Il Confronto (maggio-giugno 2019)

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il Confronto

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Anno 46 #1

L'EDITORIALE GUSTO LIBRI ARTE MUSICA CINEMA LEGGENDE

OWANTO

L'enigma della evoluzione della coscienza Quattro punti cardinali a tavola “Il Cibo Racconta Napoli” Salvatore Rosa artista completo Fenesta ca Lucive, best-seller del 1500 Le stelle delle Petralie Gli echi di Donn' Anna e del suo palazzo RESPONSIBILITY

ARTE

Maggio/Giugno 2019

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L' Editoriale

Pino Aprile

La struttura principale del forte. Lagher piemontese del Forte Fenestrelle, dove sono stati deportati i soldati del Regno di Napoli

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L'enigma della evoluzione della coscienza

e ultime votazioni regionali nel Sud hanno lasciato, di nuovo, intravvedere un fenomeno sociale che è stato una costante nei nostri territori. l'alleanza, delle classi che hanno peso, con il "nemico". Garibaldi fece quasi una passeggiata nel Sud a causa del distacco dell'aristocrazia dalla corte borbonica, così come, nei secoli precedenti, era successo con i baroni del tempo degli Aragonesi, degli Angiò, e del tempo del grande imperatore Federico II, il vero patrono di quel modesto centro agricolo che, allora, era Napoli, con lui rialzata al rango di grande città culturale, produttiva, commerciale, e politicamente influente. Ogni tanto il Sud si fa infettare da una specie di malattia mentale che porta all'ecclissi della coscienza locale davanti ai passi che l'evoluzione collettiva della società sta muovendo. C'è un punto fermo nel programma della Lega, il che significa nel programma dell'attuale governo: l'autonomia di ben tre delle Regioni italiane più ricche! E' un vero e proprio tradimento ai territori più disagiati, che si trovano, specialmente, al Sud; è negare la possibilità e il diritto a quell'equilibrio economico e strutturale tra Nord e Sud, sempre promesso da tutti i governi. Questo governo vuole, addirittura, sancire spudoratamente che ci dovranno essere due Italie: quella con maggiori diritti e risorse, a Nord; e l'altra, che si deve arrangiare con quello che può, ed è l'Italia meridionale. Diciamolo chiaro e tondo: è la nostra manodopera che è costretta ad allontanarsi dalle proprie famiglie e dai propri territori per cercarsi dignità e lavoro; sono i nostri figli che, quand'anche abbiano speso energie e intelligenza per raggiungere livelli di preparazione anche elevatissimi, sono costretti ad emigrare in tutte le parti del mondo, per trovare lavoro e accoglienza! Sono le nostre famiglie che, dopo essersi impegnate in sforzi economici più che significativi, sono costrette a vivere nel lutto bianco dei distacchi, delle assenze, delle oppressioni. Più passa il tempo, più cresce l'arroganza e la sfacciataggine di chi impone, anche con il sorriso ironico sulle labbra, al Sud tutto questo che non è affatto un destino. E' un enigma, tutto meridionale purtroppo, questa (in)coscienza di se stessi che blocca le popolazioni del Sud, che non fa avvertire il pericolo e i danni che certe scelte politiche hanno già programmato per il Mezzogiorno. La classe dirigente al Sud non ha mai avuto coscienza collettiva: anche oggi non ce l'ha! Così spieghiamo il numero crescente di voti che la Lega sta prendendo dalle nostre parti. E allora, anche da questa piccola rivista, cerchiamo di svegliare la coscienza italiana del Nord e la coscienza e l'orgoglio del Sud! Raccontiamo agli Italiani come è andata veramente la storia in Italia, dal Risorgimento ad oggi. Fu una scusa, per i Piemontesi, il sogno sinceramente italiano e patriottico dell'Unità: essi vennero come predoni e poi come colonizzatori, imponendo, in buona o cattiva fede, leggi che ignoravano la realtà sociale di tutto il Sud. I latifondisti del Sud ( latifondo, vera vergogna del regno borbonico) portarono i capitali al Nord e il governo sabaudo trasferì tante fiorenti industrie in Piemonte e in Lombardia, con il consenso dei "baroni" del Sud. Questa l'origine delle differenze economiche che, ancora oggi, non consentono di giudicare unito il Paese. No, lungi da noi proporre la piccola nazione del Sud, come ha fatto finora il Movimento Neoborbonico e tanti nostalgici di un tempo che non è mai esistito. Noi siamo sempre in campo per quell'unità d'Italia che continuiamo a volere reale e leale con tutta la popolazione. Sappiamo bene che la coscienza collettiva ci sta indicando il nuovo passo evolutivo nell'Europa delle Nazioni sorelle e dei popoli solidali. Mentre uniamo la nostra voce a quella delle forze politiche che si rifanno al Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi, e Colorni, noi possiamo aiutare i veri Italiani a conoscere meglio la cultura dei libri di Pino Aprile e dei suoi approfondimenti su Risorgimento, Terroni, e Piemontesi, perchè si abbia la forza, si senta l'orgoglio e si riconosca il diritto a modificare il futuro disegnato dalla Lega ( che continua ad essere la Lega Nord, cari meschinelli!) e a fare degli Italiani un popolo veramente uno, con parità di doveri, di diritti, e di dignità. Elio Notarbartolo

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Corporate Social Responsibility

a crisi che da anni funesta il nostro Paese conferma la irrinunciabile necessità del recupero di un rapporto fra etica ed economia e mostra la fragilità di un modello in cui gli operatori considerano lecito ogni comportamento in coerenza col principio dell’ autoregolamentazione del mercato ed in presenza di “regolatori” sempre più deboli e prede dei “regolati“. Occorre recuperare il concetto di “responsabilità sociale delle imprese “dove il ruolo dell’organismo economico non si limiti a garantire alti profitti all’azionista (pur legittimi essendo i fornitori del capitale) ma si estenda alla tutela degli altrettanto legittimi interessi della collettività. La protezione del lavoratore, dell’ambiente, la tutela dei valori meritocratici, il rifiuto di discriminazione di sesso razza, religione, la protezione della sicurezza delle persone, la condanna di informazione e pubblicità ingannevole, sono elementi essenziali per il recupero della credibilità del sistema. Senza, peraltro, evidenziare le piaghe della evasione fiscale e della corruzione che costituiscono in Italia i più gravi reati ostativi della garanzia di equità distributiva. La dimensione economica dell’attività delle imprese non può essere perseguita senza tener conto dei suoi effetti sociali. Il “corporate social responsibility“, in Inghilterra, ha avuto ampia diffusione, peraltro supportato da efficace sistema legislativo; l’impresa, nel definire le proprie strategie ed i propri codici di comportamento, non può ignorare la ricerca di ampio “consenso sociale“ e deve rendere compatibili i legittimi interessi dei suoi azionisti con le aspettative dei suoi “stakeholders“. La breve e non certo esaustiva introduzione prelude a commenti sulla tragedia del ponte Morandi a Genova. Premesso che i ministri della Repubblica che si sono avvicendati, dalla (non certo trasparente) concessione ad “Atlantia – Autostrade per l’Italia“ dei Benetton (circa 3.500 km) all’ultima legislazione,

non hanno mai rilevato le gravi inadempienze del concessionario. L’unico che denunciò il debito di miliardi dei Benetton nei confronti della collettività fu Antonio DI PIETRO, nella sua purtroppo breve veste di Ministro dell’Infrastrutture (ne sono testimone perché, all’epoca, ebbi modo con altri amici di seguire la vicenda da vicino ). Le autostrade non erano pavimentate con asfalto drenante e già allora apparivano gravi carenze manutentive. Il rischio di sospensione della concessione era concreto e fu immediatamente posto parziale riparo alle gravi inadempienze denunciate. L’ineffabile legislatore stabilì, però, che i contratti che regolavano le concessioni autostradali diventassero segreti di Stato; veniva così ristabilito l’ignobile rapporto clientelare tra pubblico e privato in questo delicato settore. Ma non era possibile secretare anche i bilanci; nel 2017 i bilanci di Atlantia presentavano redditività di oltre il cinquanta per cento e se entusiasmanti erano i risultati di esercizio non altrettanto poteva dirsi della bassa qualità delle strutture viarie e gli scarsi livelli di manutenzione . Peraltro i lauti profitti sono esclusivamente alimentati dai ricchi pedaggi il cui aumento viene stabilmente approvato da pubblici organi di vigilanza, espressione di inadeguatezza e sudditanza . Il potere di controllo pubblico è ormai

inesistente! Basta valutare il trend degli investimenti operativi sulle infrastrutture negli ultimi anni stabilmente in calo in presenza dei riferiti pedaggi stabilmente in crescita. Né va ignorato che i favolosi utili realizzati dai Benetton hanno consentito importanti investimenti (ma non in Italia)quali per esempio l’acquisto dell’aeroporto di Nizza , l’acquisizione delle autostrade spagnole e vari altri . E vien da chiedersi quale ruolo ha recitato l’organo pubblico di controllo in presenza del mancato rispetto degli accordi in convenzione, chi valuta la congruità dei corrispettivi ? Daniele Martini, nel suo libro “Scippo di stato“, parla del furto delle strade . E se è questa l’aberrante realtà delle attuali concessioni autostradali perché non valutarne la rinazionalizzazione che garantirebbe miliardi di introiti alla casse pubbliche? In questo contesto la tragedia del ponte Morandi appare la punta dell’iceberg di un insopportabile degrado totalmente privo anche di larvati riferimenti a quel “codice di moralità mercantile” formulato tanti anni addietro da Adam Smith . Vincenzo Caratozzolo

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Una bolla di aria gelida sul centro sud

ue anni fa abbiamo avuto l’inverno più freddo dall’85. Le nevicate furono molto abbondanti sui versanti adriatici. Vaste aree dell’Abruzzo furono isolate per giorni, senza energia elettrica e riscaldamento. E si verificò la tragedia di Rigopiano. Sul versante tirrenico le precipitazioni furono limitate, ma in tre decenni non si era mai vista sulle mappe meteorologiche una temperatura di -15°C a 1500 metri di altitudine sulla Campania. La stagione estiva del 2017 in Italia è stata la seconda più calda di sempre, dopo quella del 2003, e i picchi di caldo verificatisi in singoli giorni sono stati superiori perfino allo stesso 2003. L’anno scorso c’è stata la nevicata più copiosa dal ’56 sulle coste tirreniche meridionali. Quest’anno il gennaio più umido da tantissimi anni, sul meridione che è abituato a vedere qualche ora di sole anche nelle peggiori giornate dell’anno. E in autunno, alla fine di un ottobre mite dagli stabilimenti balneari aperti, c’è stata una tempesta di vento di tipo tropicale, più forte anche di quella del ’99, che ha sconvolto il paesaggio e l’economia di molte regioni italiane da sud a nord. Alla fine di febbraio 2019, un’ennesima ondata di freddo di questo inverno si sta riproponendo ancora una volta con venti tesi, vari danni alle infrastrutture e alle imprese agricole, alberi sradicati e persone morte di vento. Le irruzioni di aria fredda nel bacino del Mediterraneo, dalla Scandinavia o dalla Russia, ci sono sempre state, spesso anche repentine . Ma la frequenza degli episodi caratterizzati da venti così forti e da sbalzi termici elevati costituisce oggi un’anomalia. Le temperature medie aumentano, così come aumenta la frequenza degli eventi meteo estremi (alluvioni, tempeste di vento, caldo e freddo intensi). La temperatura è infatti l’energia cinetica media delle molecole di cui sono composti i gas atmosferici. Tale energia conferisce perciò furia ai fenomeni atmosferici. Sono anzitutto i combustibili fossili, che usiamo intensivamente, a generare sia CAMBIAMENTO CLIMATICO, sia INQUINAMENTO. Il clima è l’insieme delle condizioni meteorologiche medie o tipiche di una regione.

Se il meteo cambia quotidianamente, il clima invece è stabile e le sue variazioni un tempo erano impercettibili nell’arco di una vita umana. Negli ultimi due secoli però il clima sta evolvendo molto più rapidamente che in passato e ciò è stato messo in chiara correlazione con l’incremento di CO2 e altri gas serra prodotti dall’uomo, in primis per effetto della combustione di derivati del petrolio, gas e carbone. La convergenza scientifica sul tema è amplissima. Gli studi in disaccordo sono pochi e quasi mai indipendenti. Le anomalie meteorologiche che riscontriamo qui, le confermano dunque gli scienziati su scala planetaria! Eppure c’è ancora qualche negazionista che illude se stesso! Oppure con dolo divulga tesi non scientifiche, con lo scopo di confondere l’opinione pubblica e ritardare così ulteriormente la riduzione dell’uso dei combustibili fossili, responsabili del cambiamento climatico. Occorre perciò adoperare fonti rinnovabili di energia, riconsiderare la mobilità, riforestare i territori, ridurre gli allevamenti intensivi di bestiame, sostituire le plastiche con altri materiali. Mentre noi discutiamo del destino di alcune decine di migranti sulla nave “Diciotti”, l’ONU stima alcune centinaia di milioni di migranti per motivi climatici entro il 2050. L’avanzamento del deserto in Africa e la scomparsa di aree coltivabili potrebbero spingere 60 milioni di persone verso l’Europa. Anche in Occidente molti saranno costretti a trasferire la residenza o l’attività. Attualmente la temperatura del pianeta è superiore di 1°C rispetto all’epoca preindustriale. Secondo l’IPCC, il gruppo internazionale di scienziati riunito dall’ONU, è necessario contenere questo aumento entro 1,5°C per evitare trasformazioni irreversibili del clima e della società umana. Allo scopo abbiamo tempo fino al 2030 per ristrutturare drasticamente il funzionamento dell’industria e della società. Ci serve rinnovare al più presto un sistema economico attualmente basato sullo sfruttamento intensivo dell’ambiente e del lavoro, imposto anzitutto da sistemi di imprese multinazionali e dalla finanza internazionale. Altrimenti a pagare saremmo tutti: ricchi, poveri, migranti, europei,

persone e imprese. E non ci sarà uno Stato in grado di metterci in sicurezza o di ripagare economicamente i danni per gli eventi meteorologici o di ridarci la casa o di gestire i fenomeni migratori! La maggior parte degli economisti oggi pianificano lo sviluppo senza tenere conto della variabile climatica e non considerano né i danni alla salute, né i disastri ambientali, né i danni alle singole imprese, né i danni strutturali all’economia delle regioni colpite. Questo vale perlomeno per gli economisti che di solito consigliano la politica nazionale e comunitaria, che predicano rigore sulle politiche di spesa ma spesso tacciono sull’abuso delle risorse naturali, per via di una loro formazione di stampo ottocentesco o per il mantenimento di posizioni di potere. La gestione del verde mostra un ennesimo paradosso! Gli alberi servono ad assorbire CO2 e a contrastare i cambiamenti climatici, ma le tempeste abbattono esemplari non resistenti ai nuovi venti, attaccati da parassiti tropicali o non correttamente potati e manutenuti. E i cittadini timorosi richiedono nuovi abbattimenti! In conclusione i cittadini devono pretendere dai politici che abbandonino sia la subalternità alla finanza, sia la subalternità ad una certa dirigenza europea inadeguata, sia il sovranismo ingenuo. Le lotte per il potere, a tutti i livelli, sono perdenti! Per trasformare l’economia globale occorrono determinazione e unità d’intenti tra gli Stati. Promuovere la pace e il dialogo tra le nazioni serve anche a questo. Guido Caridei

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Quattro punti cardinali a tavola La cucina come microcosmo del mondo. 1° Parte

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a lotta contro l’industrializzazione dilagante è la disperata osservazione di una realtà che sfugge sotto lo sguardo inerme dell’abitudine. La civilizzazione che Ancel Keys auspicava era la prossimità della natura che si palesa agli occhi di chi può fruirne. Se si danno per scontate le terre e i mari di un luogo, si perde il loro valore ed è di quel valore che lo scienziato si fa portavoce, tentando di espanderlo nella cassa di risonanza data da una nuova educazione. In Italia si riscontra un bene naturale che è causa diretta di una certa conformazione territoriale: il clima. Allorché le pareti spaziali si restringono allo stivale del mondo, sopraggiunge la necessità di una tutela e un riconoscimento tale da apporre il sigillo di un’appartenenza che non tema di sconfinare altrove. Non si tratta di ergersi maestri, ma di mostrare come un certo modo di vivere sia possibile anche al di fuori di certi ambienti. Seppure col mantenimento

definito della caratteristica peculiare che ne sancisce l’unicità. Dunque sapere che l’imprescindibile ricchezza di un territorio è incisa dall’inclinazione stabile delle stagioni, è la chiave di volta per la diffusione di un metodo che si fa vita. L’obiettivo è dunque rendere la dieta mediterranea un bene comune. Per raggiungere tale proposito si pone il bisogno di un grande progetto educativo, che parte dall’analisi dell’appetito vigente. Il controllo dell’appetito difatti, non è dieta prescritta ma consapevole cultura. Sapere che eccedere è un difetto contribuisce a rendere quel controllo qualcosa di automatico. L’eccedenza di cibo dovuta all’industrializzazione ha purtroppo determinato il costante desiderio di nutrirsi a dismisura e la perenne insoddisfazione una volta appagato tale fittizia necessità. Si vuole sempre di più mentre si dovrebbe allenare il controllo di tale impulso. Ciò è possibile solo con la palestra dell’istruzione, che previene il pericolo

cui costantemente si è sottoposti. Un allenamento del genere stimola l’intelligenza a soffermarsi su quello che facciamo per capire chi siamo. Perché è vero che per il filosofo Feuerbach «siamo quello che mangiamo», ma siamo soprattutto, «quello che non mangiamo». Anche la non scelta resta dunque una scelta. Il che non implica una privazione e dunque una punizione che si vuole infliggere al proprio corpo, ma una cura. Un pharmakòs fautore di un nuovo umanesimo. Non è la genetica a renderci ciò che siamo, bensì la nostra cultura. Se nel mondo della caccia si utilizzavano funghi secchi per accendere il fuoco, come se fossero carta, allora si comprende che in realtà si mangia ciò che ha valore, non quello che si possiede. In fondo cucinare è un atto creativo che presuppone uno sforzo intellettuale qualificato nel volo pindarico, poiché l’anima di una ricetta è nel gesto intellettuale che la determina. Così come la cucina si trasfigura da luogo fisico a metaforico divenendo gesto sociale. Osservare da una prospettiva diversa l’arte culinaria conduce a vedere ciò che è nascosto sotto la tavola imbandita e scorgere una conoscenza che si fa coscienza. La consapevolezza che i quattro angoli del tavolo racchiudano un fulcro sociale che dalla singola famiglia si estende alla famiglia del mondo, è il giusto canale per comprendere i segnali di un tempo che sta mutando e cogliere preventivamente i possibili danni sociali insiti nello spazio di una tovaglia. Massimiliano Quintiliani

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Una nuova SHOAH?

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l “Giorno della Memoria”, che ricorre il 27 gennaio – data della liberazione del lager di Auschwitz per opera dell’esercito russo –, è stato istituito in Italia dalla legge 20 luglio 2000 n. 211 ed esteso alle altre nazioni dalla risoluzione n. 60/7 del 1° novembre 2005 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La Memoria, però, non può rimanere relegata allo spazio di ventiquattr’ore, soprattutto se si considera che vittime della “Shoah” furono ben sei milioni di ebrei. E,

si badi, è assolutamente impropria la definizione di “olocausto”, che si è soliti dare al tragico evento e che lo farebbe consistere in un sacrificio volontario, laddove il vocabolo “Shoah” designa una vera e propria catastrofe. Una prima iniziativa celebrativa è partita quest’anno, da Napoli, dove al Vomero era nato il piccolo Sergio De Simone, deportato ad Auschwitz, all’età di sette anni, da Fiume, insieme con la famiglia che vi si era rifugiata, e ucciso a Bullenhuser Damm. La Municipalità Vomero-Arenella gli ave-

va dedicato nel Parco Mascagna una targa e un roseto, caduti in stato di abbandono, dei quali l’ing. Gennaro Capodanno, che era stato presidente di quella Municipalità, chiede ora il recupero e il restauro. Una seconda iniziativa proviene da Procida, dove Giuseppe Schiffer, tecnico della centrale elettrica, ebreo e antifascista, incontrò l’ostilità dei concittadini, conclusasi con la deportazione ad Auschwitz, soprattutto perché non procidano e, dunque, suscettibile di una persecuzione che, viceversa, se rivolta contro un isolano, avrebbe incontrato la riprovazione di quella popolazione. A lui è stato intitolato, qualche anno fa, il piazzale antistante alla centrale elettrica, sulla facciata della quale ora il procidano Luigi Schiano Lomoriello ha sollecitato l’apposizione di una targa commemorativa. Si tratta di due iniziative che contribuirebbero a estendere la Memoria all’intero anno e, come tali, risultano meritevoli di grande attenzione, soprattutto in un momento, nel quale, nel centro del Mediterraneo, si trasformano navi in “lager a costo zero”: ne potrebbe derivare una nuova “Shoah”, nel qual caso, la Memoria (quella con la “M” maiuscola) potrebbe tornare di grande aiuto. Sergio Zazzera

il Confronto Direttore responsabile Iki Notarbartolo

Direttore editoriale Elio Notarbartolo

Grafico / Web Designer Umberto Amicucci Hanno collaborato: Franco Ambrosino, Raffaele Bocchetti, Margherita Calò, Vincenzo Caratozzolo, Guido Caridei, Giammarco Cilento, Silvana D’Andrea, Antonio Ferrajoli, Paolo Gravagnuolo, Raffaele Graziano, Antonio La Gala, Franco Lista, Gianluca Mattera, Gilda Kiwua Notarbartolo, Giancarlo Nobile, Ernesto Paolozzi, Mimmo Piscopo, Massimiliano Quintiliani, Giacomo Retaggio, Francesca Santoro, Maria Carla Tartarone, Teresa Triscari, Girolamo Vajatica, Sergio Zazzera Periodico autofinanziato a distribuzione gratuita confronto@hotmail.it elio.notarbartolo@live.it www.ilconfronto.eu Registrazione n° 2427 Trib. di Napoli del 27/09/1973 Casa Editrice Ge.DAT. s.r.l. Via Boezio, 33 Napoli Attività di natura non commerciale ai sensi del DPR 26/10/1972 n° 633 e successive Stampa: AGN s.r.l. via Vicinale Paradiso 7 80126 Napoli

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I giganti gettati nel fango La Storia di Napoli è incagliata al 1799. Uomini di primissimo ordine di cultura illuministica e uomini di primissimo ordine di cultura tecnologica avevano portato la città a livelli di avanguardia.La Monarchia non si accorse di poter menar vanto degli uni e degli altri. Ha saputo solo inimicarseli: distruggendo i primi e ignorando le immense potenzialità economiche e civili degli altri, capaci di precedere l'Europa nella costruzione di treni, macchine a vapore, ponti sospesi e cento altre avanguardie tecnologiche. Napoli ha un debito con i Napoletani. Ne cominciamo a parlare.

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i attribuisce al grande fisico Isaac Newton la frase «Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti». I giganti indicati da Newton erano tutti gli uomini di cultura del passato, erano i tanti uomini di genio che gli avevano permesso di formulare le leggi della fisica che avrebbero cambiato il mondo umano, su quei giganti si può vedere al di là del piccolo orizzonte della quotidianità e nutriti dalla loro conoscenza comprendere meglio ciò che gli occhi vanno scoprendo. Vi è un popolo, quello Napoletano, che ha rifiutato i suoi giganti, che li tiene gettati da secoli nella melma dopo averli uccisi e vilipesi. Può un città aver un presente ed un futuro se agisce così? Una città, una società che non ricorda i suoi figli migliori e rifiuta i momenti più alti della sua storia è una città, una società che non ha presente e non ha la visione giusta per costruire il futuro. Ma chi sono questi giganti? Sono i grandi illuministi dello settecento napoletano che portarono alla brevissima ma stupenda esperienza della Repubblica Napoletana del 1799. L’abortita rivoluzione del 1799, portata avanti dalla sparuta nobiltà e da pochi borghesi lungimiranti e colti che guidarono una Rivoluzione Democratica che ancora una volta la Chiesa e il potere regio dei Borboni blocca volendo congelare la storia. La controrivoluzione guidata dal Cardinale Ruffo con i suoi sanfedisti spazzò definitivamente qualsiasi possibilità alla città di agganciarsi all’Europa. La modernità, l’intero progetto illuminista, democrazia, eguaglianza, liberalismo politico, separazione tra stato e religioni, parità dei sessi, secolarismo erano per i sanfedisti opera del demonio, essi si sentivano, tramite il re, agenti di dio in un mondo corrotto dai peccati della ragione. Ma quelle idee erano e saranno le fondamenta per le Democrazie Liberali d’oggi. La conseguenza tragica della sconfitta della Repubblica Napoletana del 1799 fu la morte orribile di titani del pensiero

come Mario Pagano che scrisse la prima Costituzione Laica d’Europa, Eleonora Pimentel Fonseca donna che si ribellò alla condizione femminile e divenne prima giornalista e direttrice di un giornale il MONITORE NAPOLETANO, Domenico Cirillo insigne medico aprì le porte a Napoli delle prime ricerche della patologia moderna, e tanti altri uomini che avrebbero potuto far vivere Napoli come città pienamente europea. La fine tragica di quella esperienza fu più che un momento storico, fu il congelarsi della storia di una città: l’epitaffio lo scrisse la stessa regina Carolina che guidò la repressione: ‘mai la cultura è stata così lontana dalla corte’ e il generale inglese Moore esclamò: ‘’Non v’è alcuna parte ormai del mondo così priva di spirito publico’’. Così Napoli rimarrà bloccata nella sua lenta agonia, staccata dal mondo civile, nel suo essere ‘un paradiso abitato da diavoli’, nella mancanza di consapevolezza dei cittadini di vivere una società con la responsabilità che ciò comporta, nel suo dover essere governata dagli ‘ipocondriaci’ e incolti Borbone che avevano in odio la borghesia e si legarono a filo doppio con il popolino e con il suo governo le consorterie familiari: la camorra. I giganti che fecero quella esperienza di Democrazia e Libertà furono uccisi e gettati nelle segrete della chiesa del Carmine

e li sono stati ignominiosamente lasciati per secoli senza che la città si curi di darne una giusta sepoltura, senza che la città costruisca un Memoriale per ricordare i suoi figli migliori In questi anni è sorto un movimento guidato dalla Consulta napoletana per la laicità delle Istituzioni ( napolilaica@ gmail.com– www.napolilaica.it) per far si che questa vergogna possa essere sanata e quei martiri possano aver il riconoscimento di tutta la città e che si possa costruire un Memoriale in onore a questi giganti e promulgare il 21 gennaio, giorno della proclamazione di quella Repubblica Napoletana, ‘giornata civica’ in modo che tutti i cittadini di questa città arenati nella quotidianità che frena la visione dell’orizzonte del futuro possano salirne sulle spalle dei sui Giganti e come diceva Newton guardare lontano. Giancarlo Nobile

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Libri

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vonne Carbonaro è stata una docente di Italiano e Storia; ha collaborato alla Università Federico II nella cattedra di Letteratura Italiana, chiamata dal Preside in qualità di Cultore della Materia. Ha lavorato come critica d’Arte, come docente di Spagnolo. Va ricordato a tal proposito “Voci e Suoni del Seicento” nell’aprile 2014 in scena al Teatro MAV di Ercolano, partecipanti numerosi e noti autori. Con il suo ultimo spettacolo “Paese mio”, realizzato recentemente presso l’Auditorium della Bibliteca Annalisa Durante a Forcella racconta come traduttrice e come regista la vita degli emigranti meridionali a New York, attraverso le canzoni, le macchiette, le immagini d’epoca. La sua attività teatrale è continuata nel tempo sempre su temi di impegno storico e sociale. Con il suo intenso rigore di ricerca ha scritto vari libri curando sempre di evidenziare l’arte e la cultura napoletana. Nel 1997 ha pubblicato “Le donne di Napoli”, nel 1999 insieme a Luigi Cosenza, pubblicò con l’editore Newton Compton, “Le ville di Napoli”, nel 2012 “Suggestioni di Viaggio” per Albatros. Il suo ultimo libro, edito dalla Kairos,

“Il Cibo Racconta Napoli” è uscito nel 2017, subito presentato alla Casina Pompeiana e ad Anacapri, “Il Cibo racconta Napoli” introdotto dalla prefazione del drammaturgo Manlio Santanelli. Per quanto sia d‘accordo con il critico sull’interesse del contenuto culinario, la mia opinione è che il volume contenga un prezioso racconto storico della città che proviene dai secoli lontani, fin dalla Magna Grecia e dai popoli con essa in contatto, che perciò possa interessare quasi tutte le popolazioni europee che vogliano conoscere le origini della loro storia, anche nei mutamenti delle loro abitudini di vita giornaliere e perciò della loro cucina. Infatti la cucina napoletana, ormai trasferita in tutto il mondo, è conosciuta da tutti, ma pochi sanno qualcosa circa le origini linguistiche, circa l’etimo originario del dialetto, che l’autrice introduce con conoscenza letteraria perfetta, istruendo i lettori incuriositi della lingua e delle sue lontane origini latine e greche. Desidero introdurre i titoli di alcuni capitoli. Il primo molto esplicativo si intitola “Gli usi alimentari a Napoli dagli Osci ai Greci ai Romani. Le testimonianze di Pompei. De re coquinaria. La cena di Trimalcione”, diviso in paragrafi che specificano gli argomenti annunciati anche con immagini rare tratte dal Museo Archeologico o riprese negli scavi di Pompei. Il secondo capitolo: “Dall’Alto Medio Evo agli Angioini. Ricettari Medievali. Martino da Como. I banchetti alla corte aragonese. Ruperto da Nola” Qui. la storia degli alimenti prosegue accompagnata da molte immagini tratte dal Tacuinum Sanitatis. Il terzo capitolo: “La tavola nella Napoli vicereale. Le testimonianze dei ricettari, della letteratura e dell’arte”. Siamo nell’epoca di Masaniello. Anche qui rare interessanti immagini seguono le chiare spiegazioni. Il quarto capitolo: “I Monzù (da Messieur, siamo ormai con i Borbone). I prodotti dalle Americhe e dall’Oriente. Vincenzo Corrado: Il Cuoco Galante. Ip-

polito Cavalcanti: le ricette delle festività Il periodo borbonico”. Qui cominciano le ricette in lingua napoletana. Il quinto: “La tradizione oggi”. Sempre più in avanti ci avviciniamo particolarmente alla cucina usando necessariamente il dialetto, seguono venticinque paragrafi: “La tradizione oggi. Che cosa è conservato della tradizione? Esempi di come vengono elaborate oggi le ricette tradizionali. E la storica minestra maritata? Altri piatti di origine contadina che si consumavano anche in città. Il cibo di strada di ieri e di oggi. L’Arte bianca: un grande tris. Le pietanze con le cose fujute e quelle con i nomi forestieri. Le innovazioni entrate nella consuetudine. I prodotti agricoli e i riconoscimenti IGP, DOP, DOC… L’oro rosso della Campania: il pomodoro. Fior di latte , mozzarella e formaggi. Le biodiversità protette e quelle in via di estinzione. Dal vino scadente ai grandi vini a piede franco”. Anche in questo capitolo ci chiariscono il racconto le immagini e le note preziose che riferisco quanto sia stato scritto e da chi sull’argomento. L’ultimo capitolo conclude i suoi 25 paragrafi con gli imperativi categorici della cucina napoletana: regolette fondamentali per la buona cucina. Il libro della Carbonaro, a mio vedere, non può considerarsi un Libro di Cucina, ma un Libro di Storia che racconta un aspetto della nostra vita, comune a tutte le popolazioni europee ma anche extraeuropee, sia occidentali che orientali, per una diffusione che raccoglie ed unisce tutta l’umanità. Ecco come un libro di Cucina diventa un testo prezioso di cultura che diffonde la civiltà italiana in vasto ambito. E’ un risultato che solo una studiosa come Yvonne Carbonaro poteva ottenere Ne attendiamo la traduzione in altre lingue che non saranno certo estranee al latino e al greco, ed anche al napoletano. Maria Carla Tartarone

Batá Ngoma

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atà Ngoma, in uscita L’app BatApp collegata al libro di Paolo Batà Bianconcini, la prima tappa del viaggio nella liturgia del Batà attraverso la tecnologia Già disponibile in libreria il primo volume del “Diario di un Omo Aña”: un punto di partenza nel vasto mondo della liturgia del Batà strumento

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principe della Regla de Ocha nota anche come Santeria Cubana. In questo primo volume del libro si troveranno chiariti alcuni concetti ed aspetti importanti del cerimoniale detto Tambor e la trascrizione di tutti i toque specifici con i canti associati ad essi. Un lavoro che nasce dall’idea di condividere, dopo anni di ricerche ed esperienze a Cuba e in Afri-

ca e nel mondo, una tradizione antica ma tramandata quasi solo oralmente, di cui questo libro vuol essere solo una piccola espressione delle tante verità, un punto di vista che fissa solo un momento all’interno di una tradizione in continuo movimento. Ma è l’app BatApp collegata al libro la vera novità, che promette di essere uno strumento unico e innovativo


per approcciare alla musica attraverso la tecnologia, accessibile a tutti, semplice e gratuita. L’idea nasce dalla necessità di creare un supporto audio alle partiture presenti nel libro, così con un semplice clic su un mixerino si avrà la possibilità di ascoltare le singole tracce per poter concentrare lo studio sui singoli strumenti o solo sul canto, o sulla melodia nella sua interezza. Pensata non solo per i percussionisti ma anche per tutti i musicisti, ballerini e cantanti, essa si avvale della voce del cantante Javier Pina degli Abbilo-

Arte

T

rascinava stancamente i poveri piedi, divaricati all’inverosimile in parvenza di consunte scarpe simili a coppia di ranocchi che chiedevano pietà ad una improbabile tregua. L’ennesimo personaggio del variegato universo vomerese si mescola a tant’altri componenti il cosmo del quartiere. Di età avanzata – ma forse non lo era – noi lo abbiamo conosciuto sempre così. Snello, di statura media, una indefinibile calvizie, lo caratterizzava un viso rubicondo dal rubizzo naso di clown, che, anche da sobrio, tradiva la sua predilezione per il nettare di Bacco. Completamente sdentato, macinava le sue mascelle come ruminante, borbottando parole incomprensibili. Abitava nei pressi di Piazza Vanvitelli, Giuseppe C., soprannominato “Pappone”, per la sua ingenua bontà che lo contrapponeva complementarmente alla moglie, dall’aspetto di arpia, piccola, minuta, ma dalla vitalità incredibilmente eccessiva, dove i connotati di tirchia megera, costringevano il consorte, il povero Pappone, a rubacchiare qualsiasi parvenza di cibo che egli nascostamente masticava per strada. Traeva da informi tasche di una dismessa giacca, pezzi, avanzi ed irriconoscibili involti mangerecci, certamente e furtivamente sottratti da casa, da qui il suo appellativo. Egli protraeva la triturazione in tempi inverosimili e per aiutarsi in questa

na, della ballerina e cantante cubana Katia Lopez, del supporto tecnico di Phantasia, della sponsorizzazione di Animalero Articoli di Santeria ma soprattutto dell’esperienza, della professionalità e della passione di Paolo “Batà” Bianconcini, da sempre ispirato e visionario nei suoi progetti, possiamo essere certi che con lui le sorprese non finiranno qui. Francesca Santoro

Pappone laboriosa operazione, si rifugiava nei luoghi più consoni al suo carattere, le cantine che elargivano generose mescite di vino. Superfluo sottolineare che a sera era così brillo che gli riusciva difficile trovare la via di casa. I familiari della sua modesta famiglia borghese, dalla irreprensibile moralità, s’impensierivano nel timore d’incidenti che potevano capitargli, proprio per la sua etilica debolezza. Andavano perciò alla ricerca, sicuri di coglierlo nei suoi luoghi prescelti. Ma Pappone, diabolicamente lucido, prima delle generose “bevute”, scansava con astuzia i segugi, cambiando tatticamente sito, spiazzando così i preoccupati e mortificati familiari, tanto che chiedevano anche alla nostra compagnia di ragazzi ad aiutarli nella ricerca. Una sera d’inverno, particolarmente inclemente, scorgemmo Pappone che si trascinava per strada, ora inciampando, ora tentando di reggersi a zig-zag tra il muro d’un palazzo o di un albero dell’allora frondosa via Bernini. Ci avvicinammo, e sorreggendolo, tentammo di coprirlo alla meglio, discinto com’era, in pieno calore etilico, cercando però, con perizia, di sfuggire alle mefitiche zaffate di un alito che non aveva nulla di umano ,se non quello di un indecifrabile miasmo da fetida cantina. Egli, nel riconoscerci, masticava parole sconnesse e si faceva trascinare, quasi opponendosi, nel capire la nostra

intenzione di condurlo a casa. Arrivati all’androne del portone iniziò ad urlare, dimenandosi come a voler fuggire. “Non mi portate su, non mi portate da quella strega di mia moglie ché quella mi picchia e non mi fa mangiare!”. Le urla fecero da richiamo, così, la moglie, seguita da altri della famiglia, affacciandosi, partirono come plotone per spedizione punitiva e lo presero in consegna. Udimmo attoniti epiteti vari, urla, imprecazioni e rumori sospetti e colpi contundenti, non proprio affettuosi. Ci guardammo sconcertati per il rammarico d’aver contribuito involontariamente al pestaggio ma anche divertiti per la scena che si ripeteva comicamente come una volta che Pappone, per la sua statura fisica più imponente della moglie, trascinò questa in un rocambolesco capitombolo per la rampa di scale tra indefinibili urla ed imprecazioni come di “papera scannata”. L’indomani incontrammo di nuovo il povero Pappone, malfermo sulle gambe, ma sobrio, dai vistosi occhi gonfi che, nel salutarci allusivamente, ci chiese se per caso avessimo conosciuto quegli sciagurati che la sera precedente l’avevano “raccolto”, portato a casa, “contribuito” quindi, alla riscossione dell’ennesimo pestaggio coniugale, perché, disse, li avrebbe voluti “ringraziare” calorosamente, a modo suo… Mimmo Piscopo

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OWANTO - One Thousand Voicee e Flowers III

l 6 febbraio si celebra la Giornata mondiale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili, una pratica che conta ancora 200 milioni di bambine e ragazze vittime in tutto il mondo. Nessun beneficio, solo violenza e dolore anche se, dal 1963, è in atto una vera battaglia per la messa al bando totale e definitiva di questa odiosa pratica, nonostante in alcuni paesi esistano già da anni, leggi persecutorie per l’esercizio di tali pratiche. Di fronte a tanta barbarie, la sensibilità degli artisti non può rimanere indifferente. Il Museo MADRE di Napoli, all’interno del progetto “Per_formare una collezione” nato da una felice intuizione del suo direttore Andrea Viliani, apre al pubblico proprio oggi la Mostra “Storie di Donne”, una visita tematica attraverso le collezioni di opere d’arte contemporanea di artiste donne, che sono poco presenti nel quadro internazionale d’arte rispetto agli uomini. Il percorso parte dall’acquisizione dell’opera di Owanto “One Thousand Voicee” e “Flowers III”, installazione multimediale, mirata alla tematica della commemorazione odierna. Owanto, nasce a Parigi da madre gabonese e padre francese. L’artista cresce in Gabon, dove ha passato i suoi anni formativi. Alla fine degli anni Settanta del Novecento torna in Europa, dove continua a studiare Filosofia, Letteratura e Lingue in un clima di grandi fermenti culturali e rivendicazioni femministe. Per questo le sue opere, semplici come la natura, sono profondamente radicate nel suo passato di gabonese e si inseriscono in un discorso di denunce sociali per la difesa della donne, contro violenze ed abusi. L'artista utilizza, per le sue creazioni, un approccio multidisciplinare nel suo

processo creativo e lavora su una varietà di mezzi espressivi tra cui pittura , scultura , fotografia , video, audio e installazioni. Inoltre studia temi relativi alla politica dell'identità e alla trasformazione, sequenziando le immagini dagli archivi personali in collage, un universo che sfida le leggi del tempo e dello spazio e crea dialoghi interculturali e transistorici. Non a caso Owanto ha avuto l'onore di rappresentare la Repubblica del Gabon per la prima volta in assoluto alla 53^ Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia nel 2009, con una mostra personale nel primo padiglione nazionale. Attualmente vive e lavora tra Africa, Europa e Stati Uniti d'America. “One Thousand Voicee” e “Flowers III” collocata in uno spazio ridotto ed oscuro, consente allo spettatore raccoglimento e meditazione per una fruizione emozionante. Nel buio assoluto abbaglia la foto “Flowers III”, che ritrae due fanciulle nel rituale della infibulazione. In primo piano spicca l’immagine della triste fanciulla sottoposta al rituale, con il pube violentemente aggredito, romanticamente nascosto da una variopinta orchidea. Non è casuale da parte di Owanto la scelta di questo fiore che con la percezione visiva ci riporta alle fattezze dell’utero femminile. Contemporaneamente pervade lo spazio la sonorizzazione di una raccolta di testimonianze audio di vittime delle pratiche di mutilazione femminile. Racconti in cui le singole voci si intrecciano per creare una storia collettiva. Difficile comprendere i messaggi per la mescolanza di accenti e lingue di donne provenienti da 27 paesi in Africa, Medio Oriente, Asia e di tante donne emigrate. Le donne hanno registrato le proprie voci

con uno smartphone e le hanno inviate tramite WhatsApp all’artista, che le ha montate includendo diversi movimenti, elementi e ritornelli. Sotto le voci un monotono scricchiolio di sottofondo, proveniente da un disco rotto, è un invito simbolico ad un cambiamento di musica e quindi all’evoluzione di una nuova concezione della vita, per dire tutte insieme “non più”. La tessitura di suoni analogici e digitali crea un ponte tra elementi visivi e testimonianze sonore che descrivono le società contemporanee e Owanto è anche qui coerente nell’intrecciare il passato al presente, l’analogico al digitale, l’arte al giornalismo. Il percorso nella fruizione delle opere delle artiste ci conduce alla body art di Gina Pane; alle foto dell’iraniana Shirin Neshat, più nota per lavori filmici, che qui espone Women of Allah, immagine di occhi velati e rielaborati con denunce in arabo fino alla fruizione delle opere fotografiche di Katarina Sieverding, con autoritratti in gigantografie nelle varie gradazioni di rosso. Le donne e l’arte dunque per una rinascita sociale che ci auguriamo le veda protagoniste in una società dove infibulazioni, stupri, violenze e femminicidi siano solo un brutto e macabro ricordo. Margherita Caló

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Salvatore Rosa artista completo

a canzone napoletana nel Seicento divenne elemento di cultura in quanto diversi grandi nomi del contesto socio-culturale della città diedero il loro contributo alla storia della canzone. Un pittore, le cui opere sono esposte nelle più importanti gallerie del mondo, scrisse e musicò una delle canzoni più famose e più cantate: “Michelemmà”. I versi un po’ surrealisti trattano di una bellissima ragazza nata in mezzo al mare, all’epoca dei pirati, e amata a tal punto che i suoi corteggiatori si suicidavano a due per volta. Se i versi sono particolarmente bizzarri, la musica rappresenta il preludio alla tarantella, una delle danze popolari, ancora oggi più amate, che forse trae le sue origini dai culti greci in onore di Dioniso. La tarantella, incontro fra elementi di cultura e componenti popolari, divenne il simbolo più tipico del folclore del popolo napoletano del quale esprimeva l’irresistibile gioia di vivere, l’allegria e tanta passionalità. Una vita spasmodica e incontrollata come quella condotta dal grande pittore, giustifica l’eccentricità di quella composizione che fece subito breccia nell’animo del popolo diventando insieme a “Fenesta ca lucive” un punto fermo della storia della canzone napoletana. Salvator Rosa, nato a Napoli, nel quartiere Arenella, il 20 giugno del 1615, fu da suo padre avviato agli studi ecclesiastici presso la congregazione religiosa dei padri Somaschi. Presto però si ribellò agli abiti di seminarista che non gli si confacevano e alla disciplina del collegio che era per lui insopportabile. Lasciò quindi il convitto e diresse i suoi interessi verso la pittura e l’arte in genere. Lavorò come apprendista presso la bottega del fratello di sua madre, il pittore Domenico Greco, che dipingeva soggetti sacri perché erano gli unici quadri che riusciva a vendere. Il maestro esortò il nipote a fare altrettanto ma Salvatore aveva altro per la mente, se ne andava in giro col cavalletto e i colori a dipingere paesaggi. Frequentò anche la bottega di Aniello Falcone i cui soggetti erano scene di battaglie e immagini religiose. All’età di vent’anni, già riconosciuto come artista talentuoso, si

trasferì a Roma, ove il cardinale Francesco Maria Brancaccio gli procurò alcune commissioni. Realizzò così le sue prime opere sacre e nella chiesa di Santa Maria della Morte conobbe il poeta Abati che lo incoraggiò a coltivare le sue nascoste attitudini di poeta e di musicista. Fu un pittore fin troppo moderno per quell’epoca. Svincolato dalle regole di mercato e libero dalla dipendenza dai mecenati, esponeva le sue opere in mostre e le vendeva attraverso intermediari e anche in questo era moderno e fuori dagli schemi. Era un artista poliedrico, pittore, poeta, filosofo e attore di teatro e bravo in tutte le espressioni artistiche, addirittura fu anche il primo posteggiatore napoletano, andava in giro per i ristoranti e le trattorie a cantare e a suonare. Disponibile, sincero e fedele nelle amicizie, possedeva un carattere rissoso, litigava con tutti e più volte dovette battersi a duello. Scrisse e musicò satire in cui criticò la realtà del suo tempo in maniera sottile con la realistica consapevolezza che nulla è durevole al di fuori dell’arte. In collaborazione con Niccolò Musso, un prete scomunicato, aprì un teatrino, cabaret ante litteram, nel quale faceva di tutto: recitava, cantava e suonava diversi strumenti. Nel 1639 si recò a Firenze e vi restò fino al 1647. E’ lì che dipinse quei quadri che lo resero celebre in tutta Europa ed è lì che scrisse e musicò centinaia di satire e s’innamorò della sua modella Lucrezia Paolina, sposata e separata dal marito. Quando ritornò a Roma nel 1649, accusato di ateismo e concubinaggio, corse il rischio di essere sottoposto al giudizio del tribunale di Inquisizione. Qualcuno mise in dubbio che Salvator Rosa fosse stato l’autore di “Michelemmà” ma Salvatore Di Giacomo, a seguito di un’approfondita ricerca, ne confermò la paternità e ne era così convinto che, per zittire gli oppositori, confezionò una “copiella” falsa, con in calce la firma ottimamente falsificata di Salvator Rosa, che fece distribuire durante i festeggiamenti di una Piedigrotta.Solo dopo diversi anni si scoprì quella contraffazione. Le copielle erano testi di canzoni, spesso corredate dagli spartiti, stampate su foglietti volanti e colorati che venivano

distribuiti per strada e a poco prezzo. La prima stampa napoletana conosciuta risale al 1537: solo l’amore per la canzone poteva far nascere l’idea di servirsi delle stampatrici. Proprio grazie alle copielle si diede grande diffusione alle canzoni e in questo modo si sono salvati numerosi canti popolari che sarebbero andati perduti e che invece sono giunti fino a noi anche grazie a persone innamorate della canzone napoletana come Guglielmo Cottrau, francese, ma naturalizzato napoletano. Gli editori che stampavano le copielle si servivano di venditori che casa per casa, nelle strade e nelle masserie distribuivano quei foglietti a bassissimo prezzo. Salvator Rosa era un intellettuale interessato anche alla filosofia che l’accompagnerà per tutta la vita anche grazie all’Accademia dei Percossi da lui fondata che lo introdusse nell’ambiente letterario fiorentino. Morì a Roma il 15 dicembre del 1673 e venne sepolto in Santa Maria degli Angeli, lasciando ai posteri l’esempio di un artista completo che oltre ad essere un grandissimo pittore, seppe esprimere la sua genialità anche l con la musica, la recitazione, la poesia e la letteratura, attraverso la quale seppe esprimere la sua attenzione critica alla politica e alla società, mostrandone le contraddizioni e promuovendo un radicale cambiamento. Raffaele Bocchetti

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Musica

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Fenesta ca Lucive, best-seller del 1500

canti popolari sono un po’ patrimonio di tutte le genti del mondo ma già nel 1200 a Napoli ebbero una grande diffusione. Era già noto, ai tempi di Federico II, “Jesce sole” un canto propiziatorio col quale si chiedeva al sole di non farsi desiderare, ma di sorgere presto. Successivamente le vicende politiche o i “gossip” di allora, come gli scandali di Margherita di Durazzo, offrirono ai maggiori musicisti del tempo argomenti validi per le loro creazioni. Nacquero così divertenti canzoni metaforiche come “Margaritella” del 1300 e “Muorto è lu purpo e sta sotto la preta” del 1400. Quando a Napoli nel 1500 ebbe enorme successo “ Fenesta ca lucive” erano di moda le “Villanelle” canti polifonici, composti da grandi musicisti, per cori accompagnati da strumenti musicali come il colascione, la tiorba e la citola. Il colascione dalla forma di mandolino, con il manico molto allungato, veniva impiegato come “basso”; la tiorba, forse di origine francese, è una specie di “liuto” simile a una paletta sulla quale sono fissate le corde che possono arrivare fino a 12 paia; la citola è uno strumento medievale cordofono, dalla forma di violino, con corde parallele. Grandi musicisti gareggiavano per la migliore produzione, tanto che nacquero i primi festival che avevano luogo a Largo di Castello, attuale Piazza Municipio. La Villanella più famosa fu certamente “ Voccuccia de nu pierzeco apreturo” del 1537 composta forse dal Velardiniello, talentuoso musicista e poeta. Tutti, o quasi tutti, immaginano che “Fenesta ca lucive” sia stata concepita a Napoli,che sia cioè figlia della grande tradizione musicale partenopea e invece sembra non sia così. Tutto ebbe iniziò a Carini, a pochi chilometri da Palermo, nel 1563. Il barone Vincenzo La Grua Talamanca aveva rinchiuso in un castello la sua giovane e bellissima figlia

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Caterina, rea di amare alla follia Vincenzo Vernagallo, giovane aristocratico di bell’aspetto. Il giovane aveva chiesto in sposa Caterina, nel pieno rispetto di tutte le regole imposte dal galateo del fidanzamento dell’epoca, ma il barone gli aveva opposto un netto diniego e, per evitare qualsiasi contatto tra i due, costrinse sua figlia alla prigione nel castello. Il Giovane Vernagallo, non si sa come, riuscì a conoscere un passaggio segreto per introdursi nel maniero e, giunto a Carini in incognito, riuscì, attraverso quel passaggio, a raggiungere Caterina. I due, concentrati nelle più ardenti effusioni, commisero qualche ingenuità, e furono sorpresi in flagrante dai guardiani del castello i quali corsero subito a Palermo ad informare il barone La Grua dell’increscioso fatto. Il barone immediatamente montò a cavallo, si precipitò al castello in preda all’ira, sfoderò la spada ed uccise la sua disonorata figlia. Fu questa drammatica vicenda, emblematica dei costumi e delle tradizioni siciliane dell’epoca, ad ispirare un ignoto cantastorie di quella meravigliosa isola, che compose quella che diventerà la più popolare canzone in tutta l’Italia meridionale. Qualcuno, forse in modo arbitrario, ha attribuito questa canzone a Vincenzo Bellini per la musica e a Giulio Genoino per il testo. Vi è pure un’altra versione che attribuisce la paternità a Matteo Ganci poeta siciliano che si sarebbe ispirato alla tragedia della baronessa Caterina La Grua. Fu a Napoli però che questa canzone ebbe il massimo consenso e divenne un vero e proprio best-seller, a tal punto da essere considerata, in tutto il mondo, una canzone napoletana e non siciliana. Questa canzone era sulla bocca di tutti e non vi era cantastorie o posteggiatore che non la includesse nel proprio repertorio. Federico Stella ne trasse un dramma

che venne rappresentato al teatro San Ferdinando e, su quel tema, fiorirono numerose sceneggiate. Ne ricavò una fortunatissima sceneggiata anche un geniale scrittore di teatro, Oscar Di Maio e, addirittura, nel 1914 la “Partenope Film” trasse da quella canzone il soggetto per un film muto interpretato da Italo Guglielmi e Jole Bertini. Il successo fu tale che circa dieci anni dopo la stessa “Partenope Film” ripropose lo stesso soggetto in un film i cui ruoli principali furono interpretati da Goffredo d’Andrea e Lucia Zanussi. Pier Paolo Pasolini utilizzò “Fenesta ca lucive” come colonna sonora del film Decameron nel 1971 e precedentemente nel film “Accattone”. Se ci domandiamo perché questa canzone riscosse tanto successo a Napoli e perché a Napoli attecchì tanto e vi si radicò, dobbiamo supporre che la causa sia solo una: Napoli già nel 1500 era la patria della canzone. Raffaele Bocchetti


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Peppino di Capri e i suoi Rockers

in tutte le librerie italiane il libro PEPPINO DI CAPRI E I SUOI ROCKERS di Gianmarco Cilento, recentemente pubblicato per i tipi Graus Editore, con la prefazione del compositore e cantautore Mimmo di Francia . Il volume, strutturato in sei capitoli di racconto, attraversa il periodo artistico di Peppino di Capri dagli inizi con il batterista Ettore “Bebè” Falconieri nel 1954 circa fino al 1968, anno dello scioglimento del complesso formatosi dieci anni prima, appunto, “Peppino di Capri e i suoi Rockers”, nome formale utilizzato nelle copertine dei dischi 45/33 giri e nei cartelloni per le esibizioni nei locali dal vivo, sia in Italia che all’estero. Finora sul personaggio sono stati pubblicati due volumi di rilievo, quello di Geo Nocchetti, Peppino di Capri. Il sognatore, Edizioni Rai/Eri, Roma, nel 2004; l’altro di Vincenzo Faiella e Sergio Vellino dal titolo Peppino di Capri. Discografia illustrata, cinquant’anni dal 1958 al 2008, Nicola Longobardi Editore, Castellamare di Stabia, 2008. Il primo è una sorta di intervista al cantante sulla vita professionale che va dagli esordi sino agli anni Novanta. Il secondo è un elenco illustrato della discografia italiana e straniera con brevi passaggi monografici. Il libro Peppino di Capri e i

Cinema

Le stelle non hanno padroni, 2018 Regia : Salvatore Bongiorno Sceneggiatura: Gianpiero Farinella Fotografia: Francesco Ippolito Scenografia: Mirco Inguaggiato Musiche originali: Francesco Bongiorno e Lorenzo Profita Cast: Vincenzo Albanese, Giuseppe Dino, Ferdinando Gattuccio, Antonio Occorso Salvo Piparo. Realizzazione: Miterra VideoLab Group

suoi Rockers di Gianmarco Cilento, pubblicato da Pietro Graus con la prefazione del compositore e cantautore Mimmo di Francia, 142 pagine, euro 15,00, intende essere ciò che forse è assentenei due precedenti lavori, e cioè una biografia artistica organica del cantante nel suo periodo di militanza con i Rockers, elemento unico e irripetibile, grande motivo della sua fortuna professionale. Nonostante la lunga carriera artistica di Peppino di Capri, questa monografia si ferma allo

scioglimento del primo complesso, per una ragione specifica. Poiché è corretto puntualizzare che Peppino non è da considerare un solista assoluto, in quanto nel decennio che ha maggiormente caratterizzato il suo personaggio musicale, appunto gli anni Sessanta, molta della sua fama di interprete e di arrangiatore si lega indissolubilmente al merito dell’eccellente collaborazione coi Rockers, che oltre ad essere statauna delle formazioni più longevenell’accompagnamento di un cantante in voga, è stata anche tra le formazioni più libere tra quelle affiancate e supportate sulla scena dal cantante leader, quindi in questo caso non totalmente indipendenti come un complesso a sé. Perciò, sebbene la parte complessiva affrontata in questa sede sia solo un sesto della carriera discografica effettiva di Peppino di Capri, essa è in realtà la più importante, redditizia e celebre, ma anche quella dove il cantante e i suoi musicisti hanno lanciato i loro brani più noti. L’autore affronta l’argomento da un punto di vista scientifico, ma anche critico e investigativo, basandosi sulle fonti autorevoli e collaudate presenti in bibliografia. Giammarco Cilento

Le stelle delle Petralie Poesia del linguaggio, delle immagini, delle sensazioni, di odori vaghi e serpeggianti, di ricerca di un lessico che rischia di essere dimenticato o di emigrare…. insieme a tanti nostri validi giovani. Ecco la mia impressione di fronte al film “Le stelle non hanno padroni”, per la regia di Salvatore Bongiorno, opera del gruppo MiTerra VideoLab di Petralia Sottana. Imponenza della bellezza selvaggia dei luoghi. Fotografia attenta, poetica, in certi momenti all´apice della rarefazione lirica. Epifanio Li Puma, le lotte agrarie, quel marzo del 1948, la primavera del popolo siciliano. Quella primavera che ha sempre accompagnato le lotte del popolo di questa Terra, sin da quel lunedì dell´Angelo del 1282, I Vespri. Quella Primavera che è la Dea di una Terra bagnata di sangue ma anche resa fertile dall´impegno politico e civile di un Epifanio Li Puma, di un Girolamo Li Causi, di un Pio La Torre. Petralia, le Petralie nella loro pluralità di

linguaggi scenici, dominano come “Le parole sono pietre” di Carlo Levi, dove il tema è pure legato all´impegno politico e sindacale di un altro grande nome: Salvatore Carnevale. Un film, “Le stelle non hanno padroni”, realizzato con pochi mezzi ma con tutta quella passione che scorre tra le varie scene, tra braccianti, sindacalisti e studenti; tra donne che cominciano ad assumere contezza del´essere; tra figure che s´inseguono e si susseguono, aleggiano e volteggiano all´unisono, soprattutto nell´epica scena finale delle bandiere rosse che sventolano verso la conquista delle terre. ... “Non più nemici, non più frontiere, Lungo i confini rosse bandiere ...” Teresa Triscari

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Leggende

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Gli echi di Donn' Anna e del suo palazzo

rrivare a Palazzo Donn’Anna e, un po’ prima, affacciarsi sul mare, percepire della storica dimora un lato solo, quello che ancora mostra i segni dell’incompiuto per penetrarne l’essenza, l’incarnazione di senso che è dentro il tufo, serve a capire, ancora una volta, come la natura si tramuti in cultura. Il banco tufaceo della costa è, per riproporre la bella considerazione di Eduardo Cirlot, “la prima solidificazione del ritmo creatore…è la musica pietrificata della creazione”, così come Goethe scriveva per l’architettura considerandola “musica ammutolita”. Singolare e impegnativa dovette essere la committenza del viceré Ramino Guzman, rivolta al cavalier Cosimo Fanzago per la straordinaria dimora destinata alla moglie Donn’Anna Carafa; sembra quasi essere lo svolgimento di un tema architettonico che mette insieme, in un unico connubio, le belle definizioni dei due pensatori che ho citato. Una sorta di concreta, tangibile correlazione di un tema filosofico che appassiona ancora, fortunatamente, non pochi architetti. L’invenzione fanzaghiana, tutta ambientalista, consiste nello scandagliare le caratteristiche del luogo per trarne indicazioni che sono riassunte, in modo fulminante, nella popolare locuzione “nu pere ô nfuso e n’ato all’asciutto”, indicativa di questo transito dal mare alla terra, poiché a Palazzo Donn’Anna si arrivava in barca. “In palazzo donn’Anna – ha scritto Gaetana Cantone nel suo bel libro su “Napoli barocca e Cosimo Fanzago” – il canale d’acqua nel banco tufaceo viene utilizzato per i collegamenti con il piano a quota strada e la facciata, con profonde arcate, è un fondale atto a proteggere gli ambienti retrostanti dal mare”. Basta dare uno sguardo alla mappa topografica di Giovanni Carafa duca di Noja, per rendersi conto che l’accesso alla dimora vicereale era dal mare sul quale si affacciava il fronte principale con loggiati, archi e nicchie in una atmosferica e teatrale apertura sul golfo.

La bella strada di Posillipo, infatti, sarà costruita più tardi per decreto di Murat, nel 1812, allo scopo di collegare meglio la città con i campi Flegrei e Pozzuoli. La storia del Palazzo è piuttosto intricata: dalle sontuose, seicentesche feste vicereali fino a una condizione di degrado tale che “vi si stabilirono i gufi, vi si nascosero malandrini … Il volgo confuse donn’Anna con la regina Giovanna”, come scrisse Michelangelo Schipa nel 1892. Ancor prima il Palazzo fu destinato a una fabbrica, malinconicamente descritta nella seconda metà dell’Ottocento, dal Chiarini: “Il fumo che n’esce continuamente per esservi stabilita una fabbrica di vetri, la tinta bruna delle fracassate muraglie, gli screpolati cornicioni … ma il vederlo negletto, rovinoso, inabitato quasi cadente danno a questo edificio un aspetto di antichità”. Un aspetto molto simile a rovine antiche, peraltro già presenti lungo la costa di Posillipo; un’immagine dunque suggestiva, di ruderi e natura intimamente connessi, tale da invitare molti degli artisti, da Gaetano Esposito a Giuseppe Casciaro, che si dedicavano al vedutismo, ad assumere Palazzo Donn’Anna come seducente soggetto dei loro dipinti. Penso soprattutto a Gaetano Esposito che oltretutto vi abitava stabilmente e aveva finanche dipinto una Madonna in una delle nicchie esterne della sua dimora.

Un soggetto molto replicato proprio per quell’aspetto fatto - come ha scritto Vincenzo Trione - di “mura consumate, nicchie vuote, finestre cieche, archi aperti sul golfo, grotte scolpite dal vento”. Il protagonista materico della scena è il tufo, quella pietra di un particolare giallo che incantò Thomas Jones, a Napoli nel 1778, pittoricamente sedotto dalle facciate in tufo nudo, alla luce del sole, delle povere case napoletane. Questa stessa attrazione mi spinse a sostare sulla strada, prima ancora di entrare nel Palazzo, per apprezzare con gli occhi di Ruskin proprio il lato incompiuto dal quale affiora ancora il tufo. “I materiali diventano architettonicamente validi soltanto se l’architetto è capace di conferire loro un significato estetico”. Questa efficace e chiara riflessione di Pevsner mi veniva in mente e trovava in Palazzo Donn’Anna una sorta di esemplificazione proprio nella correlazione tra il tufo che conferisce forma all’architettura e il tufo della costa posillipina su cui si fonda. Ecco uno straordinario, storico contributo alla costruzione del nostro bel paesaggio i cui echi affettivi e sentimentali si fecero sentire in quella splendida passeggiata che ebbi modo di fare. Franco Lista

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L’ Applauso Napoletano

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cittadini napoletani stanno soffrendo il contingentamento dei dipendenti comunali che, andati in pensione, non vengono rimpiazzati. Non possiamo non ringraziare, quindi, quegli anziani dipendenti, che, ancora in servizio, sono costretti a moltiplicare le loro energie per far fronte, con competenza, a carichi di lavoro che, per quelli che hanno più sviluppato il senso del dovere, sono diventati più che stressanti. Nonostante loro, i ritardi che la macchina comunale sta accumulando, rischiano di stressare anche tanti cittadini. Il tutto in concomitanza di un'assenza dei politici che, invece di guardare da vicino le quotidiane difficoltà della popolazione attiva, continuano a fare i "rivoluzionari" mascherando le loro deficienze e incapacità organizzative inseguendo posizioni di "avanguardia verbale" che sono avanguardia sociale solo per coloro che non sanno cosa significhi avanguardia in una città piena di problemi e povera di lavoro. "Il Confronto" da parecchi decenni ha adottato la scelta di sottolineare la sol-

erzia- oggi diventata sacrificio- di tanti dipendenti pubblici che non hanno mai disgiunto la loro funzione operativa dalla consapevolezza di essere loro stessi anche cittadini cercando di onorare, contemporaneamente, l'impegno di lavoro , la scelta del rispetto del pubblico e quello della loro professione. E allora ci permettiamo di elevare il nostro APPLAUSO ad uno di questi "eroi" che abbiamo incontrato al posto di lavoro, puntuali ed efficaci, nonostante la mole delle mansioni che il Comune affida loro cercando di sopperire alle carenze di personale e di organizzazione. Si chama Mario Mengoni, è geometra di lungo corso, e continua ad avere la forza di sorridere da sotto la mole di fascicoli che arrivano quotidianamente sulla sua scrivania per varie attività di tipo tecnico- dai passi carrabili alle Idoneità abitative, dalle pratiche edilizie di ogni genere, ai necessari sopralluoghi e alle altre contingenze minori ( deve curare la corrispondenza con i tecnici e gli utenti privati, battendo al computer le relative lettere, deve cura-

re i conteggi e i versamenti connessi alle pratiche, deve usare il computer personale visto che quello di dotazione comunale è fuori servizio da qualche tempo). Lavoro, responsabilità e stress conseguente. "Ma come fai a continuare a sorridere?" "Mantengo l'allegria e il ritmo per vizio e conformazione caratteriale, ma anche perchè, tra tre mesi, maturo il diritto di andare in pensione dove sicuramente mi sentirò più leggero" CHI VO' MALE A MARITTIELLO HA DA CRESCERE 'O SCARTIELLO. gli hanno scritto in apposito manifesto regolarmente affisso al di sopra della sua scrivania, colleghi e e amici. Grazie Mario, a nome della città. Noi lo "scartiello" vorremmo che crescesse veramente alle spalle di chi ha assunto impegni per la città senza averne le capacità per affrontarli concretamente. Il Confronto

Applauso abbruzzese al periodico "Dietro le quinte" di Vasto

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Una quinta culturale di Napoli: la cittá del Vasto

'é sempre stato un notevole legame non solo culturale tra Napoli e la piú meridionale delle cittá abbruzzesi Vasto, o meglio "Il Vasto". Perché "Il Vasto"? Perché Vasto é una modifica fonetica: é "la cittá del guasto" quello che si produsse in seguito ad un fortissimo terremoto alcuni secoli fa. Il legame profondo che lega Vasto a Napoli é la famiglia D' Avalos, venuta a Napoli al seguito di re Alfonso D' Aragona, quando Alfonso fu nominato suo erede e successore da quella pazzerella della regina Giovanna II D' Angió Durazzo. La lealtá dei D' Avalos verso gli Aragonesi fu adamantina e giustamente il re di Napoli li tenne nella massima considerazione intestando loro alcuni importanti feudi tra cui il marchesato di Pescara e Vasto. A Vasto, come a Napoli, i D' Avalos costruirono un magnifico palazzo sul ciglio della collina che domina il mare. I D' Avalos furono grandi realizzatori di costruzioni militari: il castello di Procida,

quello di Baia, quello di Pietra Vairano e tanti altri di fama minore furono dovuti alle capacitá militari e architettoniche di Innico D' Avalos. Ma spesso l' arte ha unito le due cittá Napoli e Vasto: un legame che ha prodotto nomi di fama come i tre fratelli Palizzi, nati a Vasto ma resi famosi da Napoli. E Napoli mantiene un forte richiamo nei Vastesi attraverso il teatro San Carlo per l' opera lirica e balletti classici, attraverso i vari teatri di prosa e di recitazione in genere, attraverso le tante manifestazioni d' arte che generano scambi culturali che si muovono e si intensificano, anno dopo anno. Oggi a Vasto vive un' "Accademia de' Scugnizze" e ci sono molti cultori di lingua napoletana tanto che il periodico "Dietro le quinte" animato dal generoso Mario de Luca e da un nutrito staff redazionale, pubblica lezioni di grammatica e grafia di napoletano insegnando specialmente la scrittura di tale lingua. Sarebbero tanti ad aver bisogno di lezioni di scrittura in napoletano a Napoli come in tutto il sud.

Abbiamo avuto tra le mani per caso il numero uno dell' Anno IV - Gennaio 2019 di questa pubblicazione e non possiamo fare a meno di elevare un applauso alla sua redazione tutta per le ricerche artistiche e la competenza linguistica che versano nella loro pubblicazione "Dietro le quinte".

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