PER QUANTO TEMPO E' PER SEMPRE

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è PER SEMPRE

PER QUANTO TEMPO Officina Giovani Celle Frigo Prato

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Artisti Nebojsa Bogdanovic Victoria DeBlassie Federica Gonnelli Shelley Jordon Irene Lupi Micaela Mau Franco Monari Leonardo Moretti Stefano Pascolini Anna Rose Lucia Simental Videoartevirale a cura di Leonardo Moretti Spela Zidar

Partendo dallo spazio preso in considerazione, ovvero l’ex ambiente delle celle frigo all’interno del complesso di Officina Giovani, il nostro interesse è comporre un momento espositivo che si configuri come un dialogo, sia fisico che concettuale, con questo luogo. L’operazione sitespecific è ormai pratica comune nell’ambito della disciplina artistica contemporanea ma, in presenza di luoghi fortemente caratterizzati come questo, diventa un elemento quasi imprescindibile. Un ”modus operandi” che non solo arricchisce l’ambiente in sé, ma genera dei cortocircuiti di senso che ampliano i lavori stessi e permettono nuovi discorsi e nuovi punti di vista: concetti questi mai scontati, sono sempre più importanti nei complessi e articolati disegni politici e sociali che ogni giorno calibrano le visioni comuni. Abbiamo iniziato a riflettere proprio sul senso stretto di “conservazione”: intesa questa come base fondante del progetto di mostra, in quanto riguarda in maniera precisa una storia ed un uso effettivo di questo spazio, allo stesso tempo lascia carta bianca alle svariate possibilità interpretative che questa parola può dare, traslandosi da un significato più reale fino ad uno più astratto. Conservare, cristallizzare la materia (e non solo), per una artista contemporaneo vuol dire spesso far riferimento al mantenimento virtuale, e non, di memoria e tempo. Come in una cella frigo abbiamo un perenne circolo tra acqua e ghiaccio, tra fluido e solido, i concetti di “scioglimento” e trasformazione diventano terreni fertili di produzione, che aprano una riflessione sul senso metaforico del congelamento, dello stanziamento e dell’immobilità. Parole che possono essere “tradotte” e portate all’estremo attraverso il pensiero critico sulla fine, la morte, l’incomunicabilità e l’incapacità. I contrasti di senso che luoghi come questo sanno aprire possono diventare ampi bacini per riflettere non solo su noi stessi e la nostra società del consumo, sugli schemi che ogni giorni portiamo avanti ma, importantissimo, anche sui confini, sulle differenze, su tutte quelle problematiche legate al rapporto con l’altro, l’estraneo o lo straniero. L’immigrazione diventa oggi tassello fondamentale per capire noi stessi, i nostri limiti e il nostro mondo a pieno, incanalare oggi la capacità di saper vedere da vari punti di osservazione non è più un vezzo intellettuale ma diventa una necessità palpabile. Gli spazi di Officina Giovani si predispongono all’idea, quindi, di “frigorifero concettuale” per il mantenimento, il trapianto e la trasmissione del bagaglio genetico e culturale.



Nel lavoro di Nebojša Bogdanovic prevale l’ossessione della produzione: le forme che gli riempiono la testa esplodono nei suoi lavori e guidano il suo gesto. L’artista crea velocemente, ma con la sicurezza del gesto e del contenuto; le tecniche utilizzate variano ma non varia il principio che guida la sua creazione sia che si tratti di pittura, disegno o oggetti trovati nelle discariche e poi elaborati in studio secondo l’ispirazione del momento. La “verità” della rappresentazione non è rigida né unica, data una volta per tutte e valida per tutti, ma è varia e creata dal pensiero di ognuno di noi. I quadri presenti in mostra svelano le forme, i simboli archetipici che sorgono quasi inconsciamente dal suo impulso creativo. Un segno sulla carta, un’ombra o un’increspatura possono essere un ponte per il disegno nascosto sotto la pagina bianca, che aspetta solo di essere scoperto ed espresso. Queste opere raccontano una storia inconscia e svelano una memoria ancora indefinita, i dipinti diventano iconici provando ad aprire le porte di una conoscenza che va oltre all’immagine rappresentata. Bio breve Nebojša Bogdanovic (Tuzla, 1977) vive e lavora a Firenze. Nel 2004 si è laureato in pittura presso la Facoltà di Belle Arti di Belgrado(10/10) e nel 2011 si è diplomato al corso biennale di specializzazione sperimentale presso l’Accademia di belle Arti di Firenze(110 e lode/110). Dal 2009 al 2016 gestisce un laboratorio di Arte-terapia all’A.I.A.B.A.(Associazione Italiana per l’Assistenza ai Bambini Autistici). Tra le mostre personali e collettive menzioniamo: nel 2019 David is dead, Galerie Verbeeck-Van Dyck, Anversa, Belgio. Nel 2017 Rilevamenti # 1, a cura di Bruno Corà, Daniela Bigi, Tommaso Evangelista, Aldo Iori, Federico Sardella e Marco Tonelli, CAMUSAC - Cassino Museo Arte Contemporanea, Erranti, Erotici, Eretici, a cura di Marco Tonelli, Fondazione Vacchi, Castello di Grotti. Nel 2015 Io vedo, io guardo, a cura di Annalisa Cattani, Artforms-Interno8, Prato, A Ttubo, MOO, Prato. Nel 2013 Prix Canson 2013, Petit Palais, Parigi, 2012 Sistema Fisico, a cura di Serena Trinchero, MDT Studio, Prato, Mulhouse012, Biennale d’Arte contemporanea, Mulhouse. Nel 2012 Codice continuo, a cura di Giuliano Sera ni, Immaginaria arti visive gallery, Firenze. Nel 2011 Sim Card, a cura di Domenico La Grotteria, Museo della Città - Collegno, Torino. Nel 2010 Start point, a cura di G. Pozzi, S. Ragionieri e L. Vecere, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato, Eyestorming, a cura di Alessandra Acocella, Studio MDT, Prato, Serbare, a cura di Spela Zidar, Lato, Prato. Nel 2009 Cinque pezzi facili, a cura di Laura Vecere, Spazio d’arte, Empoli. Nel 2008 Scon namenti, Alexander Alvarez contemporary art, Alessandria. Nel 2001 Slike, Klub Vojske Srbije, Sombor, Serbia, Slike, Kuca Vojnovica, Indjija, Serbia, Slike i slicnosti, Galerija Studenski grad, Belgrado.



Per la sua opera, “Il Rinascimento Sospeso”, l’artista Victoria DeBlassie riflette sul tema di conservazione utilizzando la storia degli agrumi in Toscana come punto di partenza. DeBlassie racconta come il valore culturale viene costruito e decostruito nel tempo e come questo valore sia ciò che determina cosa viene conservato e cosa no. Durante il Rinascimento italiano, gli agrumi erano disponibili solo per i ricchi, ed erano ospitati in serre o nelle limonaie realizzate appositamente per conservare e mantenere in vita questo tipo di frutta nei mesi invernali. Con il cambiamento e lo sviluppo nei secoli successivi, il valore degli agrumi diminuiva a livello interculturale man mano che stavano diventando onnipresenti. DeBlassie ha applicato le tecniche di conciatura delle pelli della tradizione toscana alle bucce di agrumi per preservarle, e per rievocare questa storia, interrogandosi su come vengono costruiti e preservati i sistemi di valore culturale. Dalle bucce, DeBlassie ha creato una sorta di cascata che richiama allo stesso tempo le fontane rinascimentali e un pezzo di carne appeso agli uncini, un netto contrasto pensato per riflettere sia sulla storia del materiale stesso che sulla storia del territorio. Bio breve Victoria DeBlassie vive attualmente a Firenze ed è nata e cresciuta ad Albuquerque, New Mexico. Si è laureata presso The University of New Mexico nel 2009 e di nuovo nel 2011 presso il California College of the Arts. Ha ricevuto una borsa di studio Fulbright per l’Italia per l’anno accademico 2012-2013. Ha partecipato a numerose residenze artistiche, come F.AIR a Firenze, Atelier Real a Lisbona, Lakkos AIR a Heraklion, Creta, e più recentemente Apulia Land Arts Festival a Margherita di Savoia, Italia e Hangar.org a Barcellona. Ha esposto a livello nazionale e internazionale, in sedi tra cui [AC] 2 Gallery di Albuquerque, NM, The de Young Museum di San Francisco, CA, la Fondazione Biagiotti Progetto Arte e Villa Romana a Firenze, Italia. Tra le personali ricordiamo: nel 2019 TBD, Penta Space Firenze. Nel 2018 ARTe FUORI (Cascade), Galleria Cartavetra, Firenze. Plasticaia, Villa Romana Glass House, Firenze. Nel 2017 Afterimage, Srisa Project Space, Firenze. Nel 2016 Lakkos, Lakkos Neighborhood, Creta, Grecia. Nel 2015 Miradouro das Caixas de Madeira, Irreal Gallery, Lisbona. Tra le colletive ricordiamo: nel 2018 Mostra Per I Vincitore del Secondo Premio per Le Arti Contemporanee, Factory Athena, Limonaia Gallery, Firenze. Interpretation of a Seed (a collaboration with Maria Nissan), Le Murate PAC, Firenze. Nel 2017 Apulia Land Art Festival Show, Salina, Margherita di Savoia. Secondo Premio Per Le Arti Contemporanee: Facotry Athena, Ippodromo, Firenze. Nel 2016 Ecosistemi, Fondazione Biagiotti Progetto Arte, Firenze. Oltre il Giardino, Giardino Buoniamici, Prato. Mappings, Numeroventi, Firenze. Giardini, Pontremoli in Art, Pontremoli. Nel 2015 Under Pressure, Ex Chiesa di San Giovanni, Prato.



Il confine caratterizza il percorso di Federica Gonnelli nei materiali e nei temi, è un protagonista costante delle sue opere, mediante l’utilizzo del velo d’organza e della fotografia a doppia esposizione. Non si tratta di semplici supporti o scelte tecniche, ma si tratta di due determinanti mezzi espressivi che concorrono nel significato dell’opera. L’opera in mostra “Quella Cosa che non c’è (fuoco o cenere)”, si inerpica su questo terreno incerto, ponendo possibili spunti di riflessione, fino ad arrivare a sovvertire l’ovvietà: il fuoco non del tutto distrugge. Le Cose sono sempre “tra noi”, anche quando pensiamo di essere soli, le Cose fanno da “tramite” e quando “non ci sono” la loro assenza diviene pesante. Le Cose costituiscono il supporto delle nostre passioni ed emozioni. Gli oggetti evocano, provocano stati d’animo, storie, trame, relazioni; sono il supporto della nostra vita affettiva. I vari elementi dell’installazione presentata si muovono tutti sul sottile confine tra queste due modalità d’essere di “quella cosa”, nella ricerca di appigli per costruzioni fragili, effimere, virtuali (il velo, il video, lo specchio, il fuoco e la cenere). Ed è proprio attorno a queste cose che converge l’attenzione di tutti gli osservatori, come i convenuti a veglia attorno ad un fuoco, che forse ora è diventato cenere. Non è un fuoco che distrugge, è un fuoco che comunque crea qualcosa diventando cenere. Bio breve Federica Gonnelli è nata a Firenze, dove ha frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti, vive e lavora tra Firenze e Prato, dove dal giugno 2011 ha aperto lo studio “InCUBOAzione”. Dal 2001 ha partecipato a mostre personali, collettive e concorsi. Nel 2006 ha conseguito la laurea, con tesi dal titolo “L’Arte & L’Abito”. Dal 2007 fa parte del collettivo artistico “Arts Factory” per il quale, in qualità di artista si occupa della progettazione e realizzazione di video, installazioni e videoinstallazioni. Del collettivo fanno parte la fondatrice Adriana Maria Soldini, narratrice d’arte e curatrice e Francesca Del Moro, poetessa. Nel 2013 ha conseguito la specializzazione in Arti Visive e Nuovi Linguaggi Espressivi, con tesi dal titolo “Videoinstallazioni tra Corpo-Spazio-Tempo”. Dal 2015 ha partecipato alle residenze d’artista presso: Mola di Bari – Fondazione Pino Pascali, Cosenza – The BoCs, Castelbottaccio (CB) – Vis a Vis Fuoriluogo 19, Vimercate (MB) – V_Air Museo Must, San Sperate (CA) – Future Frontiers, Zumpano (CS) – Terraē Museo Mae e Palagiano (TA) – Z.N.S. Via Murat Art Container 2° Piano Art Residence. Pratica, quella della residenza, che ha acquisito una particolare importanza per la sua crescita personale e artistica.



Shelley Jordon è una pittrice e artista di immagini in movimento che esplora mondi interni ed esterni e connessioni tra esperienze passate e presenti. Le sue opere recenti indagano il passare del tempo e i cicli della vita usando tecniche di pittura tradizionali e sperimentali in opere d’arte bidimensionali e animate. Per la mostra l’artista presenta il video di animazione “Overtime; Bananas, Pepper, Pear” nella quale lo spettatore può osservare i cambiamenti che questa frutta e verdura subiscono durante il loro ciclo vitale. Il cambiamento riguarda inizialmente il colore, la forma e alla fine l’essenza del ortaggio che diventa non commestibile anche se non perde mai la vita, si trasforma e tramuta la sua presenza nel ciclo infinito di questa. In qualche modo possiamo vedere il ciclo naturale attraverso la nostra capacità di rappresentare, senza i nostri tentativi per preservare o conservare. Lasciare la via libera alla natura significa non preservare e quindi dimenticare o al contrario lasciare che la natura scelga i mezzi e il modo più idonei per la sua conservazione. Bio breve Shelley Jordon ha esposto presso: La Galleria Ildiko Butler, la Fordham University al Lincoln Center di New York City, il Wexner Center for the Arts, Columbus, OH, la Whitebox Gallery Portland, OR e il Frye Museum, a Seattle, WA. I suoi lavori sono stati esposti al Portland Art Museum, al Tacoma Art Museum, al Portland Museum of Art, al Torrance Art Museum di Los Angeles e in sedi internazionali in Italia, Spagna, Israele, Gran Bretagna, Australia e Germania. I suoi progetti sono stati supportati dalla Ford Family Foundation, dal Consiglio regionale per le arti e la cultura, dal Center for the Humanities, OSU, una borsa di studio per le arti visive per l’American Academy in Jerusalem, due premi alla Fellowship della Oregon Arts Commission, e Fulbright-Hayes. Ha partecipato alle residenze di artisti all’American Academy in Rome, Lucas Artist Residency a Montalvo, Djerassi, The Studios of Key West e Playa. Jordon ha conseguito un MFA presso il Brooklyn College di New York, un BFA presso la School of Visual Arts di New York City ed è professore di arte presso la Oregon State University.



La memoria è conservazione di ciò che è accaduto, ma anche sinonimo di trasformazione e scioglimento. L’idea di poter usare gli spazi di alcune stanze che un tempo erano delle celle frigo ha dato ad Irene Lupi la possibilità di congelare un episodio accaduto durante la fine della Seconda Guerra Mondiale nelle montagne di Sant’Anna di Stazzema, facendo nascere così l’opera “Memorabilia”. Lui è Enrico Pieri, Presidente dell’Associazione Martiri di Sant’Anna di Stazzema. Il tentativo vano di fermare una storia con un solo frame, ricamando con i miei capelli attraverso un gesto performativo, nasce dalla volontà di conservare all’interno di un materiale naturale con segno grafico e narrativo il suo bagaglio genetico, culturale e mnemonico. I capelli conservano il Dna, ma essendo parte di qualcosa di molto più complesso immagino che abbiano anche la capacità di trattenere pensieri e memorie che si sigillano, come una sorta di pellicola impressa, nel momento in cui cadono dalla nostra testa alla fine della loro crescita.” dice l’artista. La raccolta di essi assicura pertanto un archivio non visibile che tramanderà, per un utopico “per sempre”, la storia di una popolazione di uomini e donne un tempo bambini, che persero il loro diritto all’infanzia. Bio breve Irene Lupi (Livorno, 1983) è diplomata all’Accademia di Belle arti di Firenze, nel 2007 frequenta la Facultad de Bellas Artes di Leioa (Bilbao). Nel 2014 consegue il biennio di specializzazione in Arti Visive e Nuovi linguaggi Espressivi. Dal 2018 insegna digital multimedia al Siena Art Institute. Tra le mostre recenti: Avviso di Garanzia, Fuori Uso, a cura di G. Di Pietrantonio e S. Ciglia, Pescara. Menzione speciale sezione fotografica al Combat Prize a cura di A. Bruciati, D. De Luigi, F. Baboni, L. Balbi, M. Bergamini, P. Tognon, S. Taddei, Livorno. Primo Premio TU35 EXPANDED, 2017 sezione arti visive, Premio gruppo Faliero Sarti, giuria composta da F. Cavallucci, L. Balbi e S. Risaliti, Prato. Rizzuto Art Gallery,Yicca, International Contest of contemporary art, Palermo. ON AIR, GSP, performance live con Manticore, a cura di D. Ventroni, Museo Casa Masaccio Centro per l’Arte Contemporanea, Arezzo. (un)BOXED, a cura di Ied, 369 gradi, Carrozzerie n.o.t. Roma.



In genere scattiamo fotografie per ricordare momenti particolari, spesso associati a persone e luoghi, ma cosa succede se queste fotografie perdono ogni collegamento con chi le ha scattate? Le immagini del progetto “Spectra” di Micaela Mau provengono da negativi trovati. Così come per chiunque altro, le persone rappresentate nelle fotografie sono estranee, tuttavia un tempo esse erano vive, stavano a cuore a qualcuno. Ora tutto ciò è andato perduto e si possono solo avanzare congetture basate su vaghi indizi. La malinconia intrinseca di queste fotografie orfane, ha portato l’artista a voler lavorare su queste tracce di vite passate come riflessione sulla nostra pratica fotografica. Nel porre un negativo l’uno sull’altro in modo arbitrario viene alla luce una nuova composizione in cui le persone e i luoghi appaiono indistinti e evanescenti, come spiriti. Quelle che un tempo erano chiare tracce di esistenza, diventano ora sfuggenti apparizioni. La sovrapposizione dei negativi impediscono una corretta visualizzazione dei dettagli, riecheggiando così la mancanza di informazioni riguardo alla loro venuta in essere. Attraverso questo progetto l’idea che la fotografia sia una testimonianza di esistenza e portatrice di memoria è paradossalmente negata e riaffermata allo stesso tempo. Bio breve Micaela Mau (1986) è un’artista italiana di origini tedesche. Si è diplomata in comunicazione visiva allo IED di Roma, con un soggiorno di studio alla School of Visual Arts di New York, e ha conseguito la laurea in lingue straniere all’Università degli Studi Roma Tre. Si avvicina alla fotografia da autodidatta, scegliendola come mezzo di espressione primario. Il nucleo del suo lavoro si concentra sul rapporto tra fotografia e realtà, riflettendo anche sulla percezione comune e le convenzioni sociali associate al mezzo fotografico. Tra le ultime attività:nel 2019 Metamorphōsis, Studio 38 Contemporary Art Gallery, Pistoia, Introiezione/Proiezione. La ricerca del Sé, a cura di Leonardo Moretti, Studio 38 Contemporary Art Gallery, Pistoia, Polaroiders On Tour, PUK gallery, Castelfranco Veneto. Nel 2018 Art à Porter, a cura di Viola Farassino, Spazio Hus, Milano, Rivedute Fiorentine – Un Laboratorio Urbano sulla Città, a cura di Claudio Sabatino, Martino Marangoni e Giuseppe Toscano, FSMgallery, Firenze, One Year Revolv, a cura di Revolv Collective, Safehouse, Londra. Nel 2017 Photography on a Postcard, a cura di Gemma Peppé, theprintspace, Londra, Celeste Prize 2017. Finalist exhibition, a cura di Fatoş Üstek, Barge House, Londra, Dintorni Urbani, Racconto corale sulla città di Firenze, a cura di Elisa Biagini, Andrea Aleardi, Martino Marangoni e Giuseppe Toscano, Le Murate. Progetti Arte, Contemporanea, Firenze, Good Bokeh, a cura di Yessica Torres, Dab Art, Ventura, Ca (USA).



La ricerca artistica di Franco Monari spazia dall’installazione alla pittura alla fotografia, combinando fotografia, pittura e oggetti. Le sue opere trattano questioni sul passare del tempo e della memoria in maniera personale e biografica. Infatti, anche se sembrano degli object trouve, le composizioni nelle sue foto non sono mai semplicemente documentate in loco, ma ricostruite all’interno dello studio d’artista secondo le sue esigenze personali. Un oggetto quindi perde la connessione con la storia del luogo di cui faceva parte, ma acquisisce una nuova storia, un racconto personale costruito dall’artista tramite il colore e l’utilizzo di diverse tecniche artistiche. Importante è anche l’iconizzazione del soggetto trapiantato e ricostruito, riprodotto nell’immagine fotografica che lo rende appunto iconico, degno di essere rappresentato e ricordato, anche se si tratta di oggetti indefiniti, senza un’identità ben chiara e la loro collocazione temporale rimane enigmatica, acquisiscono la capacità di suscitare una storia. Diventano simbolo del tempo perduto o del desiderio ancora da costruire. “Coag _W4” è un progetto che esplora il tema della rovina. Gli oggetti rappresentati sono indefiniti, senza un’identità ben chiara e la loro collocazione temporale rimane enigmatica, acquisiscono la capacità di accendere l’immaginazione. Essi diventano la rovina che, citando Auge “sfugge al tempo reale”, quella che riesce a risvegliare nello spettatore “la coscienze della mancanza” e diventa per ciascuno spettatore il proprio simbolo del tempo perduto o del desiderio ancora da costruire. Bio breve Franco Monari (Modena,1981 - dove attualmente vive e lavora). Nato da madre polacca e padre italiano, ha trascorso lunghi periodi dell’infanzia e dell’adolescenza nella Polonia del periodo comunista, instaurando un forte legame affettivo con la città di Wrocław. Gli anni trascorsi in una Polonia grigia e povera, sottomessa all’influenza sovietica, e le letture intraprese durante gli anni dell’adolescenza, hanno certamente influito nello sviluppo in Monari di una sensibilità nostalgica e decadente, un’attrazione per il cemento e le rovine, una predilezione verso il “brutto” piuttosto che per il “bello”. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo libro fotografico “Memore” edito da Mucchi Editore. Finalista in diversi concorsi (Premio Terna 03, Yicca 2014) nel 2016 è tra i vincitori di Confini_14, nel 2017 è il vincitore assoluto del Premio Nocivelli e nel 2018 è tra i finalisti del Premio Fabbri. I suoi lavori sono stati esposti in diverse gallerie e associazioni culturali in Italia e all’estero, tra le quali: Agorà Gallery (New York, 2010), Polifemo Fotografia (Milano, 2016), Galleria VisionQuest (Genova, 2017), Officine Fotografiche Roma (2017), Spazio Contemporanea (Brescia, 2018) e Paratissima15 (Torino, 2019).



L’installazione “Il Blu mi aiuta a Con(finare)servare” di Leonardo Moretti riflette sul senso di luogo per la conservazione e la trasformazione. L’idea è stata quelle di unire la ricerca attraverso il colore Blu, che ritroviamo come elemento connotante dello spazio delle celle frigo, con i materiali tipici di solito utilizzati dal artista e l’immaginario sulla “carne”, elemento basico e primitivo, che un luogo come questo trasmette. Il colore Blu, come un linguaggio da dover decodificare, dove elementi ritornano e si rincorrono, assolve il compito di dar vita e rendere visibili delle “geografie astratte”. L’obiettivo è permettere di percepire come un linguaggio criptato possa essere un portatore, almeno fino a prima della sua codifica, di possibilità interpretative infinite. Il materiale plastico, isolante, che trattiene come fosse un contenitore, è quindi “scolpito” in maniera grezza e appeso ai ganci. Intende riallacciarsi, in chiave diretta e primaria, proprio all’uso storico di questo ambiente. Gli elementi a terra invece, posti in circolo attorno al televisore, rimandano ad un minimale ed ancestrale “Stonehenge”, che circondano il monitor come quasi un “altare” sul quale in loop vediamo un video. Le immagini, simili ad un pozzo dal quale udiamo suoni che non combaciano, come per un altrove che non vediamo, ci ripropongono il colore blu, acqueo e mosso, in attesa di qualcosa che non accade mai. Infine un elemento su carta ci interroga con una serie di macchie, come una cartina illeggibile. Tramite un’installazione che sembra quasi ricostruire una visione a metà tra un uso storico-realistico di questo luogo ed uno alchemico-ritualistico, il lavoro intende riflettere su come la nostra memoria sia un “terreno di mezzo”: non soltanto il deposito e il luogo della nostra identità ma, essendo quella che in parte ci definisce, pone anche i nostri limiti, i nostri confini. Bio breve Leonardo Moretti (Prato 1991) è Laureato in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Belle Arti di Firenze, sempre qui consegue la magistrale in Arti visive e Nuovi linguaggi Espressivi. Il suo lavoro si muove attraverso vari medium, tra il pittorico, il fotografico, le tecniche di stampa, il ricamo e il video, quasi sempre accordati attraverso l’approccio installativo. Il suo soggetto ricorrente è l’individuo, non tanto come corpo-figura, ma come elemento di speculazione, tramite visioni molto spesso astratte. Il suo obiettivo è quello di creare una relazione tra serialità, casualità e gesto pittorico, per aprire una linea di riflessione e frattura sulla tematica della riproducibilità, spesso con approcci estetici decisamente in controtendenza alla realizzazione “hi-tech”. Tra le ultime attività ricordiamo: nel 2020, In Coltura, Villa Romana, a cura di Mattia Lapperier, Firenze. Nel 2019, Radicalia, MOO, LATO Gallery, a cura di Spela Zidar, Prato. Percorsi, YAG/garage Gallery, a cura di Ivan D’Alberto, Pescara. Trame Plastiche – Oltre la Superficie – Victoria DeBlassie e Leonardo Moretti, a cura di Mattia Lapperier, SRISA Gallery Project Space, Firenze. Ghosting, LDM Gallery, a cura di Silvia Belotti ed Erica Romano, associazione Forme, Firenze. Precipitato, progetto /Sim •bï •ón •te/01, InCUBOazione, a cura di Federica Gonnelli, Prato. Nel 2018, Spazio Traccia, SACI Art Gallery - S.Antonino, Firenze.



Il lavoro di Stefano Pascolini si svolge intorno all’osservazione dei risvolti sociali, culturali e psichici nel comportamento umano, sviluppando apparenti parodie ed esercizi sul tema. L’influenza del teatro e l’uso di varie discipline come pittura, scultura, video, performance, si contaminano con il mezzo espressivo prevalentemente usato, ovvero la ceramica. L’installazione “Quella storia di vegetali che portano altrove” fa riferimento a favole e miti che si sviluppano attraverso un archetipo assiale, tra tutte la storia dei “fagioli magici”, ma lo stesso concetto di anabasi tramite il simbolo vegetale è presente in larga parte della mitologia finnica e più generale del Nord Europa. Tale simbologia ha origini cosmogoniche che per Giorgio de Santillana fanno riferimento a l’obliquità dell’eclittica: “la vera terra dove si svolgono gli avvenimenti mitici”, cardine da cui scaturisce il divenire delle stagioni, ovvero la scansione spazio-temporale della vita e la coscienza di essa. Bio breve Stefano Pascolini (1981), dopo aver frequentato per alcuni anni i laboratori ceramici umbri, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Terminati gli studi nel 2006 porta avanti la sua attività artistica e quella di insegnamento presso scuole pubbliche e private. Tra le attività principali degli ultimi anni: è finalista al Premio Combat e al Premio F.Fabbri per l’arte contemporanea (2015) con il progetto “Mistica Napoleonica”, cui seguirà nel 2016 la personale presso StudioLab di Firenze a cura del collettivo “Il Gattarossa”. Nel 2018 prende parte alla collettiva “NoPlace” (Santo Stefano di Magra, SP), e partecipa al workshop “Decorazione ceramica: tradizione e contemporaneità” presso il Museo Carlo Zauli. Nel 2019, al museo Ugo Carà di di Muggia (TR), partecipa all’evento “I baffi alla Gioconda” a cura di Eva Comuzzi. Tre opere sono oggi custodite presso il Museo delle Brocche d’Autore (Gubbio, PG).



Il lavoro di Anna Rose riflette sulla fragilità e la frammentazione della memoria cercando, quindi, un modo per darle una forma riconoscibile e per conservarla. Il tema della conservazione nelle sue opere e’ da sempre fortemente legato al cibo, alle sostanze organiche che ci permettono di sopravvivere, le quali, per fare la loro funzione, vanno utilizzate, preparate e conservate nel modo adeguato. Nei suoi lavori Anna spesso “gioca” con il cibo e, l’utilizzo diverso di questo, cambia il materiale e la percezione iconologica dello stesso. Per la mostra l’artista propone una “citta’ in rovina” fatta di lastre e colonne, uno spazio ormai smontato e consumato, un sito archeologico costruito utilizzando fette di pane bianco da toast. Questo, alimento tipicamente rustico e basico necessario per la semplice sopravvivenza, qui assume anche un altro carattere. Pane bianco da toast, a lunga conservazione, pieno di additivi, gia’ tagliato a fette e pronto per preparere un panino ‘fast food’, perde la sua connotazione primordiale e ci porta nella sfera industriale che influisce sia sul nostro modo di vivere che sul consumo del cibo. Nell’installazione di Anna, pane non significa piu’ solo il cibo, ma diventa un pezzo da costruzione, una mattonella con la quale l’artista costruisce il suo sito. L’opera dal titolo “Bread and Butter”, come i ruderi di un tempio, suggerisce uno spazio ormai smontato e disintegrato. Il pane bianco è indurito con la plastica, perde il suo ruolo di fonte nutritiva e diventa un elemento architettonico consumato. Le mattonelle fatte di pane che dialogano con le mattonelle che ricoprono lo spazio espositivo aprono il confronto tra passato e futuro. Il lavoro diventa una sorta di memento mori per i meccanismi di produzione e di conservazione, ma anche per gli edifici che ci circondano e che in qualche modo “ci conservano” sottolineando l’impossibilità di fermare il tempo. Bio breve Anna Rose nasce nel 1982 nel Massachusetts (USA) e si laurea in arte (Master of Fine Arts, M.F.A) presso il San Francisco Art Institute. Dal 2004 vive e lavora a Firenze. Il suo lavoro attraversa il video, l’installazione e l’arte tessile, con una sensibilità verso le mitologie storiche, psicologiche e culturali del luogo in cui si trova ad operare. Spesso lavorando con i capelli o con il cibo come contenitori di identità femminile, indaga il tema della vanitas, del passaggio e della sospensione del tempo. Tra le ultime attività: nel 2020, So Close So Good, Numeroventi, Firenze. Nel 2019, The Money Maker, Galleria Civica di Bressanone. Homo Bulla, Casa Atelier – Museion, Bolzano. Ghosting, LdM Gallery, Firenze. Come up to my room 2019, The Gladstone Hotel, Toronto, Canada. Nel 2018, Hawnhekk, Spazju Kreattiv, Gozo, Malta (in collaborazione con Jennie Suddick). Primavera in Sospeso, Robert McLaughlin Gallery Art Lab, Oshawa, Canada (in collaborazione con Jennie Suddick). Nel 2017, Party of One, Jules Maidoff Gallery, Firenze. All the world’s a display, Galeria Vienti/4Siete, San Jose, Costa Rica. Nel 2016, Inside Lottozero. Kunsthalle Eurocenter Lana (Bolzano-Prato). KloHäuschen Biennale, Das KloHäuschen, Monaco, Germania. Finalista per TU35 2016 e 2015, Prato (Italy), Geografie di arte emergente in Toscana.



Nel suo lavoro Lucia Simental esplora l’identità femminile utilizzando motivi organici e floreali. L’artista ammira quanto siano complicati e belli i fiori, la loro forza e le forme che creano nella natura selvaggia. Rappresentano per lei la fragilità della bellezza e la capacità di prosperare nelle avversità, che l’artista riflette con la ceramica componendo il suo giardino fiorito fatto di creta. Queste sculture sembrano assomigliare alle sagome delle donne, usando forme tondeggianti, le trasforma in contenitori e vasi di argilla. Nell’opera “Circle of life woman’s garden” ha scelto i girasoli, fiori resistenti che si possono trovare in qualsiasi parte del mondo, per simboleggiare come la società odierna guarda allo sviluppo della donna. Questi pezzi di ceramica sono astrazioni botaniche che comunicano la complessità e lo splendore dell’esperienza femminile, creando forme che parlano delle avversità universali che le donne sopportano e che portano attivamente alla vita. La resilienza di queste viene esaminata parallelamente alla violenza caotica della natura stessa: il ciclo di abusi e abbandono che traina verso la rinascita e la ricrescita. L’artista sceglie di evidenziare la bellezza nascosta nel caos mettendo in scena le forme stravaganti e ripetitive di crescita con il mezzo dell’argilla. Bio breve Lucia Simental (El Paso, Texas, 1994) è una scultrice e ceramista messicana- americana. Si è laureata in ceramica artistica con la specializzazione in Storia dell’Arte presso New Hampshire Institute of Art, Manchester. Ha preso parte a diversi workshop e seminari incentrati sulla sperimentazione delle tecniche ceramiche: Dankook University (Corea, 2019), NCECA National Council on education of ceramics arts (Pittsburgh, 2018, Portland, 2017). Ha completato a maggio 2020 la sua laurea magistrale presso la SACI con una specializzazione in Ceramica.



Videoartevirale lavora sulla contaminazione dei linguaggi audiovisivi, tra documentario, video arte e sperimentazione. Fonti di ispirazione dei due video makers sono specialmente il cinema delle avanguardie e la video arte legata ad una documentazione poetico/estetica della realtà. Nell’opera ‘Babel Underwater’ il duo ricerca la crescente esposizione della società odierna alla comunicazione anche se sembra di avere sempre meno da comunicare. Siamo immersi ogni giorno in un bombardamento mediatico continuo. L’inquinamento sonoro e visivo dei mass media ci ha trasformato in degli spettatori passivi senza nessun tipo di senso critico. Guardare una vasca di un acquario è come guardarsi un allo specchio? Migliaia di voci prese dai telegiornali, news e trasmissioni si sovrappongono e si fondono per creare una nuova lingua difficile da comprendere. L’idea del video viene da un’esperienza degli artisti durante una mostra d’arte contemporanea in un acquario: “Passando tra le tante vasche dei pesci. Da una stanza in fondo ad un corridoio buio veniva la voce di un telegiornale che dava delle news su un incidente aereo avvenuto la mattina stessa in una regione della Mongolia. Non si capiva se quella voce provenisse da una radio o da una tv ma a sentirla trasmetteva un senso di inquietudine e di angoscia.” Bio breve Duccio Ricciardelli (Firenze, 1976) è sceneggiatore e regista, dopo una laurea in Storia e Critica del Cinema si dedica alla fotografia di reportage e di scena, approfondisce successivamente i suoi studi sul cinema documentario presso il Festival dei Popoli di Firenze, cominciando a lavorare come operatore, assistente operatore e regista. Lavora per due anni a Roma come assistente di produzione presso la Fandango di Domenico Procacci. Nell’ultimo periodo la sua ricerca cinematografica si rivolge anche alla scrittura di soggetti e alla creazione di format. Marco Bartolini (Firenze, 1977) è montatore e regista, dopo il diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, viene ammesso al Biennio Specialistico in Arti visive e multimediali per lo spettacolo presso lo stesso istituto. Si laurea nel 2008 presentando una tesi sullo studio del Dinamismo dei corpi dal titolo “Influenze sulla realtà, il sapere, la scienza e l’esperienza in genere”. Durante gli studi accademici si avvicina da prima alla video arte per poi perfezionarsi nel tempo come montatore, colorist e grafica. Continua anche la propria ricerca pittorica con lavori di stencil art.



PER QUANTO TEMPO

è PER SEMPRE Ph & Graphics Leonardo Moretti


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