Il Confronto - gennaio 2020

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il Confronto

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L'EDITORIALE

Anno 47 #1

Il Continente non è isolato!

L' Art. 11 della Costituzione Italiana L' altalena di Maria Antonietta EreditĂ in Bilico A Napoli il Convegno Internazionale del Presepe La Piana di Lascari e il vento recitante di Giuseppe Schettino Protesta contro il cambiamento climatico a Cambridge

Gennaio 2020

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L' Editoriale

IL CONTINENTE NON È ISOLATO !

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ome ha recentemente ricordato Giuseppe Ossorio in un suo intervento su FB, negli anni 30 del secolo scorso, spesso la nebbia interrompeva la continuità dei trasporti marittimi tra Europa e Inghilterra. "Il Continente è isolato" riportavano i giornali inglesi. No, non siamo mai stati isolati, ma il tweet di gioia del presidente USA Donald Trump alla notizia che i nemici dell'Europa avevano vinto le elezioni in Inghilterra del 12 dicembre appena passato, farà comprendere a tanti ancora euroscettici come l'esistenza dell'Europa Unita è una necessità per tante Nazioni come l'Italia. La Brexit, cioè l'uscita dell'inghilterra dall'Europa, fa capire anche un'altra importantissima cosa: l'Europa, cosi' com'è vissuta finora, è insufficiente agli scopi che si è prefissa. DEVE essere migliorata; DEVE superare la dimensione monetaria e di mercato cui finora è giunta; DEVE saper essere più solidale e più politicamente compatta all'interno e all'esterno nei rapporti internazionali. Se Trump non ha vista lunga, pazienza, ma la cultura occidentale, nel suo insieme, deve sapersi opporre alle miopi visioni nazionalistiche che sembrano volersi risvegliare ,proprio in questo momento in cui il gigantismo di certe Economie nel mondo sembra intenzionato a colonizzare le piccole realtà nazionali che- si sta dimostrando con l'ILVA di Taranto,l'ALCOA della Sardegna, la WIRPUL di Marcianise e tante altre- non hanno la forza di contrastare le decisioni neoliberiste del mercato globale. PIU' EUROPA, maggiore visione solidale della politica per Nazioni che devono divenire sempre più sorelle, come era nella visione dei padri fondatori dell?Europa e, ancor di più, nelle utopie dei grandi pensatori dell'Ottocento: questa la linea che il mondo complesso della Sinistra Laica deve saper sostenere, puntando a superare i frazionismi nominalistici che ancora la rendono inefficace. Qualcosa hanno cominciato già a capire proprio tanti antieuropeisti della Lega e dei 5Stelle. E' poco. Ci vuole maggiore mobilitazione e maggiore determinazione da parte di coloro che, da sempre, si sono dichiarati Europeisti convinti. Elio Notarbartolo

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L’ARTICOLO 11 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

’ Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". Quando i Padri costituenti scrivevano ed approvavano l’articolo 11 già pensavano ad istituzioni sovranazionali che garantissero nuovi equilibri internazionali capaci di dare corpo ad un sistema tutelante la pace, la sicurezza ed i diritti dei popoli; una nuova civiltà, affrancata dai pericolosi rapporti di forza tra stati nazionali, che si ispirava ad una società aperta, allo scambio culturale ed alla condivisione degli spazi di libertà (come disegnata dal Manifesto di Ventotene). L’art. 11, in sintesi, rendeva la vita costituzionale dello Stato Italiano permeabile ai poteri sovranazionali e rappresentava un contributo avanzato all’ispirazione universale del costituzionalismo contemporaneo. Purtroppo gli ideali espressi dall’ art.11 della costituzione italiana, ripresi dalla successiva Carta dell’ONU, appaiono oggi minacciati da un regresso epocale. Nuovi orientamenti, ispirati all’esercizio di poteri forti prevaricanti ed alla tutela di profitti senza etica, stanno alimentando tentazioni imperialiste generando ideologie fondamentaliste e nuove forme di violenza sociale; assistiamo a forze armate di stati operare fuori dai propri confini nazionali senza alcuna dichiarazione di guerra, con l’ obiettivo ipocrita di portare la pace tra etnie e fazioni in conflitto. Il potere internazionale della ricchezza e

delle armi è ancora forte e senza vincoli! La fine dell’era dei due blocchi invano si auspicava potesse condurre la comunità internazionale all’applicazione di principi quali la convivenza pacifica, la legalità (mai più muri). Assistiamo, invece, al dilagare del sovranismo nazionalista, tendente al depotenziamento delle organizzazioni internazionali e le istituzioni sovranazionali. Assistiamo, con indifferenza, al consolidamento delle disuguaglianze, alla drammatica violazione dei diritti umani, pur proclamati nella “Dichiarazione Universale”, alle discriminazioni di razze, sesso e specialmente religioni che generano

classi socialmente più deboli, iniquità distributiva a fronte del consolidamento di regime capitalistico senza controllo e di affabulanti messaggi sovranisti, ipocritamente individuati quali strumenti risolutivi. Ma nonostante le ingiustizie, gli arbìtri, le menzogne strumentali, la violazione dei diritti, le discriminazioni che la collettività subisce, i principi consacrati dalla nostra Costituzione conservano importante valore per l’organizzazione della convivenza civile nazionale e della comunità sovranazionale alla quale apparteniamo. Questo è il motivo per cui è fondamentale l’articolo 11 della Costituzione, per questo

scontri tra comunità legate a diverso “credo”, strumentalmente negando anche gli orrori della Shoah. E’ difficile non vedere negli accadimenti realtà connotate da forti tendenze regressive. Da Johnson a Trump, a Putin, a Erdogan, a Orban siamo sempre in presenza di ottusi sovranismi nazionalisti che tendono alla destrutturazioni delle istituzioni internazionali. In Italia la crisi economica sta generando carenza di lavoro, impoverimento delle

la Costituzione europea, che mutua nel processo di integrazione le disposizioni costituzionali dei paesi membri, dovrà continuare ad affermare, contro ogni ignorante fanatismo, egoismo e strumentale nazionalismo, la volontà di costruire un ordine sociale ed economico che si informi a principi di democrazia. Vincenzo Caratozzolo

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LA SCUOLA MEDICA SALERNITANA: NASCITA, VITA, MORTE...UNA QUESTIONE TUTTA SALERNITANA

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lea, la colonia greca fondata dai Focesi, ricorda ancora la sua gloria con le interessanti mura e le altre rovine nei pressi dell'attuale comune di Ascea, in provincia di Salerno. Sono in tanti ad aver avuto conoscenza della prestigiosa scuola eleatica: era una scuola di filosofi che ha influenzato la filosofia della Magna Grecia e di tutto il bacino del Mediterraneo, per parecchio tempo, prima dell'avvento di Platone e di Aristotele. Sono pochi, invece, quelli che sanno che ad Elea fiorì una prestigiosa scuola medica che raccolse gli insegnamenti di Ippocrate e di Galeno, tra i più famosi medici dell'antichità. A Elea si recavano molti giovani desiderosi di apprendere i metodi curativi che colà venivano discussi e praticati. Elea, però, con l'insabbiamento del porto, perse una delle più importanti vie di collegamento con il resto del mondo: il mare. Il porto di Salerno,invece, andava via via allargandosi e Salerno ebbe la fortuna di ospitare la scuola medica nata nella vicina Elea. Non era una scuola di dotti accademici, quella di Salerno: era una scuola di esperti che praticavano la medicina sul campo e

si scambiavano esperienze, puntando alla prevenzione delle malattie. Fu così che, poi, la scuola medica pote' registrare gli apporti delle scuole ebraiche, arabe e romane, da tante personalità che arrivavano via mare e diventare sempre più influente. La sua fama raggiunse Parigi, Orleans, Bologna e i centri culturali più importanti dell' Alto Medioevo anche se, a Salerno, c'era più pratica medica che cultura. Ai tempi del grande Federico II, la sua fama era tale che l'imperatore si scelse a Salerno una schiera di medici per sè, il più noto dei quali fu quel Giovanni da Procida che dichiarò la più fiera guerra ai nemici di Federico, dopo la morte dello stesso Federico e del suo figlio e successore, Manfredi. Proprio ai tempi del grande imperatore, ci fu un altro Salernitano, Pietro da Eboli, scrittore e poeta di corte, che ebbe a pubblicare un libro che acquistò subito grande fama: "De Balneis puteolanis" che magnificava le qualità curative delle tante sorgenti di acque minerali dei Campi Flegrei. Lo stesso Federico II volle provare le meravigliose cure delle sorgenti termominerali di Pozzuoli, e la fama della scuola medica di Salerno cominciò a declinare.

Addirittura, si racconta che tre medici di Salerno si recarono nei Campi Flegrei a distruggere alcune stazioni termali, non sentendosi più in grado di sostenerne la concorrenza. La scuola di Salerno, nonostante questo diffuso pessimismo, sopravvisse mantenendo un minimo di dignità, finchè non fu abolita nel 1805 da Gioacchino Murat. Fu poi riaperta con la restaurazione borbonica ma fu chiusa definitivamente nel 1861. E chi l'ha chiusa? Un ministro del Regno d'Italia, nato vicino Salerno, a Morra (oggi Morra De Santis in provincia di Avellino).

LE BADESSE DEL GOLETO COME LE DONNE CURDE

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ino al 1141 non c'era quella specie di "pensa che possono essere streghe" che rese la chiesa cattolica alquanto nemica delle donne. Anche i preti si potevano sposare. Nel 1133, dopo aver fondato il monastero di Montevergine, fra' Guglielmo da Vercelli, si fece donare dai Normanni un territorio nei pressi di Sant'Angelo dei Lombardi e vi fondò l'Abbazia del Goleto. Era fatta per le monache che, attraverso le badesse la dirigevano e, in una costruzione più piccola, ospitava anche i frati che avevano solo funzioni spirituali .e am-

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ministrative e dipendevano da esse. Furono le badesse che vollero fortificare l'abbazia costruendo la forte torre che ancora si può ammirare, insieme ad altre fortificazioni minori: è la torre Feronia, che era il nome della prima Badessa, a cui seguirono Marina I, Marina II, Scolastica e tante altre, prima che, nel 1515, il monastero fosse chiuso. San Guglielmo fu sepolto nella chiesa inferiore del Goleto, anche se, dopo la chiusura, il suo corpo fu portato a Montevergine. La chiesa è al centro del complesso monastico, ed è divisa in una chiesa inferiore, costruita nel 1200, e in una chiesa superiore, terminata nel 1255. Il corrimano in pietra della scala esterna che porta alla chiesa superiore, detta di san Luca, è a forma di serpente che tiene una mela in bocca a simboleggiare il peccato originale. Ma ci sono ancora molte sculture simboliche da vedere e interpretare. E' un vero e proprio tesoro che l'ottusità

della Regione Campania tarda a valorizzare insieme al resto dell'Irpinia. La chiesa inferiore fu realizzata parecchio prima e conserva decorazioni di epoca romana, Il pregio maggiore di tutto il complesso sta nell'anno di costruzione de chiesa: il 1200, cioè ben 28 anni prima che che fosse concepita la chiesa di Assisi. Le maestranze del Sud, furono loro d ispirare gli architetti della famosissima chiesa inferiore e superiore dedicate a san Francesco di Assisi! Di Assisi si sa tutto; del Goleto, grazie anche alla pigrizia intellettuale di molti meridionali, non si sa quasi niente. Eppure vanta il primato delle badesse di spirito guerriero e di quell'architettura che, con tanta umiltà, ha ispirato i grandi architetti della tradizione italiana.


L' ALTALENA DI MARIA ANTONIETTA

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’ energia sessuale, come la chiamavano i nostri antenati, era considerata l’esperienza primaria del corpo in grado di agire sul piano fisico e mentale, soprassedendo essa alla necessità alla conservazione e allo sviluppo della specie. Nelle grandi civiltà del passato, la sfera sessuale, lungi dal rimanere nascosta e repressa, si esprimeva liberamente in composizioni a tre dimensioni oppure in negli affreschi e nei graffiti L’arte erotica in tantissime civiltà del passato, assunse una ricchezza di connotazioni che andavano ben oltre l’aspetto mistico sacrale delle origini, toccando direttamente la sfera del piacere, con una propria sacralizzazione espressiva . Il  sesso  è sempre stato una costante nell’arte di ogni tempo: forme falliche, donne formose e scene di amplessi sono state sempre raffigurate sui muri, dipinte o scolpite nella pietra. Per i Romani, i più vicini a noi nel tempo, queste espressioni artistiche non erano qualcosa da nascondere o camuffare, perché essi li reputavano specialmente simboli di fertilità, divertimento, abbondanza e convivialità.

Non vi era traccia di quello che il Cristianesimo, sin dai suoi primi passi, avrebbe introdotto in un mondo con uomini che non credevano nell’immortalità dell’anima e dove principiava l’erotismo. La Chiesa cristiana, anzi, intraprese una dura lotta per reprimere la sessualità. Mise in atto una sua politica raffinata a tal punto dadimostrarsi capace di funzionare per secoli. Flessibilità e pragmatismo divennero le chiavi del sistema di controllo, che ripeteva condanne assolute della masturbazione, della sodomia, della prostituzione, alternava repressione e clemenza, istallando e rafforzando così nelle coscienze, quel senso di peccato e della colpa che ancora oggi vige in tante persone, garantendo la perpetua soggezione delle anime. lI sesso veniva consentito in determinati giorni: no al venerdì, no al sabato, no la domenica. Idem nei giorni di Pasqua, Natale e Pentecoste. L’astinenza più lunga cadeva il giorno della Pentecoste e durava sessanta giorni. La parola Amore era ritenuta passione selvaggia e divoratrice, fu cambiata in caritas cioè forma di devozione e sensibilità verso il divino, avulsa però, da qualsiasi connotazione sessuale. La letteratura medievale servì ad abbellire la realtà con le liaison’amorose di cavalieri ammaliatori, l’amore “cortese”, epico cavalleresco: mostrava un vassallaggio amoroso tra nobili, con storie intrecciate di amori infelici e adulteri come Tristano e Isotta o Lancillotto e Ginevra, che misero in scena l’incesto, il tradimento, il legame feudale, in contrapposizione alle leggi ecclesiastiche. Alla fine del Settecento e nell’Ottocento prevalse, nella dimensione della sessualità, la competenza di studiosi, medici, biologi, antropologi e psicoanalisti che sottrassero così alla Chiesa l’arroganza di imporre norme universali, di definire il

senso e il valore dell’atto sessuale. Temi, questi, che aprirono un solco profondo tra la visione cattolica e le esigenze fisiologiche e psicologiche degli uomini mentre le donne, pur essendo le più sicure alleate della Chiesa furono ignorate nei secoli, vivendo in una totale sottomissione della società maschilistacome ancora oggi dobbiamo, spesso, constatare. Le pulsioni emotive e sessuali delle donne non potevano esprimersi ed erano sempre camuffate con vari simbolismi. L’ esempio più clamoroso e artisticamente simbolico fu l’altalena di Fragonard, unFrancese non troppo assoggettato alle inibizioni del 700, che chiese espressamente di essere ritratto mentre sbirciava le grazie della sua bella, seduta su un‘ altalena. La licenziosità dell’immagine colpì la fantasia della regina Maria Antonietta che, per sopperire alla noia e a un matrimonio sessualmente tormentato, volle arredare il suo salotto, con arazzi a soggetti erotici: l’altalena dell’amore, la fontana dell’amore, mosca cieca..... La rivoluzione francese era alle porte e la regina fu presa di mira dalla società cristiana, dalla letteratura e dal popolo, che trasferirono, di lei, un’immagine leziosa e leggera incapace di capire quanto le stava succedendo intorno. Perciò, ancora oggi, si ricorda il fatto che, sentendo chiedere dalla folla rivoluzionaria “pane” pensò bene di suggerire a chi le stava intorno: “Se non hanno pane, ebbene, date loro brioches”. Silvana D'Andrea

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LA LIBRERIA PIERRO IN PIAZZA DANTE

hi passa oggi per piazza Dante, mentre si destreggia fra bancarelle, folla variopinta, motorini ed ostacoli vari, forse non sa che passa dove negli ultimi decenni dell’Ottocento c’era la libreria più rinomata di Napoli e del Sud, la libreria Pierro, oggi scomparsa. L’aveva fondata don Luigi Pierro, un semplice giornalaio di piazza Dante, che aveva la sua edicola in un casotto vicino alla fermata dei tram, uno di quei casotti che si vedono in tutte le foto d’epoca che mostrano la piazza, come ad esempio quella che accompagna questo articolo. Pierro, un signore alto e magro, iniziò ad avere fortuna con la vendita delle dispense illustrate pubblicate da Sonzogno: “I tre Moschettieri”, “Il fabbro del convento”, “la portatrice di pane”. Poi aprì bottega sul marciapiede di fronte, una piccola stanza quadrata con un angusto retrobottega, regno di un suo fidatissimo aiutante, don Antonio Ragozzino. Sebbene fosse quasi analfabeta, un modesto giornalaio, Pierro iniziò con intelligenza l’attività di editore. Mise in piedi una grande tipografia e ben presto divenne un

editore importante, cosa che gli procurò ricchezza e la possibilità di comprarsi una villa all’Arenella. Nella sua libreria passarono i personaggi più eminenti di Napoli e del Sud nel campo delle lettere, delle scienze, del giornalismo, della politica, professori universitari, poeti, artisti, trasformando quella libreria in un punto di riferimento della cultura di fine Ottocento. Volendo fare qualche nome, ricordiamo Francesco Torraca, gli allora giovani Benedetto Croce, Michelangelo Schipa, Salvatore Di Giacomo, Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, Ferdinando Russo. Fu Pierro a pubblicare i primi versi di Ferdinando Russo e Di Giacomo. Emanuele Gianturco, quando diventò ministro della Pubblica Istruzione, fece nominare Pierro, meritatamente, Cavaliere del Lavoro. Le cronache raccontano che la nomina fu festeggiata con un banchetto nell’allora notissimo ristorante di via Tasso, “Il Pallino”. La stamperia, Luigi Pierro l’aveva comprata su sollecitazione dell’unico figlio, Peppino, che non poté succedere al padre perché morì giovane.

Peppino lasciò cinque figli piccoli, a cui nonno Luigi fece da padre. Alla morte del fondatore, i giovani nipoti non furono capaci di continuare l’attività della libreria ai livelli a cui l’aveva portata l’avo. Un po’ alla volta, della libreria Pierro è rimasto solo il ricordo, reso però duraturo dai libri che con quel nome oggi girano fra i bibliofili. Antonio La Gala

il Confronto Direttore responsabile Iki Notarbartolo

Direttore editoriale Elio Notarbartolo

Grafico / Web Designer Umberto Amicucci Hanno collaborato: Franco Ambrosino, Raffaele Bocchetti, Margherita Calò, Vincenzo Caratozzolo, Guido Caridei, Giammarco Cilento, Silvana D’Andrea, Antonio Ferrajoli, Paolo Gravagnuolo, Raffaele Graziano, Antonio La Gala, Franco Lista, Gianluca Mattera, Gilda Kiwua Notarbartolo, Giancarlo Nobile, Ernesto Paolozzi, Mimmo Piscopo, Massimiliano Quintiliani, Giacomo Retaggio, Francesca Santoro, Maria Carla Tartarone, Teresa Triscari, Girolamo Vajatica, Sergio Zazzera Periodico autofinanziato a distribuzione gratuita confronto@hotmail.it elio.notarbartolo@live.it www.ilconfronto.eu Registrazione n° 2427 Trib. di Napoli del 27/09/1973 Casa Editrice Ge.DAT. s.r.l. Via Boezio, 33 Napoli Attività di natura non commerciale ai sensi del DPR 26/10/1972 n° 633 e successive Stampa: AGN s.r.l. via Vicinale Paradiso 7 80126 Napoli

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UN BEATO ABRUZZESE COMPATRONO DI NAPOLI E DI FURCI IN ABRUZZO

apoli ha ben 72 compatroni, il più conosciuto dei quali è san Gennaro che, secondo la chiesa cattolica, fa più portenti che miracoli. Nessun miracolo la chiesa riconosce, invece, al beato Angelo da Furci in Abruzzo, a cui è devoto mezzo Abruzzo. Perciò, è un venerato come tanti santi, ma rimane in sottordine nel libro degli Intercessori ufficiali tra dio e gli uomini. Angelo era nato a cavallo tra il '200 e il '3oo proprio a Furci, grazie alle intercessioni di san Michele, giacchè i genitori erano sterili. Studiò molto a Parigi e divenne "lettore" degli Agostiniani. Si trasferì a Napoli operando specialmente nella chiesa di Sant'Agostino alla Zecca la chiesa che ha ancora una sua visibiltà nella zona di Forcella, e non volle muoversi da questa destinazione ecclesiastica pur potendo svolgere la funzione di vescovo di Acerra. Morì e fu sepolto in sant'Agostino alla Zecca, ma, nel 1808, la Chiesa diede il consenso a che le sue spoglie fossero traslate nel paese natio: Furci in Abruzzo. A Furci continua ad essere molto

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venerato e i paesani hanno avuto la forza economica di edificare una bellissima chiesa moderna dedicandola a lui. E' veramente da vedere, nella sua semplicità adornativa e nella sua austerità architettonica sottolineata, senza eccessiva enfasi, dalle strutture cementizie a giorno, all'interno e all'esterno, capaci, da sole, di ispirare senso del sacro nella partitura quasi geometrica degli spazi. La pittura non invade, si fa da parte, inchinandosi all'architettura, a recitare un suo ruolo dimesso e pur essenziale, che contribuisce ad esaltare la figura di questo esemplare studioso dei fatti della religione, e, a detta dei Furcesi, anche di dar luogo a tanti miracoli. Furci è un centro abitato piuttosto piccolo diviso in due parti. E' proprio la chiesa che divide il borgo di Furci in una parte antica e in una parte moderna. Quella antica, naturalmente, è la più interessante perchè Furci è stato un castello tra i meno violabili dai vari rapaci invasori di tutta l'Italia. Merita di essere visitato per le tante particolarità che conserva, dal castello

alla spelonca del Beato, per le viuzze appese e le scalinate che si arrampicano per abbreviare il cammino ai pochi abitanti. Non trascurate, quando ci andrete, di far onore alla speciale cucina abruzzese fatta di minestroni, pasta alla chitarra, cannelloni leggerissimi, e persino trippa e fagioli.

LA “PAGA” DI SAN TOMMASO

rima Università statale d’ Italia, quella di Napoli fu fondata, il 5 giugno 1224, da Federico II di Svevia, mediante l’ emanazione dell’editto “Generalis lictera”. In essa l’insegnamento della teologia fu impartito nel convento di San Domenico Maggiore, dove, fra il 1271 e il 1274, titolare della cattedra fu Tommaso d’Aquino, il frate domenicano, poi canonizzato, che in quel medesimo convento dimorò e la cui cella è tuttora visitabile. Nel frattempo, dal 1266, agli Svevi erano subentrati gli Angioini, il cui re Carlo I era entrato in maniera trionfale in Napoli il 7 marzo. Al nuovo monarca non tardò a giungere la notizia della fama che il grande teologo si era conquistata tra gli studenti, sempre più numerosi, per cui, nel 1272, egli si risolse a decretare ufficialmente la misura della retribuzione da corrispondergli, che fu determinata in un’oncia d’oro al mese. La memoria di tale risoluzione sovrana è affidata a una lapide, apposta all’ingresso dell’aula, nella quale l’ Aquinate teneva le sue lezioni, che è quella posta immediata-

mente sulla destra dell’androne di accesso al convento dal cortile principale, oggi adibita a sala conferenze. Il tenore di essa è il seguente: VIATOR, HUC INGREDIENS, SISTE GRA-DUM, ATQ, VENERARE HANC IMAGINEM ET CATHEDRAM HANC, IN QUA SEDENS MAGNUS ILLE MAGISTER DIVUS THOMAS DE AQUINO, NEAPOLITANUS, CUM FRE-QUENTE, UT PAR ERAT, AUDITOR(um) CONCURSU, ET ILLIUS SECULI FELICITATE CAETEROS QUAMPLURIMOS ADMIRABILI DOCTRINA THEOLOGIAM DOCEBAT, ACCERSIT(us) IA(m) A REGE CAROLO PRIMO CONSTITUTA ILLI MERCEDE UNIUS UNCIAE AURI PER SINGULOS MENSES, I.V.C(us) IN ANNO MCCLXXII D.S.S.F.F Si noti, intanto, che erroneamente il santo vi è qualificato “neapolitanus”, dal momento che egli proveniva da Roccasecca, nel Frusinate. Ma qual era il valore in danaro di questa modalità retributiva? L’ oncia era una misura di peso equiva

lente, all’incirca, a 27 grammi, per cui, considerata la quotazione attuale dell’oro, pari a una media di 44 euro al grammo, la “paga” mensile percepita dal santo può essere ragguagliata a €. 1.188 odierni. E, se si considera che il potere d’acquisto della moneta, all’epoca, era sicuramente maggiore di quanto non lo sia oggi, non si può dire affatto che il pio frate se la passasse tanto male. Sergio Zazzera

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iscendeva da una famiglia benestante, viveva in provincia di Avellino la nobildonna in questione quando, nel 1832, dedicò molte pagine del suo diario per narrare del suo matrimonio, descrivendo finanche l’iconografia mariana presente sulla parte anteriore dell’altare della Chiesa Parrocchiale. Quel diario mi capitò tra le mani per pura combinazione e, pur avvertendo un certo disagio al pensiero di dover spiare, indagare o, quantomeno, curiosare nella vita di una persona che non conoscevo neppure, mi stimolò l’irresistibile impulso di soddisfare la mia innata curiosità. Ad una lettura superficiale poteva apparire solo il resoconto di un frammento di vita e nient’altro, ma dovetti invece convenire che si trattava di una testimonianza densa di contenuti storico-sociali di grande valore e per questo coinvolgente. Era la descrizione minuziosa delle modalità di procedura di un matrimonio dell’800 che evidenziava le enormi differenze con quello del 900. Appresi così che nell’800 la donna non solo non sceglieva l'uomo che avrebbe dovuto tenere vicino per tutta la vita, ma il suo matrimonio era un vero e proprio affare economico. Quel matrimonio, avvenne, così com’era in uso a quei tempi, per mezzo di un contratto molto interessante, (i famosi Capitoli matrimoniali, con la descrizione dei beni dotali) stipulato in presenza di un notaio e seguito da altri atti che completavano il “negotio”, come allora si chiamava ogni tipo di "affare". Al “negotio” partecipavano il padre e i fratelli della sposa intestatari del patrimonio, che, nella dote, veniva assegnato allo sposo e non alla donna, mentre questa, se pure presente fisicamente, non aveva alcun potere legale, ed era quindi rappresentata da un'altra persona, detta “mundoaldo”, praticamente un tutore che la legge riconosceva alla donna, mentre il genitore dello sposo esercitava sul figlio la “patria potestas” quindi una tutela anche di carattere economico. C'erano poi i testimoni che avevano una funzione molto importante e non erano mai in numero inferiore a sette. In prevalenza erano religiosi, sicuramente membri della famiglia o persone influenti, ritenute idonee ad assicurare il rispetto e l'osservanza degli accordi nuziali, oppure erano padri spirituali degli sposi, o anche sacerdoti della parrocchia. N o n mancavano letterati laureati in “utriusque juris doctor” e altre autorità locali come il “Capitano”, per cui i contratti matrimo-

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IL “NEGOTIO” niali davano la possibilità di individuare i legami che le due famiglie avevano con gli ambienti della società locale ed anche con le persone in quel momento influenti sul territorio. Il contratto conteneva i termini di accordi orali precedentemente raggiunti tra le parti e l'indicazione delle persone presenti all'atto. Si dichiarava che l'accordo era avvenuto dinanzi alla chiesa, che era in genere la Collegiata o altra chiesa parrocchiale, e ciò per dare la sanzione ecclesiale al patto, che diveniva così un patto religioso. Si stabiliva poi il sacerdote che doveva celebrare il matrimonio, che era il primicerio o un canonico della Collegiata o della parrocchia della sposa, addetto a questa funzione. Costui provvedeva a scrivere l'avvenuto matrimonio nei libri parrocchiali, che, insieme a quelli che registravano i battesimi e le morti, erano, a quei tempi, gli unici registri anagrafici della popolazione. La data del matrimonio era stabilita in modo molto approssimativo. Lo sposo faceva solenne promessa di fedeltà e protezione della donna in tutte le circostanze della vita e si impegnava a mettere in atto tutto ciò che poteva realizzare il "felice matrimonio". Molto articolata e centrale era la parte che trattava della dote. Essa veniva consegnata dal padre della sposa al padre dello sposo, il quale si impegnava, per il figlio, di farla fruttare, di non decurtarla e di consegnarla integra, alla morte della sposa e, se questa non aveva figli, alla famiglia originaria. La dote era costituita di una parte in corredo, che veniva descritto in una lista allegata al contratto matrimoniale, ove erano elencati gli oggetti, costituiti in capi di biancheria con la relativa cassapanca, materassi e coperte, ma anche in oggetti di rame per la cucina, che venivano indicati in peso. Persone apposite, amici o consanguinei, erano addette alla valutazione del corredo che veniva trascritto in una lista con l’indicazione del valore accanto ad ogni pezzo. La lista veniva poi consegnata al notaio. Un'altra parte della dote era costituita dal denaro, “la pecunia”, che veniva consegnato all'atto del matrimonio in una unica soluzione o in rate stabilite da altri atti notarili. Erano descritti, in maniera particolareggiata, gli immobili, oggetto della dote. La dote era quindi l'impegno più autentico del vincolo matrimoniale perché qualificava in modo indiscutibile il matrimonio come un atto economico attraverso il quale due famiglie ponevano insieme le proprie forze economiche pro

teggendole dalla dispersione. Si preferivano infatti matrimoni di due sorelle con due fratelli, di vedove con cognati e naturalmente tra cugini per far rimanere nell'ambito della famiglia il capitale. È chiaro che ci si trovava di fronte a qualche cosa che non aveva nulla a che fare con la sfera dei sentimenti e degli affetti e spiegava perché non si richiedeva l'intervento della donna nella scelta del marito. Dalla lettura di quell’atto si poteva desumere che la dote fu anche uno strumento di difesa del patrimonio della famiglia, nel senso che all'atto di riceverla la donna rinunciava a qualsiasi eredità futura, sia da parte della madre che del padre. Così quell'atto notarile non serviva solo a legalizzare la trasmissione dei beni, ma ad escludere la donna dalle successive suddivisioni del patrimonio e quindi favoriva la discendenza maschile ed evitava ulteriori dispersioni del capitale immobiliare della famiglia. Nell’800, le donne avevano la dote anche se entravano in convento. In tal caso essa determinava il trattamento che la giovane avrebbe avuto nel monastero: più era consistente la dote meglio veniva trattata la monaca. Col tempo la dote assunse le caratteristiche di un obbligo civile, di un dovere e di un segno della consistenza economica, e della rispettabilità della famiglia tanto che veniva ritenuto disonorevole maritare una figlia senza dote. Per questo motivo nacquero i Monti familiari o maritaggi che erano istituzioni che gestivano una parte del patrimonio per assicurare con tale gestione la dote alle donne della famiglia. Confrontando un passato non tanto lontano con la realtà di oggi, possiamo renderci conto di quanto sia cambiata la società nel corso di un solo secolo ma il passato fa parte dell' eredità di tutti noi. Raffaele Bocchetti


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orse il mirino è principalmente puntato sui "veccchietti". In macchina ho sentito un colpetto sullo sportello destro, mentre guidavo pacificamente per una strada del Vomero. Ho visto, nello specchietto retrovisore, un tizio bassino, che mi faceva segno: mi sono fermato. Lui si è avvicinato: aveva l'aspetto di uno zingaro che si era pettinato. Mi dice che il mio specchietto destro lo aveva colpito alla mano, ma che lui niente voleva se non essere accompagnato ad una farmacia per mettere una qualche fascetta cautelativamente. Lo faccio salire e mi dice che è falegname e che deve

LA TRUFFETTA andare a Roma. Mi fa capire che la mano si sta gonfiando... Lo accompagno alla farmacia. Dopo un attimo ne esce dicendo che la farmacista gli ha suggerito di fare una radiografia in ospedale. Strano: non al Pronto soccorso? Mi chiede di riaccompagnarlo dove l'ho fatto montare e mi chiede direttamente i soldi per la lastra. Poi mi fa vedere un accrocco di orologio con il vetro frantumato e mi dice che anche l'orologio si è rotto sullo specchietto: è uno "Swatch" e costa una cinquantina di euro. Non sa che gli Swatch non usano il vetro. Tiro fuori la macchina fotografica e lui

docilmente si fa fotografare l'orologio. Gli dico che per lui è meglio se faccio la denunzia all'Assicurazione, e punto la macchina fotografica sul suo viso. "Che cazz.. stai facendo" mi dice perdendo i toni remissivi. "Ti sto fotografando e poi mi dai i tuoi dati personali...." Fuga immediata dall'auto. La macchina fotografica, o il telefonino, è la giusta contromisura a questi tentativi di truffa. Tra l'altro, il mio specchietto destro era ripiegato. Fatevi sempre accompagnare da qualche strumento in grado di fare fotografie, specialmente se siete anziani.

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RAFFAELE BOCCHETTI e IL NUOVO PAESAGGISMO La rivisitazione coloristico- paesaggistica di Napoli

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apoli ha ispirato tantissimi pittori e, quindi, non è una novità scoprire un autore della nostra contemporaneità che comunica le sensazioni di gioia e di vitalità che egli assorbe da certe visioni della città. Lo fa esaltando alcuni elementi del paesaggio incomparabile del patrimonio napoletano. Ecco castel dell'Ovo che naviga nel golfo, spinto da un sole rosso di tramonto, che accende di giallo il cielo e sveglia mille colori nel mare che sorregge il castello-nave nella sua navigazione verso lo spazio- tempo di serenità e speranza.

Ecco la chiesa alla sommità di una scalinata, come quella che affianca la ex prigione borbonica del corso Vittorio Emanuele, circondata dalle costruzioni che le fanno largo, ad interpretare la devozione dei Napoletani verso il Trascendente a cui affidano la speranza di un futuro di felicità anelata e che la quotidianità della vita continua a negare. Ecco il Vesuvio, arcigno custode della città, che scuote e feconda il cielo, la terra, e il mare da cui emerge imperioso. Ecco Nisida solitaria che guarda, estatica, le bellezze di capo Miseno, dell'umile Procida, e dell'imponente Epomeo, fratello del Vesuvio e dominatore di Ischia.

Colori estesi, pennellate essenziali, dettagli di vita appena accennati, che cercano di interpretare le emozioni, i sentimenti di chi ha la fortuna di vivere in mezzo a questa bellezza infinita. E' un dono immenso che non tutti sanno cogliere e che Bocchetti semplifica ed esalta per facilitare a tutti la comprensione e la fruizione di una ricchezza che, se ti entra nelle fibre e comincia a circolare nel sangue, riesce a liberarti dalla grigia quotidianità, dalla depressione, e ti rende magnifica ogni giornata. Enne

EREDITA’ IN BILICO Ricerche ed esperienze artistiche tra memorie del passato e temperie del presente Sintesi della conversazione tenuta da Franco Lista al Macro Asilo, Stanza delle parole (Museo di arte contemporanea di Roma), a cura di Daniela Materazzi.

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arlare dell’eredità, contestualizzandola nell’ampio percorso delle arti visive, significa soppesarla sin dal suo inizio con l’homo sapiens e la sua insopprimibile esigenza di comunicare per figure con rilevanti e indicative tracce segniche, fino all’incoerente e indistinto tempo presente; significa, soprattutto, prendere in attenta considerazione lo stato d’incertezza sempre attuale quando si riflette e si valuta il rapporto tra passato e presente. Un rapporto segnato, quasi sempre, da una sorta di equilibrio insta-

bile del fenomeno artistico, osservato sul filo diacronico della sua storia. Dietro qualsivoglia stile o gusto è sempre presente quella condizione che Riegl definiva Kunstwollen, cioè volontà d’arte. Una spinta, un moto dell’animo, dunque, che agisce come una sorta di abbrivio collettivo che sottostà alle metamorfosi e all’intima natura dell’arte. Hans Belting, poi, acutamente, mette in diretta relazione ogni “volontà d’arte” con una specifica Weltanschauung, cioè concezione del mondo, della vita.. Così, “gli stili artistici – scrive - di-


ventarono stili di vita o di pensiero”. Pensiamo, in proposito, all’influenza che ebbe il saggio di Wilhelm Worringer, “Astrazione e empatia”, sul pensiero di artisti e intellettuali del primo Novecento. Le avanguardie, in qualche modo, lo fecero proprio: quasi una sorta di manifesto, una esplicita dichiarazione di “intima affinità” tra concezione del mondo (Weltanschauung) e idem sentire dell’espressione artistica. E, forse per questo, gli stili un tempo duravano secoli e non come accade oggi si estinguono nel giro di una breve stagione. Alcuni termini, con i quali sono stati indicati periodi artistici, hanno una spiccata origine polemica. L’arte del Duecento e del Trecento, ad esempio, fu marchiata con intento dispregiativo col termine gotico. E’ Vasari che tira fuori il termine gotico. Nelle sue “Vite”, con forte espressività, definisce l’architettura come lavori tedeschi…mostruosi e barbari. Ai suoi occhi, di classico protagonista rinascimentale, l’architettura gotica che invade l’Italia è una vera sventura e ne auspica l’oblio: Questa maniera fu trovata dai Gotti che riempierono tutta Italia di questa maledizione di fabriche, che per non averne più, s’è dismesso ogni modo loro. Iddio scampi ogni paese da venir tale pensiero, et ordine di lavori, che per essere eglino talmente difformi alla bellezza delle fabbriche nostre, meritano che non se ne favelli più che questo. Nel Settecento, poi, con l’emergere e il consolidarsi delle idee e del gusto neoclassico, le architetture e le sculture seicentesche furono chiamate barocche, col chiaro intento polemico di giudicarle bizzarre e stupefacenti. Analoga repulsione vi fu tra romanticismo che segue al neoclassicismo e così via nel tempo, fino alla forte avversione e all’intransigenza delle cosiddette Avanguardie storiche nei confronti dell’Ottocento e dei suoi impianti formali. Una situazione in bilico tra continuità e discontinuità dell’arte italiana che tuttavia convoglia, da una parte, sentimenti di forte identità culturale, di senso artistico, e, dall’altra, all’assuefazione alla bellezza, spesso sentita come ingombrante eredità, una sorta di condizionamento, di restrizione storica. L’eredità del passato, senza dubbio, implica la capacità di ricordare, la memoria. Paolo Rossi, in proposito, ha approfondito questo rilevante tema in quel suo bellissimo saggio dal titolo emblematico, “Il passato, la memoria, l’oblio”, dove mette in relazione memoria e immaginazione che, come sostenevano Hobbes e Vico, vanno considerate quali facoltà gemelle.

“La memoria, dice Paolo Rossi, ha a che fare con l’idea – attiva pure nella biologia, nella filosofia, nella letteratura, nella psichiatria – che pezzi del passato si riaffaccino o riemergano nel presente”. Ed è questo il tipico processo dell’individualità creatrice dell’artista: rivedere il passato, assumerlo come stimolo, trasformarlo, per ricomporlo in forme nuove per risignificarlo, per poterne fare variazioni di senso. Ecco l’immaginazione che accompagna quel fare che è pur sempre un rifare, come saggiamente sostiene Nelson Goodman. Al riguardo, le categorie di storia e attualità sono state sperimentate da chi scrive in gruppi di lavoro, negli anni ’70 con la Prop Art di Luca (Luigi Castellano) che aveva presso di noi partecipanti, il significato di arte di propaganda politica e la Pittura di storia (1984) che faceva capo a Giuseppe Gatt, attingendo alla nostra grande storia artistica. Nell’epoca attuale della benjaminiana “riproducibilità” dell’arte, l’insofferenza verso il passato si avverte maggiormente. Oggi, viviamo chiusi, per non dire reclusi, in un presente enormemente dilatato: una società sincronica, non più diacronica, e dunque con rapporti deboli con il passato e conseguente incapacità di esprimere progetti e congetture per il futuro. Gli artisti, producono “feticci artistici”, si rivolgono alle “merci semiotiche”, per citare Mario Perniola; il banale è assunto come valore se produce stupore e compiacimento. Si verifica la “trasfigurazione del banale”, per citare Arthur Danto! Conseguenze della rinuncia all’eredità, per dirla francescanamente, sono da vedersi nella evidente inclinazione di gran parte dell’arte contemporanea verso processi di appiattimento e di conformismo, in direzione di una estrema frammentazione di contenuti e comportamenti: una babelica “eteroglossia” dei linguaggi artistici, ormai governati con efficienza economica dal cosiddetto “sistema dell’arte”. Hans Belting, per impassibile e concreto

realismo o per fatalistica accettazione, ha scritto: “Bisogna convivere con il pluralismo degli stili e dei valori che caratterizzano la nostra società, anche per il fatto che non è in vista nessuna via d’uscita”. L’arte ora appare come priva di elementi aggreganti, pure presenti nelle neoavanguardie. Eppure a questa frammentazione, pari a un gioco di specchi infranti che genera una pioggia di schegge espressive, corrisponde paradossalmente una sorta di culto delle immagini, la cosiddetta “imagomania”. Una complicata prospettiva della contemporaneità sulla quale l’eredità, intesa come sensibilizzazione della coscienza dell’artista, può avere un suo nuovo ruolo. L’artista non rinunciando ad essere testimone e critico del momento storico che vive, deve tentare di dar forma al suo Dasein, al suo “esserci”; riscattare, come voleva Heidegger, il suo Geworfenheit, il suo “essere-gettato” nel mondo. Temi dunque di forte peso specifico che invitano a una connessione sempre più stretta tra l’individualità creatrice e il mondo sociale; a una ricognizione concettuale su quanto accade. Allora, chiediamoci: vi sono, oltre all’invito alla convivenza, suggerito da Belting, cenni, segni di esperienze che possono essere di sostegno alle nuove stagioni dell’arte? Penso, per questo, a quell’insieme di azioni artistiche che favoriscono relazioni e rapporti tra artisti e pubblico. Alle forme di coinvolgimento non più statiche come vuole l’organizzazione museale e il tradizionale rapporto tra l’opera e l’astante. Penso a fruizioni più dinamiche fondate sull’interazione, la socialità, la convivialità,a relazioni, legami e confronti con gli artisti nel vivo dei loro atelier: legami che portano a far coincidere i due termini di arte e vita. Franco Lista

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A NAPOLI IL CONVEGNO INTERNAZIONALE “IL PRESEPE NAPOLETANO COME STRUMENTO DI EVANGELIZZAZIONE” Si terrà a gennaio il Convegno Internazionale con i maggiori esperti italiani e stranieri di storia e arte presepiale

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l presepe a Napoli è storia, è tradizione, è arte, ma è soprattutto spiritualità. Il presepe napoletano del Settecento – secolo d’oro dell’arte presepiale – è parte fondamentale del nostro patrimonio culturale e spirituale, ed è per questo che l’ Accademia Arti, Mestieri e Professioni ha promosso il “Progetto Internazionale sul Presepe come strumento di evangelizzazione” che gode del patrocinio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e dell’ Arcidiocesi di Napoli. L’evento dura quaranta giorni e ha incluso una Mostra Internazionale del Presepe nella Chiesa di Sant'Angelo a Segno, in via dei Tribunali a Napoli, aperta fino al 14 gennaio 2020, ed il Convegno Internazionale, che si terrà il 10 gennaio 2020 presso l’Auditorium multimediale della Curia Arcivescovile, in Largo Donnaregina, 22 (Na). Il presepe è essenzialmente manifestazione di fede, che nei secoli si è espressa in modo sempre diverso. E’ un’arte che include una ritualità riconosciuta nei secoli come segno di una religiosità profonda, di intensa spiritualità in un percorso di evangelizzazione che si rinnova continuamente. Il presepe si con-

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ferma efficace ed antico simbolo evocativo dell’intensa comunione coi misteri della fede, che risponde alla continua necessità del rinvigorimento della religione cristiana. Su questo argomento si interrogheranno e dialogheranno i maggiori esperti di storia e contenuti delle rappresentazioni presepiali, italiani e stranieri, coordinati dalla Responsabile del Convegno Iki Notarbartolo. Tra gli interventi previsti ci saranno quelli di Monsignor Rino Fisichella, arcivescovo e Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione; il cardinale di Napoli Crescenzio Sepe; Antonio Díaz e Ana Caballero della fondazione Díaz, fondatori del Museo de Belenes di Molina (Spagna); María-Teresa-Marín, direttrice del Museo Salzillo di Murcia (Spagna); Sylvain Bellenger direttore del Museo di Capodimonte di Napoli; Carmine Romano storico dell’arte del Museo di Capodimonte; Francesco Delizia, Direttore Museo San Martino di Napoli; il Dott. Filippo Maria Gambari, Direttore del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma; Francesco Aquilanti, esperto d’arte del Museo Nazi onale delle Arti e Tradizioni popolari di Roma; il magistrato Catello Maresca; lo

scrittore francese Jean-Noël Schifano. Il 4 dicembre, in una gremita Chiesa di Sant’Angelo a Segno, è stata inaugurata la Mostra Internazionale, allestita dall’architetto Martina Cicatiello. Il percorso espositivo è composto da 21 pezzi: alcuni provenienti dalle preziose collezioni private di Peppe Barra, Rosario Bianco, Catello Maresca, Lorenzo Mazzeo, altri realizzati dai più grandi maestri presepisti partenopei, come Antonio Cantone, Alfredo Molli e i fratelli Sinno e altri ancora appartenenti alla Fundación Díaz Caballero del Museo Internacional de Arte Belenista di Mollina (Málaga) e al Museo Salzillo di Murcia, custodi dell’arte presepiale nel mondo.

ph Umberto Amicucci


Al taglio del nastro erano presenti Sua Eminenza il Cardinale Crescenzio Sepe, il magistrato Catello Maresca, l’imprenditore ed editore Rosario Bianco e gli artisti Peppe Barra e Lello Esposito. “Dovremmo recuperare il tema di questo progetto che Catello Maresca e io stiamo portando avanti – ha dichiarato Rosario Bianco –. Innanzitutto bisogna recuperare il valore della famiglia. Abbiamo bisogno di tanta famiglia, in questo momento. Quello del presepe è soprattutto un richiamo al senso della famiglia”. “Abbiamo cercato di ispirare l’esposizione

e il congresso anche alla tradizione napoletana – racconta Catello Maresca –. La tradizione napoletana del Presepe nasce nel 1700 ed è stata seguita, per un periodo importante, fino a 50 anni fa, da un Congresso, che, ogni anno, si celebrava nella città di Napoli e che dava conto proprio di questa origine artistica, legata a scultori famosi. Il più grande modellatore di statuine del presepe era Giuseppe Sanmartino, noto per il Cristo Velato, uno dei monumenti più apprezzati della città. Quindi, puntiamo al recupero di questa tradizione, anche nella scia della nostra cultura e nella valorizzazione delle cose belle di Napoli. Quando, poi, si ri esce ad abbinare l’intervento sociale, con i ragazzi dell’Accademia delle Arti, Mestieri e Professioni che saranno impegnati nell’accompagnamento alla visita dell’esposizione, nella custodia e nella vigilanza della mostra, credo che Rosario Bianco, io e tutti gli amici che ci sostengono, siamo sulla strada giusta”.

L’intero progetto è nato in collaborazione con la Rogiosi Editore e l’Associazione PartenArt.

UN PATRIMONIO DELLA CITTÀ DI NAPOLI: MASSIMO MACRÌ, TENORE ED ODONTOIATRA Napoli è sempre stata ricca di personaggi singolari e di altissimo valore artistico e sociale. Qui vogliamo parlare di un nostro contemporaneo, che, sempre con tanto successo, coltiva due campi tra loro apparentemente molto distanti

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l cammino che ha percorso è stato molteplice: quello più emozionante è stato quello di attraversare il mistero espressivo della musica, affermandosi in vari contesti, con la concreta esperienza dei suoi studi musicali conseguiti al Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli, conservando, dentro di sé, la tenacia di inseguire un sogno, di percorrere una strada intrisa di talento e abnegazione, nella quale ha sempre potenziato il forte legame con la musica lirica e con la

città che gli ha dato i natali. Il primo esordio lo ebbe quando era ancora uno studente liceale, appena diciottenne, partecipando come protagonista in un musical: "San Francesco". La sua grande fortuna è aver scoperto di avere talento, di averlo coltivato, con sacrificio, conciliando il suo lavoro professionale di odontoiatra e responsabile sanitario di una struttura di primo piano, con il canto. La sua passione gli ha consentito di valicare tutti i confini della musica cantata: dalla musica sacra alla liturgica, dalle arie di opere come “la Traviata”, il “Rigoletto”, “il Barbiere di Siviglia”, ”l’Elisir d’Amore”, alle operette come “la Vedova allegra”, “Salomè”, “Cincillà”, ecc, alle canzoni napoletane antiche. Nonostante i serrati impegni professionali, collabora attualmente come solista nel Coro delle Voci di Massabielle, molto attivo nella città di Napoli. Massimo Macrì, è questo il nome di questo singolare artista musicale, ha il pregio è di possedere una forte comunicativa che egli sa esaltare legando l’eleganza della innata capacità dell’interpretazione alla lievità e semplicità del suo canto.

La naturale eleganza della persona, cosa abbastanza insolita nel campo della Lirica, è poi valorizzata dal carattere estroverso che gli consente di coltivare garbo e amabilità che ne sottolineano la gentilezza d’animo e la serena stabilità interiore. Tutto questo è riversato nelle sue varie esibizioni artistiche che affida ad una voce morbida, chiara, sempre capace di far ripercorrere al suo pubblico i sentimenti che hanno ispirato gli autori dei suoi pezzi, che essi siano di provenienza della nobile lirica, oppure siano espressione dell’allegra operetta, o che essi provengano dalla spontaneità popolare della canzone napoletana. Sono momenti magici quelli che regala la voce di Massimo Macrì , quando è solista e quando si mescola al coro delle Voci di Massabielle di cui spesso entra a far parte. Sono momenti magici che rendono omaggio all’arte e al patrimonio canoro di questa nostra città che ha sempre saputo coltivare l’arte della musica ai livelli suoi più alti. Silvana D'Andrea

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LA PIANA DI LASCARI E IL VENTO RECITANTE DI GIUSEPPE SCHITTINO

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arole, musica, memoria, ricerca di un altrove, cromatismi sfuggenti e avvolgenti, leggerezza e dolore, dramma e ricerca di consolazione in una mitica Piana di Lascari: questa la scenografia composita e composta di una serata di mezzo agosto alle Salinelle, in quello storico pianoro dell´Ospedaletto sorto negli anni Trenta del secolo scorso per combattere la malaria che imperversava impietosamente in quella zona fortemente malsana della Sicilia fascista ben delineata dal Presidente dell´Associazione Culturale “Polis” di Lascari, il dr Salvatore Cesare. Una serata che si è aperta all´insegna della musica con il duo Alisena – Lanzetta ma che è diventata subito occhio attento sulla lirica, sulla storia, sulla spettacolarità, sull´analisi critico – concettuale della poesia di Giuseppe Schittino racchiusa nel suo libellum, “Un giorno il vento ti dirà”, presentato, anzi letteralmente sprigionato, in un vortice di elementi compositi e composti. All´analisi concettuale ben delineata dalla professoressa Antonella Imboccari e da me condivisa, penso sia utile aggiungere ora qualche nota d’indagine strutturale, perché il libro lo merita. Le poesie di Schittino, tenute per anni rinchiuse in un cassetto, prigioniere di un pudore e una pudicizia che solo chi si è accostato a una pubblicazione sanno cosa sia, sono giunte a noi sospinte da un vento lieve che, subito dopo, ci ha riversato addosso, con la velocità di un uragano, tutti i volti e i risvolti dell´angoscia, del

Il vento è certamente un traslato ma la metrica e la musicalità di parole spezzate e scandite, ora soffiate, ora gridate, ci ha fatto subito cogliere la sintassi ricercata che ricorre all’analogia (ululato, sorriso beffardo, sogni ormai stanchi, indolenti sillabe, gemito di agnelli scannati, il mare…come una bara) ed alla tensione di espressioni come “denti aguzzi di uno squalo”, “prendere a calci i giorni di pietra” per comunicare la gravità della situazione personale e storica in atto. Le poesie che Schittino ha tenuto rinchiuse in un cassetto per tanto tempo, sono state all´improvviso spinte fuori non certamente dal vento ma dalla rabbia di un uomo maturo che soffre per non aver potuto gridare struggimenti personali come il dolore di lutti familiari o problematiche sociali come quella dei migranti. Sono uscite fuori sospinte, anzi letteralmente lanciate (“prese a calci”, per parafrasare Schittino) da una metrica articolata e ben scandita che è diventata subito musica e musicalità. La metrica, che è fondamentale nella poesia di Schittino perché si coniuga alla musica e a un senso cromatico diffuso e soffuso, certamente onirico, l´abbiamo percepita molto bene in questa domenica agostana nelle voci recitanti del Trio Eriu – Fesi - Di Stefano; l´abbiamo vista tra i cromatismi dello scialle aleggiante e volteggiante della professoressa Grazia Fesi, tra i veli bianchi e l´ombrellino vezzoso ma non troppo dell´attrice e regista Sebastiana Eriu; tra i manti neri e le maschere di gesso di fantasmi che si celano per poi improvvisamente

mistero, del dolore, della lotta. La formazione letteraria di Schittino affonda certamente le origini nei grandi classici del Novecento, Montale e Ungaretti innanzitutto, ma anche i Decadenti e poi, andando a ritroso e spaziando, anche i francesi, Prévert innanzitutto e il mondo dantesco con tutto il suo pathos.

riapparire nella spettralitá di tutto il Trio che si ricompone, nella sua parte finale, lì, tra gli olivi del piccolo- grande parco dell´Ospedaletto sapientemente illuminato e trasfigurato da fasci di luci metafisici ma, soprattutto, dalla voce recitante dello stesso Schittino, prima fuori campo e poi, all´improvviso, eccolo

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lì, a tutto campo, imponente e possente, quasi trasfigurato, allungato, proiettato come un´ombra che avanza verso un punto (dove, quale?) …ecco, adesso è chiaro dove arriverà. Schittino arriva proprio lì, infine, tra di loro, in mezzo al gruppo che adesso, all´improvviso, si compone ancora una volta e, questa volta, proprio con Lui, il Poeta, che ha dato loro voce, allo stesso modo dei “Sei personaggi in cerca d´autore” di pirandelliana memoria con tutta la scomposizione dello spazio scenico. Una metrica articolata e curata, frammentata e ricomposta, che si trasforma di continuo in musica e musicalità e si coniuga alle note del grande Ennio Morricone di “Nuovo Cinema Paradiso” che abbiamo sentito interpretato dal duo Alisena – Lanzetta: leggiadro, struggente, omaggio a Tornatore e alla sua terra natale Bagheria (ma chiamiamola pure “Baaria”, qui, in questa mitica Terra di Sicilia! ) e che è poi il suolo dove vive e opera oggi Schittino, anche lui migrante e migratore in un andirivieni di linguaggi, lessemi e fonemi, scomposizioni e frantumazioni varie. Una serata in cui, tra parole e musica; tra cromatismi e fantasmagorie sceniche varie; tra riferimenti storici e affreschi di vita e di memorie, anch´io aleggio, volteggio, mi faccio spirale, lieve come il velo di una sposa, misteriosa e occhieggiante tra fronde di olivi che…, all´improvviso, ecco, diventano “fronde dei salici”…. E poi, la quiete… ...infin che 'l mar fu sovra noi richiuso (Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVI Teresa Triscari


PROTESTA CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO A CAMBRIDGE

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Cambridge (Uk), all’interno di uno dei suoi centri commerciali, il Grafton Centre, ha avuto luogo una protesta degli attivisti “Extinction Rebellion” contro il cambiamento climatico. È stata una dimostrazione nel giorno del Black Friday per portare l’attenzione sul modo in cui il consumismo concorra alla crisi climatica e ambientale. Il movimento attivista non violento sottolinea come le stagioni festive creino una montagna di inquinamento di plastica, producano un’enorme quantità di emis-

sioni di carbonio e portino allo spreco di tonnellate di cibo. Il logo del gruppo XR è una clessidra all’interno di un cerchio a rappresentare il tempo che sta per scadere per molte specie. Non si può che essere d’accordo con loro quando parlano dell’emergenza climatica ed ambientale che stiamo vivendo. Ognuno dovrebbe fare la sua parte e fare la differenza per salvare il nostro pianeta e le nostre vite. Gilda Notarbartolo aneeapolitanincambridge.wordpress.com

JOSEPH SHERIDAN LE FANU “L’OSPITE MALIGNO”

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l traduttore letterario è un mestiere difficile. Anche l’Editore è un mestiere difficile, e, per la verità, non tanto spesso però, si sottopone a scelte difficili che, dall’esterno, possono anche sembrare strane.

Ma come? In pieno ventunesimo secolo, ti metti a riesumare uno scrittore ottocentesco, vittoriano e un po’ depresso? Ma conoscete chi è Le Fanu? Fu avvocato e scrittore, autore di romanzi che si possono, senz’altro, classificare alla stregua degli attuali libri gialli, ma anche autore del mondo fantastico, ricco di gnomi, unicorni, fantasmi e vampiri, anzi il primo scrittore che ha introdotto la misteriosità del vampirismo e la figura della vampiressa Carmilla. Ebbe una notevole fortuna come scrittore, è stato tradotto in molte lingue, ma ormai il buio era calato su questa sua letteratura. L’Editore Marlin invece lo ha scovato: lo ha scovato e lo ha ripresentato al lettore attuale con la traduzione di un libro che ha tutti i crismi del libro giallo, aiutato in questo dalla traduzione senza fronzoli ed inutili “inglesismi” di Vincenzo Pepe. “L’ospite maligno”, per di più, pare sia l’unico romanzo di Le Fanu non ancora tradotto in Italiano. Risultato? E’ una bellissima immagine

della vita della provincia vittoriana, con incursione nel mondo della pazzia e con produzione doppia di momenti thrilling di puro tipo poliziesco e di tipo psicologico, sullo sfondo di una tranquilla campagna grigia, nascosta in un angoletto della più tradizionale Inghilterra come addormentata e voluta dalla regina Vittoria. Traduzione di Vincenzo Pepe Marlin Editore Enne

L' Applauso Napoletano

LE INFORMAZIONI METEOROLOGICHE e le loro METODOLOGIE LA7, RAI 3, e le altre reti televisive cercano la loro propria originalità nella comunicazione delle previsioni del tempo. Gli ufficiali dell'Aereonautica Militare, si fanno accompagnare dai rilievi delle nuvole da satellite: perlomeno, ti consentono di adeguare le genericità della loro

informazione con una propria opinione correttiva personale. LA 7 preferisce darti lezioni di Meteorologia Generale dando anche notizie sul carico di pioggia contenuto nelle nubi che si avvicinano. La chiarezza della esposizione e la precisione della informazione però spetta alla tras-

missione "Buongiorno Regione" su RAI 3 ogni mattina alle 7:30 dal lunedì al venerdì, e al suo speaker meteorologico Vincenzo Capozzi, giovane irpino ricercatore all' Università Parthenope di Napoli al quale va il nostro applauso.

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Estero Inghilterra: Cambridge European Cultural Centre La Dante


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