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All'interno di alcuni spazi di una ex fabbrica di Prato ha luogo “Underground, il nostro nascosto”. Dodici giovani artisti si sono trovati a ragionare, sull’ormai “mostro sacro” dell’Underground. Questo famosissimo e inflazionato termine è stato assimilato, sviscerato, acquisito e fatto autoctnono ed infine tradotto letteralmente: “sotto terra”. “Cosa c’è sotto?”. Questa è stata la domanda di partenza, una domanda che muove una ricerca continua, che indaga le apparenze e restituisce una visione nuova, non filtrata, pura e riqualificata. Per arrivare “sotto terra” è necessario compiere un’importante azione: “scavare”. Quest’azione è stata esplorata nei suoi svariati significati, ed è proprio da quest’indagine che è partita la ricerca artistica. Non a caso sul vocabolario si legge: Scavare v. tr. [lat. excavare, comp. di ex- e cavare «rendere cavo» (v. cavare)]. – 1. a. Cavare terra dal suolo: s. il terreno per piantarvi un albero. b. Formare una cavità nel terreno s. un fosso, una buca, un fossato, un canale, un pozzo, una trincea; in senso fig., scavarsi la fossa con le proprie mani, essere responsabile del danno che si patisce, essere la causa del proprio male, della propria rovina. c. non com. Dissotterrare, estrarre dal terreno in seguito a scavo, a scavi. 2. Per estens., fare un incavo in un oggetto asportando parte del materiale di cui è costituito. 3. In senso fig.: a. Approfondire, andare a fondo di una questione; quasi sempre assol.: scava scava, la verità è venuta fuori; sembra superbo, ma se scavi un po’ vedi che è solo timidezza. b. Rinvenire nei ricordi, nella memoria: non conviene a nessuno andare a s. questa vecchia storia. Per sua natura la parola contiene il senso della ricerca, del sondare la memoria, della scoperta. Ha così preso corpo il gesto dello "scavare", dell'analisi, in un nascosto che solitamente non possiamo vedere, quasi oscuro, che ci risulta difficile da capire, ma che i nostri artisti, tutti con declinazioni diverse, sono riusciti a portare alla luce, per condividerlo con lo spettatore. Tale operazione naturalmente non poteva prescindere dal luogo dove tutto ha avuto inizio, la vecchia fabbrica tessile, che in questa e su questa si sviluppa e prende vita, andando così a creare un armonico e intrigante corto circuito. Gli artisti sono così partiti dallo spazio, dalle sue forme, dai suoi materiali, dalla sua anima e da questo punto hanno iniziato a pensare a riflettere. Un’arte fortemente ancorata a questo luogo. Non a caso tutte le opere in mostra sono inedite, pensate e realizzate con e per questo spazio.
a cura di Selina Fanteria
Adriana Moruso e Valentina Marinelli hanno realizzato un video che viene riprodotto tramite un televisore rotto collocato sopra un’installazione di svariati oggetti trovati in loco, andando cosÏ a creare un corto circuito con lo spazio. Il video riflette sulla parola underground, sui suoi significati, sulle domande che le due artiste si sono trovate ad affrontare, sulle risposte alle quali sono giunte. L’opera coinvolge pienamente lo spettatore il quale viene bombardato da oggetti, immagini e parole, impossibilitato a rimanere indifferente.
Sempre con un video si esprimono i due artisti Sasan Bahadorinejad e Miriam Poggiali. Quest’opera è stata realizzata partendo da loro stessi, con lo scopo di indagare il volto come identità maschile e femminile. I due visi degli artisti si oppongono, si intersecano, suggerendo un’identità altra, a tratti quasi inesistente, che però alla fine ne crea una definita, una traccia, un tentativo di fusione scaturito dal continuo evolversi delle relazioni.
Anche Matilde Mazzoni indaga la figura umana e realizza dei manifesti pubblicitari, i quali sono da sempre considerati lo strumento per eccellenza che entra nello spazio pubblico e che ci propone forzatamente realtà accattivanti e patinate. Ma cosa c’è “Sottopelle”? le figure vengono spogliate, private della loro superficiale bellezza e personalità, ridotte a delle siluette contenenti organi umani, rese così non identificabili e comuni. In antitesi all’oggettivazione del corpo l’artista indaga una diversa possibilità semantica, sinestesie rigenerate tra parole e immagini per significati altri.
Martina Bartolini ragiona vitale sui corpi organici, realizzando un’istallazione site specific con dei materiali trovati direttamente nella fabbrica, ai quali da un altro significato, un altro scopo, rispetto a quello per il quale sono stati creati. L’artista si lega al significato della parole Underground, alla sua traduzione letteraria “sotto terra”: collegandosi sia alla morte, “luogo” dove saremo destinati alla fine dei nostri giorni, sia alla vita, “logo” dal quale ha inizio tutto. Martina fa diventare un frigorifero una bara aperta dentro la quale va a mettere della terra, lasciando così immaginare allo spettatore cosa vi sia sotto, quest’ultimo non può vedere cosa vi sia effettivamente sotto, lo può solamente immaginare.
Anche Giulia Alba Chiara Bono con la sua opera si ricollega alla traduzione letteraria della parola underground. L’artista si immagina in un futuro lontano dove l’umanità cerca tracce del suo passato. Scavando nel terreno, “tessuto di una città urbana”, vengono alla luce delle ossa, che non sembrano appartenere ad alcuna cultura conosciuta, sono ossa scavate, decorate, che probabilmente hanno assunto nuove funzioni. Un atavico risveglio delle pratiche sciamaniche esprime un rapporto con la Terra che va oltre il semplice toccare, vedere, sentire: una vera e propria sinestesia che rimanda ad una intensa connessione con l’anima.
Al contrario Francesca Rossello osserva la natura e di questa ne cerca le tracce, che ricorrono sempre nei suoi lavori, non a caso nelle sue opere ella si ricollega alla massima di Goethe che definisce la natura:”unica vera Artista”. L’artista si cimenta nell’osservazione del paesaggio che la circonda e in questo caso si è trovata a esaminare un formicaio presente nel suo giardino. Le formiche vivono in colonie, proprio come gli umani e comunicano tra loro utilizzando feromoni, sono dunque anch’essi animali sociali. Parlano tra loro attraverso un linguaggio a noi incomprensibile, creano codici nel terreno e realizzano una scrittura invisibile all’occhio umano. Francesca analizza la struttura di un formicaio, un network in grado di collegare le diverse celle (come delle ipotetiche stazioni metro), e attraverso un legno, scavato dalle “formiche carpentiere”, crea uno stampo per imprimere dei tessuti. Attraverso questa operazione riesce a mostrarci chiaramente cosa vi sta sotto, cosa ci è invisibile.
Anche Leonardo Moretti lavora con la natura che però non è più idilliaca e incontaminata, ma rovinata dall’uomo. Perciò nasce l’opera: “Piccolo dispositivo tessile per la decolorazione di una falda acquifera”, lavoro che mette in scena un “dispositivo” che nella sua impostazione formale richiama degli elementi tessili che vengono posti in dialogo con un costrutto di oggetti pittorici, che rimandano all’utilizzo dell’acqua presa da un’ipotetica e stilizzata falda acquifera. L’artista considera l’attuale problema dell’inquinamento delle falde e le grandi problematiche di inquinamento che Prato ha dovuto risolvere nel post bum industriale tessile, così si è immaginato come, attraverso il colore blu, un’ipotetica falda acquifera venga utilizzata come “medium” per colorare e campionare un colore che andrà poi a essere steso su carta e tessuto. Così realizza un’istallazione rappresentante la falda che si inquina nel suo ipotetico utilizzo e comincia a perdere colore, macchiando e dipingendo gli elementi che vi ha intorno. Leonardo realizza una piccola installazione che mostra un uso poco ponderato di risorse naturali per abbellire e produrre tessuti che facevano parte del consumo di massa di quegli anni.
Olivia Kasa invece lavora con le trame e si ricollega alla produzione tessile partendo dalle radici del luogo, dalla sua ristrutturazione, dal lavoro fatto dai ragazzi del Balckout che hanno riqualificato l’ ex fabbrica, costruisce un’opera che riporta lo spazio alle proprie origini. Attraverso l’uso della tipografia, realizza una rappresentazione dei tessuti, degli orditi che si formano nella lavorazione della lana e, in mezzo alla perfezione degli incroci prodotti da macchine della fabbrica Bini, crea, attraverso degli errori di tessitura, delle tracce, che voglio ripercorrere la storia dell’ex fabbrica.
Anche Fabiola Campioli ragiona sul concetto di errore, in particolare di rotto, che viene il più delle volte legato a brutto, non funzionante, vecchio e magari anche sporco e puzzolente; ma quel qualcosa di rotto ha un valore che una cosa sana non ha, una ricchezza più difficile vedere, ma che è presente e forte. Così l’artista realizza un’istallazione con delle grosse casse di un impianto dismesso dentro le quali va a mettere delle luci che creano dei giochi chiaroscurali, lascindo intendere che vi sia qualcosa all’interno. L’intera struttura impersona il vuoto, la desolazione legata a qualcosa di rotto appunto, ed è proprio nel loro vuoto che sta la loro bellezza, in quel “sono stato”, “potevo essere”, “e ora sono”. Questa assenza da così la possibilità a qualunque cosa di nascondersi.
Infine, Alice Ferretti lavora con un oggetto dimenticato e gli da nuova vita. L’installazione “Ovoricchi” è realizzata con pacchi contenenti materiale di imballaggio mai utilizzato della ex allevamento Ovoricchi, situato a Bientina, provincia di Pisa. Rimuovendo il packaging inutilizzato dal suo luogo (l’ex stabilimento) e ponendolo nello spazio della mostra diventa simbolo dell’interruzione e della depressione economica. L’opera assume altri significati, un’anima, sembra quasi prendere vita nell’azione di rigettare se stessa. Seguendo un andamento discendente dall’alto verso il basso.
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ground graphic by Olivia Kasa e Leonardo Moretti