Cent'anni della Grande Guerra (9)

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Il centro di Santa Lucia nel 1918, durante l’occupazione nemica. Cartolina d’epoca (Archivio storico Giovanni Bufalo).

L’A N N O D E L L’ I N VA S I O N E

1917-1918, l’occupazione nemica

[CONTINUAZIONE]

La truppa nemica non depredava solo le botteghe ma devastava le abitazioni, bruciava gli infissi di legno per scaldarsi, depredava quel poco di valore che la gente conservava amorevolmente; affamata, svaligiava le dispense e sottraeva gli animali domestici dalle stalle e dai cortili, si ubriacava e molestava le donne (cfr. testimonianza di Marianna Carlon, p. 39). Il comando militare, invece, requisiva oggetti di rame e di bronzo, cosicché divennero preziosi secchi e campane che la popolazione, convinta di poterli custodire, cercava di nascondere in posti insoliti, escogitando persino di sotterrarli. A Budoia, è ancora nel ricordo di alcune nipoti che il loro nonno sotterrò dei bei secchi ottocenteschi di rame nell’orto, credendolo un nascondiglio sicuro, ma a fine conflitto l’uomo li cercò a lungo inutilmente. Durante l’operazione qualcuno lo aveva spiato. Fu il nemico o qualche vicino di casa? Rimase il dubbio. Un ordine emanato il 23 gennaio dal Feldmaresciallo Boroevic von Bojna, prevedeva la requisizione delle campane. Il curato di Budoia, don Giovanni Manfè, così annotava come pro memoria: Il giorno 26 (ventisei) Gennaio 1918 (millenoventodiciotto) durante l’invasione Austro-Tedesca-Bulgara-Turca, per ordine del Comando Militare Germanico furono portate via due nostre campane, la mezzana con l’iscrizione «Fonderia Fratelli De Poli Ceneda anno 1868» e con l’effigie della Madonna; la piccola con la scritta «A fulgure et tempestate, libera 9°

nos, Domine» con l’effigie del Cristo. Anno 1868. Lo stesso giorno, anche a Dardago, come ricorda don Romano nel suo diario, iniziarono i lavori per levare le due campane inferiori. Si requisivano le chiese anche per la celebrazione di riti non cattolici. Successe a Budoia. Così registrava sempre don Manfè: Il giorno 4 (quattro) del Febbraio 1918 (millenovecentodiciotto) un pastore protestante tenne adunanza con relative cerimonie nella nostra Chiesa. La sera stessa la Chiesa fu riconciliata da Don Romano. Il pievano annotava che nei primi giorni di febbraio i soldati bosniaci sostituirono gli austriaci e rimasero in paese fino ai primi di aprile. Nei tre mesi di permanenza un sacerdote bosniaco, cattolico, celebrava e predicava per i soldati. Il primo febbraio, venerdì, don Romano scrisse: «Questa mattina passaggio di S.M. l’Imperator d’Austria Carlo I per Budoia». Il giovane Carlo d’Asburgo, divenne imperatore, nel bel mezzo della guerra, alla morte del vecchio Francesco Giuseppe. Durante il conflitto fece molte visite alle truppe al fronte ed, evidentemente, dirigendosi verso il Piave (o al ritorno), passò per i nostri paesi. «Il 17 gennaio 1918. Il rombo del cannone pare voglia far crollare le case. Passano di continuo aeroplani nemici e truppe tedesche» – annotava nel suo diario la maestra Caterina Nordari, insegnante nella scuola di San Giovanni di Polcenigo, nel «Corriere delle Maestre» dell’anno 1919. «Si è spettatori ogni giorno di scene che contristano e che accen-

la cronologia 1917 Inverno 1917-1918 La sconfitta di Caporetto portò alla sostituzione del generale Luigi Cadorna (che cercò di nascondere i suoi gravi errori tattici imputando le responsabilità alla presunta viltà di alcuni reparti) con Armando Diaz, nel comando supremo dell’esercito italiano. Le unità italiane si riorganizzarono abbastanza velocemente e fermarono le truppe austro-ungariche e tedesche nella successiva prima battaglia del Piave, riuscendo a difendere a oltranza la nuova linea difensiva su cui aveva fatto ripiegare Cadorna. 14 gennaio A Trieste scoppia un clamoroso sciopero negli stabilimenti industriali che si estende anche all’arsenale di Pola. Il 1° febbraio, a Cattaro si verifica una sommossa: la bandiera rossa sventola a fianco di quella dell’Impero. L’ordine viene ristabilito in pochi giorni. 10 febbraio Nella notte tre Mas entrano nella baia di Buccari: uno dei due siluri lanciati esplode. D’Annunzio si trovava in uno dei Mas e prima di allontanarsi getta a mare tre bottiglie con messaggi di scherno per la flotta nemica. Il gesto passa alla storia come la «beffa di Buccari». 3 marzo L’offensiva tedesca ottiene scarsi successi in Francia e in Italia. Sulla Marna le truppe tedesche usano un potente cannone, la Bertha, capace di colpire a 120 km di distanza.

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i nostri eroi

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dono l’animo di un odio implacabile contro i barbari invasori». A tale proposito, don Romano annotava «notte insolentissima da parte del personale di cucina» e qualche giorno dopo, «notte infernale in canonica». Altre testimonianze le troviamo nel registro dei morti. Il 18 dicembre «se ne volò oggi alle regioni celesti» il piccolo Mario, di un paio di mesi, figlio di una ragazza dardaghese e di padre bosniaco. La ragazza era morta in ottobre poco dopo aver dato alla luce Mario. La guerra è anche questo! Continuava, intanto, l’esodo dei profughi friulani, che, come quello dell’Alta Valle del Piave, appariva

È arruolato nel 8° Regg. Alpini (cfr. Basilio Burigana) Anche Antonio muore per malattia, in prigionia, il 16 febbraio 1918.

chiaramente caratterizzato dalla volontarietà; «non è un esodo di massa ma di classe: i contadini rimangono a custodire le loro abitazioni, fatta eccezione per la montagna che ha minori mezzi di sussistenza e più consuetudine con l’emigrazione: Naturalmente nella distribuzione geografica della «profuganza» friulana ha la sua importanza l’essersi gli abitanti trovati più o meno rapidamente e strettamente in contatto con l’invasore. L’esodo friulano ha spezzato l’unità famigliare per circa un quinto della popolazione, ha rallentato la procreazione, ha aggiunto nuovi lutti a quelli provocati dalla guerra, specie nei vecchi e nei bambini».

Nel 1917 fu costituto il battaglione Monte Nero. Nel corso del conflitto il Reggimento perse 145 ufficiali e 5987 alpini. Furono feriti 294 ufficiali e 8099 alpini. Basilio muore per malattia in prigionia, l’8 gennaio 1918.

Giuseppe Angelin di Angelo e Anna Panizzut nasce il 10 ottobre 1897. *** Non si conosce il Reggimento di appartenenza. Muore il 1° febbraio 1918 a 21 anni, in casa.

Antonio Steffinlongo di Romano e di (?) nasce il 30 settembre 1897; di professione muratore.

Basilio Burigana

Don Umberto Fort Fut

di Giovanni Maria e di Cristina Bocus nasce il 28 ottobre 1882, in Budoia in via Cardazzo. Sposa Luigia Burigana, che rimase vedova fino alla sua morte nel 1963. *** È arruolato nell’8° Regg. Alpini, formato dai battaglioni Arvenis, Canin, Matajur, Tagliamento, Fella, Natisone e Gemona. Durante il conflitto il reggimento fu impegnato inizialmente sul fronte della Carnia, dal Passo Monte Croce Carnico al gruppo del Montasio e del Trentino; in seguito alla rotta di Caporetto i battaglioni furono spostati nella zona del Monte Grappa, Col Caprile, Busa Alta, Monte Solarolo e Passo Tonale.

primogenito di Agostino e di Rosa Busetti nasce il 13 gennaio 1885.

Vincenzo Rizzo di Pietro e di (?) nasce il 6 giugno 1895. *** È arruolato nel 2° Regg. Artiglieria Pesante campale «Vicenza». Il «Vicenza» era un reggimento di artiglieria terreste di tradizioni alpine. Durante la guerra fu impegnato in particolar modo sull’Adamello, sul Carso e lungo il Piave. Vincenzo muore per le ferite riportate in combattimento, sul campo, l’8 marzo 1918.

*** Diviene cappellano militare a Verona, dove muore il 6 gennaio 1918, a causa della salute già cagionevole. (cfr. l’Artugna n. 100, p. 23 e n. 135, p. 20).


Domenica 12 aprile 2015 ho percorso il Sentiero della Battaglia di Pradis (Pielungo, Forno, Cuel d’Orton, Pradis) per rivivere, a distanza di tempo, le vicende del 5-6 novembre 1917 descritte dal ten. col. Sebastiano Murari, in quei giorni capo di Stato Maggiore del generale Francesco Rocca della 63a divisione di fanteria in ritirata (non in fuga) verso il Piave e il Grappa assieme alla 36a divisione.

Pradis, selletta di Val da Ros (foto dell’autore).

Dal sentiero della battaglia di Pradis a Santa Lucia di Budoia PREMESSA Dopo lo sfondamento delle truppe austro-germaniche a Cornino e a Pinzano, l’ordine di ripiegamento verso il Piave e il Grappa giunse tardi e mentre s’iniziava la manovra, le truppe austro-germaniche erano già a Meduno (20 km più a ovest di Pinzano), di fatto insaccando le Divisioni Carniche in questo aspro territorio. Già il 7 novembre 1917 il nemico superava inoltre la resistenza delle retroguardie italiane sulla linea della Livenza a Polcenigo. Purtroppo non riuscirono a salvarsi né la 36a divisione del Gruppo Carnico né la 63a divisione che era corsa in aiuto da Varmo, Rivignano e Santa Maria La Longa, ma rimasero accerchiate mentre scendevano al piano dalle truppe della 55a divisione austro-ungarica e da quelle del Gruppo Krauss e Gruppo Stein. La sorte di queste due divisioni fu triste. Concentratesi nella conca di San Francesco in Val d’Arzino, tentarono, suddivise in colonne, di raggiungere la Livenza per Travesio-Maniago e il Grappa per Tramonti-Claut-Longarone. La colonna più forte, il mattino del 5 novembre, puntò su Clauzetto; un’altra colonna su Tramonti, una retroguardia rimase a Pielungo. Furono due giorni di strenue battaglie e scontri, tra

Pielungo, Forno e sul costone di Pradis che sovrasta l’attuale Cimitero di Guerra di Val da Ros, con i tedeschi del Garde Reserve Jäger Battaillon della Deutsche Jäger Division, dotata di notevole volume di fuoco e addestrata alla guerra in montagna, che si era portata tra il Monte Pala, le alture di Pradis e Campone. Questa manovra annientò la maggior parte dell’avanguardia delle Divisioni Carniche costringendo il rimanente a cercare una via di fuga verso Tramonti, una via già sbarrata dalle truppe della 10a Armata austro-ungarica scese dal fianco del Monte Rest. Quasi completamente accerchiate, le due divisioni furono praticamente fatte prigioniere totalmente. Gli ultimi superstiti italiani, un gruppo ridotto a circa 250 soldati guidati dal generale Rocca, vennero catturati il 9 novembre 1917 nel combattimento di Selis, in Alta Val Meduna. Solo il comandante e pochi sottoposti riuscirono a disperdersi nelle Prealpi, allo scopo di rientrare entro le linee italiane del Piave. L’impresa non riuscì: tra gli ultimi a cadere in mano austriaca furono il generale Rocca (arrestato il 18 dicembre 1917 presso Cesarolo, dopo San Michele al Tagliamento) e il ten. col. Sebastiano Murari (fatto prigioniero verso Nervesa il 14 dicembre 1917).

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Pradis. Cimitero di guerra (foto dell’autore).

SENTIERO DELLA BATTAGLIA DI PRADIS Lungo il Sentiero della battaglia di Pradis sono disposte numerose indicazioni storiche che descrivono quanto avvenuto nelle giornate del 5 e 6 novembre 1917. In particolare su due indicazioni storiche (una con titolo «Valle di Rio di Molin» ed un’altra con titolo «Val da Ros» – Settore est della prima linea), ho visto riportate anche parte delle pagine tratte dal libro «Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche», scritto nel 1935 a Verona dallo stesso Sebastiano Murari, ormai diventato generale. Tornato a Santa Lucia di Budoia, ho recuperato da una nipote di Lucia Fort (anche lei di nome Lucia e di buoni 94 anni) il libro sopraccitato di cui riporto alcuni estremi. Nella prima pagina è incollato un foglio con l’intestazione: Divisione di Fanteria del Pasubio (Verona) il Comandante e di seguito questo testo dattiloscritto: «L’autore narra a pag. 334-337 di questo volume il suo passaggio da S. Lucia di Budoia il 12-13 dicembre 1917 e la bella ospitalità della Signora Lucia Fort.» Nella terza pagina vi è questa dedica autografa: «Alla Signora Lucia Fort in ricordo della Santa Lucia del ’19» Gen. Sebastiano Murari, Verona, 5 luglio 1935 – XIII Ho l’occasione di far riportare su l’Artugna Periodico della Comunità di Dardago, Budoia e Santa Lucia, questo episodio, a ricordo della Signora Lucia Fort e di quanto successe nel 1917 dopo Caporetto.

«Quel giorno, era il 12 dicembre 1917, (il ten. col. Sebastiano Murari) non camminò molto. La notte era stata dura, e poi non voleva cadere prigioniero in quel primo addentrarsi in una zona fittamente abitata; bisognava dunque ridurre al minimo tutti i rischi. Dopo circa quattro ore di peregrinazioni attraverso ai campi, allo scopo di evitare tutte le piste battute, giunse sul limitare di Santa Lucia di Budoia. Incontrò una brava donna (si chiamava Santa Fort), attaccò conversazione, ed essa gli offerse ospitalità presso la propria madre. Entrò in casa di Lucia Fort, cuore aperto, mente avveduta, testa solida, che ispirava subito fiducia. In breve il colonnello rivelò l’essere suo ed anche il suo nome, sicuro che in casa di nonna Lucia nessuno mai lo avrebbe tradito, neppure per sbaglio. Ed aveva ragione. Gli esercizi di fantasia finivano col divenire faticosi, mentre vi era bisogno di attenuare la tensione continua, che da tanti giorni rovinava i raminghi.1 L’ospitalità di Lucia Fort è fra quelle che non si dimenticano. In casa teneva con sé la figlia Santa e due nipotini. Il genero era vigile del fuoco a Venezia. Nei giorni della ritirata la moglie e i figlioletti erano stati tagliati fuori, e fin dopo Vittorio Veneto non li avrebbe più visti. Il colonnello raccolse l’indirizzo del vigile, e qualche mese dopo, dal fondo delle Ongarie basse, riuscì per mezzo della propria moglie a far pervenire a Venezia delle notizie. La giornata passò nella più grande tranquillità, ravvivata di continuo dallo spirito vivace e inesauribile di nonna Lucia, che pensava a tutto, prevedeva e provvedeva a tutto, come se non si addensassero preoccupazioni così gravi per l’indomani. Provvide anche una buona cenetta. Stava per calare la sera quando a un tratto chiamò verso la finestra il colonnello. Passavano dei prussiani con l’elmo a chiodo; saranno stati probabilmente dei topi di retrovia, poiché i combattenti germanici già da tempo non portavano più quel caratteristico copricapo di cuoio bollito. Il colonnello ebbe un brusco risveglio. Proprio a Santa Lucia, diciotto anni prima, colma l’anima di giovinezza, di fede, di spensierata sicurezza, aveva compiuto il suo primo campo, quando era volontario d’un anno nel 2° squadrone di Nizza Cavalleria; ed ora dopo aver ottenuto dalla vita di soldato quasi tutto quello che essa era capace di dare in diciotto anni, era ridotto alla sorte di un fuorilegge, di un misero cane randagio, costretto a nascondersi per non essere facile preda di un mondo tutto nemico. A notte Lucia Fort si affaccendava ancora per preparare le sorprese che voleva fare ai nipotini il mattino di poi, nel giorno festoso di Santa Lucia.


NOTE

Su e jù par Marciavieri La gnot di sante Lùzie ce sunsûr di fruz, ce confusion! La gnot di sante Lùzie il ramingo vegliava con gli occhi sbarrati nel vuoto. Riandava le gioie e i dolori del passato, i successi e gli errori, riandava tutti i mesi passati sul Carso e li confrontava con l’ora presente e con le previsioni nere per la sorte, che lo aspettava l’indomani. Avrebbe passato il Piave? O era destinato a non raggiungerlo, e ad essere prima ingoiato dal gorgo oscuro della prigionia di guerra? E poi? E i lontani? Non sarebbe stato meglio fare di Selis2 una seconda Dogali,3 anziché andare cercando nella montagna quello che la montagna non aveva potuto dare? I fantasmi del passato un po’ alla volta si dileguarono, e sopraggiunse finalmente un sonno ristoratore. Si alzò riposato. Abbracciò nonna Lucia e si rimise in cammino, dopo averle fatto un mondo di auguri per il suo onomastico. Santa gli offrì del pane, messo in serbo per i figlioletti; egli lo rifiutò, benché non ne avesse più veduto da oltre un mese, e partì. Fra le molte chiacchiere, che erano fatte il giorno prima, egli aveva udito che il comandante austriaco di Polcenigo era odiatissimo. Bisognava dunque evitare Polcenigo, evitare i passaggi obbligati e continuare per la campagna. Salì sulla collina di Santa Lucia, ove montavano la guardia alcuni cipressi, fedeli amici di un tempo migliore, e di lassù stava ancora studiando come valicare la Livenza senza passare sui ponti, quando Santa, la figlia di nonna Lucia, sopraggiunse di corsa per fargli accettare il pane destinato ai suoi figlioli. Lo accettò perché sentì con quale cuore era offerto. Si ha un bell’essere degli uomini maturi, glaciali di fronte alle emozioni; non si rimane insensibili davanti a un atto semplice, generoso, dirò di più, fraterno, e fraterno verso uno sconosciuto. Ancora bambino gli avevano insegnato che il pane è sacro: mai egli lo sentì così sacro come in quell’istante. Non era più un pezzo di pane, era tutta l’anima delle campagne del Friuli, nobile, paziente, generosa, sconosciuta. Dalla collina dei cipressetti di nonna Lucia, i due girovaghi (vedi nota 1) si diressero al Gorgazzo... » Il ten. col. Murari tornò a Santa Lucia nel 1919 (vedi la dedica autografa del suo libro) e a Pradis nel 1920, con il gen. Rocca, per l’inaugurazione del Cimitero di Guerra. Il gen. Murari è tornato a Santa Lucia anche nel 1939 per i funerali di Lucia Busetti in Fort. È venuto con un picchetto di soldati, che hanno presentato le armi alla defunta per rendere ossequio alla bontà e al cuore aperto di Lucia Busetti in Fort.

1. i raminghi… i due girovaghi… sono il tenente colonnello Sebastiano Murari e «un soldato dell’80° fanteria, Ballesio Giovanni, ordinanza d’ufficio presso il comando di divisione, e che aveva negli ultimi giorni disimpegnato le funzioni di attendente del capo di Stato Maggiore, dopo che il vero attendente era rimasto staccato il 27 ottobre …». Entrambi furono fatti prigionieri verso Nervesa la sera del 14 dicembre 1917. «Mancavano venti minuti alle 6 di sera». [Pag. 274 del libro di S. Murari Un episodio di guerra nelle Prealpi Carniche, Casa Editrice A. Mondadori, Milano 1935]. 2. accerchiamento di Selis… «Le possibili vie da seguire erano due sole, quella che discende la valle del Meduna e quella che risale il Canal Grande, poiché la terza, quella di Canal Piccolo, che sale alla Caserata, era sbarrata dal nemico. Non vi era in quel mattino alcuna guida, né civile né militare. Per Canal Grande si era diretto il generale Rocca; la via che discende il corso del Meduna era stata presa subito dopo dai tre colonnelli della 36a divisione, che erano con noi; non rimaneva alcuna via da seguire la quale non fosse già percorsa da altri. In quel momento gli austriaci scendevano di corsa da Casera Selis gridando e sparando come in una fantasia araba». [Pag. 273-274 idem c.s.]. 3. una seconda Dogali… La battaglia di Dogali fu combattuta il 26 gennaio 1887 tra le truppe della colonna del ten. col. De Cristoforis e le forze abissine di Ras Alula, durante la prima fase della espansione italiana in Eritrea. La colonna italiana di 548 soldati fu completamente travolta: i morti furono 430.

PROFUGHI DARDAGHESI IN LOMBARDIA Durante l’occupazione numerosi furono gli uomini e i giovani che lasciarono i loro paesi. Molti furono accolti in Lombardia. Nella foto, scattata nei pressi di Brescia, si riconoscono molti dardaghesi della famiglia Zambon Pinal. In piedi, da sinistra: Fiorenzo (1901) (figlio di Giuseppe) e Eugenio (1901) (figlio di Beniamino); seduti da sinistra: Raimondo (1882), Giuseppe (1874), Giovanni, Luigi e Beniamino (1872).

GIANCARLO SCHIMD

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testimonianze

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Dalle testimonianze di Romolo Cipriano Angelin (classe 1893), registrate nel 1969

Quasi sei anni dedicati alla Patria

Roma, 20 febbraio 1914. Cipriano Angelin, in alta uniforme con elmo e guanti bianchi, durante il servizio militare (foto 1).

MAGDA E VITTORINA CARLON

Nostro nonno, persona mite, generosa, paziente..., non parlava di guerra, di morte, ma se costretto lo faceva con sofferenza, con prolungate pause e con il nodo in gola per la commozione. In noi ha lasciato il seme della coscienza di poter raccontare.

Nel ‘foglio di congedo illimitato’ si legge «Durante il tempo passato alle armi il caporale maggiore Romolo Cipriano Angelin ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà ed onore». IL SERVIZIO MILITARE Era il 20 settembre 1913 quando partii per il servizio militare, assegnato al corpo di Cavalleria (2°) Piemonte Reale, assieme ad altri sessanta coscritti del distretto di Sacile. Destinazione: Roma. Dopo la tappa a Firenze per la consumazione del rancio, l’arrivo nella capitale e la sistemazione nella caserma Macao avvennero intorno alle 10.00, accolti dalla musica e dal discorso del colonnello Annibale Gatti, che esordì con tono imponente: «Voi che venite dai confini della Patria…»,

esortandoci ad assumere un comportamento responsabile e imponendoci il rispetto di una rigida morale. Dopo due giorni, stabiliti gli squadroni, fui assegnato al 3° (ogni squadrone è composto di 150 soldati); rimasi nella caserma «Macao» per due mesi e poi fui destinato a quella ‘Ai Parioli’, appena costruita. In quel periodo erano molti i palazzi in costruzione a Roma. Ci furono le prime istruzioni con il cavallo di legno in palestra e relativa ginnastica. Mi fu assegnato un cavallo di nome Quebek, che soprannominai ‘il terribile’, perché era molto inquieto e dovetti faticare per addestrarlo. Si passava poi al maneggio, che alla caserma «Macao» era al coperto, mentre «Ai Parioli» veniva eseguito all’aperto. Le esercitazioni si susseguivano con ritmo veloce, della durata di alcuni giorni: dal ‘passo’ al ‘cambiamento in diagonale’, al ‘trotto con la frusta’, alla ‘corsa ad ostacoli’ …

L’addestramento dei cavalieri era superiore a quello di altri corpi dell’esercito italiano.

Il mattino, sveglia, si beveva il caffè e si entrava in stalla con zoccoli e berrettino (la divisa adatta alla scuderia) per la foraggiata e la biada ai cavalli. Quando si saliva a cavallo, c’era un’altra divisa: in estate di tela di cotone, in inverno di panno color grigio-verde. Dopo due mesi, s’iniziava a ‘montare la guardia’ e lo feci anche a Palazzo Reale in alta uniforme, con elmo e lancia. Nel 1914, ricevetti l’incarico di vegliare la salma del pontefice Pio X (Giuseppe Sarto, morto il 20 agosto), esposta nella Basilica di San Pietro, (come appare nella foto 1 in alta uniforme) e fui scelto, insieme a altri ventiquattro soldati, per sfilare durante una cerimonia, alla presenza del re. Durante questa manifestazione ci si doveva impegnare in esercizi bellici di alta abilità, ad esempio si dovevano colpire delle sagome, estraendo velocemente la lancia,


durante il galoppo. Ricordo che qualcuno cadde. Alcune volte si usciva dalla caserma per esercitazioni sia a Terni che a Orvieto e si eseguivano delle marce con i tenenti ed altri superiori tra cui il principe Ruspoli. Nelle ore libere si visitava Roma e non mancava d’incontrare dei compaesani che lavoravano nella capitale e con loro si trascorreva qualche ora di libertà. Durante un’esercitazione di tattica da Roma a Monterotondo, il 16 Maggio 1914, riportai una ferita alla testa ed una contusione ai muscoli lombari, in seguito a una caduta da cavallo. Nel frattempo mi fu assegnato un nuovo cavallo, Tom, dal carattere mite, che rimarrà fedele al mio fianco fino al 1919. Trascorsi il periodo della «naia» in questo modo fino allo scoppio della prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915. LA GUERRA Insieme con i nostri cavalli, partimmo da Roma con la tradotta il giorno dopo, il 25 maggio 1915, per destinazione ignota. Giungemmo a Desenzano del Garda e poi a Ponte sul Mincio e in altri paesi limitrofi e lì rimanemmo per oltre quattro mesi in attesa degli eventi, mentre gli austriaci erano posti al di là del lago. Ripartimmo a cavallo verso Verona e da lì il treno ci condusse a Casarsa della Delizia. Dopo aver visto in lontananza le montagne a me familiari, con tanta nostalgia nel cuore giunsi a Saciletto, in Comune di Ruda, vicino a Cervignano del Friuli e lì cercammo un ricovero per i nostri cavalli. Si sen-

tivano gli aerei austriaci che bombardavano; i superiori ci incitavano a sparare, ma era impossibile mirarli e riuscire ad abbatterli. Era fine giugno-inizio agosto del 1915: prima e seconda battaglia dell’Isonzo.

Rimanemmo un bel po’ a Saciletto, dove c’era il tribunale militare, in cui operava un avvocato, il tenente Venier, che cercava di alleviare le condanne. In quei giorni furono condannati tanti militari; ci obbligavano ad assistere alla fucilazione per imparare a non sgarrare. Ogni reggimento doveva partecipare con cinque uomini. Per fortuna che non fui scelto, perché non avrei retto a tale scempio. I tribunali militari controllavano i giudici, perché non fossero troppo indulgenti e moderati nel condannare e nell’infliggere le pene. C’erano soldati che erano fucilati anche senza regolare processo e reparti sottoposti al rito crudele della decimazione, allo scopo di dare un terribile esempio e di seminare il terrore. Gli ufficiali spingevano a forza i soldati a uscire dalla trincea e addirittura venivano ‘passati per le armi’ quelli che indugiavano o si nascondevano al momento di affrontare il nemico.

Noi facevamo il servizio di raccolta e di scorta dei prigionieri nelle retrovie. L’arma della cavalleria era anche usata con compiti di polizia militare e di ordine pubblico lontano dal fronte. Ebbe un ruolo rilevante durante l’avanzata iniziale, nel Basso Isonzo.

Rimasi nella zona dell’Isonzo e partecipai alla quarta (10 novembre-2 dicembre 1915) e alla quinta battaglia (11-15 marzo 1916). Il 29 giugno 1916, vi fu una grande battaglia in cui gli austriaci usarono i gas asfissianti contro di noi; si cominciarono a vedere camion pieni di morti, anneriti. Da inorridire! Dal 6 al 17 agosto si scatenò la sesta battaglia dell’Isonzo con la conseguente presa di Gorizia.

Giungemmo a Lucinico, da qui dovevamo attraversare l’Isonzo, ma i ponti erano distrutti e rimanemmo lì l’intera notte con le redini dei cavalli in mano.

Turriaco, 10 aprile 1917. Con il suo inseparabile cavallo Tom.

Un giorno, mi sentii chiamare per nome: era Piero Zambon Petenela, fante. Fui contento d’averlo incontrato e di aver ‘respirato aria di paese’. Da Saciletto ci spostarono a Campolongo, Aiello, Ruda, paesi lungo l’Isonzo. Iniziarono le battaglie da Gorizia a Montesanto, a Redipuglia…: era iniziata la terza Battaglia dell’Isonzo, che durò dal 18 ottobre al 4 novembre del 1915 e portò a piccoli guadagni territoriali italiani. 70 > 71


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Prima dell’alba giunse il comando di metterci a cavallo; ci incolonnammo e arrivammo verso il ponte distrutto, mentre gli austroungarici bombardavano, lasciavano cadere granate, perché erano posti sul Monte San Michele, perciò in alto rispetto a noi. Fu deciso l’attraversamento dell’Isonzo. Un attendente e il suo cavallo caddero nel fiume; il soldato riuscì a salvarsi, mentre il cavallo fu trascinato dalla corrente. Si vedevano i primi morti lungo le strade. Pascucci di Roma mi disse: «Ah, Angelin, dove siamo! Dove ci hanno mandato!» Erano i primi morti che vedevamo nel campo di battaglia; dopo ne vidi tanti e tanti altri ma ogni volta per me era come fosse la prima volta: non mi potevo abituare a quel tremendo flagello. Mentre la fanteria era disposta alla periferia di Gorizia, al centro città non era ancora arrivato alcun reparto, e il nostro colonnello invitò tutti gli squadroni a ispezionare la città. Quattro di noi con un sergente andammo avanti; con noi c’erano anche i cavalleggeri, gli arcieri e tutta la truppa a cavallo, così circondammo l’intera città. Noi eravamo destinati a raggiungere Piazza Grande, al centro di Gorizia, mentre il nemico continuava a sparare, ma nessuno di noi fu ferito. Fermi, piedi a terra e mentre due tenevano i cavalli, gli altri due entrarono in una struttura: tutto appariva calmo. Risalimmo a cavallo e il nostro compito era concluso; al ritorno riferimmo ciò che avevamo visto. Così tutte le cavallerie poterono avanzare. [CONTINUA]

«LE MEMORIE» DI

Antonio Parmesan Il primo gennaio 1918. Non potrei descriverlo con quanto dolore io lo passai vedendomi in tante misere condizioni, mi trovo prigioniero privo di notizie dalla mia famiglia che deve trovarsi invasa dal barbaro nemico, e mi trovo senza speranza di avere qualche aiuto e qualche conforto, cerco però di farmi coraggio perché vedo che molti e molti altri si trovano alle mie stesse condizioni. In questa infermeria passai 17 giorni; intanto guarisco la ferita alla mano e anche il congelamento ai piedi, però ho avuto la fortuna di guarire senza bisogno di medico e di medicine, perché qui non vedo né l’uno né l’altro; altri miei compagni con ferite più gravi si trovano in brutte condizioni e soffrono assai. Cercai delle cartoline per scrivere ai miei cari […] Il 17 con altri prigionieri italiani si parte da questa infermeria e dopo ore e ore di treno arriviamo nel campo di concentramento di Heinrischogrin (Bosnia), qui trovo migliaia di prigionieri italiani, russi e serbi, però tutti divisi: i serbi si trovano vicini a noi italiani e i russi in un posto riservato da soli. Io vengo assegnato alla baracca n° 6 gruppo A, porto il n° di prigioniero HI 33357. Entrando in baracca trovo molti e molti compagni del mio Reggimento e anche della mia stessa Compagnia, in loro vedo già i lineamenti della fame, della miseria e della disperazione. Nella baracca non si sta tanto male perché giorno e notte abbiamo le stufe che riscaldano; si dorme sopra un pavimento di legno però teniamo molte coperte. Il campo di concentramento si trova in una montagna circondato da un’alta rete metallica e fuori di questa si trovano molte sentinelle armate di fucile e baionette che sorvegliano per paura che qualcuno cerchi di fuggire. Tutti scrivono alle proprie famiglie, pregandole di spedire pacchi con del pane e altri cibi io però non potrei sperare nessun pacco dalla mia famiglia perché essa si trova nei paesi invasi e forse loro pure soffriranno per la fame. Il 25, il mio comandante di baracca mi propone come suo portaordini e io accetto volentieri perché forse troverò il modo di migliorare le mie misere condizioni, […]. Intanto i giorni passano e la fame aumenta, cominciano a mancare le forze e già qualcuno muore senza male ma dalla fame.

Il giorno 8 febbraio con tutti gli altri interpreti andiamo dal colonnello austriaco per fare un esame perché poi deve essere la scelta di chi meglio sa parlare il tedesco; io pure vengo accettato e spero di trovare qualche occupazione per potermi sfamare. Due giorni dopo mentre mi trovo in baracca, fra i miei compagni vedo entrare un caporale austriaco e con modo assai brusco chiama il mio nome e il mio numero di prigioniero, mi presento e questo mi dice che per ordine superiore fui destinato ad andare tutte le mattine al prelevamento del carbone per le cucine e per le stufe di tutto il nostro gruppo. Essendo però interprete io non lavoro, ma devo occuparmi per avere 25 uomini e tutti i giorni andare nei grandi depositi con 5 vagonetti e poi devo sorvegliare la distribuzione del carbone alle baracche e alla cucina, il mio lavoro non è faticoso ma molto noioso e molto doloroso; con fatica posso avere i 25 uomini occorrenti per tale lavoro, perché tutti si trovano in condizioni di non poter reggersi in piedi. Passai quattro giorni con questo lavoro e non mi si vede nessun ricompenso anzi non ho neppure il permesso di andare in cucina a prendermi il rancio, come andavano tutti coloro che avevano una occupazione. […] Finalmente ricevo anch’io un biglietto per presentarmi in cucina, questo mi permette di non morire di fame come muoiono molti e molti miei poveri compagni. […]. Continuo questo lavoro fino al 16 marzo e poi entro in cucina e devo fare un lavoro molto noioso: sono piantone alla porta, devo sorvegliare che nessuno entri senza autorizzazione. Molti poveri sventurati sembrano tanti lupi affamati, gridano, urlano e cercano di entrare per sfamarsi. Nel vederli mi vengono le lacrime e assai volentieri li lascerei entrare, ma non si può altrimenti sarei scacciato dal mio servizio, sarei condannato e poi io pure sarò alle loro misere condizioni. Tutti i giorni ne muoiono in gran quantità e morire affamati è una morte che nulla si soffre, si muore lentamente senza accorgersi, molti vengono portati nell’infermeria, ma non ci sono medici né medicine. Alla sera finito il mio lavoro giornaliero, ritorno in baracca e trovo che tutti sono distesi sui loro pagliericci, deboli, sfiniti, io mi sento sano e forte ma sento molto dolore per loro. Durante la notte qualcuno parla a voce alta nel sonno chiedendo cibo ai propri cari […]. Certi cercano di fuggire, ma le sentinelle sorvegliano e li rinchiudono in una specie di prigione. [CONTINUA]


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