ultimi hanno suscitato interesse in gran parte del corpo studentesco, rafforzando l’unità di ogni classe, poiché la stessa faceva il tifo per i compagni che giocavano. Lo sport, inevitabilmente, pur se spesso, a causa del tifo, fa schierare le persone su idee contrapposte, ha un ruolo fondamentale nella crescita formativa dei ragazzi: infatti,

si rivela uno strumento tramite il quale poter stare in gruppo, praticando sport di squadra e condividendo concretamente momenti straordinari per la vita adolescenziale, promuovendo il rispetto delle regole, di se stessi e degli altri. Differentemente dagli anni passati, in cui vi era più libertà nello svolgimento dei corsi e dei tornei, quest’anno, inevitabilmente, anche e soprattutto a causa della pandemia, le cose si sono svolte in modo diverso. Le regole anti-covid, invece, seppur chiare, dettagliate e note a tutti, non sono state sempre rispettate. I rappresentanti, che si sono molto impegnati nell’organizzazione di questa settimana e nel vigilare sul rispetto delle norme, ma, oltre a sollecitare tutti a fare la propria parte, non hanno potuto fare nulla nei confronti di coloro che non indossavano la mascherina. Sommariamente, è stata un’esperienza fuori dall’ordinario, diversa da tutte le altre dello stesso genere, che ci ha concesso un po’ di svago e socializzazione dopo i tanti momenti difficili di isolamento che tutti noi siamo stati costretti a trascorrere.

LA NOSTRA VOCE SU...

“Essere rappresentanti del Liceo Classico - Artistico Fiorentino” di Chiara Vescio

Essere eletta rappresentante d’Istituto mi ha totalmente stravolto l’anno scolastico, ma non solo, mi ha cambiato la vita da studentessa, mi ha impegnata e coinvolta a 360º.

Quando mi sono candidata ricordo di aver avuto tantissima paura: paura di non essere all’altezza, paura di essere criticata, paura di far conoscere me stessa.

Nello stesso tempo avevo una grandissima voglia di fare qualcosa di bello per la mia scuola, per la mia famiglia, perché da sempre considero la mia scuola come la mia seconda casa. Non desideravo altro che fare qualcosa di buono e mettermi in gioco, verificando la mia capacità di diventare un punto di riferimento, un sostegno, per tutti gli studenti e le studentesse del Fiorentino, Incredibilmente e contro ogni mia paura, superando timori e vincendo ansia e preoccupazione, sono riuscita veramente a tirare fuori la parte migliore di me.

Avere questa responsabilità mi ha aiutato a maturare, a prendere decisioni senza rinviare impegni e situazioni connesse al ruolo che stavo rivestendo, non potevo più decidere di lasciare perdere, di fingere di non sapere o di non vedere.

I sentimenti, i desideri, gli obiettivi di tutti gli studenti sono diventati i miei. La loro voce, la mia voce.

Ho iniziato veramente a comprendere quanto potesse essere impegnativo organizzare al meglio un’assemblea d’Istituto, quanta ansia e preoccupazione si potesse provare prima di parlare col preside, quanta delusione e quanti scrupoli potessero nascere quando non tutto andava come volevo che andasse. Essere partecipe direttamente di determinate situazioni e decisioni mi ha permesso di capirne l’importanza, avere a cuore la serenità degli altri è diventato un po’ la mia priorità, riuscire a vedere la felicità sul volto degli altri studenti è stata sicuramente la soddisfazione più bella.

Essere rappresentante mi ha permesso anche di avvicinarmi tanto agli altri studenti. Ho conosciuto persone nuove, con le quali pur frequentando la stessa scuola non ci eravamo mai veramente incontrate, persone stupende con le quali ho condiviso un’esperienza

bellissima, persone che oggi occupano un posto importante anche nella mia vita extrascolastica.

Conoscere, conoscersi e lavorare insieme: questo mi ha consentito di essere “rappresentante d’Istituto”.

Un ruolo non indifferente lo hanno avuto tutti gli altri rappresentanti. Senza di loro, nulla sarebbe stato come è stato. I problemi che sorgevano, condivisi insieme, pesavano di meno, ed insieme, li abbiamo risolti. La “social catena” di cui parla Leopardi l’ho vissuta e compresa, ho avuto modo di comprendere quanto sia veramente indispensabile la solidarietà, per superare divergenze, fatiche, situazioni che da soli risulterebbero troppo gravose.

Le cose più belle si realizzano grazie a più menti e grazie a più braccia.

La scuola è diventata, alla fine di questi cinque anni e con l’esperienza vissuta quest’anno, “il mio posto preferito”. Ne ho compreso più a fondo l’importanza e il valore che riveste per noi giovani, ma ne ho apprezzato anche la bellezza.

Più che mai, adesso, mi sono resa conto di quanto sia bella la mia scuola. Di quante opportunità offra, di quante iniziative proponga, di quanto noi ragazzi siamo amati e curati dai nostri insegnanti, dai nostri collaboratori e dal nostro preside.

Ringrazio tutti per questa bellissima esperienza di crescita, non solo culturale ma anche personale e con già un po’ di malinconia e nostalgia lascio agli altri il testimone, ma sono sicura che ovunque andrò porterò con me il bagaglio che il Fiorentino mi ha dato e che certamente mi sarà d’aiuto per affrontare il mio futuro.

ARTE-FICIO

“Lavorare con arte IV”

E’ stata inaugurata giorno 1 marzo, alla presenza del sindaco Avv.. Paolo Mascaro, dell’assessore alla cultura prof. Giorgia Gargano, del Dirigente Dirigente Scolastico prof. Nicolantonio Cutuli, la mostra didattica del Liceo Artistico Fiorentino di Lamezia Terme, promossa dal gruppo Arte_ficio, lavorare con l’arte Erano inoltre presenti il presidente del Consiglio Comunale Avv. Giancarlo Nicotera Il comandante della polizia municipale dott. Maurizio Marino, il vice comandante Aldo Rubino, il prof.

Franco Cimino che insegna arte della fonderia presso l'accademia di B. A. di CZ; il prof. Antonio Saladino, artista sempre vicino alle attività del Liceo; i genitori degli alunni, i docenti del liceo.

“L'idea nasce, come ogni anno da un accadimento negativo dei nostri tempi: gli incendi estivi che hanno distrutto ettari ed ettari di parchi, boschi, polmoni verdi della terra. Ma come è avvenuto per Inside - la mostra virtuale dello scorso anno - anche il tema del fuoco è stato usato non tanto per esorcizzare il male, ma nel tentativo di dare senso a ciò che accade intorno. Tutti i lavori nascono da una ricerca.

Eraclito, ad esempio, diceva che il fuoco nutre e distrugge. Allora l'idea si estende nel considerare tutti gli aspetti del problema: quello ambientale (Earthfusion) ma anche quello interiore (Heartfusion), per approdare all'Artfusion. Arte come denuncia, condizione e costruzione. In questo modo si ha almeno l'illusione di partecipare ad un'idea di salvezza personale e collettiva. Questa volta intorno vedete oggetti. Tutti noi, dopo il lungo lockdown, sentivamo la necessità di toccare e plasmare la materia, sia essa argilla, colore, metallo, legno. Sono esposte anche delle fotografie, di gesti reali compiuti con il fuoco.

Questo è il segno che malgrado tutto, continuiamo a restare Faber, che la testa e le mani continuano a dare forma e consistenza ai pensieri.

Ora i ringraziamenti il Dirigente Scolastico prof. Nicolantonio Cutuli e tutti gli studenti del liceo artistico.

Grazie a tutto il gruppo Arte_ficio - Antonella Rotundo, Michelangelo Serra, Giuseppe Nisticò, Giulia Casalenuovo, Stefania Dell'Ordine, Monica Coniglio - che con l'entusiasmo e la passione di sempre ha seguito gli studenti e ha lavorato con loro fino a pochi minuti fa. Il tecnico, maestro d'arte Pino Cerullo, che è arrivato da poco nella nostra scuola e si è su-

bito messo a disposizione, con le sue competenze, ad assecondare le idee a volte anche bizzarre dei nostri studenti.

Grazie anche al prof. Diaco dell'istituto comprensivo di Maida, unica scuola che ha partecipato in massa al concorso indetto per le scuole medie. Questo fa vedere quanto è importante il ruolo dei docenti nell'indirizzare ed entusiasmare i ragazzi, sempre.

Ringrazio inoltre tutti gli insegnanti delle discipline curriculari che hanno avuto la pazienza di assecondare il lavoro e si sono spesi per aiutare i ragazzi a risolvere problemi tecnici, in particolare il prof. di inglese Giuseppe Villella, le proff. di matematica e fisica, Letizia Morabito e Carmela Fuoco. Ogni occasione è un pretesto per realizzare splendide lezioni interdisciplinari.”

Dopo un breve saluto del Dirigente Scolastico e l’intervento del Sindaco della Città, è seguita la premiazione degli alunni dell’Istituto Comprensivo di Maida. Premiati: 1° classificato: Sara Voce della II media; 2° classificato: Martina Morgese I media; 3° classificato: Martina Virelli 3° media; Premio speciale fotografia: Domenico Drogo I media; Premio della giuria degli alunni: Antonio Varrese I media e Anna Pilò II media.

Infine i docenti e gli studenti hanno accompagnato gli ospiti a visitare la mostra e hanno nel dettaglio spiegato le varie opere

VIAGGIO NEL CINEMA “Il cinema, una finestra dentro e fuori di noi”

di Asia Molinaro

Quanto più capisci te stesso, tanto più capirai il mondo. (Paulo Coelho)

Uno dei motti più famosi nel mondo della mitologia greca era “γνwθι σαυτoν” ovvero “conosci te stesso”, una scritta incisa a grandi caratteri sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi. Molte sono le ipotesi relative alla sua origine, ma secondo diversi racconti si tratta di un oracolo pronunciato dalla stessa divinità. Nell’antichità questa massima aveva un significato religioso ed era spesso affiancata dal motto “μηδeν aγαν”, cioè “nulla di eccessivo”. Una sorta di invito alla moderazione, al rispetto per gli dei e per la religione, a riconoscere i propri limiti e a non superarli per non peccare di “uβrις” cioè “orgoglio, presunzione” nei confronti della divinità. Nell’oracolo si può però notare anche una moderna esortazione a indagare dentro di sé, per scoprire che quello che cerchiamo spesso è dentro, non al di fuori di noi, così insegna la saggezza greca. Solo chi “si conosce” infatti è realmente consapevole della propria esistenza e della vita e può quindi apprezzarla dando il meglio di sé.

Anche Socrate ritiene che, solo la conoscenza di sé e dei propri limiti rende l'uomo sapiente, oltre a indicargli la via della virtù e il presupposto morale della felicità. Per Socrate infatti una vita inconsapevole e di cui non si è realmente padroni non è degna di essere vissuta. Socrate, Platone, Sant’Agostino, Kant, Nietzsche, il pensiero filosofico esorta da sempre a riconoscere il bello che abita nel nostro animo e nella nostra mente, ma anche la nostra fragilità e imperfezione.

Questi stessi temi sono trattati nel film drammatico-filosofico “Prima di Domani” (titolo originale: Before I Fall), uscito negli Stati Uniti nel 2017, regia di Ry Russo_Young.

Un film coinvolgente e profondo, tratto dal romanzo di Lauren Oliver “E finalmente ti dirò addio”, che trasporta lo spettatore nello stesso vortice di interrogativi in cui è precipitata la protagonista. Nel film si narra la storia di Sam, una ragazza che sembra avere tutto per essere felice, una vita perfetta e senza problemi, fatta di feste, musica, vestiti alla moda, popolarità, sesso. Tutto però cambia dopo un incidente d’auto, è imprigionata in una sorta di loop temporale e si trova costretta a rivivere sempre lo stesso giorno. È proprio trascorrendo sempre la stessa giornata che si rende conto, ogni volta, di un aspetto nuovo: di una persona che ha ignorato e che avrebbe dovuto trattare meglio o della verità sul rapporto con le sue amiche. Alla fine del film Sam capisce qual è lo scopo della prigione in cui è intrappolata: il destino le permette di vivere più volte il giorno prima della sua morte, per cambiare in meglio la sua vita e poter quindi morire in pace. La protagonista si rende conto di ciò

che avrebbe dovuto fare sin dal principio: vivere in modo autentico, senza cambiare per compiacere gli altri e dando il giusto peso alle cose. Decide perciò di dare valore al rapporto con la sorellina e con i genitori, capisce chi sarebbe stato il ragazzo veramente giusto per lei e parla con Juliet, la ragazza che bullizzava con le sue amiche, salvandola dal suicidio. A Sam viene dunque offerta un’ultima possibilità, maturare una nuova consapevolezza di se e delle cose che contano, per migliorare la sua vita e cambiarla: per vivere veramente e morire senza rimpianti.

Tutti dovremmo renderci conto dei comportamenti sbagliati e superficiali che caratterizzano il tempo presente, che banalizzano anche le vite apparentemente perfette. Il tempo scorre e, facendo questa scoperta troppo tardi, l’idea di aver sprecato gran parte della propria esistenza a competere con gli altri o ad emularli o semplicemente ad omologarsi agli altri, potrebbe risultare una terribile sconfitta.

Certo è più facile vivere come faceva Sam

nella prima parte del film, pensando solo a divertirsi, appagare i propri frivoli desideri, sfuggendo alla riflessione e ignorando tutto ciò che non ci riguarda direttamente.

Il “diventa quello che sei” citato nel film è un messaggio diretto a tutti: realizzare la nostra vera natura, costruire liberamente e autonomamente strade da percorrere, esplorare mondi nuovi, fare nuove esperienze, riconoscere le proprie potenzialità e accettare i propri limiti, è la via della felicità, perché la felicità si può raggiungere solo restando autentici, coerenti con sé stessi, unici e irripetibili, per realizzare una vita bella e ricca di significato. Crescere, imparare cose nuove, superare ostacoli e difficoltà, conoscersi in profondità e accettarsi per come si è, costruire la propria identità, conduce ad uno stato di benessere e di pace con se stessi e con gli altri. Questo importante messaggio che nasce nell’antica Grecia, percorre la cultura occidentale, ci giunge dal film “Prima di domani” ma, purtroppo sembra inascoltato da molti.

Conosci te stesso

NON SOLO LATINO E GRECO

“Le olimpiadi di Italiano: una sfida con se stessi”

di Maria Chiara Gigliotti e Anastasia Valentina Marrazzo

la vera sfida è reggere la tensione emotiva nel misurarsi con le proprie abilità - e per di più in una dimensione di competitività.

Gara di Istituto delle Olimpiadi di Italiano 2021-2022: un’occasione per mettersi in gioco e per sfidare se stessi, quanto a padronanza delle strutture della lingua madre, ma anche per riconoscere i propri limiti e per tentare di superarli, al fine di giungere comunque ad una grande soddisfazione personale.

Quella vissuta il 24 febbraio scorso è stata un’esperienza che ci ha permesso di misurare capacità che ci appartengono, ma che noi stesse conoscevamo solo in parte, soprattutto perché - fino ad allora – c’eravamo messe alla prova in altre direzioni; con piena convinzione possiamo ora dire di aver ricevuto uno stimolo importante e prezioso per l’ampliamento del nostro bagaglio culturale e di vita.

Le emozioni sperimentate sono state tante ed intense. Ci siamo prima ritrovate travolte da un’ansia e da un’agitazione quasi invalidanti, e poco dopo pronte a lasciar spazio alla sola voglia di impegnarci al meglio delle nostre possibilità. Il cuore batteva all’impazzata ed era colmo di trepidazione, ma era anche animato del desiderio di scoprire i termini di un’avventura affrontata per la prima volta.

Quanta fatica nel gestire noi stesse in dimensioni emozionali così complesse, quelle in cui

Durante la prova l’ansia e l’agitazione hanno lasciato il posto, pian piano, alla concentrazione e alla serietà indispensabili per la comprensione e il corretto svolgimento dell’impegnativo compito. La paura di non essere all’altezza di un’esperienza di quel livello è scomparsa quando abbiamo compreso di riuscire a superare l’iniziale complessità di preoccupazioni ed emozioni.

Nel momento della consegna della prova svolta e dell’apposizione della firma, un grande sospiro di sollievo è sopraggiunto in noi, insieme al più profondo compiacimento per essere riuscite a superare le nostre aspettative nella gestione di un’esperienza più grande di noi, e di essere state in grado di mantenere una condizione di necessaria lucidità e di opportuna concentrazione.

Straordinario è stato poi il sentimento di appagamento provato nel percepire la soddisfazione negli occhi della nostra docente, fonte continua di motivazione e gratificazione.

Le siamo grate per avere riposto in noi considerazione, fiducia e sostegno. Con lei, punto di costante riferimento, ci sentiamo sicure di noi stesse, anche quando dobbiamo misurarci con le nostre paure nella gestione di ogni sfida didattica.

DIALETTANDO

“Alcuni proverbi lametini” di Lorenzo Colistra

Nella parlata popolare non accade di rado udire, intercalate nel discorso, alcune “massime” della tradizione, che possono essere di vario genere: frasi usate come insegnamento, o per avvertimento, di stampo divertente, di natura religiosa, etico-morale: sono i modi dicendi, “i ditti di l’antichi” ... che ancora risuonano dalle labbra dei nostri nonni e non solo. Qui di seguito mi piacerebbe riportare alcuni dei proverbi lametini più conosciuti e più recitati, con annessa spiegazione, per come mi sono stati tramandati.

In parole povere, la ruota gira. Non stupirti della mia disgrazia, non deridermi: quando per me sarà cosa passata, a te accadrà la mia stessa sventura.

Svelato, in soldoni, quest’arcano popolare!

I guai d’a pignata ’i sa sulu ’a cucchjiara ca riminìa.

Non giudicare o entrare negli affari dell’altro. I fatti, i problemi di qualcuno li può conoscere soltanto chi li vive personalmente.

A gatta presciarola fha lli figghji cicati (lett. La gatta frettolosa partorisce figli ciechi).

Avere fretta non porterà mai buoni frutti. Nella lingua italiana, quest’adagio è traducibile a sua volta con “la fretta è una cattiva consigliera”; ciò si riferisce all'antica arte dell’avere pazienza (Patientia est virtus fortium, direbbero i Latini) e svolgere i propri compiti con la dovuta cautela per non incappare in problemi di cui non si aveva tenuto conto.

Beneditta chilla pasta chi di Vennari si ’mpasta, maloditta chilla trizza chi di Vennari si ’ntrizza.

A lingua unn’ha ùassu... e rumpi llu mastrùassu.

Vengono alla mente alcuni frammenti del poeta Archiloco (secolo VII a. C.): il poeta era innamorato di una certa Neobule, figlia di Licambe. Quest’ultimo inizialmente accettò le nozze, ma quando improvvisamente ritirò il suo consenso, la versificazione archilochea, a mo’ di reazione, fu così violenta da indurre il padre della ragazza al suicidio.

Quanta vis, ovvero ferocità di parole! La lingua non ha osso, ma è capace comunque di far male, ecco il senso, allora! ’Un ti fhari gabbu d’u mia dùalu, quandu ’u mia è viacchjiu, ’u tua è nuavu.

Proverbio legato alla spiritualità del Venerdì Santo, giorno della Passione di Cristo. In tempi più remoti, in segno di assoluto rispetto per Gesù, in questa giornata ri-memorativa di lutto, ci si nutriva del minimo indispensabile: era vietato ridere, suonare, cantare, assumere atteggiamenti festivi. Le donne si vestivano di nero e non si pettinavano (ecco perché è “maledetta la treccia di capelli che di Venerdì si intreccia”). Era consentito, però, impastare farina, e con molta probabilità è da qui che scaturisce la consuetudo di preparare i lievitati tipici della Pasqua calabrese (cuzzupe, fraguni etc) proprio nel giorno di Venerdì (ecco perché, al contrario, è “benedetta quella pasta (impasto) che di Venerdì si impasta”).

Ammuccia ammuccia... ca pari tuttu.

Inutile nascondere le cose. La verità, prima o poi viene sempre allo scoperto.

“L’antichi...’un si sbagghjiavanu mai!” - sentiamo spesso dire. Ed è vero!

PILLOLE DI CLASSICI “La Canzone di Achille e il ruolo del mito” di Ginevra Scicchitano e Valeria De Grazia

“Dimenticate la violenza e le stragi, la crudeltà e l’orrore. E seguite invece il cammino di due giovani, prima amici, poi amanti”

Madeline Miller, ricercatrice e maestra di antichità classica, nel suo romanzo d’esordio “La canzone di Achille” (che nel 2012 ha vinto il Women’s Prize for Fiction), ricorda la storia d'amore e di morte di Achille e Patroclo, una vicenda che ha lasciato tracce particolari: un legame tra uomini sottratto da ogni esasperazione e riconsegnato alla disinvoltura con cui i greci antichi riconobbero e accettarono l'omosessualità. Tra uno spruzzo di sangue, una lama sfoderata e una vita spezzata, ci incamminiamo silenziosi come serpenti e raggiungiamo la tenda di Patroclo e Achille, due anime che si fondono in un sentimento tristemente dolce e autentico, come un unguento che allevia la dura e arida violenza dalla quale sono circondati.

Quella della Miller è una rivisitazione attenta, accurata in ogni stadio della vita dei due personaggi principali.

Due uomini ai quali è stato chiesto il più grande dei sacrifici: le loro stesse vite. E Patroclo forse si sacrifica più di una volta per Achille.

E anche colui che sa come andrà sviluppandosi la vicenda, che conosce il finale, non rinuncia e seguire angosciosamente le vicende di questi eroi, chiedendo loro di non andarsene ancora, di non andarsene, di restare giovani ancora un po’ perché la realtà futura sarà dolorosa.

Ma per quanto si possa strepitare e dibattersi fra una pagina e l'altra, gli eventi seguiranno il loro corso. Puoi solo fermarti come un'ombra accanto a Patroclo e Achille, su quel campo di battaglia, sulla sabbia calda e dorata e vedere come due uomini, che si sono appartenuti riusciranno ad essere la pace l'uno per l'altro, in tempo di guerra. Vedere come la lotta per la conquista di Troia si converte in una battaglia per ricordarci di restare umani. Vedere come persino il più puro dei cuori può diventare brutale se scagliato da una parte all'altra dai continui giochi di potere.

La canzone di Achille è sostanzialmente un immenso atto di immolazione e dedizione in grado di racchiudere un messaggio autentico molto forte che lascia le spiagge di Troia per arrivare fino ai giorni nostri a testimonianza di come nell'amore non ci sia mai nulla di sbagliato, ma solo qualcosa di incredibile, coraggioso e umano.

La modernità della canzone di Achille risiede anche nello spogliare la tradizione mitica dagli scudi, dalle lance, dai cimieri, insomma da tut-

ti quegli elementi che presentano le vicende in una dimensione assai lontana dalla nostra, trasformandola in una storia concreta, più umana e sensibile. Achille viene dipinto come forte, temerario, rapido, riflessivo, dominato da grandiose passioni e, mentre combatte, gioca a dadi e canta con passione, Patroclo lo scruta in disparte e, lentamente inizia ad amarlo. E Achille sceglie lui, come compagno di vita, il figlio di Menenzio, un ragazzo goffo e timido. La grandezza di Achille è ben nota agli occhi di tutti, ma dove risiede il fascino di Patroclo? La risposta è molto semplice: nella sua dolcezza e nella sua sensibilità. In un universo in cui è la guerra a renderti eterno, Patroclo non è d’accordo con Achille, rifiuta il combattimento. Egli ama la vita e non vuole essere ricordato come il migliore dei greci, eppure Madeline Miller lo riconosce tale, mettendo in discussione i valori che definiscono la grandezza di un uomo. Infatti, da una parte vediamo Achille posto accanto a Odisseo, Ettore e Diomede, mentre dall’altra un ragazzo che, dietro le tende dell’accampamento, passeggia insieme alle schiave di Troia, trattandole con rispetto, un eroe che senza esitazione sfila frecce

da braccia e gambe e non esita a curare le ferite dei soldati insanguinati. In questo libro c’è un ragazzo che aspetta l’estate per raccogliere i fichi più buoni, come regalo di compleanno per l’amato, c’è un piccolo uomo denigrato dai grandi re e dalle divinità, ma amatissimo dagli ultimi.

Dietro al volto di Patroclo c’è un mondo mite e silenzioso. La Miller ha avuto il grande merito di avercelo ricordato e il lettore la grande fortuna di averlo riconosciuto. Tutto ciò è stato possibile grazie all’affascinante ruolo del mito. Perché il mito è una storia che decidiamo di accettare, ci crediamo e diventa per noi realtà. Il mito è un racconto verosimile, che ci traporta lontano dal quotidiano, ad esso aderiamo, ma ci spingiamo oltre il racconto, cercando in esso le risposte ai nostri quesiti esistenziali. Esso ci porta oltre la dimensione terrena, nella narrazione stessa, tra domande e risposte che muovono la nostra immaginazione, per comprendere ciò che altrimenti sarebbe incomprensibile, per vivere emozioni, imparare valori e insegnamenti che possono aiutarci a dare un nuovo volto al nostro mondo, alle nostre relazioni.

STORIA E STORIE “Artemisia Gentileschi”

di Alina Costantino, Natalia Mancari, Alessia Vescio

Un’artista del Seicento che testimonia forza, coraggio e determinazione, una donna tenace, che nonostante i pregiudizi e le ostilità che ha dovuto affrontare, ha rischiato tutto, anche la sua stessa carriera per difendere la sua dignità: Artemisia Lomi Gentileschi

Artemisia Lomi Gentileschi nacque a Roma l’8 luglio 1593. Stimolata dal talento del padre pittore, che guardava dipingere affascinata e con ammirazione, venne da lui avviata alla pittura. Fu lui ad insegnarle: la macinazione dei colori, l’estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli.

Artemisia imparò la pittura tra le mura domestiche, anche perché non poteva farlo diversamente: la pittura, all’epoca, era considerata una pratica esclusivamente maschile. Artemisia fu conquistata dalla pittura caravaggesca. Il padre orgoglioso del talento della figlia nel 1611 la affidò alla guida di Agostino Tassi, un pittore talentuoso, ma con un carattere impulsivo e collerico, il quale accettò di iniziare Artemisia alla prospettiva. Tassi, tento di conquistare Artemisia, ma dopo i suoi ripetuti rifiuti, la violentò.

Questo tragico evento influenzò in modo drammatico la vita e il percorso artistico della Gentileschi.

Il padre, tacque sulla vicenda nonostante Artemisia l’avesse informato sin da subito e Tassi le promise di sposarla, per rimediare al disonore arrecato. Nel marzo del 1612, Artemisia scoprì che Tassi era già sposato, e quindi impossibilitato al matrimonio, indignata e furiosa, indirizzò una rovente questione al papa Paolo V per denunciare il suo malvagio collega, accusandolo di violenza sessuale. Fu così che ebbe inizio la vicenda giudiziaria. La Gentileschi affrontò il processo con coraggio e determinazione, nonostante le difficoltà incontrate: falsi testimoni arrivarono a mentire svergognatamente pur di danneggiare la reputazione della famiglia Gentileschi. Per verificare la veridicità delle sue dichiarazioni, le autorità giudiziarie ordinarono addirittura che la Gentileschi

venisse costretta ad un interrogatorio sotto tortura, così da accelerare il riscontro della verità. La tortura subita fu quella «della sibilla» che consisteva nel frantumare le falangi. Con questa terribile tortura Artemisia rischiava di perdere le dita e di non poter più dipingere. Tuttavia lei voleva si facesse giustizia e nonostante i dolori che fu costretta a patire non sconfessò la sua testimonianza. Fu così le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi a cinque anni di reclusione o in alternativa all’esilio perpetuo da Roma, anche se tale pena non fu mai scontata.

Dopo il processo, Artemisia Gentileschi si sposò con Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore. Le nozze furono organizzate dal padre, come matrimonio riparatore per ridare onorabilità alla figlia.

Artemisia seguì il marito a Firenze, lasciandosi alle spalle l’oltraggio subito e la presenza oppressiva del padre. Qui, dove l’arte era fiorente e dove lei riscosse notevole successo, dipinge per i Medici, è la prima donna a essere ammessa all’Accademia del disegno dove conosce Michelangelo Buonarroti e Galileo Galilei, che influenzeranno la sua evoluzione artistica.

Dopo il soggiorno in Toscana, ritornò a Roma dove le furono precluse diverse attività, per cui si trasferisce prima a Venezia e poi a Genova. Dopo queste vicissitudini la Gentileschi non era più considerata una giovane pittrice inesperta e impaurita, ma, molti appassionati d’arte e pittori, sia italiani sia stranieri, apprezzavano il suo talento artistico. Infine nella ricerca di un ambiente culturale stimolante, andò a Napoli dove muore durante la peste del 1656. Scompare così una donna d’arte che, in un contesto riservato agli uomini, ha saputo opporsi a pregiudizi, violenze e soprusi e affermare se stessa come artista, riversando nei suoi quadri il dolore della sua vita tormentata.

Autoritratto come suonatrice di liuto In questo autoritratto si vede l’artista aggrappata ad una ruota di tortura spezzata con uno sguardo di sfida. Quest’opera fu indirizzata quasi certamente ad Agostino Tassi che le aveva usato violenza, di cui Artemisia offrì testimonianze tristissime, anche sfidando torture brutali per dimostrare la verità del suo resoconto. Il trauma lascerà in Artemisia segni indelebili che si riflettono in molte delle sue opere. La raffigurazione di una santa è un soggetto insolito per Artemisia, è possibile pensare che fosse affascinata dalla figura di Caterina d’Alessandria molto esperta in filosofia e perché Caterina, come Artemisia, svolgeva un mestiere tipicamente maschile in una società fortemente maschilista.

Autoritratto come allegoria della pittura Autoritratto dipinto a olio su tela, realizzato nel 1638-39. E’ ritratta una donna che porta al collo una lunga catena d’oro con un medaglione a forma di maschera, ha i capelli neri, indossa una veste di colore cangiante, tiene con una mano il pennello e con l’altra la tavolozza con il braccio destro ampiamente sollevato, per raggiungere un’invisibile tela su cui si concentra tutta la sua attenzione. Sono tante le eroine bibliche che compaiono nei quadri della pittrice, ove si pensa che ritornino i suoi tratti somatici: le guance piene, le labbra carnose, il mento volitivo. Gli stessi tratti ricorrono anche in questa Allegoria.

Susanna e i vecchioni La prima versione del quadro (1610), fu esibita dal padre Orazio come prova della maestria ormai raggiunta dalla figlia. È un dipinto a olio su tela realizzato nel 1622 dalla pittrice. L’opera si ispira alla prima fase della pittura di Caravaggio tanto che la testa della fanciulla richiama il volto della Maddalena penitente, da lui realizzata precedentemente e forti richiami si hanno anche nelle carni rosee e sode e nella luce chiara e diffusa. Susanna è la figura centrale dell’opera. Sorpresa dai vecchioni cerca di coprirsi con camicia, simbolo della sua purezza. I due uomini, posti alla sua sinistra, sono ritratti in abiti nobili, come si nota dalle preziose vesti damascate gialle e marroni o dall’intenso colore rosso di una tunica.

INTERVISTA A...

Anton Giulio Grande

di Caterina Carnevale, Alessia Casella, Mariateresa Suppa Definito “l’enfant prodige dell’haute couture” per il suo precoce esordio, è ancora il più giovane stilista dell’alta moda italiana, con quasi venticinque anni di sfavillante carriera costellata da numerosi riconoscimenti in Italia ed all’estero. Lametino, di fama internazionale, brillantemente laureato al Polimoda (premiato come miglior allievo in occasione dei venti anni dell’Università della Moda) e in parallelo all’Università di Firenze, Laurea Magistrale con il massimo dei voti in Lettere moderne, e Master al Fashion Institute of Technology (FIT) della New York State University.

Per noi semplicemente Anton Giulio, ex alunno del Fiorentino, in una chiacchierata intensa e illuminante, a riprova di come l’atavica caparbietà calabra, l’ambizione e la voglia di riscatto possano condurre lontano.

Anton Giulio, hai lasciato la nostra terra da ragazzo: cosa ti è rimasto e che rapporto hai oggi?

Ho un rapporto bello che non si può e non si deve recidere: amo viaggiare e ve lo consiglio, ma tagliare i ponti con il passato è da ingrati, equivale a voltare le spalle alla propria Madre. Sono orgoglioso di essere calabrese, nato da una famiglia perbene che mi ha insegnato valori importanti e l’educazione. Lamezia, città molto bella, sarà sempre il mio porto sicuro, pur avendo vissuto a Parigi, in Svizzera, negli Stati Uniti.

Negli anni non ho visto la Calabria molto cambiata: sta a noi non abbandonarla e farla evolvere, ricordando che siamo figli della Magna Graecia con un patrimonio culturale immenso. La cultura è l’unica vera arma di riscatto!

In passato hai rivelato d’aver subito atti di bullismo: vuoi parlarcene?

Sì, ho subito bullismo: al tempo era molto forte anche perché tabù; oggi se ne parla e spero sia meno diffuso ma, se vi capitasse di assistere a tali atti, abbiate il coraggio di denunciare. Ancora ricordo con sofferenza gli scherni per le mie passioni, come la moda, e sebbene ciò mi abbia spinto a realizzare i miei sogni con maggiore fermezza, vi esorto a non essere gregari: il branco può uccidere se una persona non ha un carattere forte!

Ti sei formato professionalmente a Firenze: come hai maturato la scelta del Polimoda?

Inizialmente nemmeno i miei credevano che l’amore per la moda, manifestato fin dalle medie, potesse essere più di un hobby: ero un bravo liceale, autodidatta nel disegno, destinato a ben altro che a un mestiere ritenuto effimero e fuorviante. La vocazione, però, si era

impossessata di me, rendendo sempre più pressante il desiderio di evasione da un contesto opprimente, sicchè ho maturato la decisione del ‘salto’ studiando tanto pur di concludere in anticipo, ma con onore, il liceo. Grazie ad un’inserzione rinvenuta su una rivista femminile comprata in segreto, venivo a conoscenza della prestigiosa Scuola di Moda di Firenze, a numero chiuso, e inviavo la mia candidatura, forte solo della mia ambizione. Sono partito a 17 anni con una valigia piena di sogni, su un treno notturno, con mia madre che mi accompagnava mal volentieri, ma da lì si è aperto un mondo: dal brutto anatroccolo quale ero considerato qua... mi sono trasformato in un cigno!

Hai debuttato a Piazza di Spagna con la tua griffe a soli ventitré anni: ricordi la prima sfilata?

La più bella, quella che ricordo ancora perché era esattamente ciò che desideravo: Roma, l’Alta Moda, fare la mia sfilata personale e poi essere ‘promosso’ dal Presidente della Camera della Moda a fare la scalinata dei giovani. Era il 1997, timido, impacciato, scendevo la scalinata di Trinità dei Monti con a fianco modelle bellissime e in diretta mondiale.Che emozione, che bel riscatto!

Come ha influito la formazione classica sulla tua vita?

Ha influito tantissimo. La mia tendenza sarebbe stata frequentare il Liceo artistico, ma era a Catanzaro e sconsigliato. I miei genitori mi hanno orientato al Liceo classico e ancora li ringrazio. Spesso vi sentirete dire che le lingue classiche siano inutili ma io sono convinto che se più gente studiasse il Latino, il Greco e la letteratura il mondo sarebbe soprattutto meno violento. Se potessi tornare indietro, rifrequenterei il “Fiorentino” e con uno spirito nuovo: non con l’obbligatorietà dello studio scolastico ma apprezzando appieno la bellezza e la modernità di autori, come Cicerone, che poi si riscoprono nel tempo. Durante il lockdown, mi hanno fatto compagnia molti libri: ho riletto anche la Divina Commedia e lo consiglio, con il supporto video di grandi attori teatrali.

Qual è stato il tuo primo approccio al mondo della Moda?

Segretamente, con la paghetta settimanale, compravo le riviste di settore come Grazia, Amica. Al tempo non c’era Internet e diversamente bisognava aspettare il sabato sera per vedere, in televisione, un vestito di alta moda indossato da artiste come la Carrà, la Cuccarini.

Ammiravo queste donne bellissime vestite con piume e paillettes e, probabilmente, è stato quello il mio primo approccio alla moda. Il mio stile è stato influenzato da quelle reminiscenze, riecheggiando Ferrè, Valentino, Versace… i grandi stilisti di un mondo fantastico che coniugava bellezza ed eleganza.

Si discute spesso della dieta troppo rigida delle modelle, tu cosa ne pensi?

Ogni periodo storico ha dei canoni di bellezza differenti.

Un tempo le donne troppo magre venivano associate alla fame e al duro lavoro, si preferivano le donne con curve abbondanti. Oggi, invece, la tendenza è diversa.

La modella, però, svolge un mestiere, non bisogna dimenticarlo: necessita di alcuni requisiti, per quanto discutibili possiamo reputarli. La modella pubblicizza un prototipo e ha il compito di sfilare e di indossare bene l’abito: le diete sono molto rigide ed è un lavoro estenuante, anche psicologicamente, data la brevità della carriera. Tuttavia, esistono tante forme di bellezza, non tutte ricollegabili al lavoro di modella, per cui ognuno dovrebbe assecondare le reali inclinazioni e valorizzare la propria unicità. In questo periodo, più che mai, anche gli stilisti stanno sdoganando gli stereotipi estetici e ogni tipologia di corpo sta avendo la sua rivincita. Basti pensare a Paloma Elsesser, modella curvy tra le più famose al mondo, o Armine Harutyunyan, che si è fatta strada con la sua bellezza non convenzionale fino a lavorare per Gucci.

In particolare, quali stereotipi vuoi abbattere con le tue collezioni?

Vorrei scardinare l’idea che la bellezza sia appannaggio di un’èlite di persone. Tutti devono poter apparire belli.

Ho vestito donne di ogni età e taglia ed è questa la bravura di uno stilista: saper valorizzare qualsiasi tipo di corpo. Frequentemente utilizzo le piume: segno di rispetto per l’animale (che non muore) e, soprattutto, simbolo della donna leggiadra che sogna la libertà ma, purtroppo, ancora oggi è spesso vittima di violenza.

Auspico un mondo fondato sul rispetto, sull’autentica parità e indipendenza anche economica della donna.

A voi adolescenti suggerisco di investire nello studio, di ritenere la scuola il vostro posto di lavoro ove venire per affinare le conoscenze e competenze, vestendo in modo garbato, decoroso e sempre nei limiti della decenza.

Nelle tue collezioni sono costanti pizzi e paillettes. Ti sei ispirato alla tradizione calabrese?

Assolutamente sì: ho sempre amato, ad esempio, i costumi tradizionali delle pacchiane e, soprattutto, le gonne plissettate, gli scialli, il bustier… sono stati questi capi rivisitati a rappresentare la mia fortuna. In

Calabria abbiamo una tradizione del cucito e del ricamo stupenda che mi ha aiutato molto nella mia carriera.

Leopardi nel Dialogo della Moda e della Morte è critico verso la Moda che definisce sorella della Morte, entrambe nate dalla Caducità e immortali.

Cosa pensi al riguardo?

Ritengo che il concetto di moda esista da sempre: gli uomini primitivi si coprivano non solamente per ripararsi dal freddo o per nascondere le nudità ma anche per essere attraenti. Attraverso la storia del costume possiamo conoscere la sua evoluzione nel tempo e i pionieri di questa meravigliosa arte come Coco Chanel, simbolo della femminilità e del progresso, che ha reso le donne eleganti e anche più libere. Credo che la moda serva non semplicemente a coprirsi ma, soprattutto ad abbigliarsi, come mezzo di comunicazione per trasmettere messaggi, valori o emozioni, talora legata ad eventi storici: tutti ricordiamo, ad esempio, il tailleur di Jackie Kennedy durante l’omicidio del marito oppure gli iconici abiti di Lady D. La moda è sì caduca ma nel contempo immortale. Credo che la moda non passerà mai di moda: un abito che approda ad un concetto di ideale, come l’abito scultura di Roberto Capucci, è eterno o se mai dovesse morire, rinascerà.

Dove trovi l’ispirazione?Nel lavoro segui una routine giornaliera per favorire il successo?

L’Alta Moda è libertà senza costrizioni: la mia ispirazione non è legata ad una matita, un foglio e tot ore di disegno al giorno. Le idee possono nascere da qualsiasi cosa, da una mostra d’arte o anche da quest’intervista, dai vostri volti o parole; non esistono regole per essere artista. L’ispirazione è dentro ognuno di noi: non possiamo scegliere il momento e il modo per farla emergere ma solo accogliere la vena creativa e trasformarla in un’opera d’arte.

La manualità e la cultura devono appartenere allo stilista ma… viva la creatività!

Nel mondo della moda l’eventuale rivalità tra colleghi è un sentimento sano oppure no?

No, non lo è quando degenera in cattiveria. A me piace solo la sana competizione: devo poter guardare ogni mio collega più capace con ammirazione, capire il perché del suo successo ed emularlo, senza danneggiarlo o esserne invidioso. Parafrasando Oscar Wilde secondo cui l’invidia nasce quando si ha consapevolezza d’essere dei falliti, ritengo che sia un sentimento assai negativo.

Il registra Franco Zeffirelli è stato il primo a credere in te: ci regali un suo ricordo? È stato il mio mentore. Il nostro primo incontro è avvenuto al Polimoda, alla sfilata di fine corso in cui era ospite d’onore. Ogni studente doveva creare 5 abiti ed io, avendo saputo dalla mia tutor Micol Fontana della sua presenza, ho deciso di creare la mia mini

Tip!

INTERVISTA A...

Anton Giulio Grande

di Caterina Carnevale, Alessia Casella, Mariateresa Suppa

collezione ispirandomi ad un suo capolavoro, Romeo e Giulietta, anche per farmi notare, vista l’ammirazione che provavo nei suoi confronti! Alla fine della sfilata si è complimentato, dicendomi: “Sei stato il più bravo, the best!”. Dal quel momento mi ha ‘preso sotto la sua ala’, mi ha invitato a trascorrere un weekend a casa sua, mi ha chiesto di collaborare per dei costumi teatrali per l’Aida. All’età di 21 anni ho incontrato un uomo rigoroso, di grande gusto e di una cultura eccezionale.

Mi ritengo molto fortunato per avere respirato l’aura di uno dei più grandi registi italiani e, pertanto, mi ha molto emozionato vedermi conferire l’Oscar della moda 2021, proprio da suo figlio presso la Fondazione Zeffirelli.

Quali altri incontri, nella tua lunga carriera, ti hanno sorpreso particolarmente e perchè?

Ho avuto un bellissimo incontro con Rita Levi Montalcini, proviente da un mondo completamente diverso dal mio: un’antesignana che ha superato i limiti dell’istruzione femminile, una scienziata, verso cui tutto il mondo dovrebbe provare gratitudine, ma di un’umiltà e semplicità disarmante. Nel 2004 sono stato da lei premiato nella sala della Protomoteca in Campidoglio dove, l’anno dopo, ho avuto l’onore di premiarla io: incontri che cambiano la vita!

Altre belle esperienze sono state con Claudia Cardinale e con Sofia Loren: la prima, in occasione del festival del cinema di Vibo Valentia, per l’emozione di avere a fianco un’icona, famosa pure all’estero; la seconda per la sfilata dedicatale e ispirata a ‘La ciociara’, film manifesto (ad oggi molto attuale), durante un evento Rai. Infine, vorrei ricordare per i suoi insegnamenti, anche

Umberto Eco, uomo rigoroso, equo e giusto.

Abbiamo parlato di passato e di presente. Che progetti hai per il futuro?

Nutro tanta incertezza per il futuro. Vivo alla giornata, ma tenendomi pronto per quando arriverà la rinascita dopo questo periodo buio.Vorrei poter dare a voi giovani messaggi positivi, ma al momento mi sento così. Reputo che non si possa rimanere indifferenti alla guerra alle porte dell’Ue. Resto ottimista, credo che le cose brutte termineranno, speriamo al più presto, puntando sul dialogo, sulla cultura e sulla bellezza che, per dirla con il principe Miškin di Dostoevskij, ‘salverà il mondo’.

Mi piacerebbe, pertanto, valorizzare il patrimonio culturale ed artistico della Calabria, non solo bel mare e buon cibo, fondando un comitato della bellezza di archeologi, architetti e speleologi per svelare siti come Locri, Sibari, castelli, palazzi storici e bei musei (fra cui il Museo Diocesano progettato dal nostro compianto Natale Proto), affinchè la Calabria divenga meta di un turismo culturale anche internazionale.

Per concludere, ci racconti un aneddoto o un’esperienza del Liceo che ricordi con più affetto?

Ricordo con piacere la festa del Liceo e il Ballo di Carnevale organizzati annualmente nella palestra, abbellita in modo eccezionale. Ognuno di noi voleva essere impeccabile e indossava l’abito più bello, anche confezionato per l’occasione.Vi invito fortemente a riprendere questa tradizione soprattutto dopo gli anni di restrizioni che stiamo vivendo. Inoltre, seguite gli insegnamenti dei vostri docenti e coltivate le amicizie che nasceranno al Liceo, poichè quelle vere e pure dureranno anche dopo la fine del percorso di studi, indipendentemente dalle città in cui vivrete.

Via L. Da Vinci – 88046 Lamezia Terme (CZ) Tel e Fax 0968/27295 Email: CZPC030008@istruzione.it

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