nelle sue intenzioni, essi sono lì. Chiaro che in tale sottile iniziazione, la mediazione di chi accoglie è essenziale, come carità e metodo; occorre perciò non affidarla solo ai sussidi mediatici, pure utili: il tramite interpersonale, nell’economia cristiana, resta
- dentro la
comunicazione - il vincolo sacro della comunione. Il Santuario può così assurgere, in piena coscienza, al suo compito fondamentale di «segno della irruzione di Dio», con fedeltà totale alla Parola e a tutti i mezzi per comunicarla, e senza riduzioni di impegno. Il confronto costante del suo stile con quel compito è doveroso, perché la tendenza a soddisfare la richiesta religiosa dei fedeli, spesso ambigua, rischia di scendere a livelli rituali alquanto esteriorizzati. La Chiesa è certo contraria al silenzio spirituale che isola e diventa rottura di comunione, cioè al «cattivo silenzio», ma è quanto mai desiderosa che non scompaia dalla sua liturgia - e il Santuario o è liturgico o non è - il denso Silenzio santo. Essa prescrisse, nel Vaticano II, che «per promuovere la partecipazione attiva si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti, nonché le azioni, i gesti e l’atteggiamento del corpo», ma che «si osservi anche a tempo debito il silenzio sacro»: il riferimento al silenzio fu aggiunto al testo primitivo, che ne era privo; da ciò si prova la sua preziosità. Infatti siamo più inclini al simbolo che alla realtà interiore, alla ritualità che al mistero, e la vigilanza su tale punto nevralgico della pietà non può mai essere allentata. Guai se dovesse valere per noi, nel Santuario, il richiamo dell’allora card. 12