l'Artugna 142 - dicembre 2017

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Anno XLVI · Dicembre 2017 · Numero 142 Periodico della Comunità di Dardago · Budoia · Santa Lucia


[ l’editoriale ] Son trascorsi ormai vent’anni!

di Roberto Zambon

Son passati ormai vent’anni e per poco non ci si dimenticava di un bell’evento che occupa un posto importante negli annali de l’Artugna. Mi riferisco alle manifestazioni organizzate nel 1997 per i 25 anni di pubblicazione del nostro periodico. Per l’occasione, la Redazione decise di realizzare una mostra, un convegno ed un volume sulla produzione editoriale periodica della nostra zona. Cominciò così un lungo lavoro di preparazione, censimento, catalogazione ed allestimento della mostra. In archivio conserviamo ancora le copie dei questionari inviati, nell’estate del 1996, alle amministrazioni e alle biblioteche comunali, alle associazioni culturali, alle Pro Loco ecc. per raccogliere informazioni relative ai periodici pubblicati nella provincia di Pordenone e nei comuni della provincia di Venezia appartenenti alla Diocesi di Concordia – Pordenone. Fu così che nacque la Mostra della Stampa Minore del Friuli Occidentale e del Portogruarese. Identità, storia e critica.

la lettera del Plevàn di don Maurizio Busetti

entriamo nel Presepio

LA MOSTRA Elegantemente allestita negli spazi della Casa della Gioventù di Budoia, con la preziosa collaborazione della Pro Loco di Budoia, la mostra raccolse 150 periodici pubblicati nella provincia e nel Portogruarese. C’erano testate che venivano pubblicate in quegli anni e anche periodici che avevano avuto una vita breve per le tante difficoltà, anche economiche, che devono affrontare le piccole redazioni. La mostra era divisa in tre sezioni. Nella prima, intitolata Dal Raut all’Adriatico erano raccolti i periodici provenienti da ben 46 Comuni, da Claut a San Michele al Tagliamento, espressione di parrocchie, associazioni, amministrazioni comunali, scuole, aziende… che offrivano una attenta rappresentazione della nostra società locale. Nella seconda sezione, Sot ’l Crep, con riferimento al nostro Crep de San Tomé , erano esposti i numeri de l’Artugna pubblicati nei primi 25 anni di vita, ben 80, pari a 2500 pagine. Facevano compagnia al periodico anche i 10 numeri de ’l Cunath, l’inserto curato dai giovani che era giunto al suo terzo anno.1 La terza sezione dal titolo Come nasce un periodico, ieri e oggi proponeva un itinerario didattico per comprendere come si realizzava un periodico. Era stata predisposta una mini tipografia a caratteri

[ continua a pagina 13 ] NOTE 1. Purtroppo questa bella esperienza ebbe una vita breve: dall’aprile 1994 fino all’agosto 2001. La redazione giovanile era una bella e stimolate realtà. Talvolta si riparla con nostalgia di quella esperienza. È possibile sperare in una rinascita? Sarebbe uno strumento di crescita culturale ed umana oltre che un ricambio generazionale per la redazione de l’Artugna.

I n questi giorni un grande fervore nelle nostre Chiese ed in molte case. Si va a raccogliere muschio, si preparano le statuine, si prova il funzionamento delle lampadine. I bambini con gli occhi incantati guardano il bue e l’asino, le pecorelle. Bisogna poi coprire con un panno il bambino perché non è ancora nato. I Re Magi vanno collocati distanti dalla grotta, sono ancora in viaggio e il loro viaggio è lungo. C’è da mettere l’angelo in cima a cantare gloria e pace. C’è da mettere il tremendo palazzo di Erode che domina su quella povera umanità. Ma perché i cattolici hanno e conservano questa tradizione nonostante l’invasione della tradizione dei loro fratelli nordeuropei o americani più inclini all’albero di Natale? Quando nasce il presepio come simbolo di questa lieta festività annuale, perché tante forme: quello statico, quello vivente, quello ricco di statue di personaggi anche contemporanei come quello napoletano? La tradizione nota fa risalire l’attuazione del presepio a San Francesco d’Assisi tra i pastori di Greccio nel 1223, ma la storia del presepio inizia tempo prima. La parola presepe deriva dal latino «praesaepe» che significa «mangiatoia». Ne troviamo testimonianza nei


per vivere il Natale Vangeli di Luca e Matteo dove si racconta la nascita di Gesù, avvenuta ai tempi di re Erode a Betlemme, dove Maria e Giuseppe giunsero per il censimento indetto da Roma e, non riuscendo a trovare alloggio in nessuna locanda, si ripararono in una stalla. Durante la notte Maria ebbe le doglie e il Bambino nacque dentro la stalla e fu coperto alla buona. Nel racconto dei Vangeli non vengono menzionati gli animali: questo particolare fu inserito successivamente dalla tradizione popolare. Si pensò, infatti, che per riparare il Bambino dal freddo, i genitori lo avessero coperto dalla paglia e che fosse stato messo vicino i musi degli animali presenti dentro la stalla. Nel presepe che conosciamo ancora oggi, il bue e l’asinello hanno un posto di rilievo! La raffigurazione della natività ha origini antiche: i cristiani dipingevano e scolpivano le scene della nascita di Cristo nei luoghi di incontro, come le Catacombe romane. Quando il Cristianesimo uscì dalla clandestinità, le immagini della natività cominciarono ad arricchire le pareti delle prime chiese; mentre nel 1200 si iniziarono a vedere le prime statue. La scena della natività fu ricostruita per la prima volta nel 1223 da San Francesco d’Assisi, ritenuto il «fondatore» del presepe. L’idea era venuta al

Santo durante il Natale dell’anno prima a Betlemme. Francesco rimase particolarmente colpito tanto che, tornato in Italia, chiese a Papa Onorio III di poter ripetere le celebrazioni per il Natale successivo. A quei tempi le rappresentazioni sacre non potevano tenersi in chiesa. Il Papa così gli permise di far celebrare una messa all’aperto a Greccio, in Umbria: i contadini del paese accorsero nella grotta, i frati con le fiaccole illuminavano il paesaggio notturno e all’interno della grotta fu inserita una mangiatoia riempita di paglia con accanto il bue e l’asinello. Quello fu il primo presepe vivente: una tradizione che si rinnova ancora oggi in piccoli e grandi centri dove si rievoca la Notte Santa. Il primo presepe con tutti i personaggi risale al 1283, per opera di Arnolfo di Cambio, scultore di otto statuine lignee che rappresentavano la natività e i Magi. Questo presepio è conservato nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Inizialmente questa attività prese piede in Toscana e subito si diffuso nel Regno di Napoli, dove ancora si detiene il primato italiano in termini di tradizione, curiosità e innovazione. Infatti tra il ’600 e il ’700 gli artisti napoletani decisero di introdurre nella scena della Natività personaggi immortalati nella vita di tutti i giorni, so3

prattutto durante il loro lavoro. Questa tradizione è ancora molto viva, come dimostrano le popolari bancarelle piene di personaggi lungo la via San Gregorio Armeno. Sempre agli artisti napoletani si deve l’aver dotato i personaggi di arti in fil di ferro e l’averli abbigliati di abiti delle più preziose stoffe e soprattutto di aver realizzato le statuette di vip, politici e personalità note. Nella simbologia del presepe il bue e l’asinello sono i simboli del popolo ebreo e dei pagani. I Magi sono considerati come la rappresentazione delle tre età dell’uomo: gioventù, maturità e vecchiaia. Oppure come le tre razze in cui, secondo il racconto biblico, si divide l’umanità: la semita, la giapetica, e la camita (dai tre figli di Noè: Sem da cui derivano ebrei e arabi; Jafet da cui deriviamo noi occidentali bianchi; e Cam da cui derivano gli africani neri). I doni dei re Magi hanno il duplice riferimento alla natura umana di Gesù e alla sua regalità: la mirra per il suo essere uomo, l’incenso per la sua divinità, l’oro perché dono riservato ai re. I pastori rappresentano l’umanità da redimere e l’atteggiamento adorante di Maria e Giuseppe serve a sottolineare la regalità del Nascituro. Entriamo, in questo Natale nel presepio, avviciniamoci con i pastori a quella mangiatoia invocando il Divino Bambino perché il mondo riscopra quella bontà disarmata e disarmante, perché cedano le violenze dei nuovi Erode sui bambini e sugli adulti, sulle donne e sui vecchi e il mondo si incammini su sentieri di pace, quella pace che nasce dalla Gloria di Dio e dall’impegno degli uomini di buona volontà, amati dal Signore.

Buon Natale a tutti, buon lavoro da costruttori di Pace e felice 2018!

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www.parrocchie-artugna.blogspot.it


[ la ruota della vita ]

NASCITE Benvenuti! Abbiamo suonato le campane per l’arrivo di... Damiano Maria Parro di Stefano e di Francesca Furlan – Santa Lucia Elia Piovesana di Patrik e Jessica Torregrossa – Santa Lucia Przybus Dallas di Josh e di Stephany Ventura – Santa Lucia Sebastiano Gubana di Mirco e Cinzia Fort – Santa Lucia Sebastian Siragusa di Salvatore e Samanta Del Maschio – Dardago Jacopo Carlon di Vincenzo e di Noemi La Manna – Milano Leonardo Bucci di Federico e di Chiara Massaia – Santa Lucia Jacopo Calderan di Edoardo e di Elena Villa – Milano Leonardo Manieri di Enrico e di Marianna Milone – Budoia Iris Zambon di Gabriele e di Francesca Polonia – Porcia

MATRIMONI Felicitazioni a... Nozze d’oro Giustino Maccioccu e Paola Zambon – Dardago Guido Andreazza e Maria Salvador – Budoia Aldo Rigoni e Milena Fort – Santa Lucia

LAUREE, DIPLOMI Complimenti! Media Superiore Lorenzo Lucchese – Liceo Internazionale per l’Intercultura – Milano Laurea Giulio Giannelli – Laurea Magistrale in Scienze del Governo e Politiche Pubbliche – Dardago Matteo Martinelli Tavàn – Laurea Triennale in Relazioni Pubbliche e Comunicazione d’Impresa – Brugherio (Milano) Lucia Marcandella – Laurea in Lettere – Santa Lucia

DEFUNTI Riposano nella pace di Cristo. Condoglianze ai famigliari di…

IMPORTANTE Per ragioni legate alla normativa sulla privacy, non è più possibile avere dagli uffici comunali i dati relativi al movimento demografico del comune (nati, morti, matrimoni). Pertanto, i nominativi che appaiono su questa rubrica sono solo quelli che ci sono stati comunicati dagli interessati o da loro parenti, oppure di cui siamo venuti a conoscenza pubblicamente. Naturalmente l’elenco sarà incompleto. Ci scusiamo con i lettori. Chi desidera usufruire di questa rubrica è invitato a comunicare i dati almeno venti giorni prima dell’uscita del periodico.

Corrado Fort di anni 61 – Santa Lucia Chiara Ianna di anni 61 – Dardago Antonietta Bocus di anni 89 – Dardago Luigi Angelin di anni 85 – Budoia Enrico Eugenio Calderone di anni 79 – Dardago Giuseppe Marcon di anni 89 – Stati Uniti Marco Zambon di anni 86 – Torino Osvaldo Signora di anni 87 – Budoia Luigia Della Fiorentina di anni 92 – Budoia Osvaldo Puppin di anni 70 – San Donato Milanese Gina Ianna Tavàn di anni 89 – Usmate Velate (Monza Brianza) Giovanni Bastianello di anni 92 – Dardago Rina Carlon di anni 82 – Aviano Luciano Biscontin di anni 80 – Budoia Marcella Bastianello di anni 81 – Dardago Isaia Barbot di anni 62 – Budoia Valentino Carlon di anni 83 – Budoia Gian Carlo Carlon di anni 68 – Budoia Argia Del Maschio di anni 84 – Budoia Gemma Carlon di anni 94 – Budoia Maria Franzoi di anni 82 – Santa Lucia Cristina Scandella di anni 82 – Budoia Giuditta Michelin di anni 94 – Budoia Leila Cecchelin di anni 48 – Milano Dina Panizzut di anni 77 – Budoia Caterina Maria Moretto di anni 89 – Santa Lucia


[foto di Paolo Burigana]

2 Son trascorsi ormai vent’anni! di Roberto Zambon

sommario

In copertina. Suggestiva immagine notturna della piazza di Budoia.

2 La lettera del Plevàn di don Maurizio Busetti 4 La ruota della vita

dicembre 17 20

anno XL V

6 Santiago: non una mèta ma punto di partenza di Joelle Bianchi

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Direzione, Redazione, Amministrazione tel. 348.8293208 · C.C.P. 11716594 IBAN IT54Y0533665090000030011728 dall’estero aggiungere il codice BIC/SWIFT: BPPNIT2P037 internet www.artugna.blogspot.com

10 Archivio a cielo aperto a cura della Redazione

35 I propri cari sempre nel cuore a cura della Redazione

14 ...quel campanile che sembra segnare il confine tra la pianura e la montagna di Lorenzo Messina

36 Un uomo dal cuore buono: l’amico diacono Osvaldo Puppin di don Giuseppe Como, don Maurizio Busetti, Fernando Del Maschio, Vittorina Carlon

15 Il mio Dardago… nonostante di Aide Bastianello

e-mail direzione.artugna@gmail.com

17 Gli aquilotti di Campoformido, il sergente Andrea Citi di Sante Ugo Ianna

Direttore responsabile Roberto Zambon · cel. 348.8293208 Per la redazione Vittorina Carlon

21 2017, estate insieme di Elena Zambon

Impaginazione Vittorio Janna

22 Sacra Famiglia «dardaghese» a Roma di Roberto Zambon

Contributi fotografici Archivio de l’Artugna, Joelle Bianchi, Magda Carlon, Francesca Janna, Vittorio Janna

24 Radon misure per 1000 famiglie di Daniele Biasutti

Spedizione Francesca Fort

26 El Sant, un segno devozionale ha rivisto la luce di Andrea Valentino Signora

Ed inoltre hanno collaborato Francesca Janna, Espedito Zambon, Gianni Zambon Rosìt Stampa Sincromia · Roveredo in Piano/Pn

27 Pordenone-Afganistan cronaca di un viaggio di 50 anni fa di Ezio Burelli 30 I fioi de l’agna Giacoma di Fernando Del Maschio

Autorizzazione del Tribunale di Pordenone n. 89 del 13 aprile 1973 Spedizione in abbonamento postale. Art. 2, comma 20, lettera C, legge n. 662/96. Filiale di Pordenone.

31 La bicicleta de Cino di Flavio Zambon Tarabìn Modola 32 ’n te la vetrina

Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione di qualsiasi parte del periodico, foto incluse, senza il consenso scritto della redazione, degli autori e dei proprietari del materiale iconografico.

34 C’era una volta il Gruppo Famiglia di Fioralba, Daniela, Enrico Vettor e Claudia 5

39 Lasciano un grande vuoto... 41 Cronaca 44 Inno alla vita 46 I ne à scrit... ...dai conti correnti Bilancio 47 Programma religioso

ed inoltre... Cent’anni dalla Grande Guerra Inserto n. 9 a cura di Vittorina Carlon, Vittorio Janna e Roberto Zambon


Santiago: non una mèta ma punto di partenza

di Joelle Bianchi

17 luglio Milano · O’ Cebreiro

18 luglio · km 22 O’ Cebreiro · Triacastela

Eccomi. Zaino in spalla, mille pensieri in testa, sono pronta per partire per questa avventura. Non so cosa mi aspetta eppure sento che sarà un’esperienza che mi cambierà la vita; mentre sono immersa nelle mie riflessioni, la voce del Don mi riporta alla realtà. Sta chiedendo a ciascuno di noi il motivo per cui abbiamo deciso di intraprendere il cammino; mi stupisce l’intervento di Pietro, che esordisce dicendo che stava cercando quel qualcosa in più dalle sue amicizie che però non gli veniva dato e la sua speranza era di trovare una risposta durante il pellegrinaggio. Anch’io sono nella sua stessa situazione. Il nostro arrivo è stato a O’ Cebreiro, un piccolo paese a 1200 metri di altitudine dove abbiamo goduto di un tramonto mozzafiato e dove tutto ha avuto inizio. L’avventura è cominciata con la prima notte trascorsa in tenda con materassini e sacchi a pelo come dei veri e propri pellegrini. Avevo delle aspettative; speravo di trovare sia pace che serenità, sia solitudine che compagnia ed è quello che ho vissuto.

Ci svegliamo di buonora, smontiamo le tende e siamo finalmente pronti. Cominciamo il cammino seguendo le mitiche frecce gialle che indicano il percorso per Santiago. Il tema di oggi riguarda il rapporto con Dio; ho avuto occasione di pensarci quando abbiamo trascorso una parte del cammino in silenzio per meditare su questo mistero. Comincio a sentire la fatica, il caldo e la stanchezza. Oggi dormiremo in un ostello a Triacastela. Il Don stamattina ci ha lasciato con una frase sulla quale riflettere: «A che oggetto paragoneresti la tua fede?». Beh... una domanda abbastanza difficile a cui rispondere, ma penso di aver trovato una risposta che spieghi i miei dubbi e le mie incertezze: il cubo di Rubik. Forse perché mi rendo conto che quando faccio un passo verso Dio e quindi sistemo una faccia del cubo, le altre rimangono tutte senza un senso a causa dei miei punti di domanda. Un altro tema interessante su cui abbiamo riflettuto stasera è l’amore di Dio: potenzialmente potremmo essere tutti Dio, ma riusciremo ad esserlo solo quando ameremo tutti incondizionatamente come Lui ha fatto con noi. Ciò è 6

molto difficile e diciamocelo chi ce la potrebbe fare? Beh e allora proprio perché è difficile mi impegnerò per riuscire a farlo. Ora è il momento di poggiare la testa sul cuscino e di riposare altrimenti domani sarò senza forze.

19 luglio · km 11 Triacastela · Samos Pronti per partire! Zaino in spalla, con la guida del Don, ci incamminiamo verso la prossima meta che è Samos. Il tema di oggi: osservando la natura, al suo interno vi si ritrovi il volto di Dio. Questa affermazione è veritiera secondo me, perché se mi guardo intorno come ho fatto durante la giornata, noto che tutto è perfetto, nulla è stato creato a caso, ma secondo il progetto che Dio aveva e ha in mente. E così si capisce ciò che spesso non vediamo: il mondo è positivo! Dobbiamo solo avere il coraggio di scoprirlo. Il Don ha deciso di farci fare un pezzo del cammino a coppie per darci la possibilità di conoscerci, e io l’ho condiviso con il prof di storia, geografia e latino, il quale mi ha raccontato il suo iter scolastico al «Montini», il liceo che sto frequentando. Io mi sono aperta sui rapporti un po’ difficili che devo affrontare in classe.

Monte do Gozo. Monumento ai pellegrini. I partecipanti del Gruppo del «Montini» durante una sosta meditativa. L’elevata posizione permette di poter finalmente vedere da lontano Santiago e le guglie della Cattedrale.

Quest’anno ho deciso di partecipare all’esperienza del cammino di Santiago, proposta dalla mia scuola. Il cammino di Santiago de Compostela è un pellegrinaggio lungo 900 chilometri, che esiste da secoli, verso le reliquie di San Giacomo conservate nella cattedrale di Santiago in Spagna. Ci sono tre diverse strade per giungere alla meta: una che attraversa il Portogallo, una la Francia e l’ultima la Spagna. Per noi la scelta è stata quella del cammino spagnolo, abbiamo percorso in totale 168 chilometri.


Oggi sento la fatica. Ma continuo a camminare perché ho una mèta e un obiettivo. Arriviamo in ostello, stanchi, ma pieni di felicità ed entusiasmo.

20 luglio · km 24 Samos · Ferreiros Sveglia di buon’ora. Si parte! Oggi camminerò con Bea, una ragazza che ha appena finito la maturità. Voglio chiederle il motivo per cui ha deciso di partecipare al cammino di Santiago. Cominciamo a parlare e anche lei mi dice che sta chiedendo di più alle sue amicizie, ma nessuno riesce a darglielo. Partecipare a questo pellegrinaggio era un modo per capire questo suo non accontentarsi. Mi sono venute le vesciche, ho voluto usare le scarpe da ginnastica e ora sto pagando sulla mia pelle. Sto soffrendo, ma non mollo; l’ho scoperto proprio qua quanto sia forte la mia volontà e la mia determinazione. Oggi avevo talmente male ad un piede che ho fatto una scelta strana che faceva ridere persino me: ho indossato una scarpa e una ciabatta! Che cose curiose succedono. Ma è stata una pessima idea, nei giorni successivi ho avuto un forte dolore al ginocchio dovuto allo sforzo della gamba su cui appoggiavo tutto il peso. Sono arrivata alla mèta, grazie al sostegno dei miei compagni di viaggio, pieni di energia e carica. Stasera la prof di religione ha raccontato la sua storia e la sua conversione a una vita fatta di rinunce e sacrifici. La ammiro molto perché si è spesa sempre per gli altri dedicandosi pienamente a noi ragazzi e a Dio. Anche questo giorno è passato, meglio dormire per non pensare al dolore al piede.

21 luglio · km 31 Ferreiros · Ligonde Oggi sveglia all’alba, ore 6.30, ci aspetta una giornata faticosa, dobbiamo percorrere 31 chilometri! Speriamo di arrivare, di riuscire a farcela, perché quando il dolore è forte mi prende lo sconforto: ce la farò? O lascerò prima del traguardo? Il sole picchia e noi imperterriti seguiamo le frecce, che ci indicano il percorso, mentre la fatica si accumula

sempre di più. Sono riuscita ad arrivare, anche se ultima. Ce l’ho fatta grazie ai miei compagni ed educatori, al loro sostegno e aiuto. Un grazie particolare anche a Roby, una delle nostre accompagnatrici, mi è stata vicina come tutti gli altri che si sono presi cura di me. Claudia è stata al mio fianco nel percorso e con il racconto della sua storia, mi ha spronato a non mollare. Anche oggi abbiamo fatto un tratto del cammino a coppie, ero con Lore, un ragazzo di grande cultura, molto riservato. Questa sera ci siamo divertiti come matti, è stata una serata piena di balli, giochi, canzoni, storie, risate, felicità e un’allegria contagiosa. Mi sento addosso una gioia e un entusiasmo che travolgono. La Messa di oggi, in una chiesetta della Galizia, è stata intensa e piena di emozioni. Abbiamo cantato molto e mi sento come ‘galvanizzata’: «non sento la stanchezza», sono fiera del traguardo che ho raggiunto, pur con i dolori, le fatiche e le vesciche. Penso però che senza Dio al mio fianco, non sarei arrivata alla mèta, Lui è sempre al mio fianco e mi sostiene e quando penso di non avere più energie, mi risolleva e mi dà la carica necessaria per affrontare la sfida. Oggi sono veramente esausta meglio dormire ripensando a questa meravigliosa giornata.

22 luglio · km 25 Ligonde · Melide Il tema di oggi: il rapporto con gli altri… proprio quello che fa per me! Cosa vuol dire? Questa è la domanda che porterò nel cuore oggi alla

quale cercherò di dare una risposta. Un concetto connesso a questo argomento è la libertà dell’amore; dare incondizionatamente, senza aspettarsi niente in cambio. Spesso non è così, perché siamo tutti un po’ egoisti, ci dimentichiamo degli altri e ci preoccupiamo solo di noi stessi. Oggi ho creduto di non riuscire ad arrivare alla mèta. I dolori cominciavano a prendere il meglio di me, ma ascoltando musica, ho recuperato e sono sopravvissuta. È stata tosta, ma sono arrivata sulle mie gambe. Anche oggi Claudia mi ha sostenuto. La sto scoprendo sempre più, è una ragazza fantastica, speciale, unica e simpatica. Mi ha sopportato tutto il giorno dandomi forza e coraggio, proprio quello che serviva. Quando stavo per mollare, mi ha detto: «Dai, Jo, che ce la fai» e non c’è niente di più bello che sentire qualcuno che tifa per te, nel momento in cui stai pensando di cedere. Stasera abbiamo sentito le storie di vita dei nostri accompagnatori, il prof di italiano e storia ha scelto la sua professione per stare in mezzo a noi e condividere gioie, speranze e dolori. Così pure i prof di latino e greco e quello di storia, geografia e latino. Roby invece, con un sorriso caloroso, ci racconta dei suoi figli e di suo marito. Il suo viso è raggiante mentre ci parla di ciò che le sta più a cuore. Per noi è stata come una mamma perché ci ha accuditi come suoi figli e penso che questo sia bellissimo. Si è pure preoccupata di tutti i lavori tecnici: lavatrice e asciugatrice per lei erano la maggiore occupazione, oltre che far scoppiare le vesciche ai poveri malcapitati. Insomma una donna tutto fare.

La «firma». I partecipanti al pellegrinaggio formano una grande «M»; garanzia di appartenenza al liceo Montini e un caro ricordo da conservare nel cuore.


Anche oggi è terminato. Ora a nanna, dovrei proprio dormire!

23 luglio · km 25 Melide · Salceda Cominciamo a camminare, la fatica aumenta ogni giorno di più, ma ne gioisco perché ci stiamo avvicinando alla nostra mèta. Claudia sta diventando la mia compagna di avventure, ma sto anche scoprendo quante belle persone ci sono qua con me, con una profondità d’animo che mi sorprende! Mi sto rendendo conto della fortuna di conoscere persone così fantastiche e di averle al mio fianco in questo viaggio. Qualche imprevisto, le solite vesciche: però vado avanti sempre senza mollare. Tutti insieme ce la faremo, ci sosteniamo a vicenda senza mai lasciarci dominare dalla fatica. La Messa di stasera è stata molto bella. Il Don ha detto che la cosa più importante è fotografare, non con il cellulare ma con il cuore, ciò che ci rimane di bello e significativo di questa esperienza. Sono tanti i momenti che ho impresso dentro di me: Verdino, un ragazzo di quarta diventato il nostro caposquadra, che ci sprona a continuare e a stare al passo con gli altri, i sorrisi, i «dai, ce la facciamo!», i «non mollare perché siamo quasi arrivati». Il coro «Il Montini paura non ne ha», perché nella nostra scuola siamo pieni di idee e di inventiva: quindi non poteva mancare una canzone per ricordarci di Santiago, che cita tutti i nostri accompagnatori. È qualcosa di magico e divertente. Queste parole, gesti, azioni sono state fondamentali per continuare e non cedere davanti alla fatica.

24 luglio · km 25 Salceda · Monte do Gozo È l’ultimo giorno di camminata tosta e faticosa, veramente un po’ mi dispiace, mi sono resa conto di quanto sia bello camminare in compagnia, si creano rapporti e legami che si conservano nel cuore per tutta la vita. Claudia mi accompagna anche oggi, ormai è un’abitudine molto piacevole. Oggi con lei ho affrontato temi importanti, come l’amore, l’amicizia e i tratti caratteriali. Aprirmi con lei mi risulta facile, mi ha raccontato che ha po-

che amicizie perché di solito preferisce essere un lupo solitario, godersi la solitudine e ha aggiunto che con me si trova bene e questo mi fa piacere perché il sentimento è reciproco. Spero di continuare questa amicizia anche dopo Santiago. Ho parlato anche con Pietro, quanto lo adoro, è fantastico: esprime sempre idee e concetti che mi fanno meditare. Sto veramente bene, questa esperienza mi sta rendendo felicissima. Stasera la nostra riflessione l’abbiamo fatta in un posto bellissimo, dopo sette giorni di cammino intravediamo le guglie della maestosa cattedrale di San Giacomo. Che emozione! La mèta è lì, a portata di mano e con gli occhi lucidi ci guardiamo l’un l’altro, perché siamo giunti quasi a destinazione grazie all’aiuto reciproco. La riflessione di stasera è stata intensa, ho pianto, erano lacrime di gioia, felicità, ma anche di dolore, tra poco la nostra avventura giungerà al termine... Abbiamo condiviso passi e pensieri e ciò che rimarrà nel nostro cuore e ciò che ne uscirà poi sarà molto interessante. «Camminare insieme» è stato il motivo per cui non ho abbandonato. Non ho voluto prendere quel pullmino che mi veniva offerto, perché così non avrei potuto condividere la fatica con i miei compagni di viaggio; se fossi stata sola, dopo i primi segni di fatica, avrei mollato. È stato grazie a loro se sono arrivata qui e voglio ringraziarli uno ad uno per avermi sempre incoraggiato e spronato. Con il gruppo mi sono trovata molto bene, come con gli accompagnatori, nostri punti di riferimento. Il Don è veramente mitico, riesce sempre a farci riflettere su argomenti importanti e densi di significato. Altro tema importante, per la mia esperienza personale: il cammino è una metafora di vita, esso rappresenta il percorso che ognuno deve completare: alle volte le strade si incrociano, facciamo dei tragitti in compagnia, succederà che troveremo dei bivi e saremo costretti a lasciare persone con cui credevamo che avremmo condiviso l’intera vita; gli imprevisti che ho incontrato sul cammino di Santiago, le vesciche, la fatica, il caldo, sono gli ostacoli che incontriamo o incontreremo nel nostro lungo percorso esistenziale. Questo viaggio mi ha lasciato den8

Don Paolo Zago: il «mitico don!», guida spirituale del gruppo.

tro emozioni ed esperienze che conserverò per sempre.

25 luglio · km 5 Monte do Gozo · Santiago Oggi solo 5 chilometri ci separano dalla destinazione finale. Finalmente dopo 8 giorni e dopo aver percorso 168 chilometri entriamo nella piccola città di Santiago. Che emozione! Dopo fatica, dolore, tristezza, gioia e felicità abbiamo raggiunto la nostra mèta. In coro abbiamo cantato l’inno del Montini con l’entusiasmo e con la partecipazione di gente che non conoscevamo che ci applaudiva e sorrideva. Ci mettiamo in coda per entrare nell’imponente cattedrale e penso intensamente al fatto che tutti insieme eravamo arrivati e voglio sottolinearlo, perché grazie ad ognuno dei miei compagni anch’io ci sono arrivata. L’emozione più bella è stata quella di andare ad affidare le nostre preghiere a San Giacomo davanti alla sua tomba, mentre la sensazione più forte è stata quella di abbracciare la sua statua. In quel momento ho sentito la presenza dello Spirito Santo su di me e sono stata consapevole che, nonostante tutto, veglierà sempre su di me. Stasera abbiamo assistito ad un concerto nella piazza a lato della cattedrale, siamo riusciti a coinvolgere altre persone con la nostra allegria e il nostro entusiasmo trascinante.

26 luglio Santiago Da oggi fino alla partenza alloggeremo a Santiago nel Seminario minore, un ostello poco distante dal centro. Stamattina abbiamo partecipato alla catechesi e alla Messa in una cappellina all’interno della cattedrale dedicata solo agli Italiani con padre Fabio, un prete particolarmente coinvolgente. È stata una mattina toccante, du-


Uno scoglio enorme dà sull’oceano... gli animi, il cielo e il mare si fondono in un tutt’uno che sa di universo... ...mentre il rumore delle onde, che si infrangono sui faraglioni, scandisce i momenti della Messa...

rante la Messa il prete ha detto che l’eucarestia è il miracolo più grande; Cristo è diventato Uomo, ha sofferto e si è fatto crocifiggere soltanto per noi, si è incarnato nel vino e nel pane per redimerci dai nostri peccati. Mi sono confessata ed il Don mi ha detto delle parole che ho ancora ben impresse nella mente: «un peccato non definisce chi siamo, ma solo un nostro sbaglio e Cristo ci perdonerà sempre e comunque». Non mi sento degna e all’altezza, penso che molti adolescenti provino questo mio stesso sentimento, e spesso fatichiamo ad ammettere che ci sia questa insicurezza, il Don mi dice che tutti noi siamo un dono che Dio ha fatto all’umanità e dal momento che viviamo nel mondo pieno di altre persone, il nostro scopo nella vita è quello di donarci agli altri.

27 luglio Santiago È l’ultimo giorno, mi dispiace veramente tornare a casa, questa esperienza mi ha cambiato, sono un’altra persona, con uno spirito nuovo, uno sguardo diverso nei confronti del mondo, entusiasmo da vendere e una determinazione molto forte. Ho riscoperto Dio e il mio rapporto con Lui non potrebbe andare meglio di così. Oggi siamo andati a Finisterre. La parola in sé indica già che questo luogo è la fine della Terra ed è proprio qua che finisce il cammino. Infatti c’è il cartello con 0,00 km. Che soddisfazione! Il tempo era nebbioso e piovigginava. Uno scoglio enorme dà sull’oceano, paesaggio suggestivo. Poi ci rechiamo in un paese vicino, Muxia, dove c’è un panorama mozzafiato. Scogli che si fondevano con il mare, il rumore delle onde che si infrangevano sui faraglioni, con questo sottofondo abbiamo partecipato alla Messa. Un momento magico e intenso, dove Dio non sembrava così irraggiungibile.

28 luglio Santiago Oggi è il giorno della partenza, che dispiacere immenso ho nel cuore. Stamattina abbiamo partecipato alla Messa nella cattedrale all’interno della cappellina per gli italiani, preceduta dalla meditazione sul vangelo della passione di Cristo. La croce cosa vuol dire? Ognuno deve pagare un prezzo per proseguire nella missione che deve compiere nella vita. La croce arriva così, non la vuoi, non la cerchi, non ti piace, però se la accetti, ti cambia la vita. Questa citazione spiega meglio ciò che ho detto precedentemente: «Tutti i malanni della vita sono un dono di Dio» ovvero tutte le croci, le sofferenze, i dolori sono un regalo che Dio ha fatto a ognuno di noi e il nostro compito è non lasciarci abbattere, ma accoglierle nella nostra vita e lasciare che la cambino per sempre. Ogni volta che arriva una bufera, simbolo di cambiamento, anche se negativo, dobbiamo chiederci: «Ma se fosse un dono?». Questa è la domanda che dovremmo farci ogni volta che incontriamo dei problemi. La presenza di Simone di Cirene la si può spiegare così: quando il peso delle difficoltà ci schiaccia, Dio non ci lascia soli, anzi ha pensato a qualcuno che ci stia accanto, ci prenda per mano e superi con noi gli ostacoli. E poi la figura delle donne, che piangono Cristo quando in realtà dovrebbero reagire piuttosto che rimanere a piangere perché non serve a niente e non è mai la soluzione a nessun tipo di problema. Il prete ha voluto provocarci con alcune sue affermazioni: «Chiunque arrivi, non è una risposta, ma una domanda!». Tutte le persone che incontriamo non devono essere 9

una risposta ai nostri bisogni egoistici, ma una domanda per capire chi sono io e qual è la mia strada. «Se muoio nel nulla, tutto è stato nulla». Nella nostra vita dobbiamo utilizzare le nostre qualità e i nostri talenti, se non lo facciamo, tutto ciò che abbiamo creato sparirà nel nulla ed è per questo che dobbiamo attivarci, investire su quello che abbiamo per donarlo al mondo e agli altri. «Il senso della vita è il motivo per cui sopporti tutto». Il problema di noi adolescenti, almeno per quanto riguarda me, è capire per quale ragione dovrei sopportare ogni offesa e ogni torto. Sto cercando di fare chiarezza dentro di me. Penso che per dare senso alla vita sia quello di donarla al prossimo. E con queste frasi, si è conclusa la Messa. *** Il cammino è stato una sfida nella quale mi sono confrontata con i miei limiti, non pensavo che ce l’avrei fatta. È stata dura, ma la strada in realtà è appena iniziata. Santiago non era la mèta, ma il punto di partenza per ricominciare di nuovo con Dio ponendolo al mio fianco. Questa esperienza mi ha dato la voglia di spingermi oltre, laddove non credevo di potere arrivare. Ciò che mi è piaciuto di più è la gioia e l’entusiasmo che abbiamo condiviso con chi abbiamo incontrato. Vorrei rimanere ancora qua, ho vissuto intensamente con il gruppo, in particolare con Claudia. Ho dialogato con tutto e con tutti. Alcuni quest’anno hanno preso il diploma, e così non avrò più la possibilità di incontrarli nei corridoi. Persone genuine, spontanee che hanno respirato il vero spirito del «Montini» e lo conservano nel loro cuore. Dentro di me... ho cercato, ho messo a fuoco le incertezze, ho trovato risposte alle domande. Ho capito cosa vuol dire «fare gruppo» nonostante fatica e vesciche. Ho riscoperto cosa vuol dire avere un dialogo aperto con Dio, confrontarmi con Lui, grazie a momenti di silenzio e preghiera. Grazie anche ai nostri prof ed educatori che con noi hanno condiviso questa esperienza. E un grazie particolare al Don, che ci ha guidati in questo cammino spirituale non lasciandoci soli. Grazie ancora a chi mi ha sempre dato speranza, forza, coraggio e un motivo per non mollare!


Progetto di valorizzazione del patrimonio archivistico per conoscerci e farci conoscere

archivio a cielo aperto a cura di Vittorina Carlon, Vittorio Janna e Roberto Zambon per la Redazione Prosegue il progetto «Archivio a cielo aperto» con l’installazione di quattro nuovi pannelli nella frazione di Dardago, concretizzati dall’Amministrazione Comunale su ideazione e realizzazione della Redazione del periodico (cfr. n. 133, n. 139). Si tratta dell’inizio di molteplici percorsi comunali, collegati a una varietà di tematiche, per la valorizzazione e diffusione del patrimonio archivistico, in particolare quello dell’antica pieve. Per ora a Dardago sono tre i tracciati scelti: il percorso delle arti e mestieri (AM),

AM 1

La Piazza

DS 1

La Chiesa di Santa Maria Maggiore e il sagrato

AT 1

Casa del cappellano, già Casa Zambon e Casa Tosi, Riva del capelan

AM 2

L’orsoglio alla bolognese, Casa Fort

in piazza e all’inizio di via Brait; il percorso del Sacro (PS), nel sagrato, e quello antroponimico-toponomastico (AT), lungo la Riva del Capelan. Nella segnaletica sono anche

AM 1

Foto in alto. l’Artugna, dicembre 2014, numero 133, pagina 18, in cui si anticipava l’idea del progetto «Archivio a cielo aperto».

La Piazza

La piazza, a struttura medievale, è nata come spazio delimitato da una fitta trama di edifici privati addossati gli uni agli altri, interrotti solo dalla confluenza delle strade. Si ha la sensazione di trovarci non in un luogo pubblico esterno, ma nel cuore di un’unica costruzione monumentale, animata da oltre un centinaio di soprannomi di famiglie dardaghesi incisi nella pavimentazione. Da sempre lo spazio trapezoidale fu luogo d’incontro civile e religioso, fulcro e riferimento per la vita della collettività. Al suono della campana, vi si riunivano in assem10

riportate le sintesi dei testi sia in parlata dardaghese (consulenza di Flavio Zambon Tarabin Modola), sia in lingua inglese, che qui omettiamo per motivi di spazio.

blea pubblica i capi di famiglia del Comune, per discutere e deliberare decisioni importanti della vita amministrativa della Villa, sotto le fronde dell’albero della Vicinia (Vicus, villa), un imponente platano plurisecolare vissuto fino ad alcuni anni fa. Nel Sei-Settecento si affacciavano le botteghe d’artigiani e d’artisti: il battiferro, il carraio, lo scalpellino..., tutte attività che richiedevano la presenza dell’acqua, che giunse nel 1670, quando entrò in funzione l’opificio di Simon Fullin (cfr. AM 2). Fu successivamente costruita una vasta lama che serviva pure


per l’abbeveraggio degli animali. Le ultime generazioni di scalpellini dardaghesi lasciarono le loro firme nel monumento ai Caduti della Grande Guerra, eretto nel 1921. La scultura del fante è opera dell’artista Leone Burigana, affiancato per la realizzazione della rimanente parte monumentale dagli scalpellini locali Pietro Zambon Rosit, Abramo Busetti Caporal, Benvenuto Caporal, Antonio Ianna Ciampaner, Battista Zambon Pinal e Alberto Cecchelin Scatirot. Bibliografia Archivio Storico della Pieve di Dardago. Terre e rendite. Catasto Santa Maria Maggiore 1757. l’Artugna, periodico della Comunità di Dardago, Budoia e Santa Lucia.

DS 1

Prima metà degli Anni Venti. La piazza con il monumento appena eretto. A monte, si notano la pompa dell’acqua e l’ampia vasca adibita a lavatoio. Cartolina d’epoca. Collezione Giovanni Bufalo.

La Chiesa di Santa Maria Maggiore e il sagrato

Si tratta dell’area sacrale dell’antica pieve di Santa Maria Maggiore, la chiesa matrice delle «cappelle» di Budoia e di Santa Lucia come documentato nel 1285. La primitiva struttura architettonica, di stile romanico – anche se è ipotizzabile che il sito sacro sia di epoca precedente – giunge attraverso rimaneggiamenti e rifacimenti fino alla fine del XVIII secolo, quando «non corrispondendo più l’antica fabbrica al numero delle anime» è decisa la sua ricostruzione, intrapresa nel 1786. In questo straordinario evento, sono coinvolti gli artigiani dell’intera pieve. Chiamati a operare, secondo le proprie competenze, sono le botteghe degli Zambon, Janna ed Antonelli, dei Pellegrini, Vettor, Parmesan, Bocus e Brescanzin insieme ai budoiesi Scussat, Stefinlongo, Tres, Del Maschio, Carlon e Cardazzo. L’incarico della progettazione è assegnato a «mistro Giacomo Cardazzo Martin», affiancato dal giovane «architetto» Valentino Cardazzo per l’attuazio-

ne del modello del soffitto del coro. Il sagrato della chiesa, ridotto notevolmente nei secoli, ospitava il cimitero dei tre paesi fino al 1840, anno in cui furono costruiti i camposanti in area extraurbana, sia a Dardago sia a Budoia, come stabiliva l’Editto di Saint Cloud. La raffigurazione della mappa della seconda metà del Seicento ci permette di ricostruire l’ambiente con la fabbrica e l’area cimiteriale, chiuse da un’alta cortina di sasso, d’individuare ancora la presenza del rosone romanico, del campaniletto e dell’ingresso laterale secentesco della chiesa verso mezzogiorno come attestato tuttora nell’incisione dell’architrave, poiché s’ipotizza che sia l’unico muro a essere stato conservato, seppur parzialmente, durante la ricostruzione. Bibliografia Archivio Storico della Pieve di Santa Maria Maggiore di Dardago. C. Zoldan, La pieve di Dardago tra XIII e XVI secolo. Le pergamene dell’archivio, Dardago 2008.

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Cartolina d’epoca (Collezione privata).


AT 1

Casa del cappellano, già Casa Zambon e Casa Tosi, Riva del capelan

publica, alli monti il Cimitero della Chiesa». Otto anni dopo, in una documentazione del 1765, la proprietà cambia: nell’esplicare la confinazione dell’intera area sacrale, il pievano Marco Tomasino attesta che «a mezzogiorno» la chiesa «confina con i beni del veneziano Nicolò Tosi». Nel 1806, l’edificio è probabilmente ereditato da «La Comune di Dardago» che, nell’area retrostante, edifica una struttura riservata alla «scuola elementare maschile» con «terreno ad uso della scuola comunale» accanto alla «stanza mortuaria», quest’ultima realtà piuttosto insolita.

Bibliografia Archivio Storico della Pieve di di Dardago. Terre e rendite. Catasto Santa Maria Maggiore 1757. Archivio fotografico «Angelo Bernardis (1844-1937)». Cortesia Florio Bernardis. Archivio fotografico de l’Artugna. Casa del Cappellano con scuola maschile e «stanza mortuaria». L’ingresso del sagrato con le guglie. Foto di Angelo Bernardis (1844-1937).

Ci si trova sulla Riva del Capelan. Il toponimo si riferisce alla presenza dell’abitazione del cappellano di Dardago, edificio demolito per la realizzazione dell’asilo parrocchiale, nella prima metà degli anni Cinquanta, ed ora adibito a scuola dell’infanzia. La mappa settecentesca, l’obiettivo del fotografo locale Angelo Bernardis (1890-1900) e la foto degli anni Quaranta del secolo scorso permettono di contestualizzare struttura e area attigua. Nel 1757, l’edificio appartiene alla famiglia di Antonio Zuane Zambon; si tratta di una «…casa coperta a coppi e fondo ortale anesso ora ridotto in prato, il tutto murato» confina «a mattina Iseppo Zambon in luoco Modolo, a mezodì il signor Antonio Zambon possessore in luoco Modolo, a sera strada

AM 2

L’orsoglio alla bolognese, Casa Fort

Nella seconda metà del Seicento, nell’edificio era installato un ‘orsoglio alla bolognese’, moderno torcitoio per la trasformazione del filo di seta, dalla materia prima al prodotto finito compiendo automaticamente diverse fasi lavorative rispetto ai precedenti macchinari. Tra i prodotti più preziosi e famosi ottenuti con questo tipo di macchina idraulica spiccava l’orsoglio (o organzino), che finirà per dare il proprio nome al filatoio che serviva a produrlo. Si trattava del primo opificio del genere in Friuli: precedeva, infatti, di quattordici anni quello di Giovanni Battista Zamparo, realizzato in Udine, nel 1684. Geniale ideatore e protagonista di 12

questa prima ‘industria’ locale nel 1669–1670, fu l’imprenditore Simone Fullin, nato nel 1632 a Polcenigo ma di origini alpagote, trasferitosi a Dardago una dozzina d’anni prima d’insediare il moderno opificio, per avviare un filatoio, perché attratto dalla limpidezza dell’acqua del torrente Cunath – Artugna che infondeva lucentezza a qualsiasi tipo di filo. Poiché per il funzionamento della «macchina» era indispensabile la presenza d’acqua, il Fullin presentò una supplica ai Provveditori sopra Beni Inculti di Venezia nel 1669, per condurre le acque del torrente fino all’inizio dell’attuale via Brait, in corrispondenza delle Case dei Fort Salute.


Son trascorsi ormai vent’anni!

[ da pagina 2 ] mobili, con tanto di piccolo torchio funzionante, per ricordare le tipografie operanti fino agli anni ’70 e un computer per la videocomposizione e l’uscita in pellicola come si usava negli anni successivi. La mostra, inaugurata sabato 12 aprile 1997, alla presenza di autorità regionali, provinciali e comunali e dai parroci delle nostre parrocchie, richiamò un notevole afflusso di visitatori e fu oggetto di interessanti visite per molte scolaresche. L’iniziativa trovò ampio spazio sulla stampa locale. Perfino un inviato di Rai Radio 2 arrivò a Budoia per un servizio in diretta per la trasmissione «Caterpillar». IL CONVEGNO Sabato 26 aprile si svolse un interessante convegno sulle problematiche e le prospettive della Stampa minore. La presenza di esperti come il direttore del settimanale diocesano «Il Popolo», Bruno Cescon, dei responsabili delle redazioni pordenonesi de «Il Gazzettino» e del «Messaggero Veneto» Pierluigi Gaspardo e Giuseppe Ragogna, e di due giornalisti professionisti, Pier Paolo Simonato e Letterio Scopelliti consentì di analizzare in modo approfondito il tema proposto concordando che la stampa «di paese» avrebbe continuato ad avere un ruolo importante a motivo del diverso rapporto nei confronti del lettore rispetto alla stampa «professionista».

Ricostruzione di un ‘orsoglio alla bolognese’.

La supplica fu accolta e in breve tempo si costruì la condotta d’acqua (el ruial) – inizialmente in legno – la cui lunghezza era di duemila metri circa. Con l’innovativo progetto, egli offrì opportunità di lavoro agli abitanti del luogo, tra i quali Antonio Fort, persona fidata che lavorò a lungo per lui. Nel 1711, l’edificio fu venduto al conte Gio Batta Fullini, figlio di un primo cugino di Simone, e nel primo decennio dell’Ottocento la struttura passò ad Antonio Fort Salute, omonimo del primo lavoratore di Fullin, e fu trasformata in abitazione. Si suppone, quindi, che l’orsoglio sia rimasto attivo fino al termine del Settecento o agli albori dell’Ottocento.

IL LIBRO A corredo della Mostra e del Convegno, qualche mese dopo, venne pubblicato il volume La Stampa Minore del Friuli Occidentale e del Portogruarese con interventi di vari esperti su argomenti legati all’editoria locale con prefazione di Pier Paolo Simonato. La prima parte del libro era riservata all’analisi storica a cura di Nico Nanni, ad un intervento critico di Letterio Scopelliti e all’analisi sociale delle pubblicazioni parrocchiali di don Leo Collin. La seconda parte conteneva l’analisi socio-culturale della presenza della stampa minore in alcune zone-campione del territorio, con interventi di Pier Carlo Begotti, Sandro Bergamo, Dario Bagattin, Gianni Colledani, Giuseppe Fabbroni, Dani Pagnucco, Claudio Petris, Nino Roman, Ruggero Simonato. Il volume riportava, infine, l’elenco di tutti i periodici presenti alla mostra, in ordine di località, e l’elenco dei periodici registrati presso il Tribunale di Pordenone dal 1948 al 1997.

Bibliografia F. Fucile, La seicentesca origine del «ruial» in l’Artugna, XVI (1987), 6. R. Zambon, Simon Fullini e il primo orsoglio alla bolognese del Friuli, a Dardago, V. Carlon, Per alcune scodalizze d’acqua nassente da monti…Il ramo dardaghese dei Fullini, in I Fullini: dall’Alpago al feudo di Polcenigo, da mercanti a conti, a cura di A. Fadelli, Polcenigo 2016.

In archivio, la Redazione de l’Artugna conserva ancora alcune decine di copie del volume. Chi fosse interessato all’acquisto può contattarci all’indirizzo e-mail direzione.artugna@gmail.com Il costo è di 5 euro più l’eventuali spese postali di spedizione. 13


...quel campanile che sembra di Lorenzo Messina

«Il mio paese è bello» e «il mio paese mi piace» sono due frasi che esprimono un sentimento positivo nei confronti del proprio paese, anche se esse non sembrano esprimere lo stesso sentimento: ma allora in cosa consiste questa loro differenza? L’altro giorno mi sono posto questa domanda, dopo uno attacco di nostalgia di Dardago: infatti non sapevo come esprimere a parole quel sentimento che stavo vivendo sulla mia pelle. Tuttavia mi sono accorto subito che prima di risolvere questo problema dovevo rispondere ad un’altra domanda: davvero io posso chiamare Dardago «il mio paese»? Io, che vivo in un piccolo paese della Brianza, posso davvero «arrogarmi il diritto» di definire come «mio» un paese in cui non abito e in cui non sono cresciuto? Tuttavia ho pensato subito che non era completamente vera l’affermazione che io «non ero cresciuto a Dardago»: è infatti innegabile che dalla mia nascita io sia venuto regolarmente a visitare la casa dei miei nonni in via Rivetta, passando la quasi totalità dei mesi estivi della mia infanzia nella grande casa che a Dardago è conosciuta come Palathin. Tale pensiero ha fatto subito sorgere l’orgoglio e il piacere di rappresentare un piccolo ramo degli Zambon dardaghesi, il quale è nominalmente insabbiato da un punto di vista banalmente burocratico: mio nonno Elia e suo fratello Walter hanno avuto solo figlie femmine, per cui «noi» nipoti ovviamente non portiamo i cognomi dei nostri nonni materni. Tuttavia è chiaro che lo spirito degli

«Zambon Palathin» è assolutamente vivo nei cuori e nei ricordi di tutti noi, come ben dimostra il recente articolo di «Beatrice Zambon Palathin» sulle pagine de l’Artugna: non serve un nome per rappresentare una storia e un sentimento di appartenenza. Tuttavia ho capito subito che non potevo negare la realtà, ovvero che non posso definirmi come un «dardaghese al 100%»: infatti tutti noi veniamo influenzati in maniera netta dal luogo in cui frequentiamo la scuola e viviamo la maggior parte della nostra vita…insomma, io sono lombardo e lo sarò sempre. Tuttavia io credo che noi siamo liberi di scegliere un «paese del cuore» di cui vorremmo essere «cittadini al 100%» o in cui ci sentiamo assolutamente a nostro agio. In base a questo modo di pensare, sia i dardaghesi autoctoni sia i figli di quei dardaghesi che lasciarono il loro paese per cercare fortuna possono definirsi «di Dardago», perché da un punto di vista culturale o da un punto di vista puramente «affettivo» sono legati a questo bel paese. Insomma, Dardago è il mio «paese del cuore», a patto di voler usare un’espressione così «sdolcinata». Capito questo fatto, sono tornato a pensare alla domanda che ha scatenato tutte queste riflessioni: che differenza c’è tra ciò che chiamiamo «bello» e ciò che invece «ci piace»? In quel momento mi sono ricordato una lezione di un professore di università sulla differenza che il filosofo Immanuel Kant segnalò tra ciò che è «gradevole» e ciò che è «bello». Il mio professore, con marcato 14

accento veneziano, disse più o meno così: «Kant non sta dicendo nulla di difficile! Infatti su ciò che ci piace noi non discutiamo più di tanto: se io ti dico che il mio gelato preferito è quello alla zucca, ma tu mi dici che preferisci la crema, la cosa non mi dà alcun fastidio, non è un problema per me che tu abbia dei gusti diversi. Invece se pensi che Venezia sia bella, ma al contrario la tua fidanzata di Milano dice che Venezia dovrebbe essere asfaltata per essere bella, allora tu non potrai mai sopportare una simile idea e allo stesso tempo non convincerai mai la tua ragazza che Venezia è bella! Allora a quel punto hai due possibilità: o la lasci, o la còpi». Dopo avermi fatto una risata, ho iniziato a cercare di dare una risposta alla più volte ripetuta domanda: «Dardago mi piace» o «Dardago è bella»? Sempre che questa domanda sia così importante… È impossibile per me non riconoscere che a Dardago ci sono delle cose assolutamente belle: il Rujal, la Val Granda vista dalla pianura e le case fatte con i sassi dell’Artugna sono belle, tanto per citarne alcune. D’altra parte non nego che si potrebbe anche «razionalmente» notare un elenco dei suoi svantaggi, i quali d’altra parte accomunano tutti i piccoli paesini del mondo. Allora è possibile dire che a me piace «solamente» Dardago, perché sono in grado di vedere i suoi pregi e i suoi difetti e quindi potrei accettare «senza protestare» il fatto che qualcuno possa vedere solo i difetti di Dardago? Ovviamente no! Io forse po-


segnare il confine tra la pianura e la montagna

trei capire tali discorsi, ma non potrei né accettarli né condividerli. Infatti, come si sarà capito dalla lettura di quanto ho scritto, io perdo ogni razionalità nel momento in cui parlo di Dardago. Il motivo è questo: quando sono a Dardago io raggiungo un grado di benessere psico-fisico che non sono stato mai in grado di raggiungere in un altro posto e che, tra l’altro, mi fa perdere ogni voglia di andare alla ricerca di risposte alle grandi domande dell’umanità (insomma, si sarà capito dalle mie parole che ho studiato filosofia!). In questa prospettiva mi sento di dire che la bellezza a Dardago dal mio punto di vista è legata ad alcuni suoi posti in particolare, in cui magari ho vissuto dei momenti felici: tuttavia la bellezza di Dardago per me è anche legata ad un

qualcosa di non ben determinato…e che tuttavia mi dà piacere, un piacere che aumenta fin dal momento in cui si incomincia a vedere il campanile di Dardago e raggiunge il suo massimo quando arrivo in piazza. E in quel momento non mi interessa che non sia aperto il bar in piazza in cui ho passato tanto tempo nella mia giovinezza, non penso ai problemi del paese…mi basta essere lì, su una panchina, a guardare tutto e niente allo stesso tempo e a sentire l’atmosfera del luogo. Insomma, alla fine di tutto questo fiume di pensieri, mi sono accorto dove io ero: nella mia casa in Brianza. E ho anche capito che, se fossi stato a Dardago, forse non avrei perso così tanto tempo dietro a questi pensieri: me ne sarei andato a fare un giro in via

Rivetta, sarei andato a bere qualcosa allo Chalet o forse sarei rimasto a casa, contento di non pensare a questioni così «astratte» come la differenza tra il «piacere» e la «bellezza»…riflessioni che comunque mi piace fare, soprattutto quando sono qui in Brianza, a casa mia. Allora, alla fine, sono giunto alla conclusione che la mia vita è stata impostata così e così sarà negli anni a venire: in Brianza rifletterò e/o lavorerò facendo quello che mi piace fare da un punto di vista intellettuale…nella consapevolezza che c’è un posto che mi attende in cui potrò riposare la mia mente e il mio corpo, sotto quel campanile che sembra segnare il confine tra la pianura e la montagna.

il mio Dardago… nonostante

di Aide Bastianello

Leggendo l’articolo «ricordi d’infanzia, ritorno alle origini» pubblicato sul numero 141 de l’Artugna mi è sorta una curiosità, una domanda: cosa spinge una persona a tornare nello stesso posto, nello stesso ambiente, nello stesso paese anno dopo anno, sempre? Ho pensato a me stessa ad

esempio: ho quasi settant’anni, sono nata a Milano, vivo a Milano da sempre, qui ho lavorato fino all’età della pensione e vivo tutt’ora in questa metropoli che ha dato moltissimo ai miei genitori prima e a me poi. Ho avuto la possibilità e la fortuna come molte persone, non di aver girato il mondo come si dice, 15

ma di avere visitato diversi paesi sia in Italia che all’estero. Sono sempre stata curiosa di vedere posti nuovi e conoscere le diverse culture: nonostante ciò non ricordo neppure una estate dei miei quasi settant’anni che io abbia mancato un ferragosto a Dardago, che non vi abbia passato almeno una settimana delle mie


vacanze da studente o delle poche ferie da lavoratrice. Qualsiasi cosa accadesse, i giorni dedicati a Dardago rientravano sempre nella mia «agenda»! Al Ferragosto non si poteva mancare: la compagnia, i nonni, i cugini, gli zii, l’affetto di tutti era ed è tutt’ora una calamita che mi attira inesorabilmente. Ero e sono come una marionetta gestita dai fili del sentimento e della nostalgia che mi

per lo spirito e per il corpo, qui ritroviamo e riviviamo le nostre tradizioni, ossigeno per l’anima. Così diversa dalla città, così più, come si suol dire, a misura d’uomo. È un posto dove ricaricare le batterie per affrontare poi, per tutto un intero anno, la frenesia logorante e forzata del vivere quotidiano della città. È sempre stato così, da bambina, da studente, da adulta e an-

porta inevitabilmente a Dardago... nonostante tutto. Nonostante molti affetti non ci siano più, nonostante molte cose siano cambiate, molte situazioni siano modificate... la calamita attira sempre... nonostante. E tutto ciò lo ritrovo anche nei miei numerosi cugini, piccoli e grandi, che trascorrono le loro vacanze qui. Chiedo: «dove vai in vacanza?» Con un grande sorriso rispondono: «a Dardago!». Spesso tutto ciò è argomento di conversazione con mia mamma che, al contrario di me, è nata e vissuta a Dardago in un periodo certo non così «idilliaco» come l’ho vissuto io; la vita allora era molto difficile, lavoro duro e fatica, sia che tu fossi un adulto che una bambina di otto, dieci o dodici anni, quindi capisco il diverso sentimento. Noto comunque che a Dardago torna anche lei volentieri... con la prospettiva però di poter ritornare alla «sua» Milano. Dardago è visto da noi «cittadini emigranti o foresti» come luogo di tranquillità e pace, di attenzione alle cose semplici, rifugio rigenerante

che da pensionata. A Dardago perfino il camposanto è un luogo «piacevolmente sereno»: da una parte le montagne che ti accolgono in un abbraccio, dall’altra l’immensa pianura a perdita d’occhio, la mia prima sosta all’arrivo e l’ultima prima di ripartire, per dare un saluto e ricevere una benedizione. Capisco che forse tutto ciò è difficile da capire o comprendere da chi vive qui, da chi per tutto l’anno può godere, assaporare quello che a noi «emigranti» manca. Il detto «l’erba del vicino è sempre più verde» non è stato scritto a caso. Tutti noi, nessuno escluso, non riusciamo ad apprezzare pienamente ciò che possediamo, fintanto che questo non ci viene a mancare; può trattarsi di abitudini, del paese, degli affetti, delle montagne… della piazza! Certo non tutto è meraviglioso, ne sono consapevole, molto è cambiato; forse sono io che sono maturata e vista l’età e l’esperienza ora vedo anche ciò che in età giovanile mi era estraneo, ignoto. Vedo un 16

paese con molte potenzialità, efficienti volontari, voglia di fare, belle idee, numerosi i gruppi operativi ed ogni gruppo, nel proprio ambito, dà un grande contributo alla Comunità, ma come spesso accade il personalismo logora l’armonia. Ciò che più mi disturba e mi fa male è l’incapacità per alcuni di saper lavorare insieme per un obiettivo comune: il bene per Dardago e per tutta la Comunità; per far ciò bisogna saper anche mettersi da parte qualche volta, saper ascoltare anche gli altri, scambiarsi i pareri, confrontarsi e dialogare. In un gruppo il bello è esserne parte, non essere «il...». Parlo per esperienza personale appena vissuta a Milano in un gruppo della Caritas di cui faccio parte da dieci anni. Quando torno a casa, dopo aver trascorso tre mesi a Dardago, ritrovo le mie cose, le mie amicizie «milanesi» ma, per un po’ di giorni mi sembra di camminare sulle nuvole, sono in beatitudine, mi sembra di non appartenere più alla mia città, eppure vi ho vissuto settant’anni. Emergono ai miei occhi tutte le brutture che me l’hanno fatta lasciare con gioia, non vedo il positivo, ma faccio i confronti ed affiora solo il negativo. La prima cosa in assoluto che mi manca terribilmente è il paesaggio, le montagne... e il verde. Dopo tre mesi di vacanza l’ho stampato nei miei occhi, nel cervello, lo cerco con lo sguardo, ma vedo solo case, palazzi, grattacieli, osannati da molti ma indifferenti al mio cuore. Certo ci sono mille posti dove potrei trovare queste cose e magari anche migliori e più vicine, ma non è Dardago, non c’è l’appartenenza, non ci sono i miei ricordi, non ritrovo le radici. Sono cosciente che Dardago non sarà il più bel paese del mondo, ma sono dell’idea che tutti noi abbiamo un Dardago nascosto nel cuore, a nord, al centro, a sud dell’Italia o in qualsiasi altro paese del mondo. Il nostro Dardago, il nostro rifugio sicuro, la casetta sull’albero dove rintanarsi con i nostri segreti, i problemi, i pensieri, dove curare le ferite, dove gioire o stare in compagnia con gli amici a far festa.


La «Pattuglia Folle» con il BA 19. Da sinistra: Citi, Marasco, Wengi, Scarpini, Zotti, Magli, Sansone, Colombo. Seduti: Melandri, Bocola (tratta da La meravigliosa Avventura, storia del volo acrobatico, parte prima: dalle origini al 1939, Renato Rocchi, Aviani Editore, pagina 123).

TERZA E ULTIMA PARTE

Questo articolo pone termine alle ricerche sulle figure di Andrea Citi, del capitano Tommaso Brandolini e del loro valore professionale. Validi piloti della «Pattuglia Folle», che diede origine alle «Frecce Tricolori».

gli aquilotti di Campoformido il sergente Andrea Citi

di Sante Ugo Ianna

CROCIERA EUROPA ORIENTALE

Il 1° Stormo e la sua pattuglia acrobatica diventano un veicolo di «marketing» specie per l’industria aeronautica nazionale in piena espansione che aveva bisogno di nuovi mercati. Quindi all’ormai notissimo 1° Stormo andò l’incarico di rappresentare l’Italia, la Regia Aeronautica e l’industria aeronautica italiana nei paesi dell’Europa orientale. Con tale incarico vennero fuori anche i nomi dei piloti, eccoli: Ten. Alfredo Reglieri, Ten. Antonio Moscatelli, Serg. Ennio Scarpini, Serg. Mario Sansone, Serg. Andrea Citi, Serg. Gino Brizzolari, Serg. Silvio De Giorgi, Serg. Tommaso Diamare, Serg. Ettore Wengi. Il Ten. Colonnello Fougier era il «Capo Team» e responsabile della missione. La Fiat consegnò a metà agosto 9 CR 20 BIS nuovi di fabbrica con il carrello d’atterraggio che elimina il perno centrale a favore di due ruote con ammortizzatori indipendenti. Su richiesta di Fougier venne messo a disposizione un Caproni CA 101 da adi-

bire al trasporto di 4 giornalisti (Mario Massai/Corriere della Sera – Luigi Freddi/Popolo d’Italia – Renato Casalbore/Gazzetta del Popolo Ernesto Quadrone/La Stampa) e di un pilota della pattuglia (Serg. De Giorgi durante i trasferimenti il suo CR 20 BIS viene pilotato da Fougier). La sezione tecnica era formata da 4 Marescialli Motoristi: Vittone Pietro, Tartarelli Giuseppe, Bernardis Pietro, Passon Luigi; dal Serg. Faccendini Luigi e dai 1° Avieri Zecchini Luigi e Petrarca Francesco. Per i pezzi di ricambio c’era un carro ferroviario, che viaggiava con gli specialisti come «vagone diplomatico espresso». Abbiamo già elencato le difficoltà dei trasferimenti aerei dell’epoca, vista la strumentazione degli aerei ridotta «all’osso»! Il lavoro snervante fu la preparazione delle «tratte» e dei piani di volo e la ricerca dei riferimenti geografici, orografici, ponti, snodi ferroviari e stradali. Per le manifestazioni aeree le capitali da raggiungere erano nell’ordi17

ne: Budapest, Belgrado, Sofia, Bucarest, Istanbul, Atene, Tirana, nei voli di avvicinamento c’erano poi vari scali tecnici. L’avventura inizia il 5 settembre alle h. 12,50, martedì 9 settembre manifestazione aerea a Budapest con grande successo «di critica e spettatori». Mercoledì 10 settembre Fougier viene informato che le autorità jugoslave concedono il solo scalo tecnico con un soggiorno di 24 ore. In quei giorni i rapporti diplomatici italo-jugoslavi erano freddi causa un processo di colore politico in corso a Trieste conclusosi con 4 condanne a morte ed altre 5 con varie durate di reclusione. Quindi arrivo all’aeroporto di Belgrado «alla chetichella» e senza alcun volo acrobatico. Gli specialisti erano a Belgrado dalla sera precedente ed al loro arrivo si erano accorti che il «vagone magazzino» era sparito, il console italiano veniva a conoscenza che era stato sganciato al confine fra Ungheria e Jugoslavia per un controllo doganale, il


sigillo diplomatico non era una garanzia sufficiente! Partenza per Sofia Aeroporto di Bojuriste ed arrivo in meno di un’ora. Giovedì 11 settembre a mezzogiorno volo pubblicitario di 3 CR 20 (Reglieri, De Giorgi, Scarpini) con esecuzione di «loopings a cuneo» e passaggi in «fila indiana», nel tardo pomeriggio manifestazione aerea con: – finto duello aereo fra 2 CR 20 BIS (Scarpini e Brizzolari); – presentazione dell’aereo CR 20 BIS con 2 aerei in acrobazia individuale – in chiusura la Pattuglia Acrobatica con 5 aerei (Reglieri, CITI, Diamare, Scarpini, De Giorgi) eseguiva il programma classico compresa la «bomba». Il giornalista Luigi Freddi sintetizza: «Troppo rapide sono queste nostre galoppate di paese in paese per esprimere le nostre sensazioni... questa crociera si svolge in modo perfetto... l’ammirazione per la potenza e per il coraggio dell’Italia che i nostri piloti hanno simboleggiato degnamente. Con la «perdita» del vagone ferroviario «diplomatico» quel po’ di posto dietro il seggiolino del pilota, veniva sfruttato per mettere qualche capo di biancheria; l’uniforme non ci stava... quindi i voli di trasferimento si effettuavano in divisa con sopra la tuta di volo. Venerdì 12 settembre trasferimento a Bucarest, la permanenza doveva essere di 7 giorni, occasione per acquisti di biancheria, riprendere respiro e sistemare un po’ lo stomaco... troppi banchetti ufficiali! Quindi a letto presto, domani si vola e tira aria di alta competizione acrobatica internazionale. Domenica 14 settembre Aeroporto di Beneasa ci sono formazioni aeronautiche di Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia, Francia ed ovviamente Romania. Anche in questo pomeriggio romeno il 1° Stormo Caccia con la sua Pattuglia Acrobatica offre uno spettacolo della durata di 30 minuti in cui i piloti mettono in mostra la preparazione e la serietà della Scuola Caccia italiana da quel momento prestigiosa protagonista del meeting aereo internazionale. I 2 giorni seguenti sono impiegati fra visite di rappresentanza, ricevimenti vari, relax mentre i giorni di mercoledì e giovedì sono di riposo forzato per il maltempo. Venerdì 19 settembre: decollo da Bucarest Beneasa per scalo tecnico a

Varna; tratta la più sofferta, costretti al volo radente per le nubi basse e piene di pioggia, se c’era un rilievo da superare c’era il pericolo di entrare in nube e perdere il contatto visivo con il terreno. Poi finalmente il Mar Nero ed in una insenatura Varna (Bulgaria), atterraggio senza alcuna presentazione acrobatica. Pranzo senza alcuna formalità e come sorpresa e curiosità, a ricordo dello scalo tecnico, le autorità locali donavano ad ogni componente della missione aeronautica italiana una graziosa scatola contenente 1000 sigarette «Varna». Seconda tratta Varna-Istanbul 280 km lungo la riva del Mar Nero, purtroppo in avvicinamento all’aeroporto turco, l’aereo del Serg. Andrea Citi, aveva una «panne» al motore ed era costretto ad atterrare in aperta campagna. La manovra riusciva perfettamente ma, a fine corsa, il carrello incontrava un rialzo del terreno. Il CR 20 BIS si metteva «sull’attenti» e addio elica! All’aeroporto Santo Stefano due Ufficiali Superiori dell’Aeronautica turca accusavano Fougier d’aver sorvolato una zona interdetta, trasgredendo una precisa norma di sicurezza dello Stato turco, il CR 20 BIS atterrato fuori campo ne era la prova: consideravano la loro presenza solo ai fini di uno scalo tecnico. Le autorità turche non permettevano quindi l’esibizione della Pattuglia Acrobatica italiana; poi c’era la «grana» del CR 20 BIS di Citi fermo con l’elica fuori uso e ritornava a galla il giallo del vagone ferroviario di cui si erano perse le tracce e che conteneva ben 5 eliche nuove e ben imballate. Si aggiungeva il tempo inclemente, piogge continue e nuvole basse. Scali tecnici a Drama, Larissa ed arrivo ad Atene aeroporto di Tatoi; come di consuetudine la squadriglia degli 8 CR 20 BIS si presenta con due «loopings», un «tonneau» ed un passaggio «a pelo» sul campo, quindi atterraggio. Questa era una tecnica di Fougier per sciogliere l’incontro con le autorità, il primo contatto non era più distaccato e formale ma si faceva subito cordiale ed a volte fraterno. Mercoledì 23 settembre: manifestazione aerea sull’aeroporto di Tatoi (Atene) con nuvole gonfie di pioggia e forte vento che disturbava piloti e pubblico. Sembrerà ripetitivo ma lo spettacolo è ovviamente superlativo anche 18

se il volo è veramente sudato dai 7 piloti (Fougier era andato all’atterraggio) per quel vento che rendeva molto difficoltoso il governo dell’aereo. Al termine atterraggio a coppie, ultima coppia Sansone/Brizzolari, quest’ultimo si trovava qualche metro sotto Sansone, veniva investito da una raffica di vento che lo «sbatteva» sotto l’aereo di Sansone la cui elica trinciava l’ala superiore del biplano di Brizzolari che perdendo portanza precipitava al suolo. Sansone riusciva ad atterrare fuori campo. Brizzolari, il compagno di accademia di Andrea Citi, era il primo Caduto «ufficiale» dell’acrobazia collettiva, aveva 23 anni. Venerdì 25 settembre: disbrigo delle pratiche burocratiche che l’incidente di volo inevitabilmente comporta. Il velivolo di Sansone era stato recuperato ed era efficiente, era arrivata nel frattempo l’elica richiesta per l’incidente di Citi ad Istanbul per cui veniva montata sul CR 20 BIS di Sansone. Andrea Citi e Passon Luigi, fermi in Turchia, ricevevano l’ordine di provvedere alla spedizione del velivolo via mare e di rientrare a Campoformido. Sabato 26 settembre: atterraggio a Tirana, qui Fougier voleva chiudere «in gloria»; il programma era degno della fama conquistata con la tournée balcanica e Tirana doveva segnare l’apoteosi. Il comandante aveva caricato per bene i suoi «aquilotti». Il giorno dopo domenica 27 settembre i protagonisti sono:


Andrea Citi in volo rovescio. A sinistra. Il Serg. Magg. Andrea Citi. Foto tratta da Il cielo di Campoformido, Storia dell’aeroporto della città di Udine, Roberto Bassi, Campanotto Editore, pagina 161 (foto di Alessandro Parussini).

Serg. Scarpini, Serg. Wengi, Serg. Diamare, Ten. Coll. Fougier, Ten. Reglieri, Ten. Moscatelli, Serg. De Giorgi, Serg. Sansone; ci fu uno spettacolo di una realtà paurosa, il giornalista Massai chiudeva il suo servizio da Tirana con queste parole: «Non ci può essere coraggio più alto, spirito più luminoso, perizia maggiore, disprezzo della vita più assoluto di questo». Lunedì 28 settembre verso sera rientro a Ciampino, un rinfresco militare al Circolo Ufficiali e l’arrivederci dei piloti ai 4 giornalisti: Massai, Casalbore, Freddi e Quadrone. Ci piace riportare il saluto di Renato Casalbore «Arrivederci Reglieri, Moscatelli, Sansone, Diamare, Wengi, Scarpini, De Giorgi e Citi. Noi abbiamo tolto i vostri nomi dal blocco, ma lo sappiamo che ce ne sono altri come voi nel nido degli aquilotti. Bisogna ripeterla la frase detta da uno di voi ad uno spettatore stupito: « Non creda che siamo degli uomini eccezionali. Tutti i nostri compagni sono capaci di fare quello che facciamo noi…» È vero. È bello. Ma è soprattutto bello perché lo ha detto uno di voi». Il primo ottobre ultima tappa: Roma – Campoformido, gli aquilotti tornano al nido! Nell’anno 1932 ricorreva il decennale dell’ Era Fascista ed ovviamente « i grandi capi» avrebbero organizzato dei festeggiamenti «ad hoc»; Roma avrebbe ospitato ben tre eventi «aeronautici»:

– Congresso internazionale dei trasvolatori oceanici; – Adunata della Riserva Aeronautica; – 2a Giornata dell’Ala. Italo Balbo Ministro dell’Aria e Riccardi Sottosegretario dell’Aeronautica non si lasciarono sfuggire la ghiotta occasione, Balbo puntava su Fougier per il successo della Giornata dell’Ala programmata per il 26 Maggio all’Aeroporto del Littorio e si voleva anche la partecipazione del neo costituito 4° Stormo di Gorizia allo scopo di fare da spalla al 1° Stormo. A Campoformido la febbre salì subito , dopo un anno, il 1931, passato in relativa tranquillità a fare esercitazioni per non perdere l’abitudine all’acrobazia aerea. Fougier intendeva portare a Roma un «pattuglione» di 27 CR 20, una pattuglia d’assalto di 12 CR-ASSO (88a Squadriglia – dei 12 piloti fa parte anche Tommaso Brandolini) e per l’acrobazia pura una formazione mista di piloti scelti: la Squadriglia di Alta Acrobazia che, dopo gli onori delle cronache, sarà semplicemente chiamata la «Squadriglia Folle» equipaggiata con i nuovi aerei Breda BA 19, ecco i nomi dei piloti: Ten. Andrea Zotti (comandante), Ten. Willi Bocola, Ten. Giuseppe Melandri, M.llo Pietro Colombo, Serg. Andrea Citi, Serg. Elio Scarpini, Serg. Silvio De Giorgi, Serg. Angelo Marasco, Serg. Ettore Wengi, Serg. Mario Sansone, Serg. Giuseppe Magli. 19

Il BA 19 era nato per l’acrobazia perciò quei bravi ragazzi prepararono un programma acrobatico per buona parte rovescio; aprì con la «Gran Ruota» interna ed esterna per passare poi alla «Vite» orizzontale e verticale, poi mezzo giro sull’asse longitudinale; da qui in poi i velivoli continuarono l’esibizione sempre a volo rovescio, dai «loopings», ai «tonneaux», a un passaggio in formazione di cuneo; per terminare il programma con il «Volo Folle» un passaggio in linea di fronte, questa volta in volo normale, con i velivoli messi a sghimbescio! Un giornalista ha scritto: «...gli apparecchi sfilano nelle posizioni più impensabili, inclinati su di un’ala, a coltello, ondeggiando come ubriachi. Ogni legge aerodinamica sembra infranta e vinta dalla perizia, dal coraggio dei piloti». «Una figura questa del «Volo Folle» che entrerà nell’antologia del volo acrobatico collettivo della scuola italiana. Nei primi giorni del Maggio 1933 arriva al Ministro dell’Aria l’invito per la partecipazione di un pilota italiano all’ Air Races di Los Angeles (USA) – acrobazia individuale. Italo Balbo, per evitare «mugugni» vista la sua simpatia per Campoformido, optava per la formula della selezione, quindi ogni Stormo Caccia sceglieva i propri rappresentanti che furono: – 1° Stormo: Ten. Willy Bocola e Serg. Andrea Citi; – 2° Stormo: Serg. Ugo Corsi; – 3° Stormo: Cap. Raffaele Colacicchi; 4° Stormo: Ten. Arrigo Tessore e Ten. Alfiero Mazzetti. Veniva inoltre convocato d’autorità, dal generale Giuseppe Valle, il Ten. Tito Falconi. La mattina del 23 Maggio a Roma la selezione. Presiede la giuria il suindicato generale. Terminate le prove individuali, dopo due ore di attesa, viene assegnata la vittoria al Falconi, che onestamente ricorda poi «…dei concorrenti mi aveva impressionato solo il Serg. Citi e sportivamente ammetto che meritava lui di vincere, con molta probabilità avranno giocato a mio favore altre «chances» (!?!) mancanti al bravo Serg. Citi Infatti, come premio di consolazione,lo Stato Maggiore lo manda a Lione (F) per il Campionato Europeo di Alta Acrobazia Individuale. Nei giorni 17 e 18 Giugno ci sono le gare sull’Aeroporto di Lyon-Bron, avverse condizioni


meteo limitano il programma da svolgere in un massimo di 14 minuti, si tratta di eseguire: – Due giri di vite a sx e due a dx; – Dietro-front a dx e uno a sx; – Due gran volte (loopings); – Due tonneaux a sx e due a dx. Il Serg. Andrea Citi, prima esperienza internazionale come «solista» con il suo Caproni CA 113 esegue il programma in 12 minuti ed al termine della gara la classifica è: 1. Gerhard Fieseler – Germania punti 169; 2. Andrea Citi – Italia punti 164; 3. Michel Detroyat – Francia punti 160; 4. Pierre Cavalli – Francia punti 150; 5. Jean Cilardon – Svizzera punti 109. Un secondo posto, davanti a Detroyat, astro francese del volo acrobatico individuale, significava un vero successo per il pilota italiano. L’anno 1934 per il 1° Stormo Caccia è un po’ l’anno del canto del cigno, come reparto d’elite unico a fornire la formazione acrobatica aerea; è l’anno in cui Fougier lascia gli «Aquilotti di Campoformido» per diventare Generale di Brigata è soprattutto l’anno in cui si compie il destino dei nostri due piloti. Riporto quanto scritto da Roberto Bassi nel suo libro «Il cielo di Campoformido» – Campanotto Editore: «Il 26 maggio, due giorni prima della partenza della formazione italiana per la «Crociera dell’Europa Occidentale» un altro grave incidente coinvolge due «manici». Il Serg. Magg. Andrea Citi dell’80a Squadriglia segue, da fedele gregario, il proprio capo formazione e il Cap. Tommaso Brandolini, comandante della 88a Squadriglia. Il decollo, effettuato alle 9.05, deve portare la coppia ad effettuare un’esercitazione di intercettazione di un’altra formazione nel cielo di Belluno. Il tempo non è dei migliori. Citi non molla e si attacca all’ala del suo leader. Brandolini decide, sulla verticale di Aviano, di entrare in nube e proseguire con prua magnetica verso il Lago di Santa Croce... lo fa ad una quota però insufficiente. Il grave errore di valutazione porta i due CR «Asso» a cozzare contro la Cima Monteon nel gruppo del Monte Cavallo. Per i due bravi piloti non c’è nulla da fare». A questo punto nascono degli in-

terrogativi alcuni primari altri di secondaria importanza: – Quando vengono recuperati i corpi? – Che fine fanno le carcasse degli aerei? – Una fonte parla poi «della piccola chiesa di Aviano» dove S.A.R. il duca Amedeo Savoia-Aosta avrebbe espresso le proprie condoglianze all’anziano padre del serg. Magg. Andrea Citi. Si ricavano alcune certezze e qualche smentita dalla cronaca cittadina del quotidiano «Il Popolo del Friuli» che in data Martedì 29 maggio 1934 descrive le estreme onoranze tributate ai due aviatori. La cronaca dice anche che le salme, nella camera ardente presso l’Ospedale Militare di via Pracchiuso a Udine, erano state vegliate a turno da ufficiali e sottufficiali durante la notte del 26 e la giornata di Domenica 27 Maggio. Si deduce da questi particolari che i corpi erano stati recuperati velocemente a Dardago nella mattinata del 26 (giorno dell’incidente aereo) per essere trasportati direttamente a Udine presso l’Ospedale Militare nel tardo pomeriggio dello stesso giorno. Lunedì 28 maggio alle ore 16 giunge all’Ospedale Militare S.A.R. il Duca d’Aosta accompagnato del Generale Priccolo comandante la Terza Zona Aerea; poco dopo le bare vengono levate dalla camera ardente ed a spalle dei colleghi sono trasportate: quella del Serg. Magg. Citi nel loculo della carrozza bianca, quella del Cap. Brandolini nel loculo della carrozza seguente. Entrambi i carri funebri sono trainati da quattro cavalli ciascuno. Il corteo quindi si avvia lentamente alla vicina chiesa di San Valentino. L’articolista cita minuziosamente

tutte le numerose corone portate a mano indicando per ciascuna il datore. Sulla bara di Citi c’erano due palme con le seguenti dediche «Lina» e «Alice Passalenti», accompagnavano il feretro il padre ed il fratello; dalla carrozza di Brandolini pendeva la corona della moglie e della figlioletta, seguiva il feretro la moglie ed altri congiunti. Reggevano i cordoni del primo carro i sergenti piloti: Milella, Carestiato, De Giorgi, Scarpini, Marasco e Magli; quelli del secondo carro erano retti dai capitani: Marchesi, Bocola, Carotti, Orsolani, Mocra e Sanzin. Ovviamente i feretri erano accompagnati da numerose autorità e soprattutto c’erano tutti gli ufficiali e sottufficiali del campo d’aviazione di Campoformido con a capo il colonnello de Barberino comandante il campo stesso (Fougier aveva passato le consegne il 1° Giugno 1933). Dopo le esequie nella chiesa, il corteo percorre Via Pracchiuso, Piazza Umberto I°, e per le vie Manin, Vittorio Veneto, Carducci e Roma si porta nel piazzale interno della stazione dove su apposito binario due vagoni attendono ciascuno una bara: l’uno quella del Cap. Brandolini per portarla a Torino; l’altro per portarla a Campiglia di Piombino. Il Colonnello de Barberino chiama l’appello degli scomparsi cui tutti i presenti rispondono ad ogni chiamata «Presente». I picchetti militari presentano le armi e la Banda Presidiaria intona la «Canzone del Piave». Poi momento di intensa commozione; nel silenzio, rotto solamente dal rombo dei motori di una squadriglia di «caccia» che volteggia nel cielo, le due salme vengono deposte nei rispettivi vagoni.

RINGRAZIAMENTI

• Claudio Querenghi: per aver acceso, nel buio totale, il cerino della curiosità. • Ten. Colonnello A.M. Roberto Ianna et M1 Gaetano Pasqua: per avermi tracciato la rotta nel mare delle ricerche. • Roberto Zambon Pinal (Vaticano): per avermi aiutato e spronato a cercare. • Fabrizio Fucile: «il nostro agente a Roma» per le ricerche, presso l’Archivio Centrale dello Stato, sul capitano Brandolini (saranno oggetto di un futuro articolo).

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2017

estate insieme di Elena Zambon Assessore all’Istruzione e alle politiche giovanili, Comune di Budoia

I centri estivi organizzati a Budoia nel 2017 hanno avuto un successo senza precedenti in termini di iscrizioni dei bambini, coinvolgimento di associazioni e realtà locali e soddisfazione delle famiglie dei partecipanti. La formula ormai collaudata del progetto «Estate insieme», giunto quest’anno alla sua terza edizione, prevede una convenzione fra Comune e Parrocchia di Budoia per l’organizzazione congiunta dei centri estivi. La Parrocchia ha affidato la gestione del centro 6-14 anni all’Associazione GIM, che da anni lavora sul territorio comunale e rappresenta un perfetto legante fra gli enti, le associazioni di volontariato e le famiglie. Le sedi di riferimento per i ragazzi sono state l’Oratorio Sant’Andrea per i bambini della Scuola primaria e il Centro di aggregazione giovanile di Santa Lucia per i ragazzi della Scuola media. Ogni settimana è stata caratterizzata da uscite sul territorio a piedi o in bicicletta e gite ricreative e didattiche. La coordinazione del centro è stata realizzata da due operatrici di GIM: Daliah Frezza e Giorgia Del Puppo. Gli animatori (oltre una ventina tra strutturati e volontari) sono tutti ragazzi del territorio che hanno seguito un percorso di formazione durato da febbraio a giugno. Le associazioni di volontariato, in particolare la

Pro loco e Budoia solidale, la protezione civile e diversi volontari hanno prestato la loro opera per assicurare la preparazione dei pasti, l’accompagnamento alle gite e la realizzazione di alcune attività didattiche. La novità di quest’anno ha riguardato l’estensione dell’accordo alla realizzazione del centro estivo dei bambini della Scuola dell’Infanzia. La Parrocchia ha affidato la gestione del centro alla Fattoria sociale e didattica Ortogoloso, che da anni collabora con il Comune e la Scuola realizzando attività didattiche e ricreative per i bambini. I bambini più piccoli hanno potuto così partecipare a 4 agrisettimane a contatto diretto con la natura, gli animali e le attività dell’orto. Bilancio finale: oltre 150 iscritti nell’arco delle sei settimane. Le iscrizioni hanno superato di molto le previsioni ed è stato necessario ritarare l’organizzazione per ampliare il tetto degli iscritti da 60 a 90 per il centro 6-14 anni e da 20 a 30 quello per il centro 3-6 anni. Questo sforzo nell’ottica di accogliere tutti i richiedenti, residenti e non, per ricambiare l’entusiasmo che ha caratterizzato la corsa alle iscrizioni. Un perfetto esempio di rete sinergica fra enti, associazioni e famiglie, che dimostra come ci sia ancora tanta voglia di stare insieme per vivere la Comunità.


Sacra Famiglia «dardaghese» di Roberto Zambon

P iazza del Popolo è una delle più celebri piazze di Roma, ai piedi del Pincio, che ospita ben tre chiese dedicate alla Madonna: Santa Maria del Popolo, Santa Maria in Montesanto (la chiesa degli artisti) e Santa Maria dei Miracoli. La basilica di Santa Maria del Popolo è ricca di opere d’arte di alcuni tra i più noti pittori e scultori del Rinascimento e del Barocco. Basta citarne alcuni come Raffaello, Bernini, Caravaggio, Pinturicchio e Bramante per comprendere la sua importanza. In alcune sale,

Lo scultore Renato Zambon Tarabìn all’opera nel suo laboratorio dardaghese con l’inseparabile ‘amico’ Lapo. A destra. San Giuseppe, l’angelo della famiglia (cm 90). È l’opera esposta alla mostra romana. Con lo stesso tronco di noce utilizzato, lo scultore ha realizzato anche le tre opere di seguito riprodotte: L’anima del mondo (cm 70); L’abbraccio infinito (cm 80); Gesù abbraccia la Sua anima innocente (cm 60).

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a Roma attigue alla chiesa, aveva il suo studio Donato Bramante, nel periodo in cui lavorava per la realizzazione dell’abside della basilica. Quei locali, noti come «Sale del Bramante», ora sono utilizzati come sedi espositive di pittura e fotografia. Recentemente le Sale hanno ospitato una mostra digitale «The Spirit of Caravaggio» con videoproiezioni HD per conoscere a fondo tutte le opere del grande Michelangelo Merisi da Caravaggio. Dal 1976, nei mesi di novembre e dicembre, le Sale ospitano una rassegna d’arte presepiale che vuole riproporre all’attenzione dei visitatori i presepi – non importa come realizzati – purché rispettosi dei valori della pace e della fratellanza, al fine di ripristinarne l’usanza nelle famiglie. Anno dopo anno, l’Esposizione ha acquisito fama internazio-

nale accogliendo opere che provengono da tutti i continenti. La sua denominazione, «100 Presepi», è solo un riferimento storico, in quanto indica il numero dei presepi esposti nelle prime edizioni. Attualmente, in ogni edizione vengono proposti circa 200 nuovi presepi. L’esposizione si svolge sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e vanta molti Patrocini, tra cui quelli della Conferenza Episcopale Italiana, del Senato, della Camera e della Presidenza del Consiglio dei Ministri. A questa importante esposizione, partecipa quest’anno anche un’opera dardaghese: una scultura lignea di Renato Zambon Tarabìn raffigurante una Sacra Famiglia, un tema che è stato frequentemente trattato nella pittura e nella scultura. Nella gran parte dei casi, San Giuseppe appare come un padre anziano, un po’ in disparte anche se protettivo. Renato, invece, ha voluto scolpire un Giuseppe vigoroso che, in piedi, abbraccia e sostiene la Madre e il Bambino: San Giuseppe, l’angelo della famiglia.

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Un San Giuseppe forse inusuale ma coerente con quanto dicono di Lui i Vangeli: custode e protettivo. L’evangelista Matteo mette in risalto queste sue virtù. Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo». Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto. (Matteo 2,13-14). L’opera, alta 90 cm, è ricavata da un tronco di noce proveniente dalle montagne maniaghesi. Un tronco particolare, caratterizzato da una vena più scura che lo scultore ha sfruttato per far apparire Giuseppe simile ad un Angelo. Con lo stesso tronco, la fantasia e l’abilità di Renato hanno prodotto altre tre sculture: Gesù abbraccia la sua anima innocente, L’abbraccio infinito e L’anima del mondo. La partecipazione all’importante esposizione romana è stata resa possibile grazie alla segnalazione dei curatori di Presepi in Villa – Rassegna dell’Arte Presepiale in Friuli Venezia Giulia – ospitata nei locali dell’Esedra di Levante di Villa Manin di Passariano. Di questa importante rassegna friulana Renato è ospite fisso ormai da cinque anni e ciò gli ha permesso di essere conosciuto ben al di fuori dei confini regionali. Sarà un dicembre pieno di appuntamenti per il nostro scultore. Infatti, oltre che a Roma, sarà presente anche a Villa Manin di Passariano, a Trieste, ad Attimis (Ud), al Museo di San Daniele del Friuli e nel chiostro di S. Maria Maggiore di Treviso. Ricordiamo che alcune opere di Renato Zambon sono presenti nella Parrocchia di Dardago. La chiesa ospita una Sacra Famiglia e nella chiesetta di San Martin è custodita una scultura raffigurante San Martino Vescovo.


radon misure per 1000 famiglie di Daniele Biasutti Il 12 ottobre ho partecipato ad uno dei sei incontri organizzati da Arpa FVG per conoscere il radon. Al termine della serata, mentre mi consegnavano gratuitamente il dosimetro per misurare il radon nella mia abitazione, ho sentito subito il desiderio di condividere le importanti informazioni esposte dalla dottoressa Concettina Giovani, tecnico ARPA del dipartimento di Fisica Ambientale. Infatti lo scopo dell’iniziativa era proprio quello di mettere tutti nelle condizioni di poter partecipare attivamente al progetto di monitoraggio del gas radioattivo e, dal mio punto di vista, il cittadino non si deve limitare all’installazione in casa di un apparecchio di misura della dose di radiazione, ma deve soprattutto dare il proprio contributo divulgando le informazioni sui rischi derivanti dall’esposizione al radon e le semplici misure da attuare per proteggersi. Il radon è l’unico elemento gassoso nella catena di decadimento dell’Uranio 238 (U238); è quindi un gas radioattivo di origine naturale, ha un tempo di emivita di quattro giorni, è inodore ed incolore e produce a sua volta degli ele-

menti radioattivi che si attaccano al pulviscolo e possono essere inalati. La sua capacità di diffondersi ed accumularsi all’interno degli ambienti chiusi l’ha fatto inquadrare al secondo posto, dopo il fumo, fra le cause per l’insorgenza di tumori polmonari. L’Uranio 238 è naturalmente presente nei minerali, ma ovviamente solo il radon liberato sulla superficie delle rocce ha la possibilità di volatilizzarsi. Nella nostra zona caratterizzata da un terreno ghiaioso, e quindi con un elevato rapporto superficie-volume della frazione rocciosa, la maggior parte del radon nasce proprio nel terreno dove si mescola all’aria interstiziale per poi risalire in superficie e disperdersi. Le concentrazioni in aria aperta sono molto basse ma negli ambienti chiusi possono raggiungere valori molto elevati. Quando l’interno di una costruzione determina una depressione rispetto all’ambiente esterno circostante allora il radon trova nella costruzione stessa una via preferenziale per uscire dal terreno. Come è facile intuire i fattori che inducono le condizioni sopra descritte possono essere i più svariati e da 24

questo fatto dipende l’elevata variabilità temporale e spaziale delle concentrazioni di radon all’interno delle abitazioni. In inverno, quando le differenze di temperatura tra interno ed esterno dell’edificio è molto alta e si tende ad arieggiare di meno le stanze, si riscontrano le più alte concentrazioni di radon in casa. In estate ovviamente si ha la situazione opposta. L’escursione termica tra il giorno e la notte poi è la causa dell’aumento delle concentrazioni di radon proprio durante le ore di maggior permanenza in casa, cioè mentre si è a letto. Come possiamo difenderci dal radon? Il monitoraggio delle concentrazioni di radon nelle abitazioni è un passo fondamentale nel percorso di prevenzione e risanamento perché permette di capire quali siano i contesti più esposti ai rischi connessi al gas radioattivo. La prevenzione si attua mettendo in campo tutte le strategie per ridurre l’accumulo di radon negli ambienti chiusi maggiormente frequentati. La cosa più semplice da fare è anche la più ovvia: aerare spesso gli ambienti interni. Questo però può essere solo un palliativo e non una soluzione all’eventuale


Carta tematica delle concentrazioni di attività di Rn-222 nelle abitazioni, per regione e provincia autonoma (1989-1997).

problema ed inoltre non è molto conveniente durante le stagioni fredde. Bisogna quindi agire sulla struttura della costruzione in modo tale che il radon, risalendo dal terreno sotto la casa, preferisca uscire dal suolo circostante l’edificio per diffondersi all’aria aperta piuttosto che dal suo pavimento. Nel caso di nuove costruzioni questo si implementa con l’adozione del vespaio, ventilato o meno, che costituisce una intercapedine d’aria tra l’edificio e il sottosuolo che garantisce la dispersione del gas all’esterno della casa. Fa piacere notare che nella nostra regione ormai da parecchi anni esiste l’obbligo di dotare i nuovi edifici del vuoto sanitario per minimizzare i danni causati dall’umidità ma che per fortuna costituisce pure la soluzione per evitare l’accumulo del radon. Nel caso di edifici esistenti si rie-

scono ad ottenere risanamenti efficaci con l’installazione di una tubazione di una decina di centimetri di diametro al di sotto del pavimento a contatto col terreno attraverso un traforo. La semplice ventilazione naturale spesso è sufficiente per abbassare notevolmente le concentrazioni di radon negli ambienti interessati. Nei casi più difficili la ventilazione forzata riesce a risolvere la situazione. Prima di concludere mi premeva sfatare una vecchia bufala. Spesso ho sentito legare la concentrazione di radon nella zona pedemontana alla presenza della base Nato di Aviano o peggio ancora alla presenza di bombe atomiche. In realtà l’unica cosa che lega il radon alla base Nato è proprio l’Arpa FVG (anche se al tempo non si chiamava così), la quale per prima in Italia ha intrapreso il 25

programma di radioprotezione seguendo l’esempio degli americani, che con grande anticipo rispetto a noi avevano già definito una normativa che metteva dei limiti massimi alla concentrazione di radon negli edifici abitati. Dall’inizio della sua attività di radioprotezione l’Arpa FVG ha eseguito diverse campagne di monitoraggio tra il 2000 e 2015 che hanno coinvolto più di 5000 edifici, tra scuole e abitazioni, e acque e suoli che hanno permesso di verificare lo stato a norma della gran parte delle scuole, hanno messo in evidenza lo stato di salute delle nostre acque con limiti di radon ben al di sotto dei livelli di attenzione ed infine hanno evidenziato le relazioni fra tipologie di costruzioni e la tendenza ad accumulare il gas radioattivo. Ora non mi resta che aspettare 5 mesi per scoprire qual è la concentrazione media di lungo periodo di radon in casa mia e come tale dato sarà d’aiuto al programma regionale di radioprotezione.

Per approfondire: www.arpa.fvg.it/cms/tema/radiazioni/ radioattivita/radon/index.html


A Budoia, un affresco di devozione popolare è stato recentemente recuperato dalla sensibilità dei suoi proprietari. Durante l’inaugurazione, seguita dalla benedizione da parte di don Maurizio, il proprietario, Andrea Valentino Signora abitante a Nizza, ha presentato agli invitati i lavori di recupero e ringraziato tutti coloro che si sono prodigati per ridare vita al segno sacro. Riportiamo di seguito l’intervento.

el Sant

di Andrea Valentino Signora

un segno devozionale ha rivisto la luce

Andrea Valentino Signora con la moglie.

Sono l’erede di quello che era una parte delle ciase dei Signors. Da questa eredità rimane oggi il vuoto, che vedete dietro di me, che corrispondeva a una stalla e, dopo la demolizione della parte superiore di un ‘fienile’, quello che oggi chiamiamo la ‘cappella’. In questa ‘cappella’ era da tanto tempo l’affresco che le mie zie chiamavano ‘il santo’, prova di una certa umiltà, giacché di santi ce ne sono due oltre alla Madonna col Bambino Gesù. Questo affresco, di cui celebriamo oggi il restauro (per non dire la ‘rinascita’), ha sofferto molto durante le due guerre del secolo scorso. Era diventato una specie di ripostiglio ed in caso (frequente) di carestia, un posto di allevamento di animali fra cui i famosi maiali che non giungevano mai a un peso soddisfacente. Più recentemente, per mostrare il nostro affresco alla poca gente interes-

sata, si usava ‘pulirlo’ con una spugna umida, questa soluzione ‘tecnica’ permetteva di togliere una certa quantità di sporco ma anche una parte dello strato di colore… Ed eccoci davanti il risultato dei lavori di restauro più recenti e meno ‘artigianali’ per cui dare i miei ringraziamenti per quello che è stato un lavoro di ‘equipe’ come si una dire in francese. La prima persona che vorrei ringraziare è mia moglie che, come certi lo sanno, è francese (come lo sono pure io). Quello che pochi sanno è che lei è dottoressa in storia dell’arte all’Università di Parigi (La Sorbonne), specialista del medioevo europeo e del rinascimento. Perché ringraziarla? Per la sua modestia e la sua professionalità in aiuto a suo marito, la cui più grande qualità non è forse la pazienza. Altre persone che vorrei ringraziare, ma per un altro motivo è il nostro parroco che ci ha portato la sua benedizione: «Grazie, Don Maurizio!» Come tutti sanno, prima e dopo i preti vengono le donne. Dunque voglio ringraziare una delle persone più importanti per questo lavoro: la Signora Ceolin Ingrid della ditta KORE che ha realizzato alcuni ‘miracoli’ (scusi Don Maurizio). Lei ha pulito l’affresco prima che incomincino i lavori e l’ha protetto con delle ‘veline’ nell’attesa di lavori più pesanti. Poi ha staccato l’affresco dal muro portandolo nel suo laboratorio di Aviano dove è rimasto un bel po’ di tempo permettendo di salvare quello 26

che si poteva salvare. Ne vedete adesso il risultato e penso che merita un applauso. Voglio adesso ringraziare gli scienziati e cioè primo di tutti l’architetto Alberto Del Maschio, direttore dei lavori. Con lui siamo riusciti a metterci d’accordo (usando per questo un sacco di e-mail fra Budoia e Nizza). Collaborazione molto interessante e piacevole, che per me è risultata in una vera amicizia. Grazie anche al suo collega Marco Burigana che non solo è bravo ma possiede anche una vera qualità: saper trovare Alberto in qualsiasi posto dove si trovi. Grazie anche ai due ingegneri, Stefano Santarossa e Vanni Carlon, che hanno prodotto delle perizie per me difficilissime a capire ma mi fido di loro tre, con Alberto come interprete. Finalmente voglio dire un grande e sincero grazie alle squadre degli operai senza i quali il nostro discorso risulterebbe vuoto di risultati pratici. Da questo gruppo di ‘esperti pratici’ non voglio escludere nessuno dalla nostra riconoscenza. Allora ne ho scelto uno senza escludere gli altri: l’eletto è Jimy per la sua competenza e la sua cortesia. Pensate che ho anche avuto con lui una discussione tecnico-pratica a proposito di muri di sasso e delle loro permeabilità. Il discorso non è chiuso, vedremo alla stagione d’inverno. E voglio anche dire tante grazie a voi che siete qui ad ascoltarmi o a leggermi. Grazie.


Pordenone-Afganistan cronaca di un viaggio di 50 anni fa di Ezio Burelli

Ho cercato di descrivere la cronaca di questo viaggio di cinquant’anni fa per ricordare Antonio e Francesco che da parecchi anni non sono più tra noi. Soprattutto la figura di Francesco al quale io e Enzo eravamo molto affezionati. Persona sobria e tenace con una parte della sua vita assai avventurosa (dal 1930 al 1946 in Africa combattendo pure la guerra d’Etiopia e Abissinia e decorato al valore militare). Chechi oltre a essere stato uno dei miei due maestri di montagna, mi iniziò già da allora ai viaggi oltre confine.

Erano le 5.30 del 15 luglio 1967 (50 anni fa), quando due Maggiolini Volkswagen con quattro pordenonesi a bordo, lasciarono Piazza della Motta a Pordenone con destinazione Afghanistan. Nella prima auto viaggiava Francesco Maddalena (Chechi), famoso alpinista accademico del CAI e gran viaggiatore con Antonio Scaini professore alle scuole superiori. proprietario dell’omonimo storico negozio in Corso Vittorio Emanuele e deputato al Parlamento. Nell’altra con me c’era Enzo Laconca, Tenente dei bersaglieri e genero di Raffaele Carlesso (Biri); Chechi e Biri erano molto amici poiché la passione per la montagna li aveva accumunati fin da ragazzi. In due giorni e mezzo attraversando la Jugoslavia e la Bulgaria, arrivammo a Istanbul dove restammo tre giorni: la città si rilevò subito nella magnificenza della sua storia. La bellezza dello stretto del Bosforo con la città

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adagiata ai suoi lati, le grandiose moschee, il Topkapi, l’immenso antico Bazar, tutto questo suscitava una grande meraviglia! Lasciammo Instabul in direzione di Eskisehir, famosa per l’artigianato delle pipe in schiuma di mare. A cena nell’albergo c’era un tavolo di operai italiani i quali informati delle nostre intenzioni di viaggio, ci sconsigliarono vivamente di attraversare l’estremo est della Turchia e il nord dell’Iran, in pratica il Kurdistan. Inoltre ci invitarono a portare un’arma con noi. L’indomani partimmo per Ankara la capitale e li finivano le strade asfaltate. Durante questa tappa, visitammo le rovine di Hattusà, una delle antiche capitali del regno degli Ittiti con interessanti sculture su rupi e porte gigantesche in granito. In una specie di capannone aperto e quasi abbandonato era stato creato un museo con lunghi banchi contenenti un’infinità di reperti, senza alcuna custodia… Costeggiando il Mar Nero dopo


trecento chilometri arrivammo a Trebisonda. Un venerdì, giorno festivo in Turchia, m’impressionò vedere a passeggio per le strade parecchi uomini tutti vestiti di nero con alti stivali, pugnali e spade allacciate in vita, forse come guerrieri di fine ottocento. Da Trebisonda puntammo verso il confine iraniano. Alla sinistra in lontananza si ergeva alto, massiccio e parzialmente innevato il monte Ararat (m 5165) dove si posò l’arca di Noè. Questo grande vulcano verrà da noi (Chechi, Enzo e chi scrive) scalato due anni dopo, nel 1969, in un altro viaggio prevalentemente alpinistico, che ci permise di raggiungere anche la vetta del monte Erciyas m 3916 vicino a Kayseri. Entrati in territorio persiano dopo circa tre ore d’auto, arrivammo a Tabriz, la città più importante dell’Iran occidentale; centro di grande rilevanza storica con uno stupendo bazar dell’undicesimo secolo – in cui si percepiva la vera atmosfera orientale – e l’antica moschea blu. Marco Polo la ricorda come città Nobile e Grande. Il viaggio continuò in direzione del mar Caspio che costeggiammo per circa trecento chilometri sino a una località famosa per la lavorazione dello

storione, dal quale si ricava il prezioso caviale del Caspio; per due giorni ci siamo nutriti a caviale al costo di sardine del nostro Adriatico. Lungo il Caspio vedemmo un gruppetto di donne che facevano il bagno, ci avvicinammo curiosi per guardare, ma a una cinquantina di metri da loro spuntarono improvvisamente degli uomini che ci fecero fare un rapido dietro-front. Arrivammo quindi a Teheran. La capitale si presentava come una città piuttosto moderna con parecchio traffico e ovviamente un’enormità di bazar dove prevalevano i tappeti persiani. La sera precedente avevamo dormito nella località più mondana del Caspio chiamata Bandar-e Phalavi. Li soggiornava l’alta borghesia persiana, ricordo nei giardini di un albergo due bambini che correvano su automobiline elettriche che non avevo mai visto, mentre subito fuori alcune persone dormivano sui marciapiedi. Nel 1967 regnava ancora lo Scià Reza Pahlavi, la moglie era Farah Diba che da alcuni anni aveva sostituito la ripudiata Soraya. L’imperatrice era invisa al clero locale che la considerava troppo moderna. Lo Scià usci perdente da questo scontro e dovette esilia-

I due grandiosi e affidabili «Maggiolini» targati con l’allora sigla della provincia udinese.

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re. La cosa più grave per l’occidente fu però il ritorno di Khomeini in Iran il quale risvegliò l’integralismo islamico, apri la strada a Bin Laden con le conseguenze che ai nostri giorni stiamo pagando ancora pesantemente. La tappa successiva era Mashad. Tentammo di visitare la grande moschea, ma appena attraversato parte del cortile antistante, «cortesemente» ci riaccompagnarono fuori perché si erano accorti che non eravamo mussulmani. La stessa sera andammo a cena in una locanda. Chechi pensò di portare una bottiglia di vino acquistata ancora in Turchia. Stavamo mangiando tranquilli e sereni quando il cameriere si accorse che stavamo bevendo vino. Subito dopo arrivò il padrone con tre camerieri e urlando spense la luce, ci spinsero fuori in mal modo continuando a gridarci dietro. Tutto sommato l’episodio non ci dispiacque più di tanto perché avevamo quasi finito di cenare e ovviamente non si pagò il conto. Partimmo per arrivare al confine afghano attraverso la regione del Korhasan, un deserto di terra screpolata e pietre con vari piccoli villaggi di casette in fango e paglia. Ci dissero che erano dieci anni che non pioveva e la temperatura in quei giorni era di cinquanta gradi. Viaggiavamo con tutti i vetri chiusi, se si apriva il deflettore entrava un’aria arroventata. Un grande ringraziamento va ai nostri «Maggiolini» che grazie al raffreddamento ad aria ci permettevano di viaggiare a tutte le ore del giorno, con grande ammirazione e invidia da parte dei pochi automobilisti locali che dovevano restare fermi dalle dieci alle sedici. Noi abitualmente viaggiavamo distanziati per evitare il polverone, così quando si arrivava in qualche paese dopo gli amici, la loro vettura appariva come una goccia di miele attorniata dalle formiche. In pochi minuti eravamo accerchiati da 50/70 persone incuriosite, erano attratti particolarmente dai numeri dalle targhe e passavamo le dita delle loro mani sopra di questi. Date le alte temperature che ci accompagnarono per tutto il viaggio, noi abitualmente eravamo sempre in pantaloni corti. Un giorno un uomo locale ci fermò, e ci fece capire che non stava bene che quattro uomini andassero


in giro così vestiti. Se questo urtava la sensibilità maschile, divertiva segretamente le donne; a me capitò più di una volta di essere lontano dai miei amici e di vedere, che quando queste li incontravano, subito dopo ridevano e si giravano per guardarli ancora. Arrivati così al tanto sospirato confine afghano in pieno deserto: un cippo, una garrita e una casetta con tre stanze, in una di queste, lo capimmo più tardi stava riposando il capo dei tre militari presenti. Ci vollero più di tre ore per passare il confine a causa dei pignoli controlli sui documenti, sulle vetture (numero del motore e del telaio) ma soprattutto si dovette aspettare il risveglio del capo. A tarda sera giungemmo a Herat, era già buio e trovammo da dormire in un ottimo albergo, credo fosse l’unico e aveva pure acqua corrente e servizi in corridoio. Il mattino scoprimmo che era circondato da un bel giardino. Li passammo due giorni di meritato riposo. Non mi pareva vero di vedere un poco di verde dopo parecchi giorni di terra bruciata dal sole. Non so perché ma in quei giorni pensavo spesso al nostro Gorgazzo. Herat era una città senza auto, c’erano parecchie carrozze trainate da cavalli che fungevano da taxi e una moltitudine di carretti trainati dagli asini. Larghe strade centrali con tante strette viuzze laterali, ovviamente non c’era ombra d’asfalto. Tutte la donne vestivano il burka integrale di colore rosa, azzurro e nero. Penso che la tinta dovesse determinare lo stato civile. La popolazione era molto povera. Oggigiorno Herat è spesso sui media nazionali essendo base operativa del contingente militare italiano in Afghanistan nell’ambito della NATO. In questi due giorni di vera vacanza si considerò che l’Afghanistan l’avevamo raggiunto e che i giorni a disposizione non ci permettevano di andare oltre. Si decise di partire verso casa. In due giorni di viaggio sempre su strade sterrate, con temperatura costante di quarantacinque e cinquanta gradi giungemmo alla frontiera. Qui purtroppo per noi successe l’irreparabile: controllando i passaporti si accorsero che eravamo privi del visto necessario; pertanto eravamo entrati illegalmente. Il posto di polizia di Kermanshah

Uomini e donne nei loro tradizionali abbigliamenti.

era presso le carceri al secondo piano dell’edificio e dalle finestre si vedevano i carcerati con le classiche giacche a righe passeggiare in un grande cortile con alte mura su tutti i lati. Nella stessa mattinata, dalle carceri, a piedi per una ventina di minuti, ci trasferirono alla Security Police. Fu una camminata assai emozionante accompagnati da due poliziotti e da un codazzo di curiosi. Ci portarono dentro una grande stanza spoglia, restammo là quattro ore senza vedere o parlare con alcuno. La mattina successiva in tribunale ci fecero un vero processo. Ricordo un tavolo a semicerchio con sei magistrati. Alla fine ci sanzionarono con una multa di cinquanta dollari in totale. Ci resero i nostri passaporti e ripartimmo nuovamente in direzione della frontiera. Usciti dall’Iran entrammo in territorio iracheno. Presentammo i nostri documenti tra cui era obbligatorio anche il Carnet delle vetture. Sulla copertine del Carnet in ordine alfabetico erano elencati tutti gli stati del mondo. Quando un zelante poliziotto si accorse che era elencato anche Israele, andò in escandescenze e gettò via i due carnet. Ci fu un attimo di grande smarrimento. Alcuni giorni prima i persiani non ci lasciavano uscire, ora questi non ci facevano entrare! Io, che nelle precedenti discussioni non avevo mai partecipato, ebbi un’idea: raccolsi i carnet, presi la penna biro e depennai la scritta Israele dicendo che quel paese era brutto, malvagio e che an29

che a noi non piaceva. Non so cosa passò nella testa del poliziotto ma questi mi prese i carnet dalle mani, timbrò i passaporti e, alzando il braccio, ci fece segno di uscire. Felicemente sorpresi partimmo di gran carriera in direzione di Baghdad. Dopo una giornata, lasciammo questa bella città ricca di storici monumenti con destinazione Mosul, località che purtroppo ha avuto in questi ultimi anni grande notorietà per le vicende dell’Isis. Mi ricordo che dormimmo in un albergo all’aperto su una grande terrazza al quarto piano che fungeva da tetto. C’era una cinquantina di letti e ognuno era separato dall’altro da una sedia.Discreta nottata sotto il cielo stellato, con la busta dei soldi nelle mutande. Lasciato Mosul e attraversando un poco di Siria in un giorno arrivammo in Turchia. Appena che i poliziotti turchi ci timbrarono i passaporti e benché fossimo ancora a duemilacinquecento chilometri da Pordenone, mi parve di essere a casa. Tutte le preoccupazioni accumulate negli ultimi dieci giorni sparirono in un baleno, fui invaso da una grande gioia per quel senso di libertà che intensamente mi pervadeva. In totale furono percorsi circa tredicimila chilometri in auto dei quali circa settemilacinquecento di strade sterrate. Ora, dopo cinquant’anni posso dire che fu veramente un viaggio tosto e impegnativo: tanto di cappello ai quattro protagonisti e ai nostri grandiosi e affidabili «Maggiolini».


Una serie di racconti e aneddoti in parlata locale, accaduti nei nostri paesi.

[racconto]

Continua la pubblicazione dei racconti in parlata budoiese...

i fioi de l’agna Giacoma di Fernando Del Maschio

Termina con questo racconto la trilogia dedicata all’agna Giacoma, personaggio tipico del tempo della mia infanzia. Redazione e lettori permettendo, continuerò con altre figure caratteristiche di una volta. Nello scrivere ho evitato il più possibile la banale traduzione simile all’italiano, usando al massimo le forme prettamente budoiesi. Lo stesso dicasi per la sintassi del periodo, anche se quest’ultimo uso è più difficile in quanto il nostro dialetto è nato per parlare e non per scrivere.

L’agna Giacoma la veva quatro fioi. El prin l’era Toni, chel del telefon che ai beldà contat. Dopo vigneva Ostin che,quan che ere pithol, el tornava dhuti i ains dala Frantha a ciatà so mare ancia co la so famea (l’era el nono de Frederic, chel del gatò). Se par caso el me ciatava in te na botega che toleve ’na caramela (thinque franchi!) el m’in paiava diese. Imparat el truco, lo tigneve de ocio quan ch’el deva fora e «par caso» me feve ciatà in te la botega. Furbithie de canais! La Gigia l’era l’unica femena dei quatro. La veva un caretere forte e no la dheva tant dacordo co so mare. Quan che la vigneva da Milan no passava dì che no le se cridhas. La pi bela però l’era intant del rosare in tel stale. Bisogna savè che ’na volta se passava i sie meis d’inver squasi sempre in tel stale,

parchè dhut el rest dela ciasa l’era al freit. La sera no manciava mai el rosare che l’era pi lonc de chel de uncuoi. Infati se diseva thinque «pateravegloria» par l’intenthion de no sai qual papa, le tanie in piè co un danuole poiat ala bancia, doi o tre «deprofundi» e un «miserere». Se preava in latin (o cussì credeane che fos el pastrothi che saltava fora) parchè i nostre veci i era convinti che el Signor el parlas in latin (come i musulmans i pensa che el parle in arabo). De solito feva da plevan barba Piero che l’era sbrigativo, el magnava un fià le parole (ancia s’el veva studiat in canonica col curato vecio), ma par noi canais dheva bin cussì, parchè no vedheane l’ora de tornà a dhuià. Però quan che barba Piero l’era in «giostra» (doe cioche al dì par doe stemane de seguito!), feva da plevan l’agna Giacoma e l’era longia come el «passio»: diese pateravegloria, deprofundi no se sa quains, doi o tre miserere e i «misteri» i era i pì loncs che se podheva ciatà in tei libres dele «Massime Eterne». Fra l’altr, come dhute le nostre vecie, l’agna Giacoma no la veva fat tante scuole e el talian i lo parlava ala bona. Me pense el mistero «Gesù presentato al tempio fra le bracia del santo vechio Simione» e noi canais ridheane (quante scodhopadhe!). Nessun el veva coraio, pa’ rispeto, de dise basta. Se però l’era cà la fia Gigia: «Ben, ben 30

mare, l’è ora che la fenessadhe. No vedheo che la dhent la se stufa de patanostrà!». «Vargognosa de fia, mare de famea e no te à anciamò fat giudithio! Scuseit saveo, cristians benedheth, me fia l’è sempre stadha matuthela e no la trà drio so mare de segur!». L’ultin fiol el se clamava Rico. Mi no l’ai cognossut, parchè l’è mort dhovin, ma i me contava che ancia lui el veva un caraterin... Intan de guera l’era in seminario par dhi prete. ’Na matina l’agna Giacoma e Batista a piè i va a ciatalo(chela volta no l’era treni o coriere e lor no ì veva la musa). Quan che i riva el portier i li fa spetà fora. Intant riva ’na carosa co ’na siora e el portier el la fa dhi dhentro e sentà dho. In chela vin dho dale s’ciale Rico, el veith la sena e i fa ’na quaiabita al portier,in presentha dela siora «Che so mare l’è meio de chel’altra, che l’è vignudha a piè» e cussì avanti. Destin vol che riva in chel moment un bonsignor del seminario, el clama da banda Rico e i fa ’na lavada de ciaf «che no l’à umiltà sufithiente par un seminarista , che nol sa sta al so posto» e via avanti. Poc temp dopo, intant de l’invasion, la fan l’era rivada ancia in seminario, pai fantath però, parchè i bonsignors i continovava a magnà bele pastasute e tocs de gial rosto. Con de pì i se feva servì in tola dai seminaristi. Imaginase che gusto par chei pora dhovins che i veva magnat una feta de polenta co ’na nicuta de formai. Ma un dì Rico e altri doi i la pensada bela. I à butat bensina da smacià in te la pastasuta col butiro dei bonsignors. Salvete tera! I è stadhi cathadhi via dhuti e tre parchè no i veva «vera e profonda vocazione per il sacerdozio». Chista però no i ne la contava l’agna Giacoma parchè mai la varave parlat mal de «chele gran parsone là».


Storie, pacassàde, scherthi, de Dardacˆ de ’na volta...

la bicicleta de Cino di Flavio Zambon Tarabìn Modola

Avèit da savè che ’nte i àni sesanta de ’l secolo passàt, spes, se vedeva un òn anthiàn vigne dhò pa’ la via Tarabin co’ la sô bicicleta da òn, ’l traversava la plàtha e,via, ’l deva o dhò pa’ la via Brait o la via Castelo, dopo doe, tre ancia cuatro ore ’l tornava, cualche volta montàt su la bicicleta, cualche volta i la premeva. Disarèit: «Ma chi èrelo stò cà». Stò òn ’l era de Scatirot ’l se clamava Severino ma duth i lo clamava Cino «Ep», ’l era nassùt ’ntel mileotothentonovantatre, de la sô vita se sa pocˆ, de sigur se foss vif cualchedhun de la sô fameia al podarave dise calcossa, ma de la famea Cecchelin ‘Scatirot’, almanco chela de Cino, nô ’l è pì nessun, in paeis. De sigur se sa che ’l aveva fat la prima guera mondiàl e ’l era stàt ferìt, tant che ’l ciapava un susidio da ’l stato, dopo ’l se indegnava a fa calcossa, ’l deva a giudà la dhent ’n te i cianps, ’l deva a fa legne, ’l svangiava cualche ort, pa’ un therto periodo ’l veva, ància, un becˆ da monta e tanta dhent, ància de i paeis vethins i deva a casa sôa a fa cuerde le ciàre, intant co ’na roba e l’altra ’l tirava a canpà. ’L doveva ància esse stat un bel òn ’l era grant pì de un metro e otanta, ’na bela misura, cuan che la media, ’nte i sô ani, ’l era de un metro e sesantathincue, nô’l se aveva, però, mai sposàt e ’l veva, a cuant che se sa, fin da dovìn, avùt ’na gran passion pa’ la bicicleta.

La sô ciàsa ’l era in font al cortif de i ‘Scatiroth’ verso ‘Theco’. ’L era ància un òn solitario, ’l ciaminava co’ ’l ciaf bas e ’l ciacolava pocˆ, nô avendo amicissie, al sô svago pì grant ’l era chel da dhì in giro co’ la bicicleta e a tal proposito ve contarai doe storie vere, rigardant lui e la sô bicicleta, che spere che le ve fae ride, come a sô tenp le me à fat ride mi cuan che le ài sentude. Al soranome «Ep», al riguarda senpre la bicicleta, adess ve conte come che i lo veva dat, Cino come che avòn dita fin da fantàt i plaseva dhì in bicicleta, ’na volta le biciclete le era tant pesanti, e pa’ fale dhì, specialmente in riva in su, voleva bone gianbe, ància parchè le strade nô ’l era sfaltade; nô le veva al canpanel, i fanai, e i frens i era chel che i era. Sarà stàt i àni trenta e vin che un dì, de matina bonora, Cino, ’l aveva da dhì a Davian, co’ la sô bela bicicleta, conprada metendo via ’na palanca a la volta rinunciando a cualche vithio, dut content al traversa la platha, ’l dà doe bele pedalade e via, dhò pa’ la riva de ’l Capelan a duta velocità, ància pa’ ’l sô peso e parchè la bicicleta la pesava vinti e pì chili, ’l inboca la via Castelo, ’l passa la lateria e ància al cinema, te chel punto le ciase de ‘Monte’ e de ‘Geromìn’ cuasi le se tocia, la strada ’l è streta e propio tel mieth ’l era tre femene che le ciaminava de riva in dhò, parlànt e sgorlànt i 31

[racconto]

bidons de ’l late, che le era apena stade a portà in lateria, Cino ’l veith la mal parata, ’l therca de frenà ma i frens nô i frena, al cor massa forte, alora ’l se met a thià: «Ep ,Ep. Ep. Ep...», sperando che chele femene le se tire in banda, che le se poie almanco su pa’ i murs de le ciase, niente, ’l è là che le ciapa duta la largetha de la strada, e cussi sucede chel che doveva sucede, Cino co’ la sô bicicleta i le vanta in plen, vin fora dut un polveron, le femene le svola una da ’na banda chele altre da chel’ altra, i bandons i va a finila tel cortif de ‘Monte’, Cino ’l vola come ’n aeroplano tel patus de la strada e la bicicleta ’l è duta sacagnada. Cuan che va via dut al polveron, le femene plene de bote le se leva su, le se met a posto le cotole e sacramentant, una de lor i dis a Cino: «Bauco de ’n fantàt parchè nô ato sonat al canpanel? Se te sonave se tireane in banda, vara cà come che te ne à conthat!» Alora Cino co’ duta la sô calma i responth: « Al canpanel stà bicicleta nô ì lo à, e po’ ài thiat ’n grun volte Ep, Ep, Ep… ma vuialtre reade cussi intente a parlà che ància se avess sonat la cianpana granda nô me avessàde sentùt!». ’L ‘era, intant, rivàt dhent e pì de cualchedhun ’l aveva sentùt chel che i se aveva dita la femena a Cino, duth i rideva, ància parchè nessun al se aveva fat tant mal, altre che cualche scussada, e cussi da chela volta tacàt al sô nome, Cino al se à trovàt dontat al soranome «Ep». Finìt de contave de come Cino ’l se aveva guadagnàt ’l soranome ‘Ep’, la volta che vin ve contarai, ’n altra bela storia che i lo riguarda e che i lo à fat cognosse anciamò meio, se mai i ’n era bisoign, a la dhent de Dardacˆ.


’n te la vetrina Escursioni in montagna di 60 anni fa Era un tardo pomeriggio di un sabato dell’agosto 1956. Una comitiva di dodici baldi giovani saliva il sentiero che dalla Val de Croda, attraverso la Sboada e le Stue portava alla casera del Saùc. Lo scopo era quello di fare la polenta in casera. Il companatico non mancava. Ognuno portava qualcosa: salame, formaggio, farina, sale, vino. Uno

aveva addirittura dodici pagnoche. Antenore Bocus Frith portava la cialdiera a mo’ di zaino. Cammin facendo la comitiva decise di non fermarsi al Saùc ma di proseguire, per la cena ed il pernottamento, fino al rifugio del CAI in Piancavallo che a quel tempo era una delle poche, se non l’unica costruzione dell’altopiano. Antenore era un po’

contrariato per il cambio del programma ma, alla fine, arrivammo al rifugio. Lì trovammo, con nostra gran sorpresa, Annibale Zambon Battistela e Cornelio Zambon Luthol che stavano eseguendo alcuni lavori di manutenzione all’edificio. Il giorno dopo, di buon mattino, ci incamminammo verso Cima Manera: la giornata non era delle migliori. A metà ascesa, alcuni di noi , tra i più giovani, presi da un po’ di panico, non se la sentirono di proseguire. Il più anziano della comitiva, Raffaele Zambon Momoleti, si offrì di fermarsi con i giovani e di attendere il ritorno del resto del gruppo. Raggiunta Cima Manera, senza aver potuto godere il panorama a causa della nebbia, il gruppetto iniziò la discesa. Ad un certo punto, dal canalone si staccò un piccolo frammento di roccia che colpì alla testa Luciano Bocus Frith. Per fortuna non si fece molto male e, tamponata in qualche modo la ferita con fazzoletti, arrivammo in Piancavallo. Ci attese una gradita sorpresa. Un gruppo di ragazzine che avevano avuto sentore della nostra gita in montagna avevano voluto venirci incontro. Cosi, allegramente, ci dirigemmo verso valle. ***

La foto, di proprietà di Antenore Frith, è stata inviata a Gianni Zambon Rosìt, dopo il loro incontro a Palgrave in Ontario (Canada) dove abita. Da sinistra: Gianni Ermacora Burela, Bruno Zambon Biso, Antenore Bocus Frith, Luciano Bocus Frith, Silvio Cecchelin Scatirot, Espedito Zambon Tarabin Ciarnél, Emilio Naibo Milieto, Guerrino Melocco Rino Mao, Osvaldo Zambon Pertia, Rizzieri Zambon Sclofa, Raffaele Zambon Momoleti.

Sempre nel 1955, io e alcuni altri (mi ricordo solamente di Giuseppe Zambon Marin che faceva la guida, e Luciano Bocus Frith), passando per i Therthin, e le valli Frith e dei Sass salimmo sul Tremol, sulla Colombera, sulla Palantina e sulla Cima Manera. Anche quella volta un mare di nebbia ci impedì di godere il vasto panorama. Mi ricordo che, scesi in Piancavallo, abbiamo trovato una bella ragazzina bionda che accudiva le mucche al pascolo intorno al rifugio del CAI. ESPEDITO ZAMBON


Le escursioni di quegli anni si effettuavano principalmente sul gruppo del Cavallo perché era quello più vicino. Non mancavano, però, altre mete, come il monte Raut tra Andreis e Poffabro.

Monte Raut

Cascata alle pendici del Raut

Da sinistra: Gianni Ermacora Burela, Luigino Zambon Pala, Antenore Bocus Frith, Bruno Zambon Biso, Paolo Zambon Pinal.

Piancavallo

??, Gianni Ermacora Burela, Antenore Bocus Frith, Attilio Vettor Panera (solo il viso emerge dall’acqua).

UN ACCORATO APPELLO AI LETTORI

Gianni Ermacora Burela, Bruno Zambon Biso, ??, Paolo Zambon Pinal.

Se desiderate far pubblicare foto a voi care ed interessanti per le nostre comunità e per i lettori, la redazione de l’Artugna chiede la vostra collaborazione. Accompagnate le foto con una didascalia corredata di nomi, cognomi e soprannomi delle persone ritratte. Se poi conoscete anche l’anno, il luogo e l’occasione tanto meglio. Così facendo aiuterete a svolgere nella maniera più corretta il servizio sociale che il giornale desidera perseguire. In mancanza di tali informazioni la redazione non riterrà possibile la pubblicazione delle foto.


c’era una volta il Gruppo Famiglia Fioralba e Daniela Vettor, Enrico Vettor e Claudia

I ricordi sono come fiocchi di neve che silenziosamente si sovrappongono uno sull’altro fino a formare una bella coltre. Poi, improvvisamente, la prima giornata di vento li alza nell’aria, li spariglia. Una parte chissà dove finiscono, altri invece ricadono, riguadagnano la loro posizione: sono quelli solitamente a noi più cari, quelli che non ci lasciano mai e che accompagnano ogni attimo del nostro cammino. Uno di questi è il ricordo del Gruppo Famiglia, composto da tante persone molto affiatate tra loro: cuochi, camerieri, lavapiatti… Chi può dimenticare Alfredo Pala, Guerrino Luthol, Guerrino Frith, Silvestro Tarabin, Rico Pinal, Ostin Cariola con le loro consorti? Erano imbattibili nell’organizzare cene e pranzi paesani nelle varie ricorrenze e feste, come l’ultimo dell’anno, il carnevale, la festa della donna o qualche domenica particolare. Si erano procurati tutto l’occorrente per la cucina e per i tavoli e avevano una «sede» in un’aula a piano terra delle ex scuole di Dardago. L’esperienza e la bravura, certo non mancava, sia come chef che come provetti camerieri. Il segreto del loro successo era

l’amicizia. Potevano esserci anche opinioni contrastanti e piccole discussioni ma erano uno scambio di punti di vista: una chiave che rafforza l’amicizia e accresce l’esperienza. In alcune occasioni anche la parrocchia chiedeva l’aiuto del Gruppo. Tra le tante ricordiamo l’arrivo a Dardago del gruppo musicale Steczkowscy di Stalowa Wola (Polonia) formata da undici componenti di una stessa famiglia. Il giorno precedente avevano cantato in udienza privata del Papa Giovanni Paolo II.

Il nostro Gruppo Famiglia con bravura ed entusiasmo organizzò il pasto per gli ospiti e per i rappresentanti della parrocchia e della associazioni locali. Il Gruppo operò fino alla all’inizio del 2001, dopo vent’anni di attività. L’età dei fondatori aumentava e non c’erano volontari più giovani. Pertanto venne deciso di chiudere questa bella esperienza e di donare l’attrezzatura alla Comunità Monastica di Marango di Caorle. Ora resta solo un bel ricordo.

Foto in alto. Da sinistra. Agostino Vettor, Alfredo Zambon, Guerrino Bocus, Giovanni Calderan, Silvestro Zambon: alcune delle colonne portanti del Gruppo Famiglia. Foto sotto. Festa di Carnevale nella sede del Gruppo.

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TESTIMONIANZE

Marianna con la sua adorata famiglia.

Maggio 1947. Marianna e Bruno Giacchini, nel giorno del loro matrimonio con il padre e i due fratelli.

i propri cari sempre nel cuore

Giobatta n. 1716

sposa Anzola Bocus

a cura della Redazione Domenico

La nostra cara Marianna, la decana del Comune di Budoia, ci ha fornito due foto a lei molto care che parlano di affetti e di momenti importanti della sua vita: quand’era giovane e in età matura. Negli anni Trenta è insieme a padre, madre, sorella e fratello. Un bel nucleo familiare. Il capofamiglia è Emilio Angelo Carlon, nato il primo ottobre 1885 a Budoia, che sceglie come sposa la coetanea di cinque mesi più anziana Rosa Zambon Carnizza, chiamata amorevolmente Rosina. Dal loro amore nascono Ilde Giovanna, il 2 dicembre 1912, e due anni dopo, il 2 luglio 1914, Marianna che con il suo nome eredita la zia paterna. Il padre, purtroppo chiamato in guerra, è costretto a lasciare la giovane moglie con le due piccine, in balia del comando militare austro-ungarico insediatosi nella sua casa. Ritorna fortunatamente vivo tra i suoi cari per riprendere la normale vita familiare. Il 27 gennaio del 1924, nasce

il terzogenito, Sergio. Marianna sceglie Trieste per lavoro e nella città alabardata trova l’amore della sua vita, il poliziotto Bruno Giacchini, che sposa il 25 maggio 1947, nella stessa città. Abbiamo ricostruito l’albero genealogico allargando la parentela e risalendo al diciottesimo secolo, pensando di far piacere alla cara Marianna.

n. 1749

sposa Maria Anzelin Paolo n. 1771

sposa Maria Zulian

Giacomo n. 1803

sposa Lucia Burigana Antonio n. 1829

sposa Maria Lachin

Giovanni n. 1866

sposa Vittoria Zambon

Antonio n. 1883

Andreanna Santa

Andrea Guglielmo

Emilio Angelo

Eugenio

n. 01.10.1885 m. 21.06.1962

n. 1896

n. 1887

n. 1889

sposa Rosa Zambon Carnizza n. 20.04.1885 m. 16.11.1973

Ilde Giovanna

Marianna

Sergio

n. 02.07.1914

n. 27.01.1924

n. 02.12.1912

sposa Bruno Giacchini


Il primo settembre di quest’anno ci ha lasciato l’amico diacono Osvaldo Puppin Budhelone. La moglie Marina e figli Renato e Marco lo ricordano con un pensiero di Sant’Agostino: «Non si perdono mai coloro che amiamo, perché possiamo amarli in Colui che non si può perdere». Dardago, 15 agosto 2002. Festa della Madonna Assunta, Osvaldo e don Maurizio sul Sagrato della chiesa mentre si avviano per l’inizio della Santa Messa Solenne.

un uomo dal cuore buono l’amico diacono Osvaldo Puppin IL SUO NUOVO VIAGGIO

Pubblichiamo l’omelia del Rettore del Diaconato nelle esequie di Osvaldo. «La ‘mia storia’ mi ha portato in giro per il mondo; sono agronomo, e attività missionarie si erano intrecciate per molti anni con gli impegni di lavoro, rendendomi sensibile alle svariate culture locali incontrate e stimolandomi ad apprendere diverse lingue, per meglio comunicare con la gente». In queste poche righe, tratte da un articolo pubblicato sulla rivista del Seminario La Fiaccola, c’è in sintesi il diacono Osvaldo Puppin, almeno per come l’ho conosciuto, e chiedo scusa alla famiglia se conosco ben poco di Osvaldo marito e padre. Osvaldo è stato un diacono che ci ha insegnato la mondialità, intesa come conoscenza, curiosità, interesse autentico per altre culture, con le quali Osvaldo desiderava interagire, comunicare e per questo s’impegnava ad imparare le lingue (spesso mi citava qualche termine o qualche espressione in arabo…). Un diacono che ci lascia in eredità una spiccata sensibilità missionaria, che lui viveva, così mi pare di avere

capito, soprattutto come ricerca di comunione e di quel senso di Dio, senso del trascendente che c’è in ogni cultura e in ogni religione e forse in ogni persona, per trovare un terreno comune, dei luoghi d’intesa, un modo per pregare insieme. Osvaldo raccontava che, quando percorreva la parrocchia ed entrava nelle case per la benedizione natalizia, era felice di incontrare famiglie musulmane, che gli aprivano la porta e che accettavano di fare insieme una preghiera all’Onnipotente («un termine – scriveva Osvaldo – che bene esprime Dio e Allah, senza che ognuno di noi rinunci alla sua storia e alla sua fede»: parole che dimostrano come egli fosse lontano da qualsiasi forma di sincretismo religioso) o al Misericordioso, che è uno dei nomi più belli di Dio, anzi forse «il» nome di Dio, come ci sta insegnando papa Francesco, invocando insieme il dono della pace. Per questo, credo che l’immagine che i figli hanno scelto nella prima lettura di questa Messa, dal profeta Isaia, esprima perfettamente il sogno che fu anche di Osvaldo: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). Anche il modo con cui Osvaldo vedeva la sua città, San Donato, co36

glieva subito la presenza in essa di una rilevante componente di stranieri, che lo sollecitava a trovare vie originali per il proprio ministero: «il mio essere lì doveva avere un senso anche per quei fratelli immigrati. È così scaturita un’attività «diaconale» non formalmente indicata nei documenti di nomina (anche se i superiori ne sono stati costantemente messi al corrente); è nato un interesse, un ascolto verso tante persone che da lontano erano approdate in appartamenti vicini al mio». Anche l’esperienza dei pellegrinaggi a Lourdes, che non l’avevano mai entusiasmato, come ammise in un altro articolo scritto per Fiaccola, ma che, a partire dal giugno 2007 –


quando vi andò nel decimo anniversario della sua ordinazione diaconale «cedendo alle insistenze» di sua moglie Marina – diventarono per lui un appuntamento annuale imperdibile, Osvaldo la rileggeva come il dono di poter incontrare persone diversissime, con storie differenti, unite dalla condivisione del dolore, della malattia e poi della speranza e della fede: «Lourdes non è solo ricerca di grazia [...], per me Lourdes è stimolo a condividere la mia realtà, di sano, di ammalato, abile o diversamente abile [...]. A Lourdes ti ritrovi sommerso da una moltitudine di persone, di ogni etnia, cristiani e non […]. Una torre di Babele al contrario, cinesi, coreani, indiani, africani, americani sia ‘latinos’ che ‘gringos’, irlandesi e spagnoli... tutti sembrano parlare una stessa lingua… Differenze, accettazione, tentativi di condividere, rispetto delle radici di ognuno, universalità…». Osvaldo era un uomo sempre in movimento, se non era fisicamente in viaggio, lo era con la mente, con lo spirito. Per questo, assume un significato particolare, a prima vista molto amaro, la sorte che gli è capitata durante la malattia di essere costretto all’immobilità in un letto, dove la sua mente sembrava viaggiare altrove. «Siamo pieni di fiducia – abbiamo ascoltato da san Paolo – e preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore» (2Cor 5,8): nei giorni della malattia, sembrava quasi un corpo estraneo, che Osvaldo abitava come se non fosse il suo, come se non gli rispondesse più, formulava un pensiero e la voce esprimeva altre parole, altri concetti.

Un’esperienza drammatica, ma la fede ci aiuta a leggere in quella condizione che Osvaldo viveva non tanti i segni di un corpo «in disfacimento» (cf 2Cor 5), quanto piuttosto le anticipazioni, le avvisaglie di un altro corpo; come se Osvaldo ci dicesse che stava già lasciando questo corpo mortale, «nostra dimora terrena», per prepararsi a ricevere un corpo nuovo, «un’abitazione da Dio, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2Cor 5,1). Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci ha parlato di vigilanza, ci ha invitato a stare svegli, pronti: uno dei modi con cui Osvaldo ha vissuto questa vigilanza è forse la sua abitudine di fare collezioni. Collezionava di tutto, quasi avesse una sete insaziabile di raccogliere frammenti di umanità, di verità da ogni parte, per cercare di comporre in qualche modo, nella maniera meno approssimativa possibile, il grande puzzle della vita, il grande mosaico che è la vita. Ma la raccolta più significativa, quella che Osvaldo ha maggiormente condiviso con i suoi confratelli diaconi e con molte altre persone è stata il suo «Sguardo sul mondo», una specie di enciclopedia continuamente aggiornata di notizie provenienti da ogni parte del mondo, ma in particolare dai Paesi del Sud del mondo, dall’Africa e dall’America latina, ma anche dall’Asia e dal Medio Oriente, dai Paesi di missione, una raccolta di dati da leggere «in pillole», come lui stesso suggeriva, da consultare con intelligenza, con informazioni spesso di prima mano raccolte dai missionari o dagli operatori umanitari. Un lavoro che testimonia un interesse inesausto

Anni ’60. Nella foto a sinistra Osvaldo durante una pausa dopo una lunga camminata tra i sentieri delle nostre montagne; nella foto sotto allo Chalet Belvedere con tanti amici al rientro dal Piancavallo.

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per i temi sociali, le migrazioni, i conflitti, l’ecologia, le culture minacciate o minoritarie, la condizione delle donne, il dialogo interreligioso… Adesso noi immaginiamo Osvaldo con lo sguardo immerso nello sguardo di Dio sul mondo, lo crediamo nella terra dove tutte le differenze sono rispettate e riconciliate. Credo che Osvaldo avrebbe sottoscritto come suo «testamento spirituale» le parole del «testamento» di frére Christian de Chergé, priore martire di Tibhirine, in Algeria, parole che egli conosceva e amava: «Ecco che, se piace a Dio, potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre quella di stabilire la comunione e ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze». DON GIUSEPPE COMO

PERSONA AFFABILE E DISPONIBILE

Che cosa posso dire di questo omone dal cuore buono. L’ho conosciuto personalmente solo in questi sette anni del mio parrocato a Budoia. Persona affabile, aperta, disponibile. La sua origine a Budoia, ma la lunga permanenza in terra lombarda gli aveva conferito quel particolare accentro nel parlare che mi ricordava i miei lunghi anni trascorsi a Milano rendendomelo ancora più prossimo. Sono potuto venire così a conoscenza della sua attività prediletta che svolgeva come diacono (dal greco: servo) mandato dal suo Vescovo a prendersi cura degli immigrati, all’attività missionaria, da persona intelligente e di cuore aveva perfino imparato l’arabo per poter meglio comunicare ed aiutare quelle persone affidategli. E poi mi inondava quasi settimanalmente con le sue mail che raccontavano dei cammini di pace, delle iniziative per contrastare scelte sbagliate o non


conformi al Vangelo e per informare sulle situazioni dei vari popoli. Molto legato alla sua famiglia ha amato concretamente la moglie Marina sostenendola nelle sue sofferenze e i figli Renato e Marco. Durante i periodi che trascorreva a Budoia, nelle messe domenicali mi serviva come diacono, ma quando partecipava alle messe feriali, mi chiedeva di lasciarlo nel banco accanto a Marina per testimoniare il diaconato coniugale. La strana malattia che ce lo ha portato via quasi improvvisamente ci ha lasciato l’amaro di non aver potuto dargli almeno un ultimo saluto. Grazie Osvaldo per la bella testimonianza di vita che ci hai donato. Dal cielo continua a pregare per Marina, Renato, Marco, i tuoi nipoti e anche per noi perché possiamo essere aperti, disponibili ed accoglienti con coloro che ci tendono una mano come sei stato tu. DON MAURIZIO BUSETTI

UNA GRANDE AMICIZIA

Sull’attività pastorale del diacono Osvaldo Puppin Budhelone non so molto. Mi ha raccontato che in gioventù era stato in missione insieme alla moglie. Rientrato a Milano fu, sia prima che dopo l’ordinazione (1997), uno dei primi collaboratori del cardinale Martini, grande arcivescovo della più estesa diocesi europea (e sarebbe stato anche un grande Papa, se le condizioni di salute non lo avessero impedito). In particolare il diacono passava per la benedizione delle famiglie. Mi riferiva lui stesso che veniva accolto quasi meglio dalle famiglie mussulmane, con le quali recitava una preghiera speciale, che da molte persone che si vantavano di essere «laiche». Inoltre si occupava di assistenza, in tutti i sensi, dei bisognosi. Quello però che vorrei qui ricordare è la grande amicizia che ci legò fin da adolescenti. La sua famiglia soleva passare le vacanze estive nella casa avita di Budoia. Con Osvaldo mi trovavo bene, sia per le idee religiose che per la comunanza di interessi cul-

corroborante e, se qualche anziana donna guardava incuriosita, «Xe una medessina che me ga ordinà el dotor» e a noi, piano «Ciapa ciò, curiosa babassa!». FERNANDO DEL MASCHIO

CIAO, OSVALDO!

turali. Ricordo le lunghe e a volte animate discussioni, molto spesso anche con l’allora seminarista Gigi Burigana Bastianela, docente poi all’Università di Padova. Ho anche dei ricordi che fanno sorridere. Qualche estate veniva a Budoia per passare un certo periodo di tempo l’anziano prozio di Osvaldo, don Antonio. Il vecchio sacerdote soffriva di asma cardiaca e di difficoltà di deambulazione, per cui celebrava la Messa quotidiana verso le 11 di mattina all’altare della Madonna. Io e Osvaldo lo accompagnavamo all’andata e al ritorno e lui si appoggiava alle nostre allora robuste spalle. Inoltre preparavamo quanto necessario per la Messa che poi servivamo. Don Antonio aveva un piccolo vizio: fiutava tabacco, perchè secondo lui gli facilitava la respirazione. Bisogna sapere che questa abitudine era molto diffusa nel clero del settecento. Infatti venne allora emanata una disposizione che vietava l’uso di tabacco durante la messa. Per superare questa difficoltà don Antonio metteva una dose abbondante di «macuba» nel suo enorme fazzoletto rosso che poi teneva fra la pianeta e il camice o sotto il leggio del messale. Immaginatevi che profumi quei paramenti! Dopo pochi giorni il parroco don Alfredo ci ordinò di usare le vecchie pianete dei tempi del curato vecio. Inoltre don Antonio usava portare da casa una bottiglietta contenente una porzione generosa di brandy. «Per il cuore» diceva. Alla fine della messa, mentre recitava le preghiere leonine, si trangugiava il liquido 38

Pur preparate al triste momento, non avremmo mai voluto sentire quel lugubre rintocco di campana «a morto». Tu che, seppur nato a Milano, ti sentivi budoiese, de Budhelone come amavi presentarti agli altri. A Budoia conservavi le tue radici (quanto hai ricercato i tuoi avi sparsi per il mondo, per ricomporre tutte le famiglie dei Puppin!) e ritornavi frequentemente per ritrovare la «tua» gente, per esplorare le «tue» montagne alla ricerca di natura: fossili, piante, fiori... e coleotteri, che collezionavi, questi ultimi in un armadio dei nonni, e che descrivevi con competenza nel nostro periodico. Altre, ancora, erano le tue passioni, fin dall’adolescenza: le scalate in montagna con il tuo più caro amico, Gianni Carlon, e le lunghe arrampicate in Pian Cavallo, Sauc, Ciamp e Busa del Glath coinvolgendo giovani, adolescenti e bambini, oltre a tua sorella Mariemma. Eri, inoltre, un punto di riferimento per noi per lo scambio di francobolli e cartoline. Hai viaggiato a lungo nella tua vita lavorativa e missionaria. Appena sposato con Marina, iniziasti la missione in terra africana, dove nacque il primogenito Renato; poi non hai mai smesso di pensare agli ultimi, finché nel 1997 sei stato ordinato diacono nell’Arcidiocesi di Milano, dove hai operato, in particolare nella tua parrocchia di San Donato Milanese. Qui non ti sei risparmiato, dedicando le tue ore libere serali agli incontri, al dialogo con gli stranieri e alla benedizione annuale delle loro abitazioni. E Marina, sempre al tuo fianco seppure sofferente, ha condiviso e sostenuto con amore le tue scelte e ti è stata accanto fino alla fine della tua vita terrena. VITTORINA CARLON


Lasciano un grande vuoto... l’Artugna porge le più sentite condoglianze ai famigliari

Carla Parmesan Solo pace per te adesso che è finito il dolore e sei per noi immagine indelebile negli anni che verranno. Manchi e ti pensiamo parte del pensiero dell’universo in una forma che è difficile immaginare. Abbiamo condiviso un tratto di vita indimenticabile: la vera ricchezza che ci hai donato. FABIOLA E FEDERICA

Nel buio della notte Ciao, va tutto bene? È la tua voce! Spalanco gli occhi, ma tu non ci sei. C’è un gran silenzio. Non sento nemmeno il tuo respiro. Nel buio della notte immagino il tuo viso così volitivo, il tuo sorriso,

Marco Zambon

i tuoi begli occhi che brillano di gioia per essere tornata qui. I miei occhi si riempiono di lacrime.

Dal 17 agosto di quest’anno non è più con noi il nostro caro Marco Zambon, lasciandoci un grande dolore... ci mancherà molto. Ci rattrista sapere che non rivedrà più il suo tanto amato Dardago dove è nato ed ha trascorso per oltre 50 anni le sue estati. Ti abbiamo voluto tanto bene. TUA MOGLIE SILVANA ED I TUOI FAMIGLIARI

Perché? Non devo piangere! Tu ora sei nella luce e nella pace eterna e non sei neanche sola perché hai raggiunto il tuo papà: ora non soffrite più. Io si sono sola e vivo nel vostro ricordo. Mi mancate tanto! CHI VI HA AMATO

Dina Panizzut S’è spento per sempre il sorriso di Dina Uno scontro tra due automobili ha spezzato la vita di una nostra affezionata lettrice, la compaesana Dina Panizzut. La comunità è rimasta profondamente addolorata dal tragico evento. Dina, con le sorelle Angela e Livia e il cognato Flavio Pagani, trascorreva estate e autunno a Budoia e il resto dell’anno in Liguria. Mancavano pochi giorni alla sua partenza. 39

Con la sorella Angela e il cognato stava percorrendo in macchina la provinciale 31 della campagna, quando l’auto di un soldato statunitense ha invaso la corsia di marcia, oltre il passaggio a livello, e l’urto è stato inevitabile. Sono rimasti feriti seriamente anche i suoi congiunti. La Redazione de l’Artugna, commossa, è vicina ai famigliari e porge le più sentite condoglianze.


Leila Cecchelin Leila Cecchelin è mancata il 23 settembre. Figlia, moglie, madre. Una persona vera, una persona autentica. Per chi l’ha conosciuta bene è stata un’amica e una sorella, per me è stata il faro d’ogni mia sera, la mia casa, la mia famiglia. La compagna migliore cui sussurrare sogni e paure. Una donna d’ingegno sottile e immensa cultura, ma più d’ogni cosa una donna sensibile e rara, capace d’amare infinitamente e di sostenere senza riserve. Ha cambiato la vita di coloro che le sono stati accanto, avendo avuto nel tempo la fortuna di incontrarla sul proprio cammino. Nella musica e nell’arte ha trovato una dimora a sua misura, nella sua famiglia e nella cerchia degli

amici veri, intimi, ha lasciato un ricordo che non sbiadisce. Queste sono parole vere, semplici e spontanee, inadeguate. Inadeguate a rappresentare la sua grande vitalità, la sua profondità, la sua incredibile gioia di vivere, la sua costante, immensa capacità di donare amore. L’amore con cui sapeva riservare un’attenzione, un sorriso, un abbraccio, sostenere nella difficoltà e camminare lungo il sentiero della vita, apprendendo e insegnando passo a passo l’arte di viverla. Sono le parole di una figlia che non potrà dimenticarla. Perché come mi ha detto una volta lei stessa: «quello che conta veramente non quanto è a lungo si vive, ma il bilancio d’amore che ci si lascia dietro».

Isaia Barbot Con la tua moto in viaggio verso l’Eternità

Ciao Isaia, non ho parole per dirti come mi sento... Il vuoto che hai lasciato è incolmabile e permanente. Non ho ancora realizzato la perdita della mia mamma... e adesso c’è la tua. Papà, zia Gina, mamma e ora tu... la mia famiglia mi guarda dall’aldilà. Ho sperato fino all’ultimo, la fiammella si è spenta il 28 ottobre alle 4.20. Ovunque io guardi, c’è qualcosa che

mi ricorda te; ogni giorno passa senza la tua presenza: è molto triste e doloroso. La mia vita ora continuerà senza te e i miei cari. Aiutatemi ad affrontarla giorno per giorno. Io vivrò solo nel vostro ricordo, che vivrà sempre in me. LORELLA

Luigia Della Fiorentina Il giorno 19 settembre 2017 anche Gigetta ci ha lasciato, l’ultima amica della Crosera. Questo bel gruppetto era composto da Catina Fantin, Maria Andoleta, Ines e Gigetta. Erano delle vere e proprie amiche che si sono sostenute nelle gioie e nei dolori della loro vita, amicizia che oggigiorno è difficile da trovare e da conservare nel tempo. Come da tradizione dei paesi si sono conosciute da giovanissime ed ognuna poi ha preso la sua strada, chi a costruire la famiglia, chi con il lavoro. Ma sono sempre state unite e questo le ha portate a vivere anche il periodo dell’anzianità insieme anche dopo esser rimaste vedove. Anche un semplice 40

caffè era occasione di passare delle ore insieme parlando del tempo che fu e dei nipoti che crescevano. Tutti questi nipoti sono cresciuti con i loro racconti, raccomandazioni e qualche sgridata di tanto in tanto e poi subito coccolati dalle caramelle della Gigetta. Tutti si ricordano i piatti succulenti della Maria che quando cucinava lo faceva per tutto il Colonel come lo chiamava lei, la zona dove abitava lei e la Catina. Ora si trovano tutte lassù, nuovamente insieme, proteggendo le persone a loro care, le quali porteranno sempre nel cuore qualche loro aneddoto o ricordo speciale. MARIA E LAURA


CRONACA

Cronaca

Festa pa’ 17 canis

Dall’Ungheria a Buduoia, a… In luglio, in una giornata di caldo torrido, uno strano carro rosso e verde, trainato da una coppia di buoi dalle lunghe corna e con due mucche al seguito, attraversa la Pedemontana budoiese. Un giovane a piedi guida gli animali. Si tratta del coraggioso trentenne ambientalista ungherese Blasio Bolash, che nel suo continuo vagabondare trova ospitalità nel terreno di Franco Mos’cion per rifocillare se stesso e gli animali. Dall’età di 18 anni la sua casa è il carro ben attrezzato per vivere; si nutre del latte delle sue mucche, del pane preparato quotidianamente da lui e di verdure. Rimangono un po’ vaghe le motivazioni che lo spingono a intraprendere il viaggio verso la Francia, al ritmo di 20 chilometri al giorno, a piedi. Dopo la sosta, ringrazia, saluta e riparte accanto ai suoi animali, a passo d’uomo, in direzione Polcenigo e Caneva.

È inaugurata il 16 dicembre la prima edizione di LuciArtè, mostra collettiva di pittura, allestita presso il Centro di Aggregazione Giovanile (ex scuole di Santa Lucia) a

Andrea Del Maschio con Blasio (foto di Oscar Carlon).

Nella foto. Un momento dell’inaugurazione della mostra collettiva di pittura alla presenza delle autorità e del pubblico convenuto.

Festa grande il 15 Ottobre per le nostre parrocchie: il Vescovo Giuseppe Pellegrini ha impartito sacramento della Cresima a diciassette nostri giovani. La chiesa di Budoia gremita di parenti, amici e fedeli ha ospitato la solenne cerimonia allietata dai canti del nostro coro interparrocchiale. I genitori ringraziano il Vescovo, il parroco ed il catechista Claudio Sottile per la preparazione dei ragazzi alla Cresima. Nella foto. Martina Arcicasa, Pietro Bocus, Alyssa Buso, Luca Cesaro, Francesco Dell’Angela Rigo, Martina Ferrarelli, Nicole Fiorot, Mauro Fort, Angelo Jaime, Juan Jaime, Arianna Manco, Matteo Mascherin, Andrea Pauletti, Laura Rosa, Erika Zambon, Lorenzo Zambon, Martina Zoni.

Pitors a Santa Luthia prima LuciArtè

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cura dell’Associazione «La Riva de Messa» con il patrocinio del Comune di Budoia. Sono esposte opere di Emanuela Besa, Barbara Lachin, Silvia Pignat, Bianca Maria Pusiol, Tiziana Taurian, Corrado Besa, Marino Bortoluzzi, Orfeo Fort, Andrea Lachin, Dario Santin.


Alla presenza degli autori e di un pubblico numeroso, Felice Fort, a nome dell’Associazione, ha dichiarato aperta la mostra. Sono seguiti brevi interventi del Sindaco De Marchi, degli assessori Bolzan e Ulian e dell’ esperta d’arte Martina Cimolai. La mostra è visitabile nei fine settimana dal 16 dicembre al 6 gennaio 2018.

I Coscritti del ’49

Bon complean!

Con il 2017 il gruppo Artugna ha compiuto ben 40 anni! 40 anni di danze, canti, ma soprattutto di occasioni per stare insieme in modo sano e costruttivo. Per onorare questa ricorrenza, in settembre, in concomitanza con la prima domenica della Festa dei Funghi, è stato ospitato nei nostri paesi il 19° incontro itinerante dei gruppi apppartenenti all’AFGR. La giornata è iniziata con la messa a Dardago, cerimonia allietata dai canti e dai vivaci colori dei costumi folcloristici friulani che riempivano la chiesa. La piazza poi è stata la cornice della stupefacente coreografia della Vinca, danzata da tutti i presenti. La giornata è

Anche quest’anno i coscritti della classe del ’49 si sono ritrovati a festeggiare il loro compleanno e a ricordare gli amici che non sono più tra loro, in particolare Giancarlo che ci ha lasciato recentemente. Dopo la cerimonia religiosa, la compagnia ha raggiunto allegramente il parco di San Floriano. Un ringraziamento va a Gianni Rosit, organizzatore dell’incontro.

proseguita a Budoia con il pranzo e le esibizioni itineranti. Altra iniziativa è stata la mostra «I giocattoli di una volta», allestita a Dardago durante il Dardagosto e a Roveredo nel ponte dell’Immacolata. In quest’ultima occasione è stato presentato il libro «Diario di viag-

Il gruppo Artugna e i rappresentanti di altri appartenenti all'AFGR (Associazione folcloristica giovanile regionale del Friuli Venezia Giulia) dopo la cerimonia nella chiesa parrocchiale di Dardago.

gio. In cammino sul sentiero della vita», raccolta fotografica dei momenti più significativi degli ultimi 10 anni, una sorta di prosecuzione del libro realizzato in occasione del 30° anniversario. Come è stato sottolineato durante la presentazione, queste ricorrenze «tonde» sono momenti in cui è bene soffermarsi a guardare indietro, rallegrandosi dei risultati ottenuti, e traendo da questi l’entusiasmo per proseguire e mirare a nuovi traguardi. MARTA ZAMBON

50 ains de la Pro Loco La Pro Loco di Budoia ha festeggiato i 50 anni di vita. Per ricordare questo prestigioso traguardo, nel prossimo numero verrà pubblicato un articolo che riassume le tante tappe di un importante percorso. 42


La litorina la torna a core da Sathil a Maniago Domenica mattina, 10 dicembre, è stata ufficialmente riaperta la tratta ferroviaria Sacile-Maniago con il viaggio inaugurale del convoglio appositamente predisposto da Trenitalia. La linea era stata chiusa nell’estate del 2012 dopo il deragliamento di un «Minuetto» presso Meduno. Il convoglio era composto da una storica vaporiera a carbone, costruita circa 100 anni fa, e da una serie di carrozze – altrettanto storiche – di rappresentanza, passeggeri e bagagliaio. A bordo la presidente regionale Applausi e numerosi scatti alla vaporiera. Nella foto il Sindaco di Budoia con il Presidente della Regione FVG, Debora Serracchiani.

Serracchiani, il vicepresidente Bolzonello e gli assessori Santoro e Panontin, accompagnati dai sindaci e amministratori dei comuni della Pedemontana pordenonese e i rappresentanti delle molte associazioni di volontariato operanti nelle località toccate dalla tratta ferroviaria. Migliaia le persone che hanno assistito all’insolito avvenimento assiepate lungo l’intera tratta. Nella nostra stazione di Budoia, nonostante la fredda mattinata, centinaia di curiosi di ogni età hanno accolto tra gli applausi la sbuffante locomotiva. La breve cerimonia ufficiale si è svolta in un locale della stazione dove, il Collis Chorus, si è esibito in alcuni brani, alla presenza delle autorità regionali e locali. In attesa della apertura della linea fino a Gemona, prevista per il prossimo anno, le quattro stazioni interessate sono Sacile, Budoia, Montereale Valcellina e Maniago. Fino al 31 marzo 2018 si può usufruire dello sconto regionale che permette di pagare 1,55 euro per qualsiasi destinazione compresa nella tratta.

Dardagosto

Anche quest’anno grazie al lavoro degli organizzatori si svolgono con successo le giornate per festeggiare la nostra Patrona: la Madonna Assunta. Numerosi gli eventi svolti: concerti, serata per astrofili, pesca di beneficenza, serate con musica, chiosco enogastronomico e giochi popolari per i più piccoli. Grazie a tutti i volontari.

Tertha festa pa’ lo zaferan Domenica 22 ottobre tutto è pronto per l’inizio di Dardago, fior di zafferano. Ma al tempo non si comanda. Una fitta pioggia dissuade gli organizzatori a rimandare alla do43

menica successiva. Solo il Convegno può svolgersi in teatro. Numerose le persone convenute. Interessanti e di spessore gli argomenti trattati. Complimenti ai relatori! Domenica 29 ottobre splendida giornata di sole. Può svolgersi la festa dello zafferano. Molti i convenuti alla manifestazione per visitare il Mercato in piazza e gli zafferaneti, ritrovarsi allo stand enogastronomico con vini di qualità, megafrico da 2,5 metri di diametro e mega polenta, cotta nella «cialdiera della exlatteria» trasformata in polentiera dal Comitato del Ruial.

Ancia sto an... pa’ la Madhona de la Salute Domenica 19 novembre si svolge la Santa Messa in onore della Madonna della Salute e la successiva Processione con la statua della Vergine lungo le vie di Dardago. Oltre alla popolazione quest’anno è presente alla cerimonia il Gruppo Alpini di Col San Martino di Farra di Soligo (Treviso). Il Gruppo trevigiano, gemellato con quello del nostro Comune, ha voluto così ricambiare la visita. Un grazie particolare va alla sensibilità delle famiglie che hanno abbellito il percorso. L’evento riunisce i fedeli dei tre paesi per un momento di riflessione spirituale.

El Ruial... a thena

Giovedì 14 dicembre i volontari del Comitato del Ruial si riuniscono presso il Ristorante «da Regina» di Polcenigo per riepilogare insieme tutte le attività svolte durante l’anno e per programmare quelle future. Un calendario di iniziative per ‘vivere’ la Comunità e valorizzare il nostro territorio. Alla serata sono intervenuti il Sindaco e alcuni rappresentanti dell’Amministrazione Comunale.


inno alla vita

Ciao! Sono Sebastian Siragusa e sono nato il 20 ottobre. Sono il gioiello di papà Salvatore e mamma Samanta Del Maschio e l’orgoglio dei nonni Flavio e Inghe!

Mi chiamo Ginevra Conzato, figlia di Antonella Maccioccu e Ottaviano. Il giorno 29 ottobre 2017, ho fatto la Prima Santa Comunione ad Hong Kong dove viviamo. Quel giorno ho ricevuto Gesù nel mio cuore. Che il ricordo di quel giorno speciale mi accompagni sempre nella vita.

Vi presentiamo la nostra bimba Rachele Viola Berton, che insieme a noi vi manda tanti abbracci!

Domenica 13 agosto 2017, don Maurizio ha celebrato il 50° anniversario di matrimonio di Paola Zambon Pethol e Giustino Maccioccu nella chiesa di Dardago. Gli sposi hanno festeggiato questo bellissimo traguardo insieme ai figli Roberto e Antonella, ai nipoti, ai parenti e agli amici.

MICHELE, ELISA CON VITTORIO

Il 25 maggio 2017 è nato Jacopo, qui in braccio al nonno Pierino e con il papà Edoardo e il fratellino Andrea (tutti gli eredi di Nani Milanes). PIERINO CALDERAN

Il 24 novembre, Lucia Marcandella si è laureata in lettere, curriculum Scienze del testo letterario e della comunicazione, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, in soli due anni accademici, con il voto di 101. Soddisfatta e gioiosa, ha festeggiato con papà, nonni, zii, cugini e amici questa prima tappa, già pronta per continuare a sostenere esami per il futuro traguardo. Brava, Lucia! Congratulazioni.


concerti natalizi

Domenica 28 maggio 2017, nella chiesa di san Giuseppe della Pace a Milano, Simone Terruzzi riceve la Prima Comunione. Un momento importante... da oggi Gesù è la sua guida fidata nel cammino della vita. Papà Paolo e mamma Valentina Janna Tavàn gli augurano che l’emozione e la gioia provate quel giorno siano custodite per sempre nel suo cuore.

DARDAGO_CHIESA PARROCCHIALE

martedì 26 dicembre 2017 ore 17.00

COLLIS CHORUS PRESENTA

CONCERTO DI SANTO STEFANO con la partecipazione di Soul Bross Direttore Gaetan Nasato Tagnè

DARDAGO_CHIESA PARROCCHIALE

sabato 30 dicembre 2017 ore 21.00

Gruppo vocale «OTTETTO HERMANN» PRESENTA

CJANTS, LÛS E LIGRIE DI NADÂL Direttore Alessandro Pisano Organo Marco Rossi Percussioni Nicola Pisano

Era il 17 maggio 1967 e noi, Luigi Fort Provedon e Valerie Earnshaw, ci univamo in matrimonio su questa bell’Isola di Jersey (U.K.). E oggi uniti ai nostri famigliari e amici abbiamo celebrato le nozze d’oro. Saluti e auguri alla Redazione e a tutti lettori.

SANTA LUCIA _CHIESA PARROCCHIALE

sabato 6 gennaio 2018 ore 17.00

INSIEME VOCALE ELASTICO PRESENTA

TE DEUM di Marc-Antoine Charpentier

Auguri dalla Redazione!

Concerto per soli coro, organo e tromba Direttore Fabrizio Fucile


I ne à scrit... l’Artugna · Via della Chiesa, 133070 · Dardago (Pn) direzione.artugna@gmail.com

nostri genitori e dei nostri nonni. Cordiali saluti.

Milano, 31 luglio 2017

SONIA BUSETTI CAPORAL

Da genitori e nonni orgogliosi vorremmo darvi una notizia che ci farebbe tanto piacere trovasse un piccolo spazio nella vostra rivista. Ha origini dardaghesi il 100 e lode più giovane d’Italia. È Lorenzo Lucchese, residente a Milano, figlio di Sonia Busetti Caporal e di Enrico Lucchese, nipote di Primo Busetti Caporal e di Luigina Zambon Pinal. Colgo l’occasione per fare i complimenti a l’Artugna, una rivista che leggiamo da lontano e che ci fa sentire ancora legati al paese dei

Congratulazioni a Lorenzo, genitori e nonni. Riportiamo solo un paio di frasi di un bell’articolo apparso sul Corriere della Sera. «Il 100 e lode più giovane d’Italia esce dal San Carlo di Milano, Liceo internazionale per l’Intercultura. È Lorenzo Lucchese, 17 anni compiuti ad aprile, un vantaggio di un paio d’anni sui compagni, grazie a due treni presi in corsa: la prima elementare a cinque anni,

[...dai conti correnti ] Grazie per tenerci sempre aggiornati delle novità dardaghesi. FAMIGLIA PIETRO ZAMBON VIALMIN

sfruttando la riforma Moratti e la programmazione su quattro anni introdotta dal collegio milanese appena un lustro fa.. Lorenzo sta scegliendo tra la Bocconi e una rosa di università straniere, che hanno accettato la sua candidatura. I suoi interessi: la matematica e la finanza. Ma ha anche una grande passione per il sociale: è volontario per Amnesty International».

Ambilly (Francia), 4 novembre 2017

Mi chiamo Alberto Santin, figlio di Guerrino Santin Tesser e di Irene Bocus Frith; i miei cugini sono Mario Santin, Marco Bocus le sue sorelle di Budoia ecc. Grazie a voi per il periodico che ricevo con molto piacere. L’Artugna è magnifica, non cambiate niente! Grazie Alberto, fa sempre piacere ricevere complimenti, specialmente quelli di coloro che, come te, sono lontani dal loro paese di origine. Ce la metteremo tutta perché l’Artugna rimanga sempre «magnifica».

Per l’Artugna che ricevo sempre volentieri. FERDINANDO BRUSSATO – SARONNO Munsingen (Svizzera), 27 novembre 2017

Per l’Artugna che continuiamo a leggere volentieri. FRANCA BARATELLA – TORINO

Orgogliosi del traguardo raggiunto dalla nostra nipote Lucia Marcandella. TRANQUILLA E REDENTO CARLON – BUDOIA

bilancio Situazione economica del periodico l’Artugna Periodico n. 141

entrate

Costo per la realizzazione

uscite 4.200,00

Spedizioni e varie

270,00

Entrate dal 16.07.2017 al 12.12.2017

3.634,00

Contributo annuale Amm. Comunale

500,00

Totale

4.134,00 46

4.470,00

Carissima Redazione, rinnovo il mio abbonamento e quello di mia sorella Angelina a l’Artugna che riceviamo con molto piacere. Io leggo con piacere anche il Budoiese, lo leggo e rileggo fino a quando l’ho capito tutto e con il pensiero sono lì tra voi. Bellissime storie dei tempi passati. Bravi! Ricevete i miei migliori auguri di Buon Natale e Buon Anno unitamente ad Angelina che vi saluta tanto. CARLA DEL MASCHIO

Cara Carla, ringraziamo te e Angelina per essere sempre vicine al nostro periodico, vi salutiamo cordialmente e vi auguriamo liete Feste.


programma religioso

o ag rd a D

Buon Natale e felice 2018

cia Lu a nt Sa

SABATO 23 DICEMBRE 2017 • Santa Messa prefestiva

18.00

DOMENICA 24 DICEMBRE 2017 • Santa Messa domenicale • Santa Messa in nocte

– 24.00

11.00 22.00

10.00 22.00

LUNEDÌ 25 DICEMBRE 2017 SANTO NATALE • Santa Messa solenne

11.00

11.00

10.00

MARTEDÌ 26 DICEMBRE 2017 SANTO STEFANO • Santa Messa • Concerto del Collis Chorus

11.00 17.00

11.00

10.00

SABATO 30 DICEMBRE 2017 • Santa Messa prefestiva • Concerto dell’Ottetto Hermann

18.00 21.00

DOMENICA 31 DICEMBRE 2017 • Santa Messa e canto del Te Deum

11.00

18.00

10.00

18.00

11.00

10.00

18.00 18.00

– 17.00

– 17.00

LUNEDÌ 1° GENNAIO 2018 SANTA MADRE DI DIO GIORNATA MONDIALE DELLA PACE • Santa Messa solenne e canto del Veni Creator

Auguri

ia do u B

VENERDÌ 5 GENNAIO 2018 VIGILIA DELL’EPIFANIA • Santa Messa prefestiva Benedizione acqua, sale e frutta

Nelle rispettive comunità la tradizionale accensione del panevin. SABATO 6 GENNAIO 2018 EPIFANIA DEL SIGNORE • Santa Messa solenne • Benedizione dei bambini • Concerto del Gruppo Elastico

11.00 –

11.00 15.00

10.00 – 17.00

CONFESSIONI

Dardago Budoia Santa Lucia

domenica 24 domenica 24 domenica 24

dalle 15.00 alle 16.30 dalle 16.30 alle 18.00 dalle 18.00 alle 19.00


COLORI ❖ L’uomo s’immerge nella contemplazione. L’anima colpita dai colori resta estasiata da tanta bellezza e spiritualità che esce da quella grotta. L’azzurro carico color del cielo e della Donna che porta al mondo la bellezza e la pace di un universo che riscopre il suo valore. Il verde intenso della grotta emana senso di equilibrio, compassione e armonia. Trasmette amore per tutto ciò che riguarda il regno naturale favorendo il giusto contatto con le leggi della natura e con il rispetto delle tradizioni. Oltre ad avere un effetto calmante, questo colore infonde senso di giustizia e grandezza d’animo. Conferisce, inoltre, tenacia e perseveranza nel seguire i propri progetti. La luce chiara che emana da Maria, segno della felicità, della gioia. Le acque fresche che entrando a cascata ti inondano soddisfacendo la tua sete di infinito, come un nuovo mistico battesimo, lavacro di una colpa sempre risorgente. Un bambino che porta gioia. Chi non si commuove vedendo un piccolo neonato. Riscopre la purezza di un infanzia lontana, perduta, e continua a ripeterti: «Coraggio, non temere, sono qui, sono qui per te, leva il tuo sguardo, accoglimi. Non rimarrai prigioniero delle tue tenebre, ma io ti rialzerò e ti farò volare con ali di aquila…». DON MAURIZIO BUSETTI

❖ La Madhoneta de i Agarói foto di Paolo Burigana


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