Juggling Magazine #48 - september 2010

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Gardi Hutter intervista di Maria Vittoria Vittori Grande clown svizzera, scatenata e poetica, con la sua incantevole cifra espressiva sospesa tra la sicurezza dell’istinto comico e la delicatezza dell’introspezione. La incontriamo appena prima dello spettacolo, il suo ormai leggendario Giovanna d’ArpPo. Com’è nata, e maturata la scelta di diventare clown? Frequentando l’Accademia Teatrale di Zurigo mi sono accorta subito di avere un talento comico. Ma il problema era che per una giovane attrice non c’è alcun ruolo comico. Gli unici ruoli sono quelli di amanti che d’amore si ammalano e muoiono. Tutt’al più la donna può recitare la parte brillante di Colombina, può fare qualche scherzo, ma sempre con grazia. Si dice che il clown sia neutro, io penso invece che il clown o il personaggio comico sia un radicale, un anti-eroe. Invece, ancora oggi, la donna sul palcoscenico si vuole bella, sensuale, decorativa e questo rende molto difficile, per lei, il ruolo comico.

della trama. La teatralizzazione dei numeri non ha offuscato (anzi, le ha incorniciate con interessanti suggestioni visive) le strepitose performance aeree di Eva Schwarzer (al trapezio e ai tessuti), e il lungo numero di giocoleria di Joan Català, il quale ha lavorato ad altissimo livello con clave e sfere senza uscire dall’interpretazione del suo ruolo teatrale. Schvarzstein, Schwarzer e Català sono tre artisti perfetti per valutare i risultati della didattica di quelle moderne scuole di teatro in cui, accanto allo studio approfondito delle arti circensi, moltissima attenzione viene dedicata al training espressivo mediante corpo e movimento.

te, il divieto di ridere degli altri, soprattutto degli uomini. In questa prospettiva l’emancipazione femminista ha dato un input fondamentale, perché ha aperto l’immaginario femminile. Ridere di se stesse e di se stessi si può solo quando si è superato un problema, e non solo tra donna e uomo, ma anche all’interno delle strutture politiche e sociali.

Così ha deciso di crearselo da sola… Sono cresciuta negli anni Settanta, nel momento storico in cui si parlava di una società libera, della necessità di relazionarsi in modo diverso. Il femminismo mi ha dato una spinta in più perché fino ad allora anche io mi ero fermata a quella barriera che mi impediva di esprimermi come clown. Il mio primo personaggio comico è nato nell’ambito di una commedia di Aristofane, rielaborata da Gonzalez, in cui interpretavo uno degli schiavi, Nicia. Questo ruolo, originariamente maschile, l’ho recitato da femmina: con una pancia enorme, incinta di tutte le disgrazie possibili. Ho portato in scena la repressione e la sofferenza, ma con una disinvoltura e un’agilità che erano una chiave d’interpretazione. Cosa rende così difficile, per una donna, ridere degli altri e di se stessa? Fino a 50 anni fa, se ti comportavi in modo bizzarro, ti mettevano nel reparto psichiatrico, 500 anni fa andavi direttamente sul rogo. È nella nostra memoria l’invito a stare atten-

La lavandaia Giovanna d’ArpP, un personaggio che l’accompagna ormai da anni… Di personaggi femminili ce n’erano pochi, ma uno era davvero magnifico, Giovanna d’Arco. Un’eroina che sentiva le voci, bruciata sul rogo e poi santificata. Ho deciso d’imperso-

nare una lavandaia che vorrebbe essere un’eroina, ma come la maggior parte degli esseri umani non lo è, e anzi risulta comica. Questo spettacolo ha rappresentato per me il tempo della raccolta, la maturazione del mio essere clown. È andato in scena per la prima volta proprio in Italia nel 1981 e poi ha girato tutto il mondo. Non è invecchiato perché non è ideologico. Il clown non sopporta ideologie, né pedagogie. Ha una sua logica che è anarchia allo stato puro.

A quale spettacolo sta lavorando? S’intitola La sarta e debutterà questo autunno a Stoccarda. È sulla morte che arriva e il clown che dice: no, ho ancora una sigaretta da fumare, un pasto da mangiare, una casa da mettere a posto. E qui il clown diventa sarta, perché mi ha fatto sempre pensare, la sarta, alle vecchie Moire del mito. Così la rappresentazione si radica in un immaginario potente. Lo spettacolo non può consistere solo di gag; deve avere un sottofondo mitologico, simbolico che permetta al pubblico di stabilire associazioni. L’arte consiste nell’accennare, più che nel mostrare.

j u g g l i n g m a g a z i n e n u m e r o 47 g i u g n o 2010

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