20-06-2008
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“Signore e signori buonasera, bonsoir, good evening, guten abend. Io sono Alberto, del duo Colombaioni, my name is Alberto. Mio fratello si chiama Carlo, ma purtroppo stasera è in ritardo. Mon frére n’est pas là. Scusandomi per l’inconveniente, nel frattempo…”. La gente del circo ha il carisma scolpito nella
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Archivio Cedac
Jug n. 39
faccia. Sono facce fatte di pieghe, rughe, con due occhi profondi profondi in mezzo, che si trasmettono da chissà quante generazioni. Occhi capaci di annusare il pubblico, e capire di sera in sera quello che il pubblico vuole e come riuscire a darglielo. Quello che i teatranti chiamano “presenza scenica”, per quelli del circo è semplicemente l’essere, l’esistere. Bravo. Clap clap.
Bravoooo!!! Ahooooo…Alberto! Ma che ci fai là sopra? E in vita
www.delcirco.blogspot.com
mia non ho mai visto una presenza scenica più travolgente di Carlo Colombaioni (anzi Charly, o meglio ancora “Sciali”, per i suoi).
uando un clown fa la rivoluzione
Il testo è tratto dal blog di Raffaele De Ritis, “Circo creatività e immaginazione nelle arti circensi”, in cui puntualmente appaiono riflessioni, video, stimoli, spunti polemici e ritratti di spettacoli del circo attuale in tutte le sue forme.
Cosa fai in platea, Carlo? Vieni qua a lavorare… Che? La-vo-ra-re. Chi? Tu. Io. Si. No. Farlo entrare in scena e mettere
una bomba in un teatro, non faceva differenza. Poteva esplodere in platea, sul palcoscenico, in mezzo al pubblico, dai camerini. L’assenza totale di trucco e costume ti spiazzava, rompeva tutte le regole, tutti i ruoli dello spettacolo. È come se in un match di boxe uno passa continuamente da sfidante, ad arbitro, a spettatore. Non sapevi più dov’era la maschera e dove l’attore, se vedevi un attore o un pagliaccio, un vecchio o un bambino. Che pubblico.
Mamma mia, che brutte
Era un mitragliatore che per novanta minuti sparava a zero in qualunque direzione. Un terrorista della risata. E poi la voce. Quella voce acuta, stridula, e poi bassa, quella che hanno un po’ tutti i pagliacci, che se la sono rotta già tre generazioni prima di nascere, da quando in piazza o nelle piste non esistevano ancora i microfoni. Ma a differenza che per i suoi colleghi, la cui voce sa spesso di routine e a volte un po’ di tristezza, la voce di Sciali era uno strumento d’arte e di gioia. Uno stradivari della felicità. Uno strumento raffinato e al contempo rozzo, puntuato di intonazioni e gridolini da clown in grado di esprimere al meglio la gioia, la vendetta, la cattiveria, la soddisfazione, la sorpresa ebete e quella furba del villano.
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w w w. j u g g l i n g m a g a z i n e . i t
Il pagliaccio Sciali era quello che deve essere il clown fin dalle origini dell’umanità, senza i fronzoli delle varie culture. Sporco e rozzo, ma anche poetico e virtuoso. Ingenuo e scaltro. Cattivo, miserabile e disperato. Giocoso e prepotente. E, insomma, tutto quello che per mitologia si vorrebe sempre fosse il clown. Non a caso è stato lui (ma anche il fratello Nani, va detto) a folgorare Fellini e Fo sulla centralità del clown negli anni in cui si reinventava il teatro. E qui Carlo Colombaioni ha giocato un ruolo di portata mondiale; io mi permetto di dire una rivoluzione nelle arti sceniche. Applauso! Applauso! Ahò…
Ma che lingua parlano questi? Madammm…Mister…Applauso!!! La crisi del teatro. Attorno al ’68, quando i lin-
guaggi scenici si mettevano in discussione, gli unici a restare fermi nei loro codici sono stati quelli del circo. Tra di essi, gli unici della tradizione a esplorare nuove forme sono stati Annie Fratellini, Alexis Gruss ma prima ancora Carlo Colombaioni. In questo unendosi all’esempio dei giovani “di fuori”, come Jean Baptiste Thierrée, Jerome Savary, Jango Edwards, eccetera. Con un coraggio enorfacce… me, ma forse anche con la giusta astuzia, a quell’epoca, Carlo ha rifiutato la logica del circo e le sue costrizioni culturali. Ma non buttandola via: capovolgendola. Cambiandogli il contesto. Col cognato Alberto ha continuato a fare le stesse cose del circo, uguali, ma al teatro. Rinunciando a trucco, costume e naso rosso. Un po’ come un prete che getta la tonaca alle ortiche, che rifiuta i rigori della chiesa per andare a predicare per fatti suoi. È stato un trionfo mondiale. Per molti, certo, l’ennesima metafora di liberazione contro costrizioni e potere. Ma per i più l’invenzione di un nuovo linguaggio artistico senza rinnegare il vecchio. Ed è stato un trionfo in tutto il mondo.