genesi e l’evoluzione (XVIII)
Luciano Marucci
46 | Art Basel 2023 - Torna a brillare
Loretta Morelli
52 | L’Arte Sonora - una disciplina indisciplinata
Enzo Minarelli
56 | Bruno Munari ieri e oggi - Testimonianze (I)
Luciano Marucci
58
Emanuela Zanon
60 | “Siamo Foresta” - alla Triennale
Giulia Elisa Bianchi
61 | Ludovic Nkoth - alla Maison La Roche
Emanuele Magri
62 | Luisa Cimador - Amministrare il design
Fabio Fieramosca
63 | Galleria Lorcan O’Neill - a Roma
Michela Poli
64 | Dara Birnbaum - Contro-cultura sui mass media
Irene Follador
65 | Andrea Cancellato - a proposito di ADI Design Museum
Elena Marcon
66 | Wael Shawsky - alla Galleria Lia Rumma
Anna Setola
ANNO XLIII, N. 214 OTTOBRE 2023
Juliet online: www.juliet-artmagazine.com
67 | “Oggetto Libro” - all’ADI Design Museum
Giovanni Beta
68 | Building Gallery - in una foto di Luca Casonato
Elena Marcon
69 | Yuan Goang-Ming - Taiwan alla 60. Biennale Arte di Venezia
Roberto Grisancich
70 | Artivisive - E il concetto di “continuità”
Michela Poli
71 | Gregor Podnar - a Vienna
Lukrecija Bieliauskaite
72 | Gemma De Angelis Testa - Arte e collezionismo
Emanuele Magri
74 | Fabiani e Lasciac - L’architettura come forma
artistica
Lucio Gregoretti
76 | Laurina Paperina - “Boom! (Cartoons)”
Fabio Fieramosca
78 | Nashville Art Museum - intervista a Seth Feman
Maria Cristina Strati
80 | Thomas Schnalke - a Berlino
Annibel Cunoldi Attems
82 | Cambiare opinione? - Padiglione Singapore
Marco Gnesda
Direttore responsabile
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Editore incaricato
Rolan Marino
Direttore editoriale
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Servizi speciali
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Direzione artistica
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Contributi editoriali
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Collaboratori
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Promozione e advertising
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36 | Juliet 214 J214_ART_230917.indd 36 16/09/2023 10:57:12 PM
PICS
73 | Khalil Rabah - “Relocation, Among Other Things”
75 | Hisami Yamagata - Il Vuoto e il Pieno
77
79 | Miyuki Nemoto - La pittura e il viaggio
81 | Carlos Cruz-Diez - “Environnement
Chromointerférent, Paris”
83 | Stanko Filko - Environment
RITRATTI
84 | Scatti di luce - Peter Weisz
Stefano Visintin
91 | Fotoritratto – Matthias Harder
Alessio Curto
RUBRICHE
85 | Sign.media – Pinocchio quBit
Gabriele Perretta
86 | Appuntamento con lo Studio UP - Hotel Zonar
Zagreb
Micaela Curto
87 | P. P.* - Nathalie Rao
Angelo Bianco Chiaromonte
88 | (H) o - della responsabilità scritturale
Angelo Bianco Chiaromonte
89 | Part I, Regan Golden
Leda Cempellin
90 | Arte e Visual Designer - Mario Bobbio
Serenella Dorigo
AGENDA
92 | Spray - Eventi d’arte contemporanea
AAV
COPERTINA
Ludovic Nkoth “Becaming” 2022, acrilico su tela, 101.6 × 76.2 cm, ph courtesy MassimoDeCarlo
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Juliet è pubblicata a cura dell’Associazione Juliet. Autorizzazione del Tribunale di Trieste, n. 581 del 5/12/1980, n. 212/2016 V.G. registro informatico
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SAGGIO
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Illustrazione di Antonio Sofianopulo
Seprivodeltriangolo
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ART BASEL 2023
TORNA A BRILLARE
di Loretta Morelli
Nel cuore dell’Europa, in un piccolo punto d’incontro tra Francia, Svizzera e Germania, continua a pulsare la Basilea delle arti e della
abitanti è pervasa da un’atmosfera cosmopolita e aperta, e ha il centro storico meglio conservato del continente, in un connubio di musei progettati da Mario Botta, Herzog & de Meuron e Renzo Piano. Inoltre, innumerevoli spazi urbani sono plasmati da opere d’arte
medievali, e questo insieme di contraddizioni stilistici genera contrasti affascinanti.
luogo qui, dove negli anni Settanta nacque la prima edizione: manifestazione subito divenuta celebre, curata dai galleristi e collezionisti Trudl Bruckner, Ernst e Hildy Beyeler, Balz Hilt. In quella occasione 16mila furono i visitatori, raddoppiati nel giro di due anni insieme all’estensione del luogo espositivo. In un crescendo
LIBERATA DAI CONDIZIONAMENTI DEL COVID-19, ART BASEL 2023 HA RIAFFERMATO IL PRIMATO, A LIVELLO GLOBALE, DI EVENTO ARTISTICO, COMMERCIALE E CULTURALE, CAPACE DI RAPPRESENTARE, IN TEMPO REALE, LE TENDENZE DEL CONTEMPORANEO ANCHE IN SENSO SOCIALE. QUESTO REPORTAGE ESAMINA PURE LE ESPOSIZIONI ATTUATE DA ALTRE ISTITUZIONI CHE PARTECIPANO A BASEL ART WEEK
in alto: Louise Bourgeois “Spider IV” 1996, bronzo, 192 x 164 x 50 cm, “Galleries”, Art Basel 2023 (courtesy Art Basel e Hauser & Wirth; ph L. Morelli)
gemella di Miami Beach, nel 2013 a quella di Hong Kong e nel 2022 a Paris+. “Art Basel occupa una posizione davvero unica per noi, perché è qui che è iniziato tutto più di 50 anni fa. Operiamo su scala globale e
città e rimane il cuore e la base incrollabile della nostra attività”, ha dichiarato Noah Horowitz, il nuovo CEO di Art Basel.
Dal 13 al 18 giugno 2023 Art Basel è tornata a splendere nella sua interezza e complessità, dopo anni bui e drammatici che hanno segnato e segneranno il corso della storia, non soltanto dell’arte.
Latifa Echakhch “Der Allplatz” 2023, ambiente performativo in Messeplatz di Basilea, Art Basel 2023 (courtesy Art Basel; ph L. Morelli)
I numeri di quest’anno decretano il rinato successo della kermesse svizzera: 285 gallerie provenienti da 36 paesi (da Europa, Africa, Asia e Americhe), di cui 21 esordienti (tra cui Empty Gallery di Hong Kong, blank projects da Cape Town e Gaga dal Messico), 4mila artisti e 82mila visitatori. Secondo alcune stime, le vendite del primo giorno sono arrivate a 245 milioni di dollari (57 da Hauser & Wirth che solo con un ‘ragno’ di Louise Bourgeois, “Spider IV” del 1996, ha raggiunto 22,5 milioni).
Tutti gli aderenti all’art system passano attraverso Messeplatz, osservano il cielo
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dall’iconica cupola scoperchiata, per poi addentrarsi negli spazi
e dibattiti culturali.
della scultrice marocchina Latifa Echakhch (già protagonista della 59esima Biennale d’Arte di Venezia in rappresentanza della Svizzera). Una multipla sovrastruttura in metallo con parti di impalcatura lasciate a terra, altre innalzate e connesse quasi a provocare un effetto work in progress . Il complesso era destinato a una serie di concerte e spettacoli dal vivo organizzati durante quelle giornate, oltre a essere a disposizione del pubblico per cantare, recitare poesie, condividere conoscenze o semplicemente per riposarsi.
vento che ha saputo combinare la dimensione commerciale a quella culturale, offrendo una situazione composita intensa, un mix di bellezza e meraviglia che coesiste con un’analisi spesso impietosa sui drammi del nostro tempo.
Oltre alle consuete sezioni “Galleries”, “Statements” (rivolta agli artisti emergenti),“Feature” (con progetti di 16 gallerie incentrati su opere storiche), “Edition” (per stampe ed edizioni d’arte), quest’anno è stata introdotta “Kabinett”, riservata a mostre curatoriali su temi
La “Main section” ospitava 20 gallerie italiane: le milanesi Gió Marconi, Zero, Christan Stein, Raffaella Cortese, Cardi, Massimo De Carlo, M77, A Arte Invernizzi, kaufmann repetto; Massimo Minini di Brescia; Alfonso Artiaco e Lia Rumma di Napoli; le toscane Continua e Tornabuoni; le torinesi Franco Noero e Tucci Russo; Magazzino e Lorcan O’Neill di Roma; la siciliana Laveronica Arte Contemporanea; la veronese Galleria dello Scudo. In questa sezione principale le gallerie dispiegavano le loro opere migliori. Il , in particolare, ha visto convergere moltissime creazioni importanti: l’astrazione lirica di Joan Mitchell del 1959 in Baselitz da Thaddaeus Ropac. Tornabuoni ha portato nomi tra i più affermati dell’arte italiana del secondo dopoguerra, fra cui “5 tagli su fondo bianco” (1965) di Fontana e una “Mappa” del 1984 di Boetti. Una dinamica scultura del 1967 del Nouveau Réalism di Arman era esposta da Georges-Philippe e Nathalie Vallois. Alla Galleria dello Scudo, spiccavano una “Natura morta” del 1950 di Morandi e una tempera di Vedova del 1954 “Dal diario del Brasile: spazio inquieto”. Hauser & Wirth proponeva un ritratto di George Condo del 2022, “Snoopy”, insieme al lavoro concettuale di Lorna Simpson “Dreams and Sound”, su identità femminile e rappresentaUntitled #652” di Cindy Sherman del 2023. Da Massimo De Carlo era visibile “I”, una delle ultime sculture del duo scandinavo Elmgreen & Dragset, che ironizzava sul concetto di percezione. Lorcan O’Neill ha puntato su due autrici di fama internazionale: Kiki Smith con la scultura bronzea “Eagle in the Pines” del 2016 e Tracey Emin con “You saved Me” (neon del 2012).
Owens che esplorava il diverso approccio ai media, attingendo alla
Alla Marian Goodman colpiva il ‘granchio’, composto da 15 reggiseni neri dell’anticonformista Annette Messager.
La sezione “Feature” presentava anche le opere moderniste su carta della pioniera russa dell’astrazione Sonia Delaunay alla Galerie Zlotowski, l’antologica di Maria Lai alla M77, il pregevole progetto “Recently Discovered Ruins of a Dream” allo stand di Company dedicato alla tunisina Colette Lumiere. Creativa impenitente dalla
dormiente al centro dello spazio, in un ambiente coinvolgente e a tratti inquietante. Ancora da segnalare, da David Castillo, le grandi
-
Bruce Nauman “Untitled (Hand Circle)” 1996, bronzo fosforoso fuso, saldatura d’argento, rame, filo di bronzo, acciaio sabbiato, “Galleries”, Art Basel 2023 (courtesy l’Artista, Art Basel e Hauser & Wirth; ph L. Morelli)
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Annette Messager “Le crabe cancer” 2016, 15 reggiseni, “Galleries”, Art Basel 2023 (courtesy l’Artista, Art Basel e Marian Goodman Gallery; ph L. Morelli)
L’ARTE SONORA
UNA DISCIPLINA INDISCIPLINATA di Enzo Minarelli
“El ojo del silencio”
1999-2017.
Instalación de José Antonio Sarmiento (Las Palmas de Gran Canaria, 1952), Museo Patio Herreriano (Valladolid), 2017, courtesy Iges Archivo Madrid
L’autore è il classico uomo giusto al posto giusto, ha diretto con Francisco Felipe per la Radio Nacional Dos di Spagna dal 1985 fino al 2008 il programma Ars Sonora , ed è in questa veste che io l’ho conosciuto quando nel 1992 mi commissionò un’opera da trasmettere nella rassegna Ciudades Invisibles (dedicata a Italo Calvino), poema che eseguii in anteprima nel palazzo del locale Istituto Italiano di Cultura, a Madrid. Lui, oltre che divulgatore incallito è anche artista affermato, firma lavori d’arte sonora in coppia con Concha Jerez o in singolo. Tutto questo per ribadire che l’Arte Sonora in spagnolo Arte Sonoro perché la parola arte è a differenza dell’italiano maschile, lui l’ha vista crescere. È vero che il termine già aleggiava nell’aria sin dagli anni Sessanta, penso a Cage o a Pierre Schaeffer, però è altrettanto vero che solo il passaggio cruciale tra l’epoca analogica e quella digitale, diciamo grosso modo negli anni Ottanta, ne sancisce l’indiscutibile affermazione.
IL VOLUME SCRITTO DA JOSÉ IGES, “ARTE SONORO: UNA INDISCIPLINA”, CITTÀ DEL MESSICO, EXIT EDICIONES, 2022, SVOLGE UNA RICERCA CAPILLARE DALLA METÀ NOVECENTO AD OGGI FOCALIZZATA SUL PASSAGGIO CRUCIALE DALLʼANALOGICO AL DIGITALE, GIUNGENDO AD APOSTROFARE TALE DISCIPLINA COME UNʼARTE “INDISCIPLINATA”
Il volume in questione, molto corposo, oltre 300 pagine fitte di nomi, opere e soprattutto acute riflessioni, copre un periodo molto
ampio, dalla seconda metà del secolo scorso fino all’oggi. È scritto con garbo, con un apprezzabile senso dell’autoironia che gli consente di procedere pagina dopo pagina prendendo per mano il lettore anche quello non avvezzo al tema, sottoponendogli dubbi e certezze, a volte raffiche di domande, talora senza fornire risposta perché l’autore si aspetta che sia il lettore stesso a darne una risposta. La prima ragione che lo spinge a scriverlo, è del tutto legittima, ritiene, e io con lui, che tutte le esperienze che annovera sotto l’amplio ombrello di Arte Sonoro (musica concreta, elettronica, poesia sonora, audio art, sound art…) siano destinate a scomparire, per cui onde evitare che cadano nell’oblio, s’è deciso a fissarle per iscritto una volta per tutte. Tale timore è motivatissimo perché stiamo trattando una tematica aleatoria, impalpabile, «porosa» per usare un aggettivo colto durante la lettura, quindi sfuggente, un qualcosa che possiamo solo ascoltare, mai toccare né vedere se non grazie a uno spettrografo. A differenza dell’arte che dopo
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Duchamp si è evoluta in concettuale, accantonando l’aspetto retinico, nell’Arte Sonora non ci siamo mai staccati dal sistema cocleare, senza il quale non si accede al miracolo dell’ascolto. Per Arte Sonoro è da intendersi un tipo di ricerca svincolata dall’ambito musicale “ontologicamente indipendente dalla musica” ha sentenziato a ragione Javier Maderuelo, dove la differenza tra i vari generi viene quasi, se non del tutto, azzerata. Si potrebbe discutere a lungo sull’uso della terminologia adottata perché c’è chi rifiuta la suddetta definizione, ça va sans dire che basta un utilizzo anche minimo di sonorità, naturalmente non musicali, per ricadere
fa venire in mente coloro, per fortuna pochi, che pur osteggiando la mia Polipoesia di fatto non solo la praticano, magari senza rendersene conto, ma soprattutto prendono parte a festival o manifestazioni dichiaratamente ispirate a quella teoria.
L’Arte Sonora , e con essa la poesia sonora, o la stessa Polipoesia, o la sound art si appoggiano
dichiaratamente al côté della «auralidad», questa ne è l’insostituibile essenza, il cosiddetto primo motore da cui tutto dipende. Allora perché, ricorrendo a una domanda da scioglilingua, l’Arte Sonora si riscopre più che interdisciplinata indisciplinata ? Dico subito che il tratto indisciplinato non si riferisce in nessuno modo all’artista o poeta perché se c’è una caratteristica comune alle loro opere è la rigorosità, dove tutto deve quadrare alla perfezione, vedi ciò che io chiamo schema di esecuzione . L’indisciplina si annida nella mancanza di referenze sia critiche e sia scolastiche, nel background socio-politico, su certe egemonie culturali che dividono la produzione in atto in centrali e periferiche.
Mancando di fatto spesso la presenza delle Istituzioni, succede che l’artista si trasforma in commissario con esiti deleteri ben oltre il nefasto binomio centro-periferia.
Se lo scopo di questa disciplina consiste nel “ridurre la distanza tra rappresentazione e realtà” (Felipe Lagos Rojas), l’autore si affida agli insegnamenti di tre grandi, i già citati Cage e Schaeffer più Raymond Murray Schafer come supreme guide per organizzare quella molteplicità pressoché infinita di suoni percepita dalla realtà fisica. Di Murray Schafer (si veda l’intervista fatta dal sottoscritto a Città del Messico in Juliet n.120, dic 2004-gen 2005), basti qui ricordare l’importanza vitale del paesaggio sonoro con la conseguente e ossigenante disponibilità ad ascoltare
“Argot” 1991-2015. Instalación de Concha Jerez (Las Palmas de Gran Canaria, 1941) e José Iges (Madrid, Spagna, 1951), Tabacalera (Madrid), 2015, courtesy Iges Archivo Madrid
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“ICÔNES”
O IL FLUIRE DELLA COSCIENZA
Lygia Pape
“Ttéia 1, C”
2003-2017, Pinault
Collection, © Projeto Lygia Pape, courtesy of Projeto Lygia Pape.
Installation view “Icônes” 2023, Punta della Dogana, Venezia.
Ph. Marco
Cappelletti e Filippo Rossi
© Palazzo Grassi, Pinault Collection
Se Palazzo Strozzi (a Firenze, 4 mar - 18 giu) ha recentemente celebrato i trent’anni della Collezione Sandretto Re Rebaudengo con la mostra Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye , Punta della Dogana risponde in grande stile con Icônes (2 apr - 26 nov 2023), esposizione che riflette sullo statuto dell’immagine nella contemporaneità attraverso una selezione di opere «imperiali» in massima parte provenienti dalla collezione di François Pinault. L’imprenditore, tra i più grandi collezionisti di arte contemporanea a livello mondiale, in oltre cinquant’anni di dedizione ha riunito un corpus di oltre diecimila lavori realizzati dagli anni Sessanta a oggi dai principali artisti del panorama internazionale. Anche in questo caso il fervore collezionistico è stato accompagnato fin dall’inizio da un impegno costante
A PUNTA DELLA DOGANA, A VENEZIA, UNA GRANDE MOSTRA DI OPERE DELLA COLLEZIONE PINAULT RIFLETTE SUL TEMA DELLʼICONA E DELLO STATUTO DELLʼIMMAGINE NELLA CONTEMPORANEITÀ
nel sostenere la ricerca e dalla volontà di restituire al pubblico i risultati attraverso una regolare attività espositiva di stampo museale, sviluppatasi dapprima a Venezia, a Palazzo Grassi, acquistato nel 2005 e inaugurato nel 2006, poi a Punta della Dogana, aperta nel 2009, e al Teatrino, nel 2013, e infine a Parigi, dove a maggio 2021 la Pinault Collection ha aperto un nuovo museo allachitetto giapponese Tadao Ando, vincitore del Premio Pritzker 1995, ospitano suggestivi allestimenti delle opere della collezione, periodicamente rinnovati con mostre tematiche collettive e individuali, in occasione delle quali gli artisti sono coinvolti in progetti site-specific e nella produzione di nuove opere appositamente commissionate. Il programma culturale della Fondazione Pinault, di frequente realizzato in collaborazione con istituzioni e università locali e internazionali, si propone come obiettivo permanente quello di esplorare i nuovi territori della produzione artistica contemporanea e di valorizzare l’operato dei
di Emanuela Zanon
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suoi esponenti più interessanti. È un dato di fatto che, soprattutto in Italia, la persistente crisi economica delle istituzioni museali pubbliche e il conseguente indirizzo sempre più manageriale delle loro direzioni hanno favorito in ambito artistico una crescente osmosi tra pubblico e privato, che negli ultimi decenni ha visto il progressivo slittamento del potere di orientare il gusto (e gli investimenti) verso quest’ultimo polo. Tale è il contesto da tenere presente quando ci si approccia a una grande mostra di collezione, di cui quella a Punta della Dogana è un esempio eclatante, oltre alla constatazione che con ogni probabilità senza la passione e le possibilità di acquisto di certi illuminati committenti sarebbe molto più raro, se non impossibile, mettere insieme in una stessa mostra opere di tale ambizione e respiro al di fuori di poche blasonate rassegne istituzionali, come in Italia probabilmente solo la Biennale di Venezia riuscirebbe a fare. Poste queste premesse, diventa estremamente intrigante a questo punto elencare per esteso i nomi degli artisti e provare su questa base ad abbozzare alcune intuizioni sia sulle implicazioni affettive e private della collezione e sia sulla sua dimensione più ufficiale, legata alla presenza di alcuni autori che si ritrovano in tutte le maggiori raccolte internazionali, a riprova del fatto che il mecenatismo globale segue in qualche misura le logiche del parternariato per rafforzare le proprie scelte. In ordine alfabetico troviamo: Josef Albers, James Lee Byars, Maurizio Cattelan, Étienne Chambaud, Edith Dekyndt, Sergej Eisenstein, Lucio Fontana, Theaster Gates, David Hammons, Arthur Jafa, Donald Judd, On Kawara, Kimsooja, Joseph Kosuth, Sherrie Levine, Francesco Lo Savio, Agnes Martin,
Michel Parmentier, Philippe Parreno, Robert Ryman, Dineo Seshee Bopape, Dayanita Singh, Rudolf Stingel, Andrej Tarkovskij, Lee Ufan, Dahn Vo, Chen Zhen. Anzitutto possiamo notare una nutrita percentuale di artisti di origine francese o che hanno stabilito in Francia la loro dimora, e proprio tra questi troviamo alcuni nomi forse un po’ meno universalmente celebri rispetto ad altri, indice dell’interesse di François Pinault a promuovere la scena artistica della sua nazione e a rivendicarne un ruolo trainante nel sistema dell’arte mondiale. Un altro aspetto che emerge dalla disamina delle opere in mostra è la passione del collezionista per l’arte minimalista e concettuale di matrice statunitense, a partire dalle opere storiche dei padri fondatori di questa corrente, di cui si possono ammirare pezzi datati (che quando furono realizzati segnarono dei veri e propri spartiacque nella storia dell’arte) e più recenti (che testimoniano l’evoluzione a lungo termine di queste ricerche), per arrivare alle declinazioni più stupefacenti di matrice internazionale. Segnaliamo in relazione a queste ultime Opalka 1965 / , di cui vediamo sette dipinti magistralmente allestiti in uno spazio architettonico ottagonale che conferisce una dimensione sacrale all’inesorabile scorrere del tempo, scandito da sequenze che tendono all’infinito di numeri tracciati in bianco su fondo bianco. Tra gli oggetti d’affezione più cari a François Pinault, dai quali a detta di Bruno Racine, amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, è stato arduo separarsi per la durata della mostra perché abituato a tenerli vicino a sé, troviamo una serie di preziosi quadri astratti dei primi anni ‘60 di Agnes Martin, profondamente spirituali nel loro allontanarsi da ogni tentazione di raffigurazione. Uno di essi, Blue-Grey Composition (1962) è anche l’immagine che compare sulla copertina del catalogo della mostra, rigorosamente edito in versione trilingue (italiano-francese-inglese), a conferma di quanto le «ragioni del cuore» rimangano il principale motore del formarsi di una collezione privata di reale coerenza e necessità, anche se sterminata come quella in questione. La connotazione
più politica e propositiva della raccolta si evince meglio invece dalla presenza di certi nomi della stretta contemporaneità, come Maurizio Cattelan, Arthur Jafa, Dineo Seshee Bopape o Rudolf Stingel, che stanno diventando dei capisaldi di ogni collezione titolata e che proprio da questa ubiquità traggono un significativo incremento del loro valore. In questo senso, come sottolinea lo stesso Pinault nella breve prefazione che apre il catalogo, uno degli obiettivi della mostra è interrogarsi su quali opere e quali autori possano avere oggi un carattere «iconico» nel significato corrente del termine, ovvero unanimemente riconosciuto come rappresentativo di un’epoca. -
portunità di tenere sempre conto delle articolate dinamiche sottese al sistema per avere uno sguardo più consapevole sulle proposte espositive a cui ci si approccia, non vogliono togliere nulla al fascino dirompente di questa mostra, a cui suggeriamo di abbandonarsi senza riserve di ordine razionale. Come promette il titolo, il susseguirsi di stazioni visive pausate e senza i limiti di spazio che spesso comprimono gli allestimenti attenuandone l’efficacia propone un percorso che si configura come esperienza emozionale e intellettuale, in cui davvero la capacità dell’immagine di evocare una presenza liminale tra apparizione e sparizione restituisce all’icona la sua essenza più viva, ossia il potere di farsi tramite del passaggio verso la sfera spirituale o altri stati di coscienza.
Danh Vo “Untitled” 2021, Pinault Collection, courtesy of the artist. Installation view, “Icônes” 2023, Punta della Dogana, Venezia.
Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection
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AURISINA
Il Comune di Duino Aurisina ha presentato le nuove iniziative legate al Progetto KAVE - L’ecosistema della Pietra di Aurisina / Verso il Museo Diffuso delle Cave e della Pietra , realizzato con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia per la promozione del patrimonio geologico e della geodiversità (L.R. 15/2016). In questo percorso il Comune è affiancato dall’Associazione Casa C.A.V.E. - Contemporary Art Visogliano Vi ž ovlje Europa. Dopo l’anteprima dello scorso anno e l’apertura di KAMEN - Museo diffuso delle Cave e della Pietra di Aurisina si entra nel vivo del progetto KAVE, con la realizzazione di un percorso progettuale capace di raccontare il territorio carsico su base tematica. I primi tre eventi del 2023 si suddividono in due itinerari a cura di Estplore e una mostra, inseriti nella “Settimana del Geoparco transfrontaliero del Carso classico: una settimana di esplorazioni senza confini”. Storie di pietre / I marmi di Aurisina è
il titolo della mostra fotografica multimediale, a cura de Le vie delle Foto di Linda Simeone con la collaborazione dell’artista visiva Fabiola Faidiga, che si è tenuta a Portopiccolo Art Gallery di Sistiana. I geositi, le cave, le pietre e i manufatti in pietra d’Aurisina sono i soggetti elaborati da Fluido Digital Experience. In tale ambito è stato presentato il progetto che ha attraversato i “luoghi della Pietra” come Venezia, Bologna, Ravenna, Milano e Trieste, dove sono stati repertati importanti monumenti ed edifici costruiti in pietra d’Aurisina, unitamente alle preziose fotografie delle Cave Romane, tratte dal primo “workshop fotografico in cava” a cura de Le vie delle Foto, in collaborazione con l’azienda ZenithC e il geologo Marco Manzoni. Il progetto KAVE è poi continuato con laboratori di scultura, incontri didattici per le scuole, pubblicazioni, lectio magistralis di importanti esperti sulla pietra d’Aurisina e un seminario “La pietra e l’arte del paesaggioGeoparchi e musei diffusi a confronto”.
-Fabiola Faidiga
BOLOGNA
Il MAMbo ha ospitato fino al 10 settembre Yvonne Rainer: Words, Dances, Films con l’intento di esplorare le relazioni tra la produzione coreografica, filmica e teorica di Yvonne Rainer (San Francisco, 1934) tramite una ricostruzione storica della sua transizione dalla danza al cinema. Nota internazionalmente per aver rivoluzionato il mondo della danza promuovendo negli anni Sessanta un approccio minimalista che trovava ispirazione nel naturale movimento cinetico del corpo e nella gestualità quotidiana, Rainer inizia la sua carriera da regista dal 1972, anno di uscita del primo film Lives of Performers. La mostra, curata da Caterina Molteni, ha rintracciato le radici di questo passaggio sia nell’impostazione intermediale delle performance negli anni Sessanta e Settanta, sia nelle tematiche di impronta socio-politica che, dallo scoppio della guerra in Vietnam e dall’avvicinamento di Rainer al movimento femminista, sono poi diventate un carattere distintivo della sua ricerca. Se nella performance il corpo assume un ruolo politico perché presentato
Monica Bonvicini
“Never Again” 2005, tubi in acciaio zincato, catene, fasce, rivetti in pelle, 350 x 1600 x 1100 cm, sezione “Unlimited”, Art Basel 2023. Courtesy Galerie Peter Kilchmann, Zurigo, Parigi; Galerie Krinzinger, Vienna; Tanya Bonakdar Gallery, New York. Ph Loretta Morelli
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Fa B iola Faidiga Foto d’insieme della rassegna “L’Energia dei LuoghiFestival del Vento e della Pietra” 2022, Cava Romana di Aurisina (TS), courtesy Associazione CASA C.A.V.E.