A/R 3 - sezioni Racconti, Squarci di mondo, Discorsi celebri

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Raffaela Paggi · Gabriele Grava · Adele Mirabelli 3 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado SCUOLA

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Cristina Zoli, Isabel Tozzi Stampato in Italia da D’Auria Printing, S. Egidio alla Vibrata (TE) Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Questo prodotto è composto da materiale che proviene da foreste ben gestite certificate FSC®, da materiali riciclati e da altre fonti controllate. Utilizziamo materiale plastic free, inchiostri vegetali senza componenti derivati dal petrolio e stampiamo esclusivamente in Italia con fornitori di fiducia, riducendo così le distanze di trasporto. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. Referenze fotografiche Shutterstock.com: fran_kies 7, 471; Nejron Photo 11; Orla 95, 329, 425, copertina; Everett Collection 219; m1k4 288; Cristina Conti 475; Stokkete 503 Grazie alla collaborazione con Seleggo, la versione digitale ottimizzata di questo libro per studenti dislessici può essere ottenuta in download gratuito registrandosi al sito

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Grava, Adele Mirabelli A/R 3 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado

Raffaela Paggi, Gabriele Grava, Adele Mirabelli A/R Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado in tre Hannovolumicollaborato

alla realizzazione dell’opera: Benedetto Grava Giacomo

CuraProgettoISBNTutti© 2019PrimaPrimawww.itacaedizioni.it/a-r-3edizione:agosto2020ristampa:agosto2022Itacasrl,CastelBologneseidirittiriservati978-88-526-0590-1grafico:AndreaCimattieditorialeericercaiconografica:

Raffaela Paggi · Gabriele Grava · Adele Mirabelli 3 Percorsi di lettura rilettura scrittura per la scuola secondaria di I grado RaccontiNovelle brevi Racconti di guerra Squarci di mondo Discorsi celebri Poesie · un uomo in guerra: Giuseppe Ungaretti · spazi infiniti SCUOLA

Eccoci all’ultima tappa del viaggio di Andata e Ritorno: i testi e i percorsi di dattici proposti nel terzo volume intendono da una parte approfondire l’idea di lettura come viaggio, dall’altra attirare l’attenzione del lettore sulla realtà, osservata da diversi punti di vista e ambiti di conoscenza.

C.S. Lewis, autore delle notissime Cronache di Narnia, interrogandosi sulla funzione della letteratura, scrive: «… noi cerchiamo un ampliamento del no stro essere. Vogliamo andare oltre noi stessi. Ognuno di noi vede per natura tutto il mondo da un punto di vista, con una sua prospettiva particolare». È così attraente la realtà in tutte le sue manifestazioni, nei suoi aspetti belli e terribili, drammatici e divertenti, quotidiani ed eccezionali, che il nostro solo punto di osservazione sembra non essere sufficiente per rispondere alle domande che essa suscita: «Vogliamo vedere anche con occhi diversi dai nostri, immaginare con immaginazioni diverse dalle nostre, sentire con cuori diversi dai nostri». Uscire da sé, dalla propria solitudine, per entrare in dialogo con un auto re e per immedesimarsi nel mondo possibile da lui immaginato e costruito con le parole, è una sorta di sospensione, di «annullamento temporaneo di sé stessi» e al contempo una possibilità di arricchimento preziosissima del pro prio io. Alla fine della lettura il lettore guadagna uno sguardo nuovo, nuove prospettive sull’uomo e sulla realtà e torna sempre a sé stesso, perché anche se ha avuto l’occasione di identificarsi con mille punti di vista, non si perde: «Ma leggendo le grandi opere della letteratura divengo migliaia di uomini e, allo stesso tempo, rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca, vedo con una miriade di occhi, ma sono sempre io a vedere»1.   Per dare un assaggio dei molteplici aspetti della realtà in cui la letteratu ra può trasportare il lettore, il volume propone racconti, cronache, argomen tazioni e poesie, suddivisi in quattro sezioni: i Racconti, sezione composta da tre raccolte: Novelle, Racconti brevi, e Racconti di guerra propone testi scritti da grandi autori della letteratura dei secoli XIX e XX, i cui racconti sono caratterizzati dalla brevità e dal realismo: in un breve spazio, offrono l’affresco di una situazione umana possibile e verosimile, se non documentaria, come i Racconti di guerra. La sezione Squarci di mondo contiene testi di scrittori e giornalisti che ti permetteranno di spaziare nel nostro vasto pianeta fino ai confini dell’Universo. In poche pagine ti potrai addentrare in vicende per sonali, situazioni, tempi, paesi lontani dal nostro piccolo mondo, ampliando così i tuoi orizzonti. Discorsi celebri presenta alcuni discorsi che grandi per sonaggi della storia hanno pronunciato in momenti particolari e significati vi. Potrai cogliere in essi intenti comunicativi assai diversi, dalla persuasione razionale all’esaltazione emotiva, approfondendo al contempo la complessità dell’animo umano e la potenza della parola. L’ultima sezione, intitolata Poesie, è suddivisa in due parti: la prima, Un uomo in guerra: Giuseppe Ungaretti, 1 Le frasi sono tratte dall’Epilogo di C.S. Lewis, Lettori e letture. Un esperimento di critica, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 162-165.

4 A/R: andata e ritorno. Terza puntata

• il circolo letterario: recensioni di libri appartenenti o in relazione ai vari generi;

Contenuti digitali Registrandoti sul sito www.itacascuola.it, puoi accedere ai seguenti contenu ti digitali:

• volume in formato digitale;

• schede sulla vita e le opere degli autori dei testi;

• racconti e poesie, per ampliare la conoscenza del genere letterario pro posto in ogni sezione;

5A/R: ANDATA E RITORNO. TERZA PUNTATA ha carattere monografico ed è dedicata interamente alla produzione poetica di Ungaretti, poeta-soldato durante la Prima guerra mondiale. La seconda, intitolata Spazi infiniti, presenta liriche che scaturiscono da un’osservazione appassionata e libera delle ‘cose’: elementi della natura, og getti, persone, contemplando i quali sorgono riflessioni e domande a cui po eta dà voce nei suoi versi.

• cineforum: recensioni di film per avviare un cineforum sui temi e sulle tipologie narrative incontrati durante la lettura. Raffaela Paggi · Gabriele Grava · Adele Mirabelli

Le sezioni: testi ed esercizi Il terzo volume è composto di quattro sezioni: Racconti , Squarci di mondo, Di scorsi celebri, Poesie. In ognuna di queste sezioni vi sono alcuni testi, scelti tra i più esemplari e significativi del loro genere, annotati dai curatori per fornirti indicazioni sul significato e sull’etimologia di parole complesse o di uso letterario, e due tipi di esercizi: • il primo dedicato a guidarti nella lettura e nella comprensione approfon dita dei testi, rispondendo a domande volte a farti scoprire i suoi signifi cati espliciti e impliciti, a raccogliere e analizzare le informazioni, a utiliz zare la scrittura per sviluppare l’intelligenza della lettura e per consolidare la tua capacità interpretativa e argomentativa; • il secondo finalizzato a favorire le tue abilità di scrittore, principalmente di testi descrittivi e narrativi, autobiografici o di invenzione, di riassunti, di commenti e di argomentazioni. Le consegne sono strutturate anche tenen do conto delle tipologie di tracce attualmente previste nell’esame finale. Alla fine del volume vi è un prontuario denominato Gli strumenti dello scrittore, che richiama e sviluppa quello dei precedenti volumi, denominato Gli strumenti del poeta. In questo glossario vengono elencati e definiti gli ele menti del linguaggio poetico e narrativo da te scoperti leggendo e analizzan do le poesie e i racconti delle diverse sezioni.

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Compito della narrativa è incarnare il mistero attraverso le maniere. F. O’Connor a cura di Benedetto Grava, Gabriele Grava, Giacomo Gregori, Alessandro Italia, Dorotea Moscato

Racconti1

Oltre alle novelle, nella sezione vi sono alcuni racconti brevi. Sono testi scritti nel XX secolo, caratterizzati da uno stile più rapido e frammentario. In questi racconti non viene raccontata l’intera vicenda di un personaggio: lo sguardo dell’autore indugia su istanti e su piccoli frammenti di vicende più ampie, senza la preoccupazione di tratteggiare con contorni definiti ciò che rimane sullo sfondo. A fianco di alcuni racconti di importanti autori italiani,

Che cosa significa, in fondo, raccontare se non dare all’altro qualche cosa?

E che cosa significa ascoltare un racconto se non allargare la nostra esperienza?

E. Raimondi Da sempre l’uomo ha raccontato storie: attraverso la magia delle parole ha seguito le vicende, inventate o realmente accadute, di persone e di luoghi; ha narrato ciò che vedeva o che immaginava per dilettare gli uditori, per testi moniare la propria vita, per conoscere il mondo. In fondo, per dire (e donare) qualcosa di nuovo.

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A fianco dei grandi romanzi, la tradizione letteraria europea ha dato vita, nel corso dei secoli, a storie brevi, capaci in poche pagine di prendere per mano il lettore e di portarlo in un mondo pieno di significato. In epoca medie vale questi racconti si chiamavano Exempla: brevi narrazioni che, attraverso una vicenda particolare, avevano lo scopo di giungere a una verità universa le. Nei secoli, i modi e i contenuti del racconto sono mutati, ma non si è mai persa l’ipotesi per la quale narrare la storia di un singolo uomo significa, in qualche modo, raccontare la storia di ciascun uomo.

Per questo motivo, pur essendo molte le forme che un racconto può assu mere, alcuni suoi caratteri rimangono immutati. I racconti sono innanzitutto caratterizzati dalla brevità e dal realismo: in un breve spazio, offrono l’affresco di una situazione umana possibile e verosimile, se non documentaria. Un’al tra importante caratteristica è quella dell’anomalia: nelle vicende raccontate, spesso, si inserisce un elemento di novità, con cui il protagonista (e il lettore insieme a lui) deve fare i conti e che costituisce il punto focale della tensione narrativa.All’interno di questa sezione troverai innanzitutto una raccolta di novelle. Si tratta di testi che nascono dalla tradizione classica della letteratura; seguo no le vicende di uno o più protagonisti, mettendo a tema vizi e virtù dell’es sere umano. L’andamento di queste storie è lineare e procede seguendo un’evoluzione parabolica; inoltre, i caratteri dei personaggi sono spesso ben definiti. Troverai novelle di grandi autori italiani (Verga e Pirandello) ed eu ropei (Puškin, Tolstoj, Wilde).

9RAccONTI

Infine, in questa sezione sono raccolti alcuni racconti di guerra: episodi tratti da romanzi e diari scritti da uomini che hanno vissuto in prima perso na le tragiche vicende delle guerre mondiali e dei totalitarismi del XX secolo. Sopravvissuti, hanno voluto ricordare e narrare le loro vicende, così che tutti potessero comprendere l’efferatezza e la brutalità della guerra, la bestialità a cui può arrivare un uomo, e al contempo l’anelito insopprimibile alla vita, la pietà e l’eroicità di molti uomini a cui dobbiamo oggi la possibilità di vivere nellaGlilibertà.esercizi di scrittura proposti ti aiuteranno innanzitutto a proseguire il lavoro sul riassunto, già iniziato nei volumi precedenti, insegnandoti a rico noscere il significato complessivo di un racconto e la sua struttura; sono pro posti inoltre testi descrittivi e narrativi-autobiografici che, prendendo spun to da ciò che viene narrato, ne propongono una rielaborazione personale; inoltre, viene avviato in questa sezione un lavoro sulla produzione di testi argomentativi, che proseguirà anche nelle altre sezioni.

sono stati scelti soprattutto testi della letteratura americana, che nell’ultimo mezzo secolo ha dato molto spazio a questo genere letterario.

Leggi con attenzione i racconti che trovi nelle prossime pagine, facendo attenzione anche ai più piccoli dettagli: «può essere allora che nello scrutare il reale la parola sappia scorgervi anche ciò che è più nascosto» (E. Raimondi).

Eroe del racconto, eroe che io amo con tutta l’anima e che ho sempre cercato di riprodurre in tutta la sua bellezza, e che sempre è stato, è e sarà meraviglioso, eroe del mio racconto è la verità. L. Tolstoj a cura di Benedetto Grava, Gabriele Grava, Giacomo Gregori

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Novelle1/1

R AccONTI12 ALEKSANDR PUŠKIN

Alla fine del 1811, in un tempo per noi memorabile, viveva nel suo possesso di Njenaradovo il buon Gavrila Gavrilovič R. Egli aveva fama in tutto il di stretto di ospitalità e di cordialità; i vicini andavano ogni momento da lui a mangiare, a bere, a giocar di cinque copeche1 al boston2 con sua moglie Pra skovja Petrovna, e alcuni per veder la loro figliola, Marja Gavrilovna, una ra gazza diciassettenne, ben fatta, pallida. Era considerata un partito ricco, e molti la destinavano a sé o ai figli. Marja Gavrilovna era stata educata sui romanzi francesi e, per conseguen za, era innamorata. L’oggetto da lei scelto era un povero alfiere dell’esercito, che si trovava in licenza nel proprio villaggio. S’intende da sé che il giovanot to era infiammato d’un’eguale passione, e che i genitori della sua amata, no tando la loro vicendevole inclinazione, avevan proibito alla figlia perfino di pensarci, e lui lo ricevevano peggio che un assessore a riposo.

I nostri amanti erano in corrispondenza, e ogni giorno si vedevano a quattr’occhi nella pineta o presso la vecchia cappella. Là si giuravan l’un l’al tro eterno amore, si lamentavano della sorte e facevano svariate supposi zioni. Scrivendosi e discorrendo in questo modo, essi (cosa assai naturale) giunsero al ragionamento seguente: se noi non possiamo vivere l’uno senza l’altro, e il volere di genitori crudeli ostacola la nostra felicità, non potrem mo farne senza? S’intende che questa idea felice venne dapprima in men te al giovanotto e che piacque assai all’immaginazione romanzesca di Marja Gavrilovna.

2 Boston: gioco di carte.

La tempesta di neve Volano i corsieri per i colli, Calpestan la neve profonda… Ecco appartato un tempio di Dio Si vede solitario. A[…]un tratto la tempesta è tutt’intorno: La neve cade a fiocchi; Un corvo nero, fischiando con l’ala, Volteggia sopra la slitta; Il gemere fatidico annuncia tristezza! I corsieri Guardanofrettolosiattentinella scura lontananza Sollevando la criniera… Žukovskij

1 copeche: la copeca è una moneta che vale un centesimo di rublo.

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Giunse l’inverno e fece cessare i loro incontri; ma la corrispondenza ne divenne tanto più animata. Vladimir Nikolajevič in ogni lettera la supplicava di darsi a lui, di sposarsi segretamente, di nascondersi per qualche tempo, di gettarsi poi ai piedi dei genitori, che, certamente, sarebbero stati infine com mossi dall’eroica costanza e dalla sventura degli amanti, e avrebbero senza dubbio detto loro: “Ragazzi! venite nelle nostre braccia”. Marja Gavrilovna esitò a lungo; una quantità di disegni di fuga vennero respinti. Finalmente ella acconsentì: il giorno fissato doveva non cenare e ritirarsi nella sua stanza col pretesto d’un mal di capo. La sua cameriera era nella congiura; tutt’e due esse dovevano uscire nel giardino per la scalinata posteriore, dietro il giardino trovare una slitta pronta, sedervisi e andare a cinque verste1 da Njenaradovo, al paese di Zadrino, direttamente in chiesa, dove Vladimir doveva già attenderle. Alla vigilia della giornata decisiva Maria Gavrilovna non dormì per tutta la notte; preparava la sua roba, involtava la biancheria e i vestiti; scrisse una lunga lettera a una signorina sensibile, sua amica, un’altra ai suoi genitori. Ella li salutava con le espressioni più commoventi, scusava il proprio atto con la forza invincibile della passione e finiva dicendo che avrebbe stimato il mo mento più felice della propria vita quello in cui le fosse permesso di gettarsi ai piedi dei carissimi suoi genitori. Sigillate tutt’e due le lettere con un piccolo sigillo di Tula, sul quale eran rappresentati due cuori fiammeggianti con una scritta adatta, ella si gettò sul letto proprio avanti l’alba e si assopì; ma anche allora orribili fantasticherie la svegliavano a ogni momento. Ora le sembra va che nell’istante stesso in cui si sedeva nella slitta, per andare a sposarsi, suo padre la fermasse, la trascinasse per la neve con tormentosa rapidità e la gettasse in un sotterraneo scuro, senza fondo… ed ella volava giù a capofit to con un inspiegabile struggimento di cuore; ora vedeva Vladimir, coricato sull’erba, pallido, insanguinato. Egli, morendo, la pregava con voce penetran te di affrettarsi a sposarlo… altre difformi, insensate visioni le aleggiavano dinanzi una dopo l’altra. Finalmente ella si alzò, più pallida del solito e con un non finto mal di capo. Il padre e la madre notarono la sua inquietudine; la loro tenera premura e le domande incessanti: “Che hai, Maša2? non sei ma lata, Maša?” le dilaniavano il cuore. Ella cercava di tranquillarli, di sembrare allegra, e non poteva. Venne la sera. Il pensiero che ormai per l’ultima volta passava una giornata in mezzo alla sua famiglia le stringeva il cuore. Si reg geva appena; salutava segretamente tutte le persone, tutte le cose che la cir condavano. Servirono la cena; il suo cuore si mise a battere forte. Con voce tremante dichiarò che non aveva voglia di cenare e cominciò a salutare il pa dre e la madre. Essi la baciarono e, secondo il solito, la benedissero; ella per poco non si mise a piangere. Venuta nella sua stanza, si gettò su una poltrona e pianse a calde lagrime. La donna cercava di persuaderla a calmarsi e a farsi coraggio. Tutto era pronto. Mezz’ora dopo Maša doveva lasciare per sempre 1 verste: unità di misura, pari a poco più di un chilometro. 2 Maša: diminutivo di Marja.

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la casa paterna, la sua stanza, la dolce vita verginale… Fuori c’era una tem pesta di neve: il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano; tutto le sembrava una minaccia e un triste presagio. Ben presto in casa tutto tacque e si addormentò. Maša s’imbacuccò in uno scialle, mise una vestaglia da inver no, prese in mano una cassettina e uscì sulla scalinata posteriore. La serva la seguiva portando due fagotti. Tutt’e due scesero nel giardino. La tempesta di neve non si calmava; il vento soffiava in senso contrario, come sforzandosi di fermare la giovane malfattrice. Esse giunsero a stento fino in fondo al giardi no. Sulla strada la slitta le aspettava. I cavalli, intirizziti, non stavano fermi; il cocchiere di Vladimir passeggiava davanti alle stanghe, trattenendo gl’impe tuosi. Egli aiutò la signorina e la sua donna a sedersi e mettere a posto i fagot ti e la cassettina, afferrò le redini e i cavalli presero il volo. Affidata la signorina alle cure della sorte e all’arte del cocchiere Tjereška, volgiamoci al nostro giovane amante. Per tutto il giorno Vladimir era stato in movimento. Al mattino era stato dal prete di Zadrino; con molta fatica s’era messo d’accordo con lui; poi era andato a cercare i testimoni fra i possidenti vicini. Il primo da cui si presentò, il quarantenne cornetta1 a riposo Dravin, acconsentì con piacere. Quest’av ventura, assicurava, gli ricordava il tempo di una volta e le birichinate degli usseri2. Egli persuase Vladimir a rimanere a pranzo da lui, e gli assicurò che per gli altri due testimoni non ci sarebbe stata difficoltà. Infatti, subito dopo pranzo apparvero il geometra Šmidt, con baffi e speroni, e il figlio del capi tano capo della polizia, un ragazzo di un sedici anni che era entrato da poco negli ulani3. Essi non solo accolsero la proposta di Vladimir, ma gli giurarono perfino d’esser pronti a sacrificare la vita per lui. Vladimir li abbracciò con entusiasmo e andò a casa a prepararsi. Aveva cominciato a far buio da un pezzo. Egli mandò il suo fidato Tjereška a Njenaradovo con la sua troika4 e con istruzioni particolareggiate, esatte; e per sé fece attaccare una piccola slitta a un cavallo, e solo, senza cocchie re, si diresse verso Žadrino, dove dopo un due ore doveva giungere anche Marja Gavrilovna. La strada gli era familiare, e non c’erano che venti minuti di cammino.Maappena

Vladimir dai dintorni del paese uscì nella pianura, si levò il vento, e venne una tal tempesta di neve, che egli non vide più nulla. In un momento la strada fu coperta; le vicinanze scomparvero in una tenebra tor bida e giallognola, attraverso la quale volavano bianchi fiocchi di neve; il cie lo s’era fuso con la terra; Vladimir si trovò nella campagna e invano voleva raggiungere di nuovo la strada; il cavallo camminava alla ventura e ogni mo mento o entrava in un mucchio di neve, o affondava in una buca; ogni mo

1 cornetta: grado militare, ufficiale. 2 usseri: militari della cavalleria leggera. 3 ulani: altra unità militare, sempre di cavalleria leggera. 4 troika: carrozza a tre cavalli.

Finalmente, vide che non andava dalla parte giusta. Vladimir si fermò: co minciò a ricordare, a riflettere e si convinse che doveva prendere a destra. Si avviò a destra. Il suo cavallo camminava appena. Era già più di un’ora che era in cammino. Žadrino doveva esser poco lontano. Ma andava, andava, e la pia nura era senza fine. Non c’erano che mucchi di neve e borri; ogni momento la slitta si rovesciava, ogni momento egli la tirava su. Il tempo passava; Vladi mir cominciava a essere fortemente inquieto. Finalmente, da una parte cominciò a nereggiare qualcosa. Vladimir vol tò in quella direzione. Avvicinandosi vide un boschetto. “Sia lodato Iddio”, pensò “adesso è vicino.” Passò accanto al boschetto, sperando di raggiungere subito la strada nota o di girare intorno al bosco; Žadrino era subito dietro di esso. Ben presto trovò la strada ed entrò nella tenebra prodotta dagli alberi spogliati dall’inverno. Il vento lì non poteva infuriare: la strada era liscia; il cavallo s’era rinfrancato e Vladimir si calmò. Ma andava, andava, e Žadrino non c’era verso di vederlo; il boschetto era senza fine. Vladimir vide con terrore ch’era entrato in un bosco ignoto. La disperazione lo prese. Percosse il cavallo; la povera bestia si mise ad andare al trotto, ma ben presto cominciò a essere spossata e dopo un quarto d’ora si mise al passo, malgrado tutti gli sforzi dello sventurato Vladimir. A poco a poco gli alberi si fecero più radi e Vladimir uscì dal bosco; Žadrino non c’era verso di vederlo. Doveva essere circa mezzanotte. Gli sgorgaron le lagrime dagli occhi; andò alla ventura. Il tempo s’era calmato, le nubi s’erano aperte; dinanzi a lui si stendeva una pianura coperta d’un bianco tappeto on dulato. La notte era abbastanza chiara. Egli vide non lontano un villaggetto, che consisteva di quattro o cinque fuochi. Vladimir andò verso di esso. Alla prima piccola izba2 saltò giù dalla slitta, corse a una finestra e cominciò a pic chiare. Dopo alcuni minuti l’imposta di legno si alzò e un vecchio mise fuori la sua barba canuta.

«Che ti bisogna?» «È lontano Žadrino?» «Se è lontano Žadrino?» «Sì, sì! è lontano?»

AlEksANDR PUŠk IN 15 mento la slitta si rovesciava. Vladimir cercava soltanto di non perdere la di rezione giusta. Ma gli sembrava che fosse passata mezz’ora, e non era ancora giunto fino al boschetto di Žadrino. Passarono ancora circa dieci minuti: il boschetto non c’era verso di vederlo. Vladimir andava per un terreno solcato da borri1 profondi. La tempesta di neve non si calmava, il cielo non si schiari va. Il cavallo cominciava a stancarsi, ed egli era grondante di sudore, malgra do che ogni momento fosse nella neve fino alla cintola.

«Non è lontano: ci sarà una diecina di verste.» A questa risposta Vladimir si prese per i capelli e rimase immobile, come un uomo condannato a morte. «E tu di dove sei?» seguitò il vecchio. 1 borri: solchi nel terreno. 2 izba: tipica abitazione rustica della Russia.

«Come va la tua testa, Maša?» domandò Gavrila Gavrilovič. «Meglio, babbino» rispose Maša. «Ieri probabilmente t’hanno fatto male le esalazioni di carbone, Maša» disse Praskovja Petrovna. «Può darsi, mammina» rispose Maša. La giornata passò felicemente, ma nella notte Maša si ammalò. Mandaro no a prendere un medico in città. Egli venne verso sera e trovò l’ammalata in delirio. Si manifestò un forte febbrone, e la povera ammalata stette per due settimane sull’orlo della tomba. In casa nessuno sapeva della fuga progettata. Le lettere da lei scritte il gior 1 samovar: contenitore per scaldare l’acqua, normalmente usato per la preparazione del tè.

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Vladimir non era d’umore da rispondere alle domande. «Vecchio,» diss’egli «puoi trovarmi dei cavalli che mi portino fino a Žadrino?» «Che cavalli vuoi che abbiamo?» rispose il contadino. «Ma non posso prendere almeno una guida? Gli pagherò quanto vorrà.» «Aspetta,» disse il vecchio abbassando l’imposta «ti manderò mio figlio: lui Vladimirt’accompagnerà.»cominciò ad aspettare. Non era passato mezzo minuto, ch’egli si mise a picchiar di nuovo. L’imposta si alzò, la barba si fece vedere. «Che ti bisogna?» «E che fa tuo figlio?» «Esce subito, si mette le scarpe. Sei intirizzito forse? entra a scaldarti.» «Grazie; manda presto tuo figlio.» La porta cigolò; uscì fuori un giovanotto con un randello e andò innanzi, ora indicando, ora cercando la strada, coperta da mucchi di neve. «Che ora è?» gli domandò Vladimir. «Ma farà già presto giorno» rispose il giovane contadino. Vladimir non di ceva neppure più una parola. Cantavano i galli ed era già chiaro, quando raggiunsero Žadrino. La chiesa era chiusa. Vladimir pagò la guida e andò nella corte del prete. Nella corte la sua troika non c’era. Che notizia lo attendeva! Ma torniamo ai buoni proprietari di Njenaradovo e guardiamo che cosa accade a loro. Nulla.

I due vecchi si svegliarono e vennero in salotto, Gavrila Gavrilovič in ber retto da notte e giacca di flanella, Praskovja Petrovna in veste da camera ovat tata. Servirono il samovar1, e Gavrila Gavrilovič mandò una ragazzina a infor marsi da Marja Gavrilovna come stesse e come avesse riposato. La ragazzina tornò annunciando che la signorina aveva riposato male, ma che adesso sta va meglio e che sarebbe venuta subito in salotto. Infatti, la porta si aperse, e Marja Gavrilovna si avvicinò per salutare il babbino e la mammina.

1 Si tratta dunque della campagna di Russia napoleonica.

AlEksANDR PUŠk IN 17 no prima furono bruciate; la sua cameriera non diceva nulla a nessuno, pa ventando l’ira dei signori. Il prete, il cornetta a riposo, il geometra coi baffi e il piccolo ulano stettero cheti, e non senza ragione. Il cocchiere Tjereška non svelò mai nulla di superfluo, neppur da ubriaco. Così il segreto fu mantenuto da più d’una mezza dozzina di congiurati. Ma Marja Gavrilovna stessa, nell’in cessante delirio, svelava il suo segreto. Tuttavia le sue parole erano così incoe renti, che la madre, la quale non si allontanava dal suo letto, poté capire da es sa soltanto che sua figlia era follemente innamorata di Vladimir Nikolajevič, e che probabilmente l’amore era la causa della sua malattia. Ella si consigliò con suo marito, con alcuni vicini, e infine tutti decisero all’unanimità che si vedeva che questo era il destino di Marja Gavrilovna, che quel ch’è scritto è inevitabile, che povertà non è peccato, che si vive non con la ricchezza, ma con la persona, e simili. I proverbi morali sono straordinariamente utili in quei ca si in cui da noi ben poco possiamo escogitare a nostra giustificazione. Frattanto la signorina cominciò a rimettersi. Vladimir era un pezzo che non lo si vedeva in casa di Gavrila Gavrilovič. Egli era spaventato dalle soli te accoglienze. Stabilirono di mandarlo a chiamare e di comunicargli l’ina spettata fortuna: il consenso per il matrimonio. Ma quale fu lo stupore dei proprietari di Njenaradovo, quando in risposta al loro invito ricevettero da lui una lettera semifolle! Egli dichiarava loro che non avrebbe mai più messo piede in casa loro, e pregava che dimenticassero uno sventurato per cui uni ca speranza rimaneva la morte. Alcuni giorni dopo seppero che Vladimir era partito per raggiungere l’esercito. Si era nel 18121. Per lungo tempo non osarono darne notizia a Maša che si ristabiliva. Ella non ricordava mai Vladimir. Già alcuni mesi dopo, avendo trovato il nome di lui nel numero di coloro che s’erano distinti ed erano stati gravemente feriti sotto Borodinò2, cadde svenuta, e temevano che le tornasse il suo febbrone. Tuttavia, grazie a Dio, lo svenimento non ebbe seguito. Un’altra cosa triste l’afflisse: mancò Gavrila Gavrilovič, lasciandola erede di tutto il possesso. Ma l’eredità non le era di consolazione; ella partecipava sinceramente al dolore della povera Praskovja Petrovna, giurava di non la sciarla mai; tutt’e due esse lasciarono Njenaradovo, luogo di tristi ricordi, e andarono a stare nella tenuta di ***.

I pretendenti anche qui giravano attorno alla gentile e ricca signorina da marito; ma ella non dava la minima speranza a nessuno. La madre a volte cercava di persuaderla a scegliersi un compagno; Marja Gavrilovna scoteva il capo e si faceva pensosa. Vladimir non c’era più; era morto a Mosca, alla vigi lia dell’entrata dei francesi. La sua memoria sembrava sacra per Maša; per lo meno ella conservava tutto quello che poteva ricordarlo: i libri un tempo letti da lui, i suoi disegni, la musica, e i versi da lui copiati per lei. I vicini, venuti a saper tutto, si meravigliano della sua costanza e aspettavano con curiosità

2 Borodinò: celebre battaglia tra l’esercito imperiale francese e l’esercito russo, vinta dalle forze di Napoleone, che costò a entrambi gli schieramenti moltissime perdite.

2 La vittoria finale dell’esercito russo è accompagnata da canti e danze.

5 distingueva: ammirava. 6 Incipit di un celebre sonetto di Francesco Petrarca.

4 Ordine di San Giorgio: importante riconoscimento al valore militare.

la guerra era gloriosamente finita. I nostri reggimenti tornava no dall’estero. Il popolo correva loro incontro. La musica sonava le canzo ni conquistate: Vive Henri-Quatre, valzer tirolesi e arie del Joconde2. Gli uffi ciali, entrati in campagna quasi adolescenti, ritornavano, cresciuti nell’aria di guerra, coperti di croci. I soldati chiacchieravano allegramente fra loro, introducendo ogni momento nel discorso parole tedesche e francesi. Tem po indimenticabile! Tempo di gloria e d’entusiasmo! Come batteva forte un cuore russo alla parola patria! Com’erano dolci le lagrime dell’incontro! Con quale concordia univamo i sentimenti di orgoglio nazionale e di amore per il sovrano! E per lui che momento era quello! Le donne, le donne russe allora furono incomparabili. La loro consueta freddezza era scomparsa. Il loro entusiasmo era davvero inebriante, quando, accogliendo i vincitori, esse gridavano: urrà! E gettavano in aria le cuffiette…, Quale degli ufficiali d’allora non riconosce d’essere stato debitore alla don na russa del premio migliore, più prezioso?…

3 frack: abito maschile elegante e formale.

R AccONTI18 l’eroe che doveva finalmente trionfare della triste fedeltà di quella Artemide verginale1.Intanto

Abbiamo già detto che, malgrado la sua freddezza, Marja Gavrilovna era sempre circondata da pretendenti come prima. Ma tutti dovettero cedere, quando comparve nel suo castello il ferito colonnello degli usseri Burmin, col nastro dell’Ordine di San Giorgio4 all’occhiello e con un pallore interes sante, come dicevano le signorine d’allora. Egli aveva quasi ventisei anni. Era venuto in licenza nei suoi possessi, che erano vicini al villaggio di Marja Ga vrilovna. Marja Gavrilovna lo distingueva5 molto. In presenza di lui la sua so lita pensosità si ravvivava. Non si poteva dire ch’ella civettasse con lui; ma il poeta, notando la sua condotta, avrebbe detto: Se amor non è, che è dunque?…6

1 Artemide verginale: Marja Gavrilovna viene paragonata ad Artemide, divinità dell’antica Grecia, rimasta casta e pura.

In quest’epoca splendida Marja Gavrilovna viveva con la madre nel gover natorato di *** e non vide come le due capitali festeggiarono il ritorno delle truppe. Ma nei distretti e nei villaggi l’entusiasmo generale fu forse ancora più forte. L’apparizione d’un ufficiale in questi luoghi era un vero trionfo per lui, e l’amoroso in frack3 si trovava male avendolo per vicino.

AlEksANDR PUŠk IN 19

Burmin trovò Marja Gavrilovna vicino allo stagno, sotto un salice, con un libro in mano, e vestita di bianco, come una vera eroina di romanzo. Dopo le prime domande, Marja Gavrilovna smise apposta di sostener la conversa zione, rendendo più forte in questo modo il reciproco turbamento, dal quale non ci si poteva liberare se non con una spiegazione improvvisa e decisiva. Così accadde appunto: Burmin, sentendo la difficoltà della sua situazione, dichiarò che da lungo tempo cercava l’occasione di svelare il proprio cuore, e richiese un momento d’attenzione. Marja Gavrilovna chiuse il libro e abbassò gli occhi in segno di assenso. «Vi amo,» disse Burmin «vi amo appassionatamente…» Marja Gavrilovna arrossì e piegò il capo ancora più in basso. «Ho agito imprudentemente, ab

«È in giardino» rispose la vecchietta; «andate da lei, e io vi aspetterò qui.» Burmin ci andò, e la vecchietta si fece il segno della croce e pensò: “Chi sa che la cosa non si definisca oggi stesso!”.

Burmin era davvero un giovanotto molto simpatico. Aveva appunto quel l’intelligenza che piace alle donne: l’intelligenza dell’opportunità e del l’osservazione, senza nessuna pretesa e noncurantemente canzonatoria. Il suo contegno con Marja Gavrilovna era semplice e disinvolto; ma, qualunque cosa ella dicesse o facesse, l’anima e gli sguardi di lui la seguivano sempre. Egli sembrava di abitudini tranquille e modeste, ma la voce pubblica assicu rava che un tempo era stato uno scapestrato tremendo, e questo non gli nuo ceva nell’opinione di Marja Gavrilovna, la quale (come del resto tutte le gio vani donne in generale) perdonava con piacere le birichinate che scoprivano l’arditezza e l’impetuosità del carattere. Ma più di tutto… (più della sua delicatezza, più della piacevole conversa zione, più del pallore interessante, più del braccio fasciato) il silenzio del gio vane ussero eccitava più di tutto la curiosità e l’immaginazione di lei. Ella non poteva non riconoscere che gli piaceva molto; probabilmente anche lui, con la sua intelligenza ed esperienza, poteva già aver notato che ella lo distin gueva; come mai dunque non l’aveva ancora veduto ai suoi piedi e non aveva ancora udito la sua dichiarazione? Che cosa lo tratteneva? La timidezza inse parabile dall’amore verace, l’orgoglio o la civetteria dell’astuto seduttore? Per lei era un enigma. Dopo averci pensato per benino, concluse che la timidezza ne era l’unica causa, e decise di rincuorarlo con una maggior premurosità e, secondo le occasioni, perfino con la tenerezza. Preparava lo scioglimento più inaspettato e attendeva con impazienza il momento d’una romantica spiega zione. Un segreto, di qualunque genere esso sia, è sempre penoso per un cuo re femminile. Le sue operazioni militari ebbero il successo desiderato: alme no, Burmin divenne così pensieroso, e i suoi occhi neri si fermavano con tale fuoco su Marja Gavrilovna, che il momento decisivo sembrava ormai prossi mo. I vicini parlavano del matrimonio come d’una questione già definita, e la buona Praskovja Petrovna era contenta che la sua figliola si fosse finalmente trovato un fidanzato degno. La vecchietta un giorno sedeva sola in salotto, disponendo il gran solitario, quando Burmin entrò nella stanza e chiese subito notizie di Marja Gavrilovna.

1 Si fa riferimento a un romanzo epistolare di J.J. Rosseau, Giulia o la Nuova Eloisa, nel quale due innamorati, Saint-Preux e Giulia, si scambiano accorate lettere.

R AccONTI20 bandonandomi a una cara consuetudine, alla consuetudine di vedervi e di ascoltarvi ogni giorno…» Marja Gavrilovna ricordò la prima lettera di SaintPreux1. «Adesso ormai è tardi per oppormi alla mia sorte; il ricordo di voi, la vostra cara, impareggiabile immagine da ora innanzi sarà il tormento e la consolazione della mia vita; ma mi rimane ancora da compiere un peno so dovere, svelarvi un segreto tremendo e porre fra noi un’insormontabile barriera…»«Essaè sempre esistita» interruppe vivacemente Marja Gavrilovna; «io non avrei mai potuto essere vostra moglie…» «Lo so,» le rispose egli piano «lo so che un tempo avete amato; ma la mor te e tre anni di compianto… Mia buona, cara Marja Gavrilovna! Non cercate di privarmi dell’ultima consolazione: il pensiero che voi avreste consentito a rendermi felice, se…» «Tacete, in nome di Dio, tacete. Mi dilaniate.» «Sì, lo so, lo sento, che sareste mia, ma io sono l’essere più infelice… sono ammogliato!»MarjaGavrilovna lo guardò con stupore. «Sono ammogliato» seguitava Burmin; «sono già tre anni che sono ammo gliato, e non so chi sia mia moglie, e dove sia, e se mi sarà dato d’incontrarla mai!»«Che dite?» esclamò Marja Gavrilovna. «Com’è strano! Seguitate: raccon terò dopo… ma seguitate, fatemi il favore.» «Al principio del 1812» disse Burmin «mi affrettavo verso Vilna, dove si trovava il nostro reggimento. Un giorno, giunto la sera tardi a una tappa, vo levo ordinare che fossero subito attaccati i cavalli, quando a un tratto si levò una gran tempesta di neve, e il maestro delle poste e i postiglioni mi con sigliarono di lasciarla passare. Io li ascoltai, ma una inquietudine incom prensibile s’impadronì di me; sembrava proprio che qualcuno mi spingesse. Frattanto la tempesta di neve non si calmava; io persi la pazienza, ordinai di nuovo d’attaccare e partii in piena bufera. Al postiglione venne in mente di passare per il fiume, cosa che ci doveva abbreviare il cammino di tre verste. Le rive erano coperte di neve; il postiglione oltrepassò il punto dove si usciva sulla strada, così capitammo in parti ignote. La bufera non si calmava; io vi di un lumicino e ordinai che s’andasse là. Giungemmo in un villaggio; nella chiesa di legno c’era luce. La chiesa era aperta; dietro il muro di cinta eran ferme alcune slitte; della gente camminava sul sagrato. “Qua! qua!” gridaro no alcune voci. Io ordinai al postiglione di avvicinarsi. “Di grazia, dove ti sei fermato?” mi disse qualcuno. “La sposa è svenuta: il prete non sa che fare; noi stavamo per tornare indietro. Vieni fuori in fretta.” Io saltai fuori dalla slitta in silenzio ed entrai nella chiesa, debolmente illuminata da due o tre candele. Una fanciulla sedeva su una panca, in un angolo buio della chiesa; un’altra le stropicciava le tempie. “Sia lodato Iddio”, disse questa “finalmen

AlEksANDR PUŠk IN 21 te siete arrivato. Ci mancava poco che faceste morire la signorina.” Il vecchio sacerdote si avvicinò a me domandandomi: “Ordinate che si cominci?”. “Co minciate, cominciate, padre” risposi io distrattamente. Tirarono su la fan ciulla. Mi sembrò che non fosse brutta… Un’incomprensibile, imperdonabile leggerezza… mi posi vicino a lei dinanzi all’inginocchiatoio; il sacerdote ave va fretta; tre uomini e la cameriera sostenevano la sposa ed erano occupati soltanto di lei. Ci sposarono. “Baciatevi” ci dissero. Mia moglie rivolse verso di me il suo viso pallido. Io volevo baciarla… Lei gridò: “Ahi, non è lui! non è lui!” e cadde priva di sensi. I testimoni mi fissarono con occhi spaventati. Io mi voltai, uscii dalla chiesa senza nessun impedimento, mi precipitai nella kibitka1 e gridai: “Via!”». «Dio mio!» gridò Marja Gavrilovna. «E non sapete che cosa sia successo alla vostra povera moglie?» «Non lo so» rispose Burmin; «non so come si chiami il villaggio dove mi sono sposato; non mi ricordo da che tappa ero partito. In quel tempo attribui vo così poca importanza alla mia delittuosa birichinata, che, allontanatomi dalla chiesa, mi addormentai e mi svegliai la mattina del giorno dopo, ormai alla terza tappa. Il servo che allora era con me morì nella campagna, sicché non ho neppur la speranza di rintracciare colei che ho così crudelmente pre sa in giro, e che adesso è così crudelmente vendicata.» «Dio mio, Dio mio!» disse Marja Gavrilovna, prendendogli la mano. «Allora eravate voi! E non mi riconoscete?» Burmin impallidì… e si gettò ai suoi piedi… 1 kibitka: carrozza.

Rileggi il racconto e individua i fatti essenziali.

2. Costruisci uno schema che metta in luce le differenze tra il disporsi cronologico degli avvenimenti (fabula) e la loro disposizione nella narrazione (intreccio).

R AccONTI1.22

3. Come mai, a tuo parere, lo scrittore ha raccontato gli avvenimenti senza seguire sempre l’ordine cronologico? Formula la tua ipotesi e confrontati con i tuoi compagni e il tuo docente.

4. Come vivono i due giovani innamorati, Marja e Vladimir, l’attesa prima del matrimonio? Come invece reagiscono agli inaspettati eventi della notte? Per rispondere e mettere in evidenza il diverso atteggiamento dei due personaggi, rileggi la prima parte del racconto.

5. Come Marja accoglie la notizia della morte di Vladimir? Cosa le impedisce di considerare i numerosi pretendenti che la avvicinano? Cosa invece di Burmin la affascina? Per rispondere, rileggi la parte centrale del racconto.

7. Immagina di essere uno dei giovani innamorati, uno a scelta tra Marja, Vladimir o Burmin, e di dover raccontare a un amico o confidente ciò che è accaduto nella stravagante notte delle nozze segrete: scrivi un testo in cui, a fianco degli eventi, emergano i tuoi pensieri e sentimenti.

6. Quale conflitto impedirebbe il matrimonio tra Marja e Burmin? Quale colpo di scena (agnizione) invece risolve la situazione? Per rispondere, rileggi il dialogo conclusivo tra i due.

8. Nel raccontare la sua bizzarra storia, Burmin dichiara che «sembrava proprio che qualcuno mi spingesse»: riassumi il racconto per mettere in luce l’intricato e misterioso destino che lega i due personaggi.

23 LEV TOLSTOJ

Tre morti I Era autunno. Sulla strada maestra due carrozze procedevano al trotto. Nel la carrozza davanti c’erano due donne. Una era la bàrynja1, magra e pallida. L’altra la cameriera, pienotta, liscia e rubiconda. Corti capelli secchi le spun tavano dal cappellino scolorito, la mano bianca avvolta in un guanto bucato li accomodava frettolosamente. L’alto petto, coperto da un fazzoletto con un di segno da tappeto, sprizzava salute, gli svelti occhi neri ora segui vano i campi che scorrevano dal finestrino, ora guardavano timidamente la bàrynja , ora esploravano irrequieti gli angoli della carrozza. Davanti al naso della came riera ondeggiava un cappello della bàrynja appeso per la veletta, e lei aveva un cagnolino in grembo, i piedi poggiavano sulle scatole ammucchiate sotto il sedile, e vi tamburellavano in modo appena percettibile, ad accompagnare il cigolio delle molle e il tintinnio dei vetri.  Con le mani unite sulle ginocchia e gli occhi chiusi, la bàrynja ondeggiava appena sui cuscini che le erano stati sistemati dietro la schiena e, corrugando leggermente la fronte, tossicchiava a bocca chiusa. Aveva una bianca cuffia da notte in testa e uno scialle celeste legato sul tenero, pallido collo. La scri minatura diritta che scompariva sotto la cuffia divideva i capelli biondo scu ri, molto folti e impomatati; nel candore della larga striscia di pelle scoperta dalla scriminatura c’era un che di secco, di morto. La pelle del viso appassita, un po’ giallognola, non aderiva perfettamente ai lineamenti raffinati e belli ed era più rossa sulle guance e sugli zigomi. Le labbra erano secche e inquie te, le rade sopracciglia non avevano curva, e la vestaglia da viaggio, di panno, cadeva dritta sul petto infossato. Benché gli occhi fossero chiusi, il viso della signora esprimeva stanchezza, dispetto e una sofferenza ormai abituale.  Un valletto sonnecchiava a cassetta, con i gomiti posati sul sedile, il po stiglione incitava, con grida vivaci, i quattro forti cavalli sudati, girandosi di tanto in tanto a guardare l’altro postiglione, che gridava sulla carrozzella che veniva dietro. Nel fango vischioso della strada i larghi solchi paralleli delle ruote si disegnavano uniformi e profondi. Il cielo era grigio e freddo, sui cam pi e sulla strada si addensava un’umida foschia. Nella carrozza l’aria era sof focante e odorava di acqua di colonia e di polvere. La malata allungò la testa all’indietro e aprì lentamente gli occhi. I grandi occhi di un bellissimo colore scuro rilucevano.  «Di nuovo» disse scostando nervosamente con la bella mano smagrita un’estremità della mantella della cameriera, che le aveva lievemente sfiora 1 bàrynja: nobile proprietaria terriera.

Il marito, dopo esser rimasto lì ancora un po’, entrò nella stazione; Matrëša saltò giù dalla carrozza e corse a piedi nudi nel fango verso la porta.

«Se io sto male, non è una ragione perché voi non facciate colazione» disse con un lieve sorriso la malata al dottore, in piedi vicino al finestrino.

Matrëša, dopo avere raccolto i fagotti, si era stretta in un angolo per non ostacolare la conversazione.

R AccONTI24 to una gamba, e la sua bocca fece una smorfia di dolore. Matrëša raccolse la mantella con entrambe le mani, si sollevò sulle forti gambe e si sedette più in là. Il suo viso fresco si coprì di un chiaro rossore. I begli occhi scuri della ma lata seguivano insofferenti i movimenti della cameriera. La signora si appi gliò con le braccia al sedile per mettersi a sedere diritta; ma le mancarono le forze. La bocca le si contrasse e tutto il suo viso ebbe un’espressione di impo tente, rabbiosa ironia. «Se almeno mi aiutassi… Ah, non importa! Ce la faccio da sola, fammi solo il piacere di non appoggiarmi i tuoi fagotti qui dietro!… È meglio che non mi tocchi, visto che non sei capace!» La signora chiuse gli occhi e, risollevate subito le ciglia, si mise a osservare la cameriera. Matrëša, guardandola, si mordeva il rosso labbro inferiore. Dal petto della malata si levò un profondo sospiro che però, senza concludersi, si trasformò in tosse. Lei si girò, si accigliò e si afferrò il petto con le mani. Quando la tosse fu pas sata, chiuse di nuovo gli occhi e continuò a stare immobile. La carrozza e la carrozzella entrarono in un villaggio. Matrëša tirò fuori dal fazzoletto la mano grassoccia e si fece il segno della croce.  «Che c’è?» domandò la bàrynja . «La stazione di posta, signoria.»  «Ti sto chiedendo perché ti fai il segno della croce!» «C’è una chiesa, signoria.»

«Come stai, cara, sei stanca?» domandò il marito in francese. «Vuoi scendere?»

«Così, sempre lo stesso» rispose la malata. «Non scendo.»

«Allora, Eduard Ivanovič» disse il marito incontrando il dottore e sfregan dosi le mani con un sorriso allegro, «ho ordinato di caricare un cofanetto, che ne pensate?» «Vabene»rispose il dottore.

La malata si voltò verso il finestrino e fece lentamente il segno della croce, guardando con i grandi occhi spalancati la grande chiesa del villaggio, da vanti a cui la carrozza stava passando.  La carrozza e la carrozzella si fermarono contemporaneamente alla sta zione. Dalla carrozzella scesero il marito della donna malata e il dottore e si avvicinarono alla carrozza.  «Come vi sentite?» domandò il dottore sentendole il polso.

“A nessuno importa di me” aggiunse tra sé non appena il dottore, allonta nandosi da lei con passo tranquillo, salì in fretta i gradini della stazione. “Lo ro stanno bene, perciò per loro fa lo stesso. Ah, mio Dio!”

«Lei come sta?» domandò con un sospiro il marito abbassando la voce e alzando le sopracciglia.

“Evidentemente faccio spavento” pensò la malata. “Andiamo all’estero in fretta, il più in fretta possibile, là mi rimetterò presto.”

«Ve l’ho detto, non soltanto non riuscirà ad arrivare in Italia, ma sarà già molto se arriveremo a Mosca. Soprattutto con una strada così.»  «Che fare allora? Ah, Dio mio! Dio mio!» il marito si coprì gli occhi con una mano. «Da questa parte» aggiunse rivolto alla persona che stava portando il cofanetto. «Bisognava restare a casa» rispose il dottore stringendosi nelle spalle.

lE v TOls TOj 25

«Ma ditemi, che cosa avrei potuto fare?» ribatté il marito. «Ho fatto di tutto per trattenerla; le ho parlato di quel che ci sarebbe venuto a costare, dei bam bini che avremmo dovuto lasciare, dei miei affari, ma non vuole stare a senti re niente. Fa progetti di vita all’estero come se fosse sana. E parlarle della sua situazione, evidentemente sarebbe come ucciderla.»  «Ma lei è già morta, voi dovreste saperlo, Vasilij Dmitrič. Una persona non può vivere senza polmoni, e i polmoni non ricrescono. È triste, è pesante, ma che ci si può fare? Il nostro e il vostro compito è soltanto far sì che la sua fine sia quanto più serena possibile. Ci vuole un sacerdote.»  «Ah, mio Dio, ma cercate di capire la mia situazione, come faccio a parlar le delle ultime volontà. Sia quel che sia, io non glielo dirò. Voi sapete com’è buona…»«Provate almeno a convincerla a restare fino a quando si potrà andare con la slitta» disse il dottore scuotendo significativamente la testa. «La strada può anche«Aksjuša,peggiorare…»ehi,Aksjuša!»

«Allora, come stai, cara?» disse il marito avvicinandosi alla carrozza, con un boccone in bocca.  “Sempre la stessa domanda” pensò la malata, “e intanto mangia!” «Così» disse tra i denti.  «Sai, cara, ho paura che con questo tempo la strada peggiorerà, e Eduard Ivanyč dice lo stesso. Non sarà meglio che torniamo?»

squittì la figlia del mastro di posta, infilandosi dalla testa la giacchetta con il bordo di pelliccia e camminando lungo lo spor co porticato posteriore, «andiamo a vedere la signora di Širkino, dicono che la portano all’estero per una malattia di petto. Non ho mai visto uno che ha la tisi.»  Aksjuša balzò fuori sulla soglia ed entrambe, tenendosi per mano, usci rono. Rallentando l’andatura, passarono accanto alla carrozza e lanciarono un’occhiata dal finestrino abbassato. La malata voltò la testa verso di loro ma, quando si accorse della loro curiosità, si accigliò e si girò dall’altra parte.  «Mamma mia!» disse la figlia del mastro, voltando rapidamente la testa. «Che donna meravigliosa era, e adesso che cosa ne resta? Fa perfino paura. Hai visto, hai visto, Aksjuša?»  «Sì, com’è magra!» confermò Aksjuša. «Andiamo a vedere ancora, faccia mo finta di andare al pozzo. Si è girata, ma io ho fatto in tempo a vederla. Che pena, Maša.»  «E quanto fango!» rispose Maša e corsero entrambe indietro verso la porta.

«Perché chiedi di Fed’ka, fannullone?» domandò un postiglione: «lo sai che ti aspettano sulla carrozza.»  «Voglio chiedergli gli stivali; i miei sono rotti» rispose il ragazzo scostan 1 postiglioni: conducenti delle carrozze. 2 isbà: tipica costruzione delle campagne della Russia, costruita solitamente con tronchi di alberi, il tetto spiovente; l’interno è costituito da un unico ambiente, diviso da paraventi o tramezzi, riscaldato da una grande stufa, sulla quale vi è posto anche per dormire. 3 knut: frusta.

«A casa nostra per che cosa?… Per morire a casa?» rispose irascibile la ma lata. Ma la parola morire, evidentemente, la spaventò e lanciò al marito uno sguardo supplichevole e interrogativo. Lui abbassò gli occhi e tacque. La boc ca della malata d’un tratto si inarcò come quella di un bambino e cominciaro no a scenderle lacrime dagli occhi. Il marito si coprì il viso con un fazzoletto e si allontanò in silenzio dalla carrozza.  «No, io vado» disse la malata, sollevò gli occhi al cielo, unì le mani e si mise a sussurrare parole sconnesse. «Dio mio, perché?» disse e le lacrime scorre vano copiose. Pregò a lungo e con fervore ma il petto le faceva male, e si sen tiva schiacciare come prima; nel cielo, nei campi e per la strada era ancora grigio e nuvoloso e quella foschia autunnale si addensava come prima, né più fitta né più rada, sul fango della strada, sui tetti, sulla carrozza e sui giacconi di montone dei postiglioni1 che, scambiandosi parole a voce alta, forte, alle gra, ingrassavano e attaccavano la carrozza…  II La carrozza era stata attaccata; ma il postiglione tardava. Era entrato nell’i sbà2 dei postiglioni. Dentro era caldo, l’aria era soffocante, buia e greve, c’e ra odore di chiuso, di pane, di cavolo e di pelle di pecora. Alcuni postiglioni erano nella stanza, la cuoca si dava da fare intorno alla stufa. Sopra la stufa giaceva un malato, sotto una coperta di pelle di pecora.

Lei tacque irritata.

«Il tempo si aggiusterà, forse la strada tornerà buona, e tu staresti meglio; così potremmo andare tutti insieme.» «Scusami. Se io avessi smesso di darti retta un po’ di tempo fa, ora sarei a Berlino e sarei completamente sana.»

«Che fare, mio angelo, non è stato possibile, lo sai. E ora, se avessi aspetta to ancora un mese, ti saresti rimessa benone, io avrei sistemato i miei affari e avremmo preso con noi i bambini…»

«Zio Chvëdor, zio Chvëdor!» disse un giovane, un postiglione con una giub ba di montone e lo knut3 alla cintola, entrando nella stanza e rivolto al malato.

R AccONTI26

«I bambini stanno bene, io no.»  «Ma cerca di capire, cara, che con questo tempo, se dovessi sentirti peggio per la strada… almeno, saremmo a casa nostra.»

dosi i capelli all’indietro e aggiustando i guantoni infilati nella cintola. «Dor me? Ehi, zio Chvëdor?» ripeté avvicinandosi alla stufa.  «Che cosa vuoi?» si sentì la debole voce, e un magro viso fulvo si spor se dalla stufa. La mano larga, magra e impallidita, coperta di peli, reggeva il cappotto sulla spalla aguzza avvolta in una camicia sporca. «Dammi da bere, caro, che vuoi?»  Il ragazzo gli porse un mestolo d’acqua.  «Fedja, sai» disse esitando «ora non hai bisogno degli stivali nuovi; dam meli, tanto tu non camminerai.»  Il malato, lasciata cadere la testa stanca verso il mestolo lucido e bagnan do i baffi radi e penduli nell’acqua scura, bevve, debole e avido. La sua barba arruffata era sporca, gli occhi infossati, opachi si sollevarono con fatica ver so il viso del ragazzo. Scostatosi dall’acqua, voleva sollevare una mano per asciugarsi le labbra bagnate, ma non ci riuscì e si nettò sulla manica del cap potto. In silenzio, respirando pesantemente con il naso, guardò diritto negli occhi il ragazzo raccogliendo le forze.  «Magari li hai già promessi a qualcuno» disse il ragazzo, «allora fa niente. Più che altro, è che fuori è sempre più bagnato e io devo partire per lavoro; ho pensato: chiediamo gli stivali a Fed’ka, tanto lui non ne ha bisogno. Ma maga ri ne hai bisogno tu, dimmelo…»  Nel petto del malato qualcosa si mise a riversarsi e a gorgogliare; lui si contorse e fu oppresso da una tosse di gola che non dava tregua.  «Cosa vuoi che gli servano» sbottò in modo inaspettatamente rabbioso la cuoca, facendosi sentire in tutta l’isbà, «è più di un mese che non scende dal la stufa. Vedi che si contorce, ti fa male fin dentro a starlo a sentire. Che cosa se ne fa degli stivali? Non lo seppelliranno certo con gli stivali nuovi. E sareb be ora da un pezzo, perdona Signore il mio peccato. Vedi che si contorce. Bi sognerebbe portarlo in un’altra isbà o non so dove! In città dicono che ci so no gli ospedali; se no come facciamo, occupa tutto il posto e basta. Non resta nemmeno un angolo, lì. E poi domandano la pulizia.»

Serëga si tolse in fretta i suoi stivali sfondati e troppo grossi e li gettò sotto una panca. I nuovi stivali di zio Fëdor gli andavano a pennello e Serëga uscì verso la carrozza guardandoseli.

«Ecco ragazzi, avete sentito» riuscì ancora a dire il malato e di nuovo si contorse e cominciò a tossire.  «Va bene, abbiamo sentito» disse un postiglione. «Vai, Serëga, sali, se no il capo viene ancora a chiamarti. La signora di Širkino è malata.»

«Grazie, zio, allora li prendo e per la pietra, d’accordo, te la compro.»

«Ehi, Serëga, vai, sali, i signori aspettano» gridò dalla porta il capo posti glione.

lE v TOls TOj 27

Serëga voleva andare senza aspettar la risposta, ma con gli occhi il malato, intanto che tossiva, gli faceva capire che voleva rispondere.

«Prendi gli stivali, Serëga» disse quando riuscì a smettere di tossire e a riprender fiato. «Però senti, quando muoio, comprami una pietra» aggiunse rantolando.

Parenti Fëdor non ne aveva, era di lontano. Il giorno dopo lo seppellirono nel cimitero nuovo, dietro al boschetto, e Nastas’ja per alcuni giorni raccon tò a tutti il sogno che aveva fatto, e che per prima si era accorta di zio Fëdor.

Il postiglione malato rimase sulla stufa nell’isbà soffocante e, dato che non riusciva a calmare la tosse, con uno sforzo si girò sull’altro fianco e finalmen te si tranquillizzò.

R AccONTI28

«Dentro mi sento tutto rotto. Sa Dio che cos’è.»

Nell’isbà venivano, andavano, pranzavano, e così fu fino a sera: il malato non si sentiva. Prima di notte la cuoca salì sulla stufa e, scavalcandolo, prese il giaccone di montone.  «Non arrabbiarti con me, Nastas’ja» disse il malato, «fra poco ti lascio li bero il tuo posticino.»

«Che begli stivali! Dammeli che te li ingrasso» disse il postiglione con il grasso in mano mentre Serëga, salendo a cassetta, prendeva le briglie. «Te li ha dati per niente?»  «Non m’invidierai, adesso, eh?» rispose Serëga sollevandosi e rimboccan dosi sotto le gambe i lembi del cappotto. «Andiamo! Oooh, belli!» gridò ai ca valli agitando lo knut; e la carrozza e la carrozzella con i loro passeggeri, le valigie e i bagagli, ripartirono in fretta sulla strada bagnata, nascondendosi nella grigia nebbia autunnale.

«Va bene, va bene, non preoccuparti, non è niente» borbottò Nastas’ja. «A te che cosa fa male, zio? Dimmelo.»

«Ti fa male anche la gola quando tossisci?» «Mi fa male tutto. È venuta la mia morte, ecco cosa. Oi, oi, oi!» gemeva il malato.  «Copriti le gambe, così» disse Nastas’ja e, prima di scendere dalla stufa, gli accomodò il cappotto.  Di notte nell’isbà brillava fioca la lampada notturna. Sul pavimento e sulle panche Nastas’ja e una decina di postiglioni dormivano russando rumorosa mente. Soltanto il malato si schiariva debolmente la voce, tossiva e si rigirava sulla stufa. Verso mattino si calmò del tutto.  «Ho appena fatto un sogno stranissimo» disse la cuoca il mattino dopo sti randosi nella penombra. «Ho sognato che zio Chvëdor scendeva dalla stufa e andava a tagliare la legna. Su, Nastja, diceva, ti do una mano; e io gli dicevo: cosa vai a tagliare la legna, ma lui prendeva la scure e si metteva a tagliare, ma veloce, veloce, che volavano via le schegge dappertutto. Che fai, dicevo, sei stato malato. No, diceva, sto bene e poi agita la scure, e a me viene una gran paura. Mi metto a gridare e mi sveglio. Non sarà morto? Zio Chvëdor! Zio!»Fëdor non rispondeva. «Non sarà mica morto? Andiamo a vedere» disse uno dei postiglioni che si erano svegliati.  La mano magra che penzolava dalla stufa, coperta di peli fulvi, era fredda e pallida. «Bisogna andare dal mastro a dirgli che è morto» disse il postiglione.

Il sacerdote si alzò e andò dalla vecchia.  «Il cuore di una madre non sa nessuno quanto sia prezioso» disse, «ma Dio è misericordioso.» 1 epitrachelio: indumento liturgico dei sacerdoti ortodossi, simile alla stola occidentale, da tenere intorno al collo con le bande che cadono lungo il corpo.

Vicino alla porta aperta della camera c’erano il marito della malata e una donna anziana. Sul divano era seduto un sacerdote, con gli occhi bas si, e teneva qualcosa avvolto nell’epitrachelio1. In un angolo, su una poltrona Voltaire, era seduta una vecchietta, la madre della malata, e piangeva amara mente. Accanto a lei la cameriera teneva in mano un fazzoletto da naso, pu lito, aspettando che la vecchietta lo chiedesse; un’altra frizionava le tempie della vecchietta e le soffiava sotto la cuffia, sulla testa calva.

lE v TOls TOj 29 III

Venne la primavera. Per le vie bagnate della città, tra i pezzi di ghiaccio tra sportati dalla corrente gorgogliavano veloci i rivoli; spiccavano netti nell’aria i colori degli abiti e i rumori delle parole della gente che passava per le vie. Nei giardinetti dietro le palizzate le gemme degli alberi si ingrossavano e i rami ondeggiavano al vento fresco con un fruscio appena udibile. Dappertut to scorrevano e stillavano gocce limpide… I passeri cinguettavano e saltella vano sbattendo le loro alucce. Sul lato soleggiato, lungo le palizzate, le case e gli alberi, tutto si muoveva e brillava. Nel cielo e in terra e nel cuore dell’uomo c’erano gioia e gioventù.  In una delle vie principali, davanti a una grande casa signorile, era sta ta sparsa paglia fresca; in casa c’era la malata che aveva fretta di andare all’estero.

«Be’, che Cristo sia con voi, cara» disse il marito alla donna anziana che era vicino a lui sulla porta, «ha una tale fiducia in voi, voi sapete parlarle così bene, cercate di consolarla, colombella, andate.» Voleva già aprire la porta; ma la cugina lo trattenne, si mise alcune volte il fazzoletto sugli occhi e scos se la testa.

«Ecco, adesso mi sembra di non essere bagnata di lacrime» disse e, aperta lei stessa la porta, vi entrò.

Il marito era in preda a una forte agitazione e sembrava completamente smarrito. Fece per andare verso la vecchia ma, fatti alcuni passi, ritornò in dietro, attraversò la stanza e andò dal sacerdote. Il sacerdote lo guardò, ag grottò le sopracciglia e sospirò. Anche la folta barba incanutita si alzò e si abbassò.  «Dio mio! Dio mio!» disse il marito. «Che fare?» disse il sacerdote sospirando, e di nuovo le sopracciglia e la barba si alzarono e abbassarono.  «C’è anche la madre!» disse il marito quasi disperato. «Non lo sopporterà. Le vuole tanto, tanto bene, che… non so. Se voi, padre, provaste a tranquillizzarla e a convincerla ad andarsene?»

«Allora volete che chiami il padre, mia cara? Vi sentirete ancora meglio dopo la comunione» disse la cugina.  La malata chinò la testa in segno di assenso. «Dio, perdona me, peccatri ce» sussurrò. La cugina uscì e fece un cenno al padre.  «È un angelo!» disse al marito con le lacrime agli occhi. Il marito scoppiò a piangere, il sacerdote entrò, la vecchia era ancora senza conoscenza e nel la prima stanza vi fu silenzio assoluto. Cinque minuti dopo il sacerdote uscì dalla porta e, toltosi l’epitrachelio, si aggiustò i capelli.

«Grazie a Dio, ora è più tranquilla» disse, «desidera vedervi.» La cugina e il marito entrarono. La malata piangeva sommessamente guardando l’icona.

«Ordinate di portare i bambini dalla loro mamma?» domandò la balia. «No, non li vuole vedere. Ne resta sconvolta.»

Il marito della malata si coprì la faccia con le mani e corse fuori dalla stanza.  Nel corridoio la prima persona che incontrò fu il figlio di sei anni che stava rincorrendo a tutta velocità la figlia minore.

«Salve, cara» disse il marito. «Ti ringrazio! Come sto bene ora, che incomprensibile dolcezza provo» disse la malata e le si dipinse un lieve sorriso sulle labbra sottili. «Come è mi

«Papà, lei era la cavalla nera!» gridò il bimbo indicando la sorella. Nel frat tempo nell’altra stanza la cugina era seduta accanto alla malata e cercava di prepararla all’idea della morte con un discorso condotto abilmente. Il dotto re, vicino all’altra finestra, mescolava qualcosa in un bicchiere.

R AccONTI30

Il viso della vecchietta d’un tratto cominciò a contrarsi e le venne un sin ghiozzo isterico.

«No, ormai non può vivere» disse la vecchia: «invece di me, Dio prende lei» e il singhiozzo isterico divenne così forte che perse i sensi.

«Dio è misericordioso» continuò il sacerdote quando si fu un poco tran quillizzata. «Vi racconterò una cosa: nella mia parrocchia c’era un malato, stava molto peggio di Mar’ja Dmitrievna, eppure un semplice bottegaio l’ha guarito con le erbe in poco tempo. E anche questo bottegaio ora è a Mosca. Ne ho parlato con Vasilij Dmitrevič, si potrebbe provare. Sarebbe almeno una consolazione per la malata. Per Dio tutto è possibile. »

Il bimbo si fermò un momento guardando fisso negli occhi il padre e d’un tratto scalciò con la gamba e con un grido allegro continuò a correre.

La malata, con la mantellina bianca, tutta circondata di cuscini, era sedu ta sul letto e guardava in silenzio la cugina.

«Ah, mia cara» disse interrompendola di colpo, «non preparatemi. Non prendetemi per una bambina. Sono cristiana. So tutto. So che vivrò poco e so che se mio marito mi avesse dato retta prima, sarei in Italia e magari, an zi certamente, starei bene. Glielo dicevano tutti. Ma che fare, evidentemente Dio ha voluto così. Tutti noi abbiamo molti peccati, lo so; ma confido nella bontà di Dio, perdona tutti, sicuramente, perdona tutti. Mi sforzo di capirmi. Anch’io avevo molti peccati, mia cara. Ma quanto ho sofferto. Ho cercato di sopportare con pazienza le mie sofferenze…»

Il marito, protendendo il collo, la ascoltava remissivo. «Che cosa, cara?» «Quante volte ti ho detto che questi dottori non sanno nulla, e che inve ce ci sono delle donnette del popolo che sono capaci di guarire la gente… Il batjuška1 ha detto… che un bottegaio… Andate via.»  «A chiamare chi, cara?»  «Dio mio, non vuole capire niente!…» e la malata corrugò la fronte e chiu se gli occhi.

lE v TOls TOj 31

Il dottore, avvicinandosi a lei, la prese per mano. Era evidente che il pol so batteva sempre più flebilmente. Fece un cenno al marito. La malata notò quel gesto e si guardò intorno spaventata. La cugina si voltò dall’altra parte e si mise a piangere.  «Non piangere, non tormentare te e me» disse la malata, «mi toglierebbe l’ultima tranquillità.»  «Sei un angelo!» disse la cugina baciandole la mano. «No, baciami qua, solo ai morti si bacia la mano. Dio mio! Dio mio!»

«Non vuoi mai fare quello che ti chiedo» disse lei con voce debole e scontenta.

Poi d’un tratto fu come se le venisse in mente qualcosa. Fece segno al ma rito di avvicinarsi.

sericordioso Dio! Non è vero? È misericordioso e onnipotente.» E osservò di nuovo l’icona pregando ferventemente con gli occhi pieni di lacrime.

Quella sera la malata era ormai cadavere, e il corpo nella bara era nella sala della grande casa. Nella grande stanza con le porte chiuse c’era un sa grestano che leggeva con voce nasale e uniforme i salmi di Davide. La luce delle candele di cera dagli alti candelabri d’argento cadeva sulla fronte palli da della morta, sulle pesanti mani ceree e sulle pieghe impietrite del drappo che si rialzava paurosamente alle ginocchia e alle dita dei piedi. Il sagrestano leggeva con voce uniforme, senza capire ciò che leggeva, e nella camera tran quilla le parole risuonavano in modo strano e poi si estinguevano. Di tanto in tanto da una camera lontana giungevano le voci dei bimbi e il loro calpestio.  «Se nascondi il tuo volto, vengono meno» diceva il salterio, «togli loro il re spiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono crea ti, e rinnovi la faccia della terra. La gloria del Signore sia per sempre.»  Il viso della morta era severo, tranquillo e grandioso. Né sulla fredda fron te pulita, né sulle labbra strette si muoveva nulla. Era tutta attenzione. Ma, almeno ora, comprendeva queste grandi parole?  1 batjuška: caro e dolce padre, appellativo affettuoso e popolare.

IV

«Farai peccato, Serëga» disse una volta la cuoca alla stazione di posta, «se non compri una pietra per Chvëdor. Avevi detto: quest’inverno, e adesso è in verno, perché non mantieni la parola? Io c’ero, quando l’hai detto. È già venu to una volta a supplicarti; se non la compri, tornerà e ti soffocherà.»

«Ma come, ho detto di no?» rispose Serëga. «Comprerò la pietra come ho detto, la comprerò, spenderò un rublo e mezzo d’argento. Non mi sono di menticato, ma bisogna portarla. Appena mi capiterà di andare in città, la comprerò.»

R AccONTI32

«Che dici? Da un ceppo non la tagli; prendi la scure e vai nel bosco e la tagli in un attimo. Taglia un frassino. E ci fai la croce. Poi vai dal guardiano e offrigli una vodka. C’è sempre un buon motivo per offrirgliene. Un giorno avevo rotto una leva, me ne sono tagliata una meravigliosa e nessuno mi ha detto nulla.»  Il mattino presto, appena ci fu luce, Serëga prese la scure e andò nel boschetto.  Su tutto era posato uno strato freddo, opaco, di rugiada che stava anco ra cadendo e non era ancora illuminata dal sole. A oriente c’era una luce de bole, impercettibile, che si rifletteva sulla volta del cielo avvolto di nuvole sot tili. In basso non si muoveva nemmeno un filo d’erba, e in alto nemmeno una foglia d’un ramo. Infrangevano il silenzio soltanto i rumori d’uno sbattere di ali nel fitto dell’albero o i fruscii sul terreno, che si sentivano di tanto in tanto. D’un tratto un rumore strano, estraneo alla natura, risuonò e tacque al limi tare del bosco. Ma risuonò di nuovo, e cominciò a ripetersi regolarmente in basso vicino al tronco di uno degli alberi immobili. Una delle cime si mise a tremare in modo insolito, le foglie turgide sussurrarono qualcosa e il petti rosso che era su un ramo fece due salti fischiettando, poi, rialzando la coda, si spostò su un altro albero.  La scure in basso faceva un rumore sempre più sordo, le bianche schegge succose volavano sull’erba rugiadosa e dopo ogni colpo si sentiva un leggero scricchiolio. L’albero tremò tutto, si piegò e si raddrizzò in fretta, ondeggian do spaventato sulla sua radice. Per un attimo tutto tacque, ma di nuovo si piegò il tronco, di nuovo si sentirono colpi e, rompendo ramoscelli e piegan do rami, l’albero si abbatté con la cima sulla terra umida. Il rumore dell’ac cetta e i passi cessarono. Un ramo che era stato travolto dalle fronde laterali dell’albero abbattuto ondeggiò per un po’ di tempo e poi rimase immobile, in tutte le sue foglie, come tutti gli altri rami. Nel nuovo spazio apertosi loro, gli

«Dove la prendo la croce? Da un ceppo non la taglio.»

Un mese dopo sopra la tomba della morta si ergeva una cappella in mura tura. Sopra la tomba del postiglione invece non c’era ancora una lapide, era spuntata soltanto l’erba verdina sopra il tumulo che era l’unico segno della passata esistenza dell’uomo.

«Avresti potuto metterci almeno una croce» rispose un vecchio postiglio ne, «se no sei proprio cattivo. Gli stivali, però, li porti.»

4. Riassumi il racconto, mettendo in evidenza l’intrecciarsi degli avvenimenti e il loro significato.

3. Il racconto si conclude con un’ampia descrizione: qual è il significato che, a tuo parere, l’autore esprime nel finale?

6. In collaborazione con il professore di Arte, scegli tre scene significative del racconto e rappresentale con la tecnica figurativa che ritieni più adeguata.

2. Le tre morti vengono vissute dai tre protagonisti in maniera molto differente. Sottolinea, con colori diversi, le espressioni grazie alle quali viene messo in evidenza il differente atteggiamento che i personaggi del racconto assumono nei confronti della fine della propria vita.

lE v TOls TOj 33 alberi facevano bella mostra di sé, coi loro rami immobili, ancor più gioiosi di prima.  I primi raggi del sole, passando attraverso una nuvola, brillarono in cielo e corsero in terra e in cielo. La nebbia cominciò a riversarsi a ondate negli av vallamenti, la rugiada, luccicando, risplendeva sul verde, trasparenti nuvole fattesi ora più bianche correvano in fretta scoprendo la volta celeste. Gli uc celli si agitavano nel folto degli alberi e, come perplessi, cinguettavano un’a ria felice; le foglie, piene di linfa, frusciavano gioiose e tranquille sulle cime e i rami degli alberi vivi cominciarono a muoversi lentamente, maestosamente sopra l’albero morto, piegato.

1. Quali sono le tre morti a cui si riferisce il titolo del racconto? Ripercorri il racconto, individuando gli eventi che portano le tre storie a intrecciarsi tra di loro.

5. Esponi in un testo il diverso atteggiamento che, nel racconto, i personaggi assumono nei confronti della morte. Fai precisi riferimenti al testo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era  malpelo c’era anche a temere che non ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.

4 fatta sposa: fidanzata. 5 conosciuto come la bettonica: conosciuto da tutti. La bettonica è una pianta medicinale assai diffusa e, quindi, da tutti conosciuta.

R AccONTI34 GIOVANNI VERGA Rosso Malpelo

6 Monserrato e la Carvana: due sobborghi di Catania. 7 preso a cottimo: pagato in base alla quantità di lavoro svolto e non in funzione del tempo impiegato.

1 rena: sabbia. 2 corbello: grosso cesto di vimini col quale i minatori trasportavano la sabbia fuori dalla 3cava.soprastante: sorvegliante.

Si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di bir bone. Sicché tutti alla cava della rena1 rossa lo chiamavano Malpelo; e persi no sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzo giorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello2 fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante3 lo rimandava al lavoro con una pe data. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa4, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica5 per tutto Monserrato e la Carvana6, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo7, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 car

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nes suno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can ro gnoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.

1 carra: quantità di materiale che può essere contenuta in un carro.

2 sterrava: portava via la terra dopo lo scavo.

3 basto: bardatura sulla quale si dispone il carico delle bestie da soma.

GIOvANNI vERGA 35 ra1 di rena. Invece mastro Misciu sterrava2 da tre giorni e ne avanzava anco ra per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un min chione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto3 di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie ca scassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che fa cevano dire agli altri: Va’ là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre. Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché4 fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avreb be tolto per venti onze5, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo so nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato. Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare  la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: – Questo è per il pane! Que sto pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! – e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e di cesse:  ohi! ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa». Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel cor bello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense. Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirige va i lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua pol trona con un trono, perch’era gran dilettante6. Rossi rappresentava l’Amleto e c’era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femmi nucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non

4 tuttoché: sebbene. 5 onze: moneta siciliana. 6 gran dilettante: appassionato.

1 La calce, mescolata con l’acqua e la sabbia, forma la calcina; in questo caso, poiché la sabbia era molto sottile, nell’impasto ne sarebbe occorsa meno.

Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava che si sarebbe impastata colle mani e do vea prendere il doppio di calce1. Ce n’era da riempire delle carra per delle set timane. Il bell’affare di mastro Bestia! L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia2; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiacchierio non badarono a una voce di fanciullo, la quale non ave va più nulla di umano, e strillava: – Scavate! scavate qui! presto! – To’! – disse lo sciancato – è Malpelo! – Da dove è venuto fuori Malpelo? – Se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no! – Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio duro a mo’ dei gatti. Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scava va colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali oc chiacci invetrati3, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si era no strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era  malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse pos

2 Ofelia: nella tragedia di Amleto, Ofelia muore suicida. 3 invetrati: fissi e inespressivi, come fossero di vetro.

R AccONTI36 dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e tor cie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva una settimana.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre pia gnuccolando ve lo condusse per mano; giacché alle volte il pane che si man gia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bru scamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo but tava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: – Così creperai più presto!

GIOvANNI vERGA 37 sibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, pro prio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fat to, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbot tava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui, per trentacinque tarì1». E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!».

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il mano vale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotter ra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più for te, con maggiore accanimento, e gli diceva: – To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lasce rai pestare il viso da questo e da quello! O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici: – Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! – Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito2, curvo sotto il peso, ansante e coll’oc chio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: – L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.

Oppure: – Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tan ti di meno

Lavorandoaddosso.dipiccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con 1 tarì: moneta siciliana, equivalente alla trentesima parte dell’onza. 2 rifinito: sfinito.

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese1, ché avrebbe fatto scappare il suo damo2 se avesse visto che raz za di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si met tevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sem brava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.

quegli  ah! ah! che aveva suo padre. – La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chia mavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui.

Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio piagnuccolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo sgridava: – Taci pulcino! – e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: – Lasciami fare; io sono più forte di te. – Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: – Io ci sono avvezzo. Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormi re sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; an che a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si ven dicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: – A che giova? Sono  malpelo! – e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col metter 1 in quell’arnese: così conciato. 2 damo: fidanzato.

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2 carrubbi: alberi sempreverdi, tipici della macchia mediterranea.

GIOvANNI vERGA 39 si la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diven tano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli oc chiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sot terranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja1, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fu ne, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.

3 sciara: roccia formata dalla lava del vulcano. 4 dar dei calci al vento: agonizzare.

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sul la schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in boc ca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al ver de, sotto i folti carrubbi2, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era cadu to addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carret tiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranoc chio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il pa dre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara3 nera e de solata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano an cora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e sen za poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento4. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preci

1 Plaja: spiaggia a sud del porto di Catania, dove si strangolavano gli asini oramai vecchi.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarez zargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la do menica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quelEicervellaccio.possedevadelle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesan ti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avreb bero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.

In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carret tiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. – Così si fa, brontolava Mal pelo; gli arnesi che non servono più si buttano lontano. – Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranoc chio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano 1 carcame: carogna.

Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più dar vi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indos so, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. – Proprio come suo figlio Malpelo! – ripeteva lo sciancato – ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là. – Però non disse ro nulla al ragazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.

40 so dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.

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Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava dalla rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carcame1, c’era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuo vo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.

GIOvANNI vERGA 41 da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappa vano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando1 sui greppi2 dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. – Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sas sate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie pro fonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripi da viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche3, e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli ma il Rosso lo sgrida va perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno

1 ustolando: mugolando. 2 greppi: dirupi. 3 guidalesche: piaghe provocate dalla soma e dallo stringere dei finimenti. 4 ramingava: vagava senza meta.

Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odia va le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si dise gna qua e là vagamente – allora la sciara sembra più brulla e desolata. – Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava Malpelo, ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto. – La civetta strideva sulla sciara, e ramingava4 di qua e di là; ei pensava: – Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli.

La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva in vano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva. – Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’anda re. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà.

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– Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti – gli diceva – e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non biso gna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti.

l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.

Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. – Chi te l’ha detto? – domandava Malpelo, e Ranocchio rispon deva che glielo aveva detto la mamma. Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. – Tua madre ti dice così perché, inve ce dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella. E dopo averci pensato su un po’: – Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io. Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe1, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavora re in una miniera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo sul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di san gue, allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la boc ca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Mal pelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: –Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la feb bre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuo vi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sem brava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo2 della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui gi nocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli 1 corbe: ceste. 2 ribrezzo: brividi.

venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sem pre chiusi là dentro e guardati a vista.

un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si dispera va come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era 1 mentre che: dal momento che. 2 non si slattano: non si svezzano, ai quali non si toglie mai il latte della madre, non crescono.

GIOvANNI vERGA 43 il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli borbottava: – È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi! – E il padrone dice va che Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.Finalmente

Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che1 da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tet to. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillas se a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano2 mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranoc chio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Mi sciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a sta re a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sen tito più Versonulla.quell’epoca

1 il sangue suo: i suoi figli. 2 commettevano: assegnavano.

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comuni casse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sareb be risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo1 per tutto l’oro del mondo. Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano2 sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessu no possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

1. Dietro al nome che viene assegnato al protagonista si nasconde il pregiudizio che la gente ha nei suoi confronti. Rileggi l’incipit del racconto per ritrovare le motivazioni di tali dicerie.

R AccONTI44 un paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. – Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? – domandò Malpelo.

2. Sottolinea nel testo i passaggi in cui il protagonista e suo padre sono paragonati a delle bestie. Rifletti: perché questi personaggi sono accostati a degli animali?

– Perché non sono malpelo come te! – rispose lo sciancato. – Ma non teme re, che tu ci andrai e ci lascerai le ossa.

3. Come viene trattato Rosso Malpelo dai suoi compagni di cantiere e dai suoi familiari? Perché? Rispondi facendo riferimento ad alcuni episodi.

7. Elenca quali sono i fatti più importanti che segnano la vita di Malpelo e per ognuno di essi scrivi quali reazioni provocano e quali conseguenze determinano nella vita del protagonista; quindi, riassumi la novella, mettendo in luce l’evoluzione dei sentimenti del protagonista.

6. Come viene presentato l’ambiente della «sciara»? Perché di esso a un certo punto si dice che «Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara»? Che cosa mette in evidenza l’utilizzo delle parole «pure» e «anche»? Che rapporto c’è tra questo ambiente e il protagonista? Che cosa accade a Malpelo in questo luogo?

5. Qual è l’atteggiamento di Rosso Malpelo verso gli indumenti e gli strumenti da lavoro del padre? Perché si comporta in questo modo? Rispondi facendo attenzione alle espressioni che descrivono la sua percezione e i suoi pensieri.

8. Racconta la vicenda dal punto di vista di Ranocchio, dal suo primo incontro con Malpelo fino a poco prima di morire, facendo emergere pensieri e giudizi di fronte all’atteggiamento di Rosso Malpelo.

9. In gran parte della novella sembra prevalere la legge del più forte e Malpelo pare essere sopraffatto da questa dinamica, tanto che di lui si dice: «Era avvezzo a tutto lui». In altri passaggi del testo, invece, emergono alcuni punti di luce nella triste vicenda del ragazzo. Cosa permette al protagonista di intravedere, nel buio, una prospettiva più luminosa? Cosa si pone in conflitto con questa possibilità? Motiva la tua risposta in un breve testo argomentativo, facendo riferimenti precisi alla vicenda di Rosso Malpelo e, laddove lo ritieni utile, anche alla tua esperienza e ad altre letture.

10. La libertà di Rosso Malpelo si muove tra rassegnazione e opposizione a ciò che gli accade. Nella tua esperienza ritrovi tale dinamica? Individui altre possibilità oltre alle due incarnate dal protagonista del racconto? Argomenta a proposito di cosa sia la libertà nella tua vita quotidiana, riflettendo su quando ti senti libero e soffermandoti su quali siano le condizioni che rendono possibile il suo accadere e quali le conseguenze che da essa dipendono.

GIOvANNI vERGA 45 4. Come si comporta Malpelo nei confronti di Ranocchio? Perché? Quali intenzioni si nascondono dietro il suo modo di fare? Come i compagni di cantiere e il capocantiere giudicano il modo di fare di Rosso Malpelo nei confronti dell’altro ragazzo?

Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, 1 maggese: terreno a coltura lasciato periodicamente a riposare. 2 baiocco: moneta siciliana. Equivale a dire: “non gli avreste dato un soldo”, “apparentemente sembrava non valere nulla”.

R AccONTI46 GIOVANNI VERGA La roba Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Pas saneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò –. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accocco late all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò –. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraia to bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: – Di Mazzarò –. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal magge se1, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le im mense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il si bilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco2 , a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come fa cesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’e ra ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.

3 soprastante: sorvegliante. 4 nerbate: frustate.

1 corbello: grosso cesto di vimini col quale i minatori trasportavano la sabbia fuori dalla cava.

Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di lu glio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante3 a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate4 se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lascia to passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorre vano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella cam pagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazza rò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodella

GIOvANNI vERGA 47 coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che man giavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingoz zato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande co me una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello1, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiu me, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì2, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.

2 tarì: moneta siciliana, equivalente alla trentesima parte dell’onza.

Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire2 tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pa gare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti3 di Mazzarò coprivano tutto il cam po, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfila re, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.

Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri4 dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momen to in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. – Costui vuol essere rubato per forza! – diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: – Chi è minchione se ne stia a casa, – la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare –. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi co voni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno

vano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a caval lo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: – Curviamoci, ragazzi! – Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria1 il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.

Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’af faticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.

1 fondiaria: tassa sui terreni.

3 armenti: bestiame. 4 campieri: braccianti.

2 capire: stare. Dal latino capio ‘stare dentro, comprendere’.

R AccONTI48

GIOvANNI vERGA 49 che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Maz zarò: – Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te –. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli da va ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. – Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gen te; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a far gliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – E quante sec cature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate1, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strappar si i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. – Lo vedete quel che mangio io? – rispondeva lui, – pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba –. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: – Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? – E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne vole vano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava su bito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.

Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra dove va lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi lo gorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vor reste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinan zi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! –1 malannate: annate di scarso raccolto.

R AccONTI50

4. Nel finale del testo avviene un cambiamento nella vita interiore del protagonista. Che cosa lo addolora? Quale ingiustizia sente? Perché prova invidia nei confronti del ragazzo? Come questa esperienza lo fa cambiare?

1. Leggi con attenzione la descrizione iniziale e sottolinea tutte le espressioni che contribuiscono a comunicare un senso di tristezza, immobilità e stanchezza del luogo in cui si estendono i possedimenti di Mazzarò. Poi rifletti: perché l’ambiente è presentato in questo modo?

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pen sare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammaz zando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! –

5. Che cosa fa nel finale Mazzarò? Perché? Che cosa intende dire con l’espressione «Roba mia, vientene con me!»?

2. Perché Mazzarò ha voluto accumulare «roba» per tutta la vita?

3. Come il protagonista è riuscito ad ottenere tutta quella «roba»? A quale prezzo? Sopportando che cosa?

7. Dopo aver riletto la descrizione iniziale, descrivi un luogo a te familiare, che, al contrario di quello presente nella novella, comunichi un senso di vivacità, movimento e gioia.

8. Racconta di quella volta in cui anche a te è capitato di rimanere deluso da qualcosa in cui avevi creduto molto e a cui avevi dedicato tante energie; in particolare, racconta quale è stata la tua reazione nel momento in cui ti sei accorto di ciò.

6. Elenca in ordine cronologico i fatti essenziali della novella, facendo attenzione alla distinzione tra fabula e intreccio. Poi riassumi la novella, mettendo in luce il cambiamento interiore del protagonista.

Alla finestra dirimpetto, si vedeva sempre il lume che vegliava, la notte – le lunghe notti piovose d’inverno, e quando la luna di marzo, ancora fredda, imbiancava la facciata della casa silenziosa. La stanza era gialla, con una me schina tenda di velo appesa alla finestra. A volte vi apparivano dietro delle ombre nere, che si dileguavano rapidamente.

GIOVANNI VERGA Lacrymae rerum

51

Ogni sera, alla stessa ora, si vedeva passare un lume di stanza in stanza, sino alla camera gialla, dove la luce si avvivava intorno a un letto bianco cir condato dalle stesse ombre premurose. Indi la casa tornava scura e sembra va deserta, nel gran silenzio della via. Solamente, allorché vi saliva lo schia mazzo notturno di un ubbriaco, o il passaggio di una carrozza faceva tremare i vetri nelle finestre, una di quelle ombre tacite e dolorose si affacciava a spia re nella via, e poi si dileguava. Di giorno tutte quelle finestre chiuse sembravano quasi misteriose. Al bal cone della camera gialla c’era un vaso di garofani che morivano di incuria, spioventi sul muro umidiccio, agitati dal vento perennemente. Verso il tra monto si fermava dinanzi alla porta un legnetto1, che dei visi pallidi stavano ad attendere ansiosamente dietro i vetri; s’intravedeva un affaccendarsi per le stanze, e il lume che si accendeva anche di giorno nella camera solitaria. L’ultima visita che fece il legnetto nella stradicciuola solitaria fu più breve delle altre. Un vecchio dai capelli bianchi, col piede sul montatoio, scrollava pietosamente il capo, rispondendo a una giovinetta che le era scesa dietro supplichevole sino alla porta, colle mani giunte e il viso disfatto; anch’essa diceva di sì col capo, macchinalmente, cogli occhi sbarrati e quasi pazzi in quelli del vecchio. Poi quando egli fu partito, si celò il viso nel fazzoletto e ri entròEranell’andito2.unaseradi primavera, tepida e dolce. Dalla strada saliva la canzone nuova, e il chicchierìo delle ragazze innamorate, nel plenilunio d’aprile. Al primo piano della casa, dietro una ricca tenda di broccato, si udiva sonare il valzer di Madama Angot.

Più tardi, per la via deserta si udì una squilla, lo scalpiccìo e il borbottare dei fedeli che accompagnavano il viatico3; s’affacciarono i vicini, alcuni gi nocchioni, col lume in mano, e la folla s’ingolfò sotto la porta spalancata a due battenti, fra due file di lanterne che andavano balzelloni. Tutte le finestre del quartierino desolato si illuminarono per la prima vol ta, dopo tanto tempo, per l’ultima solennità, mentre la folla degli estranei in 1 legnetto: piccola carrozza. È un termine di origine dialettale proprio di Milano. 2 andito: ingresso. In generale, ogni zona di passaggio nelle case. 3 viatico: estrema unzione, comunione per i moribondi. Il nome deriva dal latino viatĭcum ‘provvista per il viaggio’.

alto dell’ora tarda, dietro quei vetri lucenti sulla facciata bian ca di luna, sembravano correre delle invocazioni deliranti, dei singhiozzi sof focati, delle braccia supplichevoli stese verso il cielo sereno. Un usignolo si mise a cantare all’improvviso da un terrazzino tutto verde di pianticelle odo rose, nel silenzio della luna alta, dimenticando forse in quell’ora la sua pri gione, pei cespugli del bosco nativo. Di quarto d’ora in quarto d’ora l’orologio squillava lentamente, dall’alto della torre.

R AccONTI52 gombrava la casa, con un luccichìo tremolante di ceri, nella camera gialla. E dopo che tutti quanti furono partiti, la casa rimase sempre illuminata e de serta, quasi per una lugubre festa. Vi si vedeva solo di tanto in tanto il pas saggio delle solite ombre che correvano all’impazzata, in un affaccendarsi disperato.Nelsilenzio

L’alba imbiancava pallida e piovigginosa; allora si vide per la prima volta, dopo tanto tempo, la finestra della camera gialla spalancata, e le due candele che ardevano immobili al capezzale del letto bianco. Più tardi vennero degli estranei che andavano e venivano per la stanza, indifferenti, col cappello in capo. Uno che fumava un sigaro alla finestra, si chinò a fiutare il garofano rugginoso che penzolava; aveva una faccia pallida da malato o da prigioniero, colle gote azzurrognole di una folta barba accuratamente rasa.

La quiete greve della notte cadeva lenta anche su quella casa desolata. Il lume vegliava sempre tristamente nella camera silenziosa. Solo le ombre de solate si agitavano più frettolose e più smarrite, e nell’angolo dove ogni se ra si ravvivavano i lumi, luccicavano adesso due fiammelle funebri. Verso la mezzanotte si era udito bussare alla porta, e per le stanze si era notato un via vai. Poi tutto si era raccolto in quell’attesa sconfortata. La luna ora lambiva il pavimento, mentre i lumi si spegnevano. La brina sgocciolava ghiacciata sui vetri. A un tratto, in quella semioscurità, nacque un correre affannato, un af faccendarsi di gente smarrita, colle mani nei capelli, uno sbattere d’usci. Poi la camera gialla si illuminò vivamente sulla facciata di tutta la casa nera.

Di poi quella finestra rimase chiusa e buia la notte; e le altre accanto si aprirono ogni mattina a lasciare entrare l’estate che veniva. E la sera perfino vi si affacciavano timidamente delle giovanette vestite di nero, che ascolta vano in silenzio la canzone nuova, il suono del pianoforte di sotto, e il chiac chiericcio dei vicini. Una mattina di settembre si videro tutte le finestre spalancate, e le stanze vuote, anche quella gialla, che si era spogliata delle meschine tende bianche, e mostrava una gran macchia di un giallo più carico al posto del letto che non c’era più. Quelle povere masserizie1 erano sgomberate silenziosamente nella notte, coll’umile famigliuola timida. Una vecchia serva venne a pigliare il va so di garofani, mentre il padrone di casa andava guardando per ogni dove coi muratori, gridando e bestemmiando. Egli additava le macchie della vecchia 1 masserizie: gli arredamenti, i mobili e le suppellettili di una casa povera. Deriva dal latino medievale massaricia ‘le cose del massaio, di chi governa, facendo economia, i propri averi’.

GIOvANNI vERGA 53 tappezzeria gialla, e i mattoni rotti del pavimento, sputando pel disgusto su quei guasti: tanto che la vecchierella se ne andò a capo chino, portandosi sot to lo scialle il vaso di garofani come una reliquia. I muratori si misero a scrostare e martellare da per tutto. E da mattina a sera udivasi la sega del falegname che strideva. Nell’ultima camera avevano alzato un gran ponte1, e attraverso quei trespoli si vedevano pendere i bran delli della carta gialla. Dopo vennero pittori tappezzieri, e le persone ch’erano sloggiate un mese prima non avrebbero ritrovato più le memorie delle loro ore d’angoscia in quelle stanze tappezzate di nuovo e ridenti. Il lume veglia va un’altra volta sino a notte tarda nell’antica camera gialla, dietro le tende di trina foderate di seta celeste; ma le due ombre che si vedevano sempre ac canto, cercandosi, correndosi dietro, si confondevano con molli ondulazioni, si univano in una sola; e la mattina si vedeva pure qualche volta una testolina bionda e rosea, che sollevava la tendina allato a una testa bruna e sorriden te. Nella sala attigua, sotto un grande specchio dorato che rifletteva la luce di una lumiera velata da un paralume color di rosa, si udivano alle volte le no te allegre di un pianoforte, nello scrosciare della pioggia notturna. Quando giunse la primavera, e l’usignolo tornò a cantare fra il verde del terrazzino, e le ragazze al lume di luna, i due innamorati presero il volo come due farfalle, e non si videro più. Al settembre la casa mutò d’aspetto, e nella camera az zurra venne a stare un gran letto matrimoniale, che tutte le mattine prendeva aria onestamente dalla finestra spalancata. La casa risonò da mattina a sera del gridìo dei bimbi, e degli strilli del neonato che la mamma allattava a piè del letto. Il marito tornava la sera stanco, colla faccia disfatta, e litigava tutto il tempo colla moglie e coi figliuoli. Poi rimaneva a scartabellare dei conti sulla tavola sparecchiata, sino ad ora tarda, colla fronte fra le mani, sotto il lume che agonizzava. La mattina usciva a buon’ora col passo frettoloso. Di tanto in tanto si udiva una scampanellata furiosa in anticamera, e la madre correva a chiudersi in camera, facendo segno al suo ragazzo di dire che non c’era, coll’indice sulle labbra. Il bimbo tornava, dopo un lungo ciangottare, a parlar colla mamma, la quale riaffacciava la testa allo sbattere violento della porta che faceva tintinnare il campanello, e l’uomo che se ne era andato così in col lera, si fermava in mezzo alla strada, a spiare la finestra chiusa. Alle volte la povera donna era costretta a mostrarsi, per calmare il visitatore che non vo leva sentir ragione, giungendo le mani in croce, con gran gesti che volevano esser creduti. Tutte le finestre spalancate lasciavano diffondersi pel vicinato indifferentemente pianti di bimbi e liti di genitori. Un giorno, verso mezzodì, venne un vecchietto col cappello bisunto e un fascio di cartacce in mano, se guìto da due uomini malvestiti, i quali si misero a frugare dappertutto, scri vendo dei fogliacci in fretta. La famigliuola li seguiva di stanza in stanza tri stamente. La roba fu portata via, alcuni giorni dopo, e delle poche masserizie rimaste caricarono un carro, e se ne andarono dietro a quello, il padre prima, coll’ombrello sotto il braccio, e la moglie dietro coi bambini in coda e il pop 1 ponte: ponteggio, impalcatura.

Poi vi tornarono dei mobili eleganti, e delle stoffe ricche appese alle fi nestre. Non vi si udirono più né strilli né schiamazzi; ma un silenzio beato dappertutto; i lumi sembrava s’accendessero da sé, fin nella camera azzur ra che aveva una luce velata d’alcova1. Non vi si vedeva nessuno; soltanto a notte alta, una testa che faceva capolino timidamente, e guardava nella via, socchiudendo adagio adagio le persiane; e la luce che passava fra le stecche ne indorava i capelli biondi, e si stampava sul muro della casa dirimpetto in strisce lucenti, come un faro. Dopo alcuni minuti un passo frettoloso e guar dingo si udiva nella via, l’ombra della testa bionda appariva rapidamente die tro le persiane, e la finestra si chiudeva. Una sera, nell’alto silenzio, squillò all’improvviso una scampanellata minacciosa. Si videro delle ombre correre dietro le tende all’impazzata, e le stanze illuminarsi rapidamente una dopo l’altra. Indi un silenzio d’attesa profondo, nel quale risonarono ad un tratto delle strida di terrore e degli urli di collera. I vicini corsero alle finestre, col lume in mano. Ma il quartiere era tornato silenzioso, soffocando i dolori o le collere che racchiudeva fra le sue tappez zerie sontuose. Le finestre rimasero chiuse per un gran pezzo, e allorché si riaprirono, entrarono nelle stanze i muratori che demolivano la casa, per far luogo alla strada nuova, la quale passava di là. Giorno e notte, dal muro sventrato, si vedevano le stanze nude e abbando nate, colle pitture del soffitto che pendevano, le gole dei camini squarciate e nere. La carta gialla ricompariva sotto la tappezzeria lacera, il segno del letto e le macchie scure, i chiodi sul camino a cui era appeso il grande specchio dorato, il campanello ciondoloni sull’uscio della scala spalancato. Il vento vi faceva turbinare la polvere, la pioggia le inondava, il sole vi rideva ancora sulle pitture, gialle, verdi, azzurre; la luna e la luce dei lampioni vi entrava no ogni notte, si posavano sulla macchia unta del letto, sui fiorami dorati del salottino misterioso, scendendo sempre, di mano in mano che il piccone dei muratori si mangiava le rovine. 1 alcova: camera nuziale. Deriva dall’arabo al-qubba, tramite lo spagnolo alcoba ‘zona appartata, intima e curata della camera da letto’.

R AccONTI54

pante al collo, senza neppure voltarsi a guardare quelle finestre che rimasero spalancate notte e giorno, per mesi e mesi, come se il padrone avesse voluto farne svaporare il tanfo di miseria che vi era rinchiuso.

1. Fin dall’incipit, appare chiaro che il narratore assume un punto di vista particolare: il lume, un oggetto, veglia; le persone, al contrario, vengono indicate come semplici e sfuggenti ombre. Sottolinea tutte le espressioni che disegnano la vita delle cose.

2. Nella casa vengono ad abitare diverse famiglie. Dividi il racconto in sequenze per mettere in luce le vicende che caratterizzano la loro storia.

4. Nel finale l’autore accenna a elementi già comparsi in ciascuna delle storie degli inquilini. Perché? Cosa comunica lo scrittore con questa scelta?

7. Immagina di poter seguire la vita di un oggetto di uso comune (un pallone, un quadro, una penna stilografica, un ombrello…) che passa tra le mani di diversi uomini e donne. Raccontando ciò a cui l’oggetto da te scelto assiste nel corso degli anni, descrivi i caratteri dei suoi proprietari.

6. Il titolo della novella è tratto da alcuni versi dell’Eneide: «Sunt hic etiam sua premia laudi; / Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (Anche qui la gloria ha il suo premio, / Le cose hanno lacrime, e le vicende mortali toccano il cuore). Confrontandoti con il tuo docente e i tuoi compagni, formula un’ipotesi sul significato del titolo del racconto in relazione agli avvenimenti narrati.

5. Qual è il protagonista della narrazione di Verga? Giustifica la tua risposta facendo precisi riferimenti al testo.

8. Racconta gli avvenimenti di un luogo a te familiare (la tua classe, il campo sportivo, la sala da pranzo…) immedesimandoti nelle mura che lo circondano e descrivendo ciò che al loro interno accade e di cui sono testimoni.

3. Quali diversi caratteri rintracci nelle famiglie che si avvicendano nell’abitazione? Quali caratteristiche rispecchiano tali differenze?

GIOvANNI vERGA 55

– Sempre la stessa cosa. Farnetica… – Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere natura lissimo, e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo

Veramente,caso.ilfatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione3 di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.

R AccONTI56 LUIGI PIRANDELLO

– Morrà? Impazzirà? – Mah! – Morire, pare di no… – Ma che dice? che dice?

Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che in contravano per via: – Frenesia, frenesia. – Encefalite. – Infiammazione della membrana. – Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.

Il treno ha fischiato Farneticava1. Principio di febbre cerebrale2 , avevano detto i medici; e lo ri petevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo.

Circoscritto4… sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida man sione di computista5, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di 1 farneticava: vaneggiava, faceva discorsi poco logici. Il soggetto è Belluca, protagonista della vicenda. 2 febbre cerebrale: infiammazione del cervello. 3 riprensione: rimprovero. 4 circoscritto: limitato, deficiente. 5 computista: contabile.

Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Bel luca non si sarebbe potuto immaginare.

Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’uf ficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:–Ecome mai? Che hai combinato tutt’oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.

partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e imposta zioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo1. Casellario am bulante2; o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un pas so, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.

– Ma che diavolo dici?

lUIGI PIRANDEllO 57

– Il treno?

– Ha fischiato.

– Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…

– Che significa? – aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca!

– Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impu denza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere.

– Il treno? Che treno?

Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo im bizzire3 un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levar un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sen tisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature dellaInconcepibile,sorte.

Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i pa raocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno, lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.

dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale.

1 partite aperte… e via dicendo: elenco di attività e strumenti del contabile. 2 casellario ambulante: schedario umano. 3 imbizzire: arrabbiare, imbizzarrire. 4 riprensione: la ripresa, il rimprovero.

Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione4; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so?, al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo.

Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impos sibile”, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo in 1 imbracato: immobilizzato.

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.

E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle lab bra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui cioè a uno che finora non s’era mai occupa to d’altro che di cifre e registri e cataloghi rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.

Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazio ne mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: – Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qual che cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiega re, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.

– Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppu re… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tut ti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del tre no che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato1 e trascinato all’ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:–Siparte, si parte… Signori, per dove? per dove?

R AccONTI58

lUIGI PIRANDEllO 59 ciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per sé stessa mostruosa. Bisognerà riat taccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appar tenendo a quel mostro. «Una coda naturalissima.» Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.

Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della ca sa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.

Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cie ca fissa; palpebre murate.

Con lo scarso provento1 del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cin que donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.

Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, ur li, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera li tigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda not te, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto natu ralissimo.Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli 1 provento: guadagno.

Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.

S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.

Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormen tarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.

R AccONTI60 era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.

– Magari! – diceva. – Magari! Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio di menticato – che il mondo esisteva.

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.

C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firen ze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia benda ta, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiu so per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’im provviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lan de, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le foreste… E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. 1 nòria: macchina per sollevare l’acqua o altri materiali.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la mi seria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spa lancava enorme tutt’intorno.

Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assor to tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria1 o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.

6. Immagina di essere Belluca, qualche settimana dopo gli avvenimenti narrati: la frenesia e l’eccitazione sono passate, è rimasta però la sensazionale scoperta fatta. Racconta a un amico ciò che ti è accaduto e come la tua esistenza è, da quel momento, cambiata per sempre.

7. Anche a te è capitato di fare una scoperta tanto inconsueta quanto meravigliosa? Racconta di quella volta in cui anche per te «il treno ha fischiato».

il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricompo sto. Era ancora ebro della troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto, il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo: – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…

2. Chi riesce a comprendere con maggior profondità il significato dell’improvviso mutamento avvenuto in Belluca? Cosa permette tale comprensione?

lUIGI PIRANDEllO 61 Gli Naturalmente,bastava!

3. Che significato assume, per Belluca, il fischio del treno?

1. L’incipit del racconto propone una diagnosi: Belluca è dichiarato da molti «impazzito». Tale diagnosi è confermata nel finale del racconto?

5. Qual è il significato del racconto? Riassumi le vicende narrate, spiegando quale scoperta compie Belluca.

4. Individua i fatti essenziali e riordinali cronologicamente. Osserva e rifletti insieme ai tuoi compagni di classe: come mai l’ordine della narrazione (intreccio) è differente rispetto all’ordine cronologico (fabula)?

2 che bisognavano il giorno appresso a caricar: che occorrevano il giorno seguente per 3alimentare. calcara: fornace a legna di origine antica. Inizialmente era usata per produrre calce, fondamentale negli impasti della malta in ogni costruzione in muratura; il suo utilizzo per l’estrazione dello zolfo comportava anche la produzione di gas nocivi all’uomo e all’agricoltura. Per questo si prescriveva che fossero costruite a una distanza di almeno tre chilometri dai centri abitati.

7 caruso: voce dialettale meridionale che significa ‘ragazzo’. In Sicilia indica il ragazzo pagato per svolgere mansioni semplici, poco gradite o faticose.

Ciàula scopre la luna

I picconieri1, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’e strarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar2 la calcara3. Cacciagallina, il soprastante4, s’affierò5 contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero. «Corpo di… sangue di… indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!» «Bum!» fece uno dal fondo della buca. «Bum!» echeggiarono parecchi al tri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno. Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gra dasso6. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente: «Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!» Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfo go, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vec chio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso7. Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano: «Ecco, sì! Tienti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone8 per domani!»

1 picconieri: operai che estraggono lo zolfo dalle miniere con il piccone.

8 calcherone: forno rudimentale utilizzato per l’estrazione dello zolfo. Simile alla calcara, ma con l’aggiunta di una copertura alla fossa per rallentare e controllare la combustione, permetteva rispetto a quella un notevole incremento in quantità e qualità nello zolfo prodotto.

R AccONTI62 LUIGI PIRANDELLO

6 gradasso: che si vanta di essere capace di cose straordinarie e inverosimili, spaccone.

4 soprastante: capocantiere. 5 s’affierò: si erse minaccioso, fiero.

lUIGI PIRANDEllO 63 «Gioventù!» sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina.E,ancoraagguantato

Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppurPoco:una.una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera lag giù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio5 di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la boc ca arsa6: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè7. Un gusto e un riposo. Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guar dando la rossa fiammella fumosa della lanterna confitta nella roccia, che al luciava8 nella tenebra dell’antro9 infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del paiolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti. Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.Eradel sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli

per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa. Era una smorfia a Cacciagallina? O si burlava della gioventù di quei compa gniVeramente,là?

3 stento: fatica, difficoltà. 4 si deduceva: si portava. Dal latino de + duco ‘porto dall’alto verso il basso’. 5 ruglio: rantolo. 6 arsa: secca. 7 rapè: polvere di tabacco che si usava aspirare dal naso. 8 alluciava: faceva rilucere. 9 antro: grotta, cavità.

tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quel la velleità1 di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sfo racchiate dalle zolfare2, come da tanti enormi formicaj. Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento3, si deduceva4 pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.

1 velleità: desiderio che non si può realizzare. 2 zolfare: miniere di zolfo.

alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata1, zi’ Scarda lo pregò di man dare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate: «Te’, pa’! te’, pa’!» Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.

R AccONTI64

Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar Quandobene.Cacciagallina

4 albàgio: lana grossolana. Veniva utilizzata per i vestiti dei prigionieri e per le tende per la sua tenuta all’acqua. La parola deriva dall’arabo al-bazz ‘tela, stoffa’, da cui deriva anche il sinonimo orbace.

era morto l’unico figliolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfa nelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un In«Calicchio…»nome:considerazione

di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna: «Dio gliene renda merito.»

1 a far nottata: a lavorare anche la notte. 2 affibbiava: allacciava. 3 galanteria: raffinatezza, gentilezza ostentata.

Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quel la che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per mo do di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul tora ce nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava2 i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria3. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammira zione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: «Quanto sei bel lo!» egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di sod disfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s’avvolgeva in un cappottello d’albagio4 tutto rappez

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4

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Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto6 stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle om bre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito7 guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cer ca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come den tro il suo alvo8 materno. Aveva paura, invece, del bujo vano9 della notte. Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo lumierina lanternino. lubrica scivolosa. erta ripida. mozzo corto. svolto curva. sùbito improvviso. alvo ventre. vano vuoto, vita.

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lUIGI PIRANDEllO 65 zato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cor nacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.« Cràh! Cràh!» rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.«Va’,va’a rispogliarti,» gli disse zi’ Scarda. «Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte». Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spa simo, si stirò e disse: «Gna bonu!» (Va bene). E andò a levarsi il panciotto. Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavora re anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’ Scarda. Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina1 a olio nella rimboccatura del sac co su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lu brica3 scala sotterranea, erta4, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mozzo5, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva ab bagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti del le cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guar darli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.

Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato6 e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio7 l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’im provviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.

La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.

Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento8 per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava9 attentamente la lumieri na di terracotta. 1 arrangolio: voce rauca, affannata. 2 levar mano: terminare il lavoro. 3 arcano: misterioso. Dal latino arcanus ‘nascosto, che nasconde’, derivato di arca 4‘scrigno’. vacuità: vuoto, vuotezza. 5 brulichio: vita che si mostra in un movimento continuo, confuso e incomprensibile. 6 cangiato: cambiato. 7 subbuglio: agitazione. 8 sgomento: terrore. 9 rigovernava: curava in modo che perdurasse nel suo compito di fare luce.

S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indi stinto nel silenzio arcano3 che riempiva la sterminata vacuità4, ove un bruli chio5 infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.

Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcola re, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla bu ca nella notte nera, vana.

specioso arrangolio1 di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.Ognisera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appe na finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchez za; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.

R AccONTI66

Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano2, essendo già sera, quan do s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i pic conieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atter rito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume san guigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.

Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammon tarlo1 sul sacco attorto dietro la nuca. A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò: «Basta! basta!» «Che basta, carogna!» gli rispose zi’ Scarda. E seguitò a caricare. Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazio ne2 che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo cor po, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più. Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equili brio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?

1 rammontarlo: metterlo. costernazione: timore. protratto: prolungato. che vaneggiava: che si apriva. chiarìa: chiarore.

2

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chia rìa5 cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.

3

Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.

La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guar dare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava4 in alto.

4

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lUIGI PIRANDEllO 67

Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.

Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso del la cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto3. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.

RestòPossibile?–appena

sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spal le. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fos se laOra,Luna?ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.Estatico1, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran confor to, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella sali va pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara2 dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei3 non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore. 1 estatico: rapito, affascinato. 2 ignara: all’oscuro. 3 per lei: grazie a lei.

R AccONTI68

2. Rileggi l’incipit del racconto. Quali sono le condizioni in cui vivono i minatori? Che tipo di rapporto esiste tra di loro?

3. Quali sono le caratteristiche di Ciàula? Qual è l’origine del suo nome? Per rispondere, sottolinea nel testo i passi che descrivono l’aspetto fisico e caratteriale del protagonista.

5. Quel che teme il ragazzo è il buio della notte. Per quale motivo? Cosa lo terrorizza di questo?

6. Dopo essere stato caricato in maniera eccessiva, l’autore scrive che, «per fortuna […] Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte». Perché l’autore usa l’espressione «per fortuna»?

9. Nel racconto di Pirandello ciò che di nuovo accade è in grado di trasfigurare l’ambiente circostante e la percezione che ne ha il protagonista. Ripercorri la vicenda e riassumi il racconto per mettere in luce ciò che permette tale cambiamento.

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1. Scrivi un sommario che metta in luce gli eventi essenziali della trama.

7. Perché nel finale del racconto Ciàula «non si sentiva più stanco»? Cosa gli accade di nuovo?

4. Perché né zi’ Scarda né il protagonista si lamentano del lavoro notturno che devono svolgere? Che differenze puoi ritrovare nelle loro motivazioni?

8. Racconta di quella volta in cui a lungo hai atteso un evento che, nel momento in cui è accaduto, ti ha sorpreso.

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–Eh,Quale?voi,cari amici, volete saper troppo! Al contrario di me che non voglio saper mai nulla. Se debbo dirvelo io, qual è il vero guajo, è segno che voi non l’avvertite. E allora perché dovrei dirvelo io?

La mano del malato povero Una volta sola? Ci sarò stato almeno tre volte! Tre? Cinque… non so. Perché vi fa tanta impressione l’ospedale? Non ho casa. Non ho nessuno. E poi, scusate, spendere denaro, ad averne, per un piacere (lasciamo che io non lo farei mai, perché i piaceri miei non li compro a denari) ma via, po trei ammetterlo. Non ammetto dopo il malanno, dopo le sofferenze d’una malattia, per giunta pagar le medicine, il medico. Del resto, non ne ho mai avuti per prendermi i così detti piaceri della vita, come li intendono gli altri: dunque, diritto d’aver gratis la cura dei malanni che mi dà. Parecchi, credo; anzi, senza dubbio. Sono la tessera d’entrata: senza, non m’avrebbero ricevuto. E devo anche averli buoni, a quanto sembra: intendo, non passeggeri: qua, non so, al cuore; al fegato, ai reni, non so. Dicono che ho guasto tutto l’organismo. Sarà vero; ma non me n’importa, perché dopo tutto, se mai –dico, se questo fosse vero – non sarebbe un gran guajo. Il vero guajo è un altro.

Ai medici che m’hanno avuto in cura io non ho mai chiesto di che male fos se afflitto il mio corpo. So che questo povero asino che mi porta l’ho fatto trottar troppo, e per certe vie che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno d’infilare.

Solo m’ha seccato d’esser tenuto dai medici, per questo, in conto di malato intelligente. La noncuranza da parte mia di sapere di che male fossi afflitto, è stata presa dai medici per fiducia nella loro scienza, capite? M’han vedu to sempre obbediente cacciar fuori la lingua a ogni loro richiesta; gridare: –trentatré-trentatré – quattro, cinque, dieci volte, sopportando pazientemente il ribrezzo d’una loro orecchia fredda applicata alle mie terga1; abbandona re le membra, come se non fossero mie, ai palpeggiamenti troppo confiden ziali delle loro mani ben lavate, sì, ma Dio mio adibite allo schifoso servizio pubblico di tutte le piaghe umane; e sopportare i picchi2 sodi delle loro dita a martello, le punture delle loro siringhette, e ingollarmi tutte le loro porcherie liquide o in pillole, senza mai gemere per nausea o per fastidio: – Oh Dio, dot tore, cos’è? È amaro, dottore? – e dunque, chi più intelligente di me? Un malato che nutra una così cieca abbandonata fiducia nella scienza medica, dev’esse re per forza, a loro giudizio, intelligentissimo. Lasciamo questo discorso. Mi fa tanto piacere vedervi ridere. Buon pro’ vi faccia! 1 terga: spalle. 2 picchi: colpi.

Ecco, sarà perché io propriamente non ho mai capito che gusto ci sia a rivolge re domande agli altri per sapere le cose come sono. Ve le dicono come le sanno loro, come pajono a loro. Voi ve ne contentate? Grazie tante! Io voglio saperle per me, e voglio che entrino in me come a me pajono. – È ben per questo, vede te, che ormai tutte le cose ci stanno sopra, sotto, intorno, col modo d’essere, il senso, il valore che da secoli e secoli gli uomini hanno dato ad esse. Così e così il cielo, così e così le stelle; e il mare e i monti così e così, e la campagna, la città, le strade, le case… Dio mio, che ne volete più? Ci opprimono ormai per forza col fastidio infinito di questa immutabile realtà convenuta e convenzionale, da tutti subita passivamente. Le fracasserei. Vi dico che sedere su una seggiola è divenuto per me un supplizio intollerabile. Per alleviarlo un poco, bisogne rebbe per lo meno – permettete? – che la mettessi così, ecco, per lungo, e mi ci mettessi a cavallo. Tanto per dire! Ma quanti si sforzano di rompere la crosta di questa comune rappresentazione delle cose? di sottrarsi all’orribile noja dei consueti aspetti? di spogliare le cose delle vecchie apparenze che ormai per abitudine, per pigrizia di spirito, ponderosamente si sono imposte a tutti? Ep pure è raro che almeno una volta, in un momento felice, non sia avvenuto a cia scuno di vedere all’improvviso il mondo, la vita, con occhi nuovi; d’intravedere in una subita luce un senso nuovo delle cose; d’intuire in un lampo che relazio ni insolite, nuove, impensate, si possono forse stabilire con esse, sicché la vita acquisti agli occhi nostri rinfrescati un valore meraviglioso, diverso, mutevole. Ahimè, si ricasca subito nell’uniformità degli aspetti consueti, nell’abitudine delle consuete relazioni; si riaccetta il consueto valore dell’esistenza quotidia na; il cielo col solito azzurro vi guarda poi la sera con le solite stelle; il mare v’addormenta col solito brontolio; le case vi sbadigliano di qua e di là con le finestre delle solite facciate, e col solito lastricato vi s’allungano sotto i piedi le vie. E io passo per pazzo perché voglio vivere là, in quello che per voi è stato un momento, uno sbarbaglio1, un fresco breve stupore di sogno vivo, luminoso; là, fuori d’ogni traccia solita, d’ogni consuetudine, libero di tutte le vecchie appa renze, col respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive.

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Mi s’è guastato il cuore; mi si sono logorati i polmoni: che me n’importa? Sarò pazzo, ma io vivo. Non ho casa, non ho stato. Vado all’ospedale? Vi prego di credere che non ci sono mai andato da me, coi miei piedi: mi ci hanno sem pre trasportato gli altri, in barella, privo di sensi. Mi ci sono ritrovato e mi son subito«Ah,detto:eccoci qua! Ora bisogna cacciar fuori la lingua.»

E subito, volenteroso e obbediente, invece di lamentarmi, l’ho cacciata fuori a ogni richiesta per uscirmene presto. Che effetto curioso fa la faccia dell’uomo – medico o infermiere – guardata da sotto in su, stando a giacere su un letto, che ve la vedete sopra coi due buchi del naso che vengono fuori e l’arco della bocca che va in su, di qua e di là, dalla pal lottola del mento. E quando questa bocca vi parla, e vedete sottosopra la chio stra dei denti, la puntina in mezzo del labbro superiore e il principio del palato. 1 sbarbaglio: bagliore improvviso.

Figuratevi che, quest’ospedale di cui vi parlo, aveva la squisita attenzione verso i suoi ricoverati d’impedire che l’uno vedesse la faccia dell’altro, me diante un paraventino a una sola banda, o, piuttosto, un telajo a cui con pun tine si fissava ai quattro angoli una tendina di mussolo1 cambiata ogni set timana, lavata, stirata e sempre candida. Certi giorni, tra tutto quel bianco, pareva di stare in una nuvola, e, con la benefica illusione della febbre, di ve leggiare nell’azzurro ch’entrava dalle vetrate dei finestroni.

Ogni lettino, nella lunga corsia luminosa, aerata, aveva accanto, a destra, il riparo d’un di quei telaj, che non arrivava oltre l’altezza del guanciale. Sicché io del malato che mi stava a sinistra veramente non potevo veder altro che la mano, quand’egli tirava il braccio fuori dalle coperte e l’abbandonava sul let tino. Mi misi a contemplare con curiosità amorosa questa mano, e da essa a poco a poco mi feci narrare la favola che vi dirò.

Me la narrò coi cenni, s’intende, forse incoscienti, che di tanto in tanto faceva; con gli atteggiamenti in cui s’abbandonava, macra2, ingiallita, su la bianca coperta, ora sul dorso, con la palma in su e le dita un po’ aperte e ap pena contratte, in atto di totale remissione alla sorte che l’inchiodava come a una croce su quel letto; ora serrando il pugno, o per un fitto spasimo improv viso o per un moto d’ira e d’impazienza, a cui succedeva sempre un rilassa mento di mortale stanchezza. Compresi ch’era la mano d’un malato povero, perché, quantunque accura tamente lavata come l’igiene negli ospedali prescrive, serbava tuttavia nella 1 mussolo: tessuto leggero. 2 macra: magra.

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La premessa è stata lunga, ma forse non del tutto inutile; perché voi alme no così, adesso, non mi domanderete nulla di quello che vi premerebbe più di sapere per commuovervi al modo solito, cioè le notizie di fatto: a) chi fosse quel malato; b) perché fosse lì; c) che male avesse.

Niente, cari miei, di tutto questo. Io non so nulla di nulla; non mi sono cu rato di saper nulla, come forse avrei potuto domandandone notizie agl’infer mieri. Io ho visto solamente la sua mano e non posso parlarvi d’altro. Ve ne contentate? E allora, eccomi qua. Fu nell’ospedale in cui sono stato l’ultima volta. Ma non fate codesta faccia afflitta, da imbecilli, perché non vi narro una storia triste. Tra me e l’ospeda le – benché non possa soffrire i medici e la loro scienza – ho saputo sempre stabilire dolci e delicatissime relazioni.

Anche senza sentire quello che la bocca vi dice, v’assicuro che si perde il rispetto dell’umanità. Ma io vi ho promesso di parlarvi della mano d’un malato povero.

1 indetersibile: indelebile, non lavabile. 2 attrappita: rattrappita. 3 pressura: pressione. 4 imbastire: prima e provvisoria cucitura. 5 vagellante: vacillante, tremolante.

Da un altro cenno di essa compresi poi che quel sarto povero doveva esser padre da poco, aveva certo un bambino.

Forse gli arrivava lì, al ginocchio, la testa del suo bambino, e lì quella mano soleva carezzare i capellucci freschi e morbidi come la seta, di quella testolina.

E allora mi diedi a immaginare a che mestiere fosse addetta quella mano.

gialla magrezza un che di sudicio, indetersibile1; che non è sudicio propria mente nella mano dei poveri, ma quasi la patina della miseria che nessun’ac qua mai porterà via. Si scorgeva questa patina nelle nocche aguzze e un po’ scabre delle dita; nelle pieghe interne cartilaginose delle falangi, che faceva no pensare al collo della tartaruga; nei segni incisi sulla palma che sono, co me si dice, il suggello della morte nella mano dell’uomo.

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Notai che spesso questo pollice s’assoggettava da sé, come per abitudine, alla pressura3 della punta dell’indice, quasi che il malato inconsciamente con quella pressura si richiamasse a una realtà lontana e la toccasse lì, su quel pol lice così premuto; la realtà della sua esistenza, da sano. Forse una bottega im pregnata dal tanfo particolare delle stoffe nuove, disposte in pezze, con ordine, le une su le altre negli scaffali e su panche e nelle vetrine; un banco di vendita; una tavola da tagliatore con su distesa una stoffa segnata e un pajo di grosse cesoje sopra; un gattone bigio sotto quella tavola; i lavoratori seduti in fila di qua e di là, intenti a imbastire4, a passare a macchina, e lui tra questi. Non gli piaceva, forse, questa realtà; forse egli non era tutto in quel suo mestiere; ma il suo mestiere era pur lì in quelle due dita, in quel pollice che da sé ormai dopo tant’anni, per abitudine, s’assoggettava alla pressura dell’indice. E qua, adesso, per lui era una più triste realtà il vuoto e l’ozio doloroso di quella corsia d’ospe dale, la malattia, l’attesa stanca e piena d’angoscia, chi sa, forse della morte.

Levava di tanto in tanto sotto le coperte un ginocchio. La mano, dapprima inerte, si alzava con le dita tremolanti e quasi vagava su quel ginocchio leva to, in una carezza intorno, che non era certo rivolta al ginocchio. A chi poteva esser rivolta quella carezza?

Certo, gli occhi del malato, mentre la mano illusa, vagellante5, accennava sul ginocchio la carezza, stavano chiusi, vedevano sotto le palpebre la testolina, e le palpebre si gonfiavano di lagrime calde, che traboccavano alla fine sul volto ch’io non vedevo. Ecco, difatti, la mano interrompeva la vaga carezza, spariva

Non certo a un rude mestiere, perché era gracile e fina, quasi femminea, per nulla deformata o attrappita2, se non forse un po’ nell’indice che appariva soverchiamente tenace nell’ultima falange, e nel pollice un po’ troppo ripie gato in dentro, e dal nodo alla giuntura eccessivamente sviluppato.

Sì; senza dubbio, quella era la mano d’un sarto.

Dunque, aspettate: sarto e padre d’un bambino. Ora vedrete che la sto ria si complica un poco. Ma niente: son sempre i cenni e gli atteggiamenti di quella mano. Una mattina, io mi riscossi tardi da uno dei letarghi profondi, di piombo, che sogliono seguire ai più forti accessi di quel male, ch’è forse il più grave tra i tanti di cui Aprendosoffro.gliocchi, vidi attorno al letto del mio vicino molta gente, uomini, donne, forse parenti. In prima pensai che fosse morto. No. Nessuno piange va, nessuno si lamentava. Parlavano anzi col malato e tra loro festosamente, quantunque a bassa voce per non disturbare gli altri malati.

Dunque, il male era inguaribile. Sì: me l’aveva detto chiaramente la mano, troppo incerta nel tatto, nei movimenti. Con che lenta tristezza, ora, faceva girar col pollice quell’anellino troppo largo attorno all’anulare!

Non era giorno di visita. Come e perché, dunque, era stata ammessa tutta quella gente fino al letto del malato?

dietro il telaio, dopo aver sollevato la rimboccatura del lenzuolo. E, poco dopo, quella rimboccatura era rimessa in sesto e bagnata in un punto, dalle lagrime.

Il corpo d’una vecchia grassa, che mi voltava le spalle, presso il paraven tino, specialmente il suo sedere enorme e la sua gonna rigonfia, tutta a fitte piegoline e a quadretti rossi e neri, m’ingombrava, mi pesava come un incubo intollerabile. Non mi pareva l’ora che tutti se n’andassero. Tra le palpebre soc chiuse mi parve d’intravedere la figura alta d’un prete; non ci feci caso. Forse ricaddi, anzi certamente ricaddi per lungo tempo nel letargo. I quadretti rossi e neri di quella gonna mi tesero come una rete, una grata di prigione con sbar re di fuoco e sbarre d’ombra, e quelle di fuoco mi bruciavano gli occhi. Quando li riaprii, attorno al letto di quel malato non c’era più nessuno. Cercai la sua mano. Attorno all’anulare, un cerchietto d’oro: una fede. Ah, ecco, sposino. Le nozze! Quella gente era venuta per farlo sposare. – Povera mano, tu così gialla, così macra, con quel segno d’amore? Eh no! Di morte. Su un letto d’ospedale, non si sposa che in previsione della morte.

La mano s’alzò e si tese ferma davanti al volto. Più davvicino volle esser guardata con quell’anellino d’un giorno, che avrebbe potuto dir tante cose e una sola ne diceva, triste, tanto triste.

E certo gli occhi guardavano lontano, pur fissi in quel cerchietto d’oro. Co sì vicino; e la mente forse pensava: «Quest’anellino… Che vuol dire? Sto per sciogliermi da tutto, e m’ha volu to legare. A chi mi lega? per quanto? Oggi me l’hanno messo al dito; domani forse verranno a levarmelo.»

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Non udivo, né volevo udire le loro parole. Anche la loro vista m’era grave agli occhi, nello stordimento lasciatomi dal lungo letargo. Socchiusi le palpebre.

Ma forse poi pensò che, sì, qualche cosa pure quell’anellino legava: legava il suo nome alla vita del suo figliuolo. Gli era nato prima delle nozze, quel fi gliuolo, e non aveva nome; ora l’avrebbe avuto. Gli levava dunque un rimorso quell’anellino.

4. Da quali particolari il narratore intuisce che la malattia del suo vicino sia «inguaribile» e che dunque lui sia vicino alla morte?

Qual è il desiderio che il narratore esprime per sé?

Tornò col pollice ad accarezzarselo; poi la mano, stanca, ricadde sul letto. La mattina dopo, non la vidi più: la indovinai appena da una piega del len zuolo steso su tutto il letto a riparo da certe mosche che sentono la morte da un miglio lontano.

3. Successivamente, che cosa accade una mattina attorno al letto del malato? Quali pensieri, in un primo momento, affollano la mente del narratore? Quali avvenimenti gli permettono di capire il fraintendimento? Che cosa, invece, è accaduto realmente al malato? Come lo capisce il narratore?

1. Trova nel testo la sequenza che va da «Ecco, sarà perché io propriamente non ho mai capito…» fino a «…col respiro sempre nuovo e largo tra cose sempre nuove e vive». In questo passaggio il narratore, infastidito dall’atteggiamento della gente, parla di un «momento felice» che secondo lui, almeno una volta, accade a tutti nella vita. Che cosa lo addolora dell’atteggiamento solito delle persone? A che tipo di esperienza sta facendo riferimento, invece, quando parla di quel «momento felice»?

6. Il narratore, nelle prime pagine del racconto, dichiara di voler «sapere le cose come sono». Nell’incontro con il malato, accade quanto egli si augurava? Cosa ha permesso o ha impedito tale esperienza di conoscenza? Esponi le tue riflessioni facendo riferimento al testo.

7. Prendendo spunto dalla seconda parte della novella, inventa un racconto in cui il protagonista, da un’attenta osservazione di alcuni dettagli di un personaggio, deduce caratteristiche o eventi occorsi nella sua vita. Fai attenzione, nella parte descrittiva, alla scelta di nomi, verbi e aggettivi.

8. Racconta di una volta in cui anche a te è capitato di vedere con occhi nuovi le solite cose, di intravedere «un senso nuovo delle cose».

2. Ora rileggi la sequenza in cui si racconta che il narratore, contemplando «con curiosità amorosa» la mano del malato, deduce tre caratteristiche di quest’uomo. Poi, costruisci una tabella che elenchi le caratteristiche e gli indizi che gli hanno permesso di giungere a tali conclusioni.

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5. Che cosa succede nel finale? Da quali segni lo capisce il narratore?

«E si può sapere, di grazia, quali credi che siano i doveri di un amico devo to?» chiese un giovane Fanello che aveva ascoltato la conversazione stando seduto sul ramo di un salice.

«Già, è esattamente ciò che vorrei sapere anch’io», disse l’Anatra, nuotan do fino in fondo allo stagno con la testa bene eretta affinché i figlioli prendes sero esempio.

«È una storia che mi riguarda?» chiese il Topo. «In questo caso ti ascolterò volentieri, perché i racconti mi piacciono molto».

«C’era una volta», disse, «un bravo giovane di nome Hans». «Era una persona molto particolare?» chiese il Topo.  «No, non direi che lo fosse», rispose il Fanello, «se non per il suo animo

«Non sarete mai ammessi nella buona società, se non riuscirete a tenere la testa alta», continuava a ripetere mamma Anatra, mostrando di tanto in tanto come si dovesse fare. Ma gli anatroccoli non le davano ascolto perché erano troppo giovani per capire quali vantaggi possano derivare dall’essere accolti nella buona società.

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«Che domanda stupida!» esclamò il Topo. «Credo che un amico che mi si professi devoto debba dimostrarmi di essere devoto. Tutto qui».

«Che figlioli indisciplinati», esclamò il vecchio Topo, «meriterebbero di annegare!»  «Niente affatto», rispose mamma Anatra, «all’inizio dobbiamo tutti impa rare e i genitori non sono mai troppo pazienti».

Una mattina, un vecchio Topo d’acqua, che aveva occhi vispi e luminosi, un paio di grigi baffi irsuti e una lunga coda nera simile a un cordoncino di cauc ciù, uscì dalla sua tana e si avvicinò allo stagno dove certi anatroccoli impa ravano a nuotare. Loro erano gialli come canarini mentre la madre, che gli insegnava a tenere la testa fuori dall’acqua, aveva le piume di colore bianco immacolato e le zampe di un bel rosso acceso.

L’amico devoto

«Ti si adatta molto bene», rispose il Fanello. Planò sulla riva dello stagno e cominciò a raccontare la storia dell’amico devoto.

«E tu in cambio cosa sei disposto a fare?» chiese il Fanello, spiccando il volo con le sue piccole ali per andare a posarsi su un ramo che sembrava spruzzato d’argento.  «Non capisco», rispose il Topo.  «Allora ti racconterò una storia che tratta la questione», disse il Fanello.

«In verità non ne so nulla circa i doveri dei genitori», disse il vecchio To po. «Non sono sposato e non desidero esserlo. L’amore, a suo modo, è sicu ramente molto bello ma l’amicizia è un sentimento più prezioso. Per quanto mi riguarda non conosco nulla al mondo di più nobile e più raro di un amico devoto».

“Non è il caso che io vada dal piccolo Hans finché continua a nevicare”, diceva il mugnaio a sua moglie. “Quando uno se la passa male è meglio che stia solo e che non venga disturbato da troppe visite. Questa è la mia idea di amicizia e sono sicuro di aver ragione. Aspetterò che arrivi la primavera, poi lo andrò a trovare, così lui mi regalerà un bel cestino di primule e sarà felice”.

“Senza dubbio sei molto premuroso nei confronti degli altri, molto pre muroso davvero”, rispondeva la moglie, comodamente seduta nella poltrona accanto al camino dove crepitavano grossi ciocchi di pino. “È un piacere sen tirti parlare dell’amicizia. Neanche il prete, che vive in una casa a tre piani e porta al mignolo un anello d’oro, riesce a dire cose tanto belle come sai fare tu!”

Il giovane Hans aveva molti amici, ma il più affezionato di tutti era Hugh, il robusto e ricco mugnaio del paese. Lui era così devoto al piccolo Hans che non passava mai accanto al suo giardino senza sporgersi al disopra del mu retto per cogliere un bel mazzo di fiori o una manciata di erbe aromatiche o per riempirsi le tasche di prugne e ciliegie quand’era stagione di frutti.

gentile e la sua buffa faccia tonda, sempre sorridente. Viveva da solo in una piccola casa di legno e trascorreva le giornate curando il suo giardino, bel lo come nessun altro in tutto il paese. Vi fiorivano garofani a mazzetti e vio lacciocche, capselle bianche e sassifraghe granulose, rose damascene e rose gialle, crochi lilla e crochi oro, viole bianche e color porpora. Colombine e bil leri dei prati, maggiorana e basilico selvatico, primule, iris, narcisi e chiodi di garofano germogliavano e sbocciavano seguendo le stagioni, così che con l’andare dei mesi un fiore prendeva il posto dell’altro e c’erano sempre cose belle da ammirare e deliziosi profumi da annusare.

“Che ragazzo sciocco che sei!” gridò il mugnaio. “Non so proprio che uti

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Durante la primavera, l’estate e l’autunno Hans era molto felice, ma quan do veniva l’inverno e non aveva né frutti né fiori da portare al mercato, il po verino doveva combattere con il freddo e con la fame e spesso la sera andava a dormire dopo aver mangiato soltanto un paio di pere appassite e qualche nocciola rinsecchita. D’inverno, inoltre, era anche molto solo perché il mu gnaio non andava mai a trovarlo.

“Ma non potremmo invitare qui il giovane Hans?” chiese il figlio minore del mugnaio. “Se in questo momento è in difficoltà potrei dargli metà della mia minestra e farlo divertire con i miei conigli bianchi”.

“I veri amici devono avere tutto in comune”, era solito dire il mugnaio e il piccolo Hans, orgoglioso di avere un amico con idee tanto nobili, concordava e sorrideva.  Talvolta, a dir la verità, i paesani trovavano ingiusto che il ricco mugnaio non desse mai nulla in cambio al piccolo Hans, sebbene avesse un centinaio di sacchi di farina ammassati nel mulino e possedesse sei mucche da lat te e un folto gregge di pecore da lana. Ma Hans non si lasciava turbare dalle chiacchiere, poiché nulla gli piaceva di più che ascoltare le magnifiche teorie del mugnaio circa la vera amicizia disinteressata e, senza farsi alcun proble ma, continuava a lavorare nel proprio bellissimo giardino.

“Come parli bene!” disse la moglie del mugnaio, versandosi un generoso bicchiere di birra calda. “Mi sento quasi assopita, proprio come mi succede in chiesa”.“Moltepersone agiscono bene, ma solo pochissime parlano bene”, sen tenziò il mugnaio, “e ciò dimostra che parlare bene è non soltanto più diffici le, ma anche più bello dell’agire bene”.

“Oh, è gentile da parte vostra chiederlo, gentile davvero”, rispose Hans. “A essere sincero ho passato un brutto momento, ma adesso è arrivata la prima vera e sono felice perché i miei fiori crescono a meraviglia”.

“Che gran cuore che hai, pensi sempre agli altri!” esclamò la moglie. “Ma ricordati di prendere il cestino per i fiori, quello grande, mi raccomando!”

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lità ci sia nel mandarti a scuola, si direbbe che non impari nulla! Se il picco lo Hans venisse da noi e vedesse il nostro bel camino acceso, la nostra buo na cena e la nostra grande botte di vino rosso, potrebbe diventare invidioso. L’invidia è un sentimento orribile, in grado di corrompere l’animo di chiun que e io non voglio di certo guastare la buona natura di Hans. Sono il suo mi gliore amico, veglierò sempre su di lui e farò sempre in modo che non cada in tentazione. Inoltre, se Hans venisse qui potrebbe chiedermi un po’ di farina a credito, ma io non gliela potrei dare. Una cosa è la farina e un’altra cosa è l’a micizia. Sono parole scritte in modo diverso e hanno un diverso significato. Chiunque capirebbe che sono due cose da non confondere”.

“Buon giorno, piccolo Hans”, disse il mugnaio.

“Buon giorno” rispose Hans, curvo sulla sua vanga e con un sorriso in vol to che andava da parte a parte.

“Come hai trascorso l’inverno?” chiese il mugnaio.

E così il mugnaio legò le pale del mulino con una resistente catena di ferro e scese la collina lasciando dondolare il cestino che portava appeso al braccio.

Poi guardò severamente il figlio, seduto all’altro capo della tavola e pieno di vergogna, che arrossì chinando la testa e lasciando che le lacrime colasse ro nella sua tazza di tè. Tuttavia era ancora molto giovane e meritava di esse re perdonato».  «È così che finisce la storia?» chiese il Topo. «No, questo è solo l’inizio», rispose il Fanello.  «Allora sei fuori moda», disse il Topo. «Oggi tutti i migliori narratori co minciano dalla fine, tornano al principio e concludono nel mezzo del raccon to. È questo il nuovo metodo. L’ho sentito dire l’altro giorno da un critico che passeggiava nei pressi dello stagno in compagnia di un giovane. Ha parlato a lungo dell’argomento e sono sicuro che avesse ragione, perché portava gli oc chiali blu ed era calvo e ogni volta che il giovane diceva la sua, lui rispondeva “Bah!”. Ma, ti prego, continua il tuo racconto. Il mugnaio mi piace moltissimo perché anch’io coltivo i buoni sentimenti e penso che fra noi ci sia una gran de affinità». «Bene!»disse il Fanello saltellando da una zampa all’altra. «Quando finì l’inverno e le primule gialle cominciarono a distendere le corolle, il mugnaio disse alla moglie che sarebbe andato a trovare il piccolo Hans.

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“Non ho potuto fare diversamente”, rispose Hans. “Come vi ho già detto, l’inverno è stato duro per me. Non avevo i soldi neanche per comprare il pa ne e così ho venduto prima i bottoni d’argento del mio vestito buono, dopo un po’ la catena d’argento, poi la mia bella pipa e infine anche la carriola. Ma ora potrò ricomprare tutto”.

“Caro Hans, abbiamo parlato spesso di te durante l’inverno” disse il mu gnaio “e io mi chiedevo come te la stessi cavando”.

“Non è necessario, caro Hans”, disse il mugnaio, “ti regalerò la mia carrio la. Non è in buonissime condizioni perché è rotta da un lato e alcuni raggi del la ruota sono spezzati, ma te la do volentieri. So che questa mia grande gene rosità mi esporrà alle critiche della gente, ma io non sono come gli altri. Molti penseranno che sia una sciocchezza disfarmi della carriola, ma io credo che nella generosità risieda l’essenza stessa dell’amicizia e inoltre ho già una car riola nuova. Non preoccuparti, dunque, ti darò la mia carriola vecchia”.

“Sono belle davvero”, ammise Hans, “e per mia fortuna sono molte. Ho in tenzione di portarle al mercato e venderle alla figlia del sindaco, così potrò ricomprarmi la carriola”.

“Siete davvero molto generoso”, disse il piccolo Hans mentre sulla sua buffa faccia tonda si dipingeva un’espressione di felicità. “Potrò anche aggiu starla facilmente perché ho in casa un asse di legno”.

“Quanto siete buono!” esclamò Hans. “Io, invece, ero quasi certo che mi aveste dimenticato”.

“Un asse di legno?” esclamò il mugnaio. “Ma è proprio quello che mi oc corre per il tetto del granaio! C’è un grosso buco e devo sbrigarmi a chiuderlo altrimenti il grano si inumidirà. Che fortuna che tu me l’abbia detto! D’altra parte a ogni buona azione ne segue un’altra altrettanto buona: io ti darò la mia carriola e tu mi darai il tuo asse. Ovviamente una carriola vale più di un semplice asse, ma la vera amicizia non dà importanza a queste cose. Per fa vore, vai a prenderlo così oggi stesso riparerò il granaio?”

“Non è molto grande”, disse il mugnaio quando lo vide, “e temo che dopo avere accomodato il tetto non ne rimanga abbastanza per la carriola, ma non è colpa mia. E ora che ti ho regalato la carriola, sicuramente vorrai darmi in cambio un po’ di fiori. Ecco il paniere. Riempilo bene, mi raccomando”.

“Hans, mi meraviglio di te!” disse il mugnaio. “L’amicizia non si dimentica mai ed è questo a renderla un sentimento così prezioso e tuttavia temo che tu non possa comprendere la poesia della vita. A proposito, le tue primule han no un aspetto magnifico!”

“Certo”, esclamò il piccolo Hans, che corse nella baracca e ne uscì con l’as se in mano.

“Come ricomprare la carriola? Vorresti dire che l’hai venduta?” chiese il mugnaio sbigottito. “Hai fatto una cosa davvero molto sciocca, amico mio!”

“Riempirlo?” chiese il piccolo Hans, rimanendo interdetto.  Il paniere, infatti, era davvero molto grande e se lo avesse riempito di fiori non avrebbe avuto più nulla da portare al mercato e avrebbe dovuto rinun ciare ai bottoni d’argento che desiderava tanto ricomprare.

“Ma come?” replicò il mugnaio. “Io ti ho regalato la carriola e ti ho chie sto in cambio solo un po’ di fiori. Non mi sembra di pretendere troppo! Forse sbaglio, ma ho sempre pensato che l’amicizia, la vera amicizia, non dovesse ammettere nessuna forma di egoismo”.

Il mattino successivo il mugnaio si presentò di buon’ora a casa di Hans per prendere il denaro ricavato dalla vendita della farina, ma Hans era molto stanco e stava ancora a letto.

“È stata una giornata faticosa”, pensò il piccolo Hans, mettendosi a letto, “ma sono felice di aver accontentato il mugnaio. Lui è il mio migliore amico e oltretutto sta per regalarmi la sua carriola”.

“Capisco”, disse il mugnaio. “Tuttavia, considerando che sto per regalarti la mia carriola, penso che sia scortese da parte tua rifiutarmi un favore”.

“Caro Hans”, disse il mugnaio, “potresti portare questo sacco di farina al mercato?”

“Oh, mi dispiace”, rispose Hans, “ma oggi ho davvero tanto da fare. Devo sistemare i rampicanti, innaffiare tutte le aiuole e tagliare l’erba del prato”.

“Arrivederci, piccolo Hans”, disse il mugnaio, avviandosi a risalire la colli na con l’asse in spalla e il grosso cestino in mano.

“Arrivederci”, rispose Hans ricominciando a vangare la terra, felice e con tento all’idea di riavere presto una carriola.  Il giorno dopo, mentre stava agganciando il caprifoglio sulle colonne del portico, sentì la voce del mugnaio che lo chiamava dalla strada. Scese veloce mente dalla scala, attraversò di corsa il giardino, guardò al di là del muretto e vide il mugnaio che portava sulla schiena un grosso sacco di farina.

Corse a prendere il berretto e si avviò al mercato portando sulle spalle il pe sante sacco di farina.

Faceva molto caldo, la strada era terribilmente polverosa e, prima ancora di aver percorso sei miglia, Hans si sentì così stanco che dovette fermarsi e riposare, poi si fece coraggio e finalmente arrivò al mercato. Dopo aver con trattato ora con l’uno ora con l’altro ed essere riuscito a vendere la farina a un buonissimo prezzo, si affrettò a tornare a casa temendo di incontrare qual che ladro che volesse derubarlo.

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“Oh, no!” esclamò il piccolo Hans. “Non vorrei mai sembrarvi ingrato!”

“Voi siete il mio più caro e buon amico”, rispose il piccolo Hans, “e potete prendere tutti i fiori del mio giardino. La vostra stima mi è ben più cara dei bottoni d’argento, non dubitatene mai”, rispose Hans, affrettandosi a racco gliere tutte le sue belle primule e a riempire il cesto del mugnaio.

“Parola mia, sei davvero un gran pigrone!” disse il mugnaio. “Consideran do che sto per darti la mia carriola, penso proprio che dovresti lavorare di più. La pigrizia è un grave difetto e a me non piace avere amici indolenti e fiacchi. Non devi offenderti se parlo con tanta franchezza, non lo farei se tu non fossi mio amico. Ma che valore avrebbe l’amicizia se non si potesse esprimere sin ceramente il proprio pensiero? Tutti sanno dire cose piacevoli per adulare gli altri e conquistare la loro simpatia, ma un vero amico ha il dovere di dire an che cose sgradevoli, senza temere le conseguenze e sapendo di fare del bene”.

Il povero Hans non ebbe il coraggio di fiatare e l’indomani mattina, all’al ba, il mugnaio gli consegnò il gregge; Hans portò le pecore in montagna e tra andare e tornare trascorse l’intera giornata. Quando finalmente arrivò a ca sa e si sedette su una sedia per riprendere fiato, era talmente stanco che si addormentò lì dov’era e si risvegliò il giorno dopo quando il sole era già alto.

Ma sta di fatto che non riusciva più a curare i suoi fiori come avrebbe vo luto perché il suo caro amico mugnaio gli stava sempre intorno per affidargli lunghe commissioni o per portarlo al mulino e farsi aiutare. Il povero Hans soffriva al pensiero che i suoi fiori si sentissero abbandonati, ma si consolava credendo che il mugnaio fosse suo grande amico e diceva fra sé: “Dopotutto sta per darmi la sua carriola e questo è un gesto di grande generosità”.

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“Non ho dubbi”, rispose il mugnaio, “ma ora che hai accomodato il tetto sarà meglio che tu vada a casa a riposare, perché vorrei che domani portassi le mie pecore a pascolare sulla montagna”.

“Passerò delle ore bellissime nel mio giardino”, esclamò Hans, mettendo si subito al lavoro.

“Ah, sì? Sto per darti la mia carriola, Hans, e non mi sembra di chiedere troppo in cambio! Ma, naturalmente, se ti rifiuti farò da solo”, disse il mugnaio.

“Mi fa piacere”, rispose il mugnaio, mollando una sonora pacca sulla spal la di Hans. “Allora vestiti in fretta perché voglio che tu venga al mulino a ripa rare il tetto del mio granaio”.  Il povero Hans, che non innaffiava i fiori da due giorni e desiderava occu parsi del suo giardino, temeva di opporre un diniego al mugnaio che gli era tanto amico ma, sia pure con un filo di voce, osò dire: “Vi sembrerebbe sgar bato da parte mia se dicessi che ho molto da fare?”.

“Oh, no! Non sia mai!” rispose il piccolo Hans, e in un momento salto giù dal letto, si vestì in fretta e andò al granaio.  Lavorò sodo tutto il giorno, fino al tramonto, fin quando il mugnaio non andò a controllare.

“Mi dispiace tanto”, disse il piccolo Hans, stropicciandosi gli occhi e to gliendosi il berretto da notte, “ma ero così stanco che ho preferito rimanere a letto un po’ di più e ascoltare il canto degli uccelli. Lavoro meglio dopo averli sentiti cinguettare”.

“Non hai ancora finito di tappare quel buco, piccolo Hans?” chiese il mu gnaio con voce allegra.  “È tutto a posto”, rispose Hans scendendo dalla scala.  “Bene!” disse il mugnaio. “Nessun lavoro è più piacevole di quello che si fa per gli altri”.  “Senza dubbio è un grande privilegio sentirvi parlare”, rispose il piccolo Hans, mettendosi a sedere e asciugandosi la fronte, “una vera fortuna. Temo che non riuscirò mai a esprimere pensieri belli come i vostri”. “E invece sì”, rispose il mugnaio, “devi solo rifletterci un po’. Al momento conosci soltanto la pratica dell’amicizia, ma un giorno anche tu ne conosce rai la “Credeteteoria”. davvero che potrei riuscirci?” chiese Hans pieno di speranza.

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“E cosa vuoi, piccolo Hans?”  “Il figlio del mugnaio è caduto da una scala e si è ferito. Il mugnaio vi prega di andare subito da lui”.

“Va bene”, rispose il dottore. Ordinò che gli preparassero il cavallo e la lan terna, si infilò un paio di stivali pesanti, scese di corsa le scale e, montato in sella, si diresse verso la casa del mugnaio, mentre Hans arrancava faticosa mente dietro di lui.

Una notte, mentre era seduto accanto al fuoco, sentì un forte colpo contro la porta. Era una notte terribile, il vento fischiava e soffiava intorno alla casa con una tale violenza da convincere Hans che quel rumore insolito fosse do vuto alla tempesta, ma poco dopo sentì un secondo colpo e poi un terzo an cora più forte.

“Mi dispiace tanto”, rispose il mugnaio, “ma questa lanterna è nuova e sa rebbe un grave danno per me se si rovinasse”.

E così il piccolo Hans lavorava per il mugnaio e il mugnaio non faceva che dire tante belle cose sull’amicizia. Hans le annotava sul suo taccuino e, poi ché era un allievo molto coscienzioso, la sera le rileggeva puntualmente.

“Sarà un povero viandante”, pensò il piccolo Hans. Si affrettò ad aprire e vide il mugnaio con una lanterna in una mano e un grosso bastone nell’altra.

L’indomani mattina alcuni caprai videro il suo corpo galleggiare nella pozza, lo tirarono fuori e lo portarono in paese.

Tutti andarono al funerale del piccolo Hans, che era un ragazzo molto benvoluto, e il mugnaio volle guidare la processione.

La tempesta non accennava a placarsi, anzi infuriava sempre di più. Co me se non bastasse, cominciò a scendere una pioggia torrenziale e Hans, che non riusciva a vedere la strada e tantomeno a stare dietro al cavallo, finì col perdersi. Vagò nella brughiera, luogo molto pericoloso e pieno di fosse, fin ché cadde proprio in una di quelle buche larghe e profonde e annegò.

“Certo”, esclamò il piccolo Hans, “la vostra richiesta mi onora, ma dovrete prestarmi la lanterna perché la notte è così buia che temo di cadere nel fosso”.

“Caro Hans”, disse il mugnaio, “sono molto turbato. Mio figlio è caduto da una scala e si è ferito. Stavo andando dal dottore ma, poiché abita molto lon tano ed è una notte orribile, ho pensato che sarebbe molto meglio se al posto mio andassi a chiamarlo tu. Sai bene che sto per darti la mia carriola e per tanto credo che sarebbe gentile da parte tua fare qualcosa per me”.

“Non vi preoccupate, farò senza”, disse Hans.  Indossò il suo cappotto di pelliccia, mise in testa un pesante berretto ros so, si avvolse una sciarpa intorno al collo e corse fuori.  Infuriava una tempesta spaventosa, la notte era così buia che il piccolo Hans non riusciva a vedere quasi nulla e il vento soffiava così forte che il po veretto stentava a rimanere in piedi, ma si fece coraggio e, dopo aver cammi nato circa tre ore, giunse finalmente alla casa del dottore e bussò alla porta.

“Chi è?” chiese il dottore affacciandosi alla finestra della sua camera da letto. “Sono il piccolo Hans, dottore”.

“Per me è una grave perdita di sicuro!” rispose il mugnaio. “Volevo essere tanto generoso con lui da regalargli la mia carriola e invece ora non so che farne. In casa è d’ingombro, ma è così malridotta che non posso venderla. Certo è che non darò via più niente, perché a essere magnanimi ci si rimette sempre!”»  «E quindi?» chiese il Topo dopo una lunga pausa. «E quindi niente», rispose il Fanello, «la storia finisce qui».  «Che cosa accadde al mugnaio?» chiese ancora il Topo.  «Oh, non lo so!» rispose il Fanello. «E di sicuro non mi interessa saperlo».  «È chiaro che la tua natura arida ti impedisce di provare simpatia per qualcuno», disse il Topo.  «Io credo invece che tu non abbia capito la morale del mio racconto», ri batté il Fanello.  «Cos’è che non avrei capito?» esclamò il Topo. «La «Vorrestimorale».dire che il tuo racconto ha una morale?» «Certamente», rispose il Fanello.  «Allora avresti dovuto dirmelo prima», protestò il Topo in malo modo, «non sarei stato ad ascoltarti, ma avrei detto “Bah!” come il critico». Fece una breve pausa e poi aggiunse: «Ciò non toglie che possa farlo ora», e gridò «Bah!» con quanto fiato aveva in gola, poi sbatté la coda sul terreno come fos se una frusta e si infilò nella sua tana.  «Che ne pensi del Topo?» chiese l’Anatra al Fanello, rientrando dalla sua nuotata. «Ha molte buone qualità, ma io sono madre e non posso vedere uno scapolo incallito senza farmi venire le lacrime agli occhi». «Credo di averlo irritato», rispose il Fanello, «e questo perché gli ho rac contato una storia che contiene una morale».  «Oh, per carità!» esclamò l’Anatra. «Fare della morale è sempre molto pericoloso». Perquanto mi riguarda la penso esattamente come lei.

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“Io ero il suo miglior amico” disse “ed è giusto che abbia il posto migliore”.

Nessuno si oppose e lui camminò alla testa del corteo, avvolto in un lungo mantello nero e con in mano un grande fazzoletto con cui di tanto in tanto si stropicciava gli occhi.

“La morte del piccolo Hans è certamente una dolorosa perdita per tutti”, disse il fabbro, quando al termine del funerale si ritrovò insieme agli altri nel la locanda del paese a bere buon vino e a mangiare golosi dolciumi.

Individua nel testo le sequenze che appartengono alla cornice e quelle che costituiscono il racconto vero e proprio.

2. Elenca i diversi personaggi presenti nel racconto del Fanello e definisci il loro carattere, dopo aver sottolineato nel testo le frasi che meglio lo fanno emergere.

4. Sono molti i passaggi del racconto caratterizzati da una sferzante ironia. Sottolinea le espressioni più esplicitamente umoristiche e rileggile con attenzione per comprendere, insieme al tuo insegnante e ai tuoi compagni, il meccanismo dell’ironia.

6. Dopo aver elencato i fatti essenziali, riassumi la storia che il Fanello narra al Topo e all’Anatra, per mettere in luce le caratteristiche dei suoi diversi personaggi.

3. «Che ne pensi del Topo?». Rispondi tu alla domanda dell’Anatra, riflettendo sul motivo che spinge il Fanello a raccontargli la storia del piccolo Hans.

9. In cosa consiste il valore dell’amicizia? Quali sono le condizioni che la permettono? Cosa da essa ne deriva? Argomenta a proposito, facendo riferimento alla tua esperienza e alle tue letture.

8. «Tutti sanno dire cose piacevoli per adulare gli altri e conquistare la loro simpatia, ma un vero amico ha il dovere di dire anche cose sgradevoli». Sei d’accordo con questa affermazione di Wilde? Per rispondere alla domanda, rifletti sul rapporto di amicizia che ti è più caro.

5. Certo, «fare della morale è sempre molto pericoloso»; ciononostante, consapevole del rischio che stai correndo, prova a immaginare quali diverse morali potrebbero trarre da questo racconto l’Anatra, il Fanello e il Topo.

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7. «Fare della morale è pericoloso». Anche tu, come Oscar Wilde, la pensi così? Dopo aver spiegato la citazione riportata, avendone compreso la paradossale ironia e facendo riferimento al racconto e ai suoi personaggi, esponi il tuo giudizio in proposito.

85 OSCAR WILDE Il Razzo eccezionale

Trascorsi i tre giorni, furono celebrate nozze fastose. Al termine della ceri monia gli sposi passarono, mano nella mano, sotto un baldacchino di velluto color porpora, cosparso di piccole perle bianche, e subito dopo ebbe luogo il banchetto di stato che durò cinque ore. Il Principe e la Principessa sedevano al posto d’onore nel grande salone e bevevano felici da una coppa di limpi dissimo cristallo. Quella era una coppa particolare, una coppa da cui poteva no bere senza timore solo i veri innamorati, poiché se fosse stata portata alle labbra da amanti insinceri avrebbe perso tutto il suo splendore e sarebbe di ventata opaca e cinerea.

Dopo il banchetto era previsto il gran ballo durante il quale gli sposi avreb bero danzato insieme la danza della rosa, accompagnati dal Re che aveva promesso di suonare il flauto. A dire il vero lui era un pessimo musicista, ma nessuno aveva mai osato criticarlo perché era il Re e non importava che conoscesse soltanto due melodie o che non sapesse mai con certezza quale

«È chiaro che si amano! Chiaro come il cristallo della coppa», disse il pic colo paggio e il Re, anche questa volta, gli raddoppiò la paga.

Il figlio del Re stava per convolare a nozze e ovunque si respirava aria di festa. Per un intero anno lui aveva atteso la sua sposa, una Principessa russa che sarebbe giunta dalla Finlandia su una slitta trainata da sei renne e lei, final mente, era arrivata. La slitta aveva la forma di un grande cigno d’oro fra le cui ali, tutta avvolta in un ampio mantello di ermellino, la giovane Principessa se ne stava comodamente distesa. Indossava un cappuccio di tessuto argentato e la carnagione del suo volto appariva bianca come la neve che ricopriva il Palazzo dove era sempre vissuta. Era così pallida da suscitare la meraviglia di tutti coloro che la vedevano passare e che, mentre le lanciavano fiori dai balconi, mormoravano: «Sembra una candida rosa!».  Il Principe, che aveva romantici occhi viola, capelli chiari come l’oro zec chino e che era pronto ad accoglierla davanti all’ingresso del suo castello, non appena le fu di fronte s’inginocchiò e le baciò la mano.  «Il tuo ritratto era bello», mormorò il Principe, «ma tu sei molto più bella del tuo ritratto», e la piccola Principessa arrossì.  «Poco fa era come una rosa bianca», disse un giovane paggio al suo vicino, «ma ora sembra una rosa rossa».

Tutta la corte concordò e nei tre giorni successivi non si sentì dire altro che «rosa bianca, rosa rossa, rosa rossa, rosa bianca» e pertanto il Re ordinò di raddoppiare il salario al paggio. In realtà, poiché il paggio non aveva mai ricevuto alcun salario, quella disposizione non produsse alcun effetto prati co, ma ciò nonostante fu ritenuta un’importante dimostrazione di stima e la notizia venne doverosamente pubblicata sulla «Gazzetta di corte».

«Che grande onore!» esclamarono i cortigiani all’unisono.

«Sono come l’aurora boreale, ma molto più emozionanti», disse il Re, che rispondeva sempre alle domande che venivano poste ad altri. «Io li preferi sco anche alle stelle, perché si sa sempre quando stanno per apparire e so no travolgenti come la musica del mio flauto. Dovete assolutamente vederli».

«Quanto sei ingenuo! Il giardino del Re non è mica il mondo», rispose una grossa Candela Romana. «Il mondo è un luogo immenso e per vederlo tutto impiegheresti almeno tre giorni».

A un tratto, un forte e secco colpo di tosse interruppe la conversazione e tutti si voltarono verso un Razzo, tronfio e tracotante, legato in cima a un lun go bastone. Al fine di attirare l’attenzione, il Razzo tossiva sempre prima di prendere la parola e mentre lui si schiariva la voce con sonori «Ehm! Ehm!» e la povera Ruota di Santa Caterina continuava a scuotere la testa e a borbot tare: «Il romanticismo è morto!», tutti gli altri si prepararono ad ascoltare.

A questo scopo il Re aveva fatto costruire un grande palco in fondo al giar dino e, quando il pirotecnico reale ebbe messo a punto ogni cosa, i fuochi ar tificiali cominciarono a parlare tra loro.

L’ultimo intrattenimento in programma era una sbalorditiva esplosione di fuochi d’artificio che sarebbe iniziata a mezzanotte in punto. La giovane Principessa non aveva mai visto uno spettacolo del genere e quindi il Re ave va ordinato al pirotecnico reale di rimanere in servizio anche il giorno delle nozze.«Come sono i fuochi artificiali?» aveva chiesto la Principessa al Principe, mentre passeggiavano di mattina sulla terrazza.

«Ordine! Ordine!» gridò un Bengala, un mezzo politicante che aveva svolto

delle due stesse suonando, perché qualsiasi cosa facesse tutti esclamavano: «Incantevole! Affascinante!».

«Il mondo è davvero bellissimo», esclamò un piccolo Petardo. «Guarda te quei tulipani gialli. Se fossero vere Castagnole non potrebbero essere più graziose. Sono proprio contento di aver viaggiato. Viaggiare apre la mente e libera da ogni pregiudizio».

«Per ognuno di noi qualsiasi luogo amato rappresenta tutto il mondo», fe ce notare una malinconica Ruota di Santa Caterina, che un tempo era stata legata a una vecchia scatola di legno e ora si faceva forte del suo cuore spez zato. «Ma l’amore non è più di moda. I poeti lo hanno ucciso, ne hanno scritto talmente tanto che nessuno ci crede più e la cosa non mi sorprende perché il vero amore soffre in silenzio. Ricordo che io, una volta… Ma non importa, il romanticismo appartiene al passato».  «Frottole!» rispose la Candela Romana. «Il romanticismo non muore mai, è eterno come la luna. I novelli sposi, ad esempio, si amano l’un l’altro tene ramente. Me lo ha detto, proprio stamattina, una Cartuccia marrone che era stata riposta nel mio stesso cassetto ed era ben informata sulle ultime novi tà della Corte». Ma la Ruota di Santa Caterina scuoteva il capo e continuava a dire: «Il romanticismo è morto, non ho dubbi. Il romanticismo è morto». Lei era uno di quei tipi ostinati che a forza di ripetere le stesse cose un’infinità di volte finiscono col crederle vere.

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Osc AR W IlDE 87 ruoli di un certo rilievo durante le elezioni locali e conosceva le espressioni più usate dai parlamentari.  «Il romanticismo è morto, completamente!» ribadì la Ruota di Santa Cate rina, decidendo di mettersi a dormire.

«Forse per te sarà così, anzi sicuramente per te è così, ma nel mio caso è diverso. Io sono un Razzo assolutamente eccezionale e sono figlio di genito ri eccezionali. Mia madre era la Ruota di Santa Caterina più famosa dei suoi tempi, rinomata per la grazia con cui danzava. Quando fece la sua grande ap parizione in pubblico girò diciannove volte prima di spegnersi e ad ogni giro lanciò in aria sette stelle rosa. Aveva un diametro di un metro e mezzo ed era fatta della migliore polvere da sparo esistente in commercio. Mio padre in vece era un Razzo, come me, ed era di origine francese. Volò così in alto che gli spettatori ebbero paura di non vederlo scendere ma lui, che era d’animo nobile, non li deluse e compì una discesa sorprendente lasciando una scia di pioggia dorata. I giornali parlarono della sua esibizione in termini entusiasti ci e la “Gazzetta di corte” lo definì il trionfo dell’arte pilotecnica».

Il Razzo tossì una terza volta e quando il silenzio fu perfetto cominciò a parlare con accenti calmi e ponderati. Sembrava che stesse dettando le sue memorie e come un abile oratore guardava sempre sopra la spalla della per sona a cui si rivolgeva. Indubbiamente ci sapeva fare.  «È una vera fortuna che il figlio del Re si sposi proprio il giorno in cui io verrò acceso», disse. «Una circostanza fortuita e tanto felice che, neanche vo lendo, si sarebbe potuto fare di meglio. Del resto si sa che i Principi sono sem pre«Strano!»fortunati».disse il piccolo Petardo. «Io credevo che fosse esattamente il contrario e cioè che fossimo noi a essere accesi in onore del Principe».

«Stavi parlando di te», rispose la Candela Romana.  «Sì, infatti! Stavo parlando di un soggetto interessante, ma sono stato in terrotto con grande villania. Io non sopporto la maleducazione e nessun tipo di comportamento rozzo perché sono estremamente sensibile. Nessuno al mondo è sensibile come me e di questo sono assolutamente certo».

«Com’è una persona sensibile?» chiese la Castagnola alla Candela Romana.

«Pirotecnica! Si dice pirotecnica!» esclamò un Bengala Colorato. «Lo so con certezza perché l’ho letto sulla mia scatola».  «E con ciò? Io dico pilotecnica, punto e basta!» rispose il Razzo con voce stentorea. Il Bengala si sentì umiliato ingiustamente e nel tentativo di recu perare prestigio cominciò a tiranneggiare Petardi e Mortaretti.  «Stavo dicendo…» proseguì il Razzo. «Stavo dicendo… che cosa stavo di cendo?»

«È una persona che soffre di calli e pesta sempre i piedi agli altri», rispose con un filo di voce la Candela Romana e la Castagnola fu quasi sul punto di scoppiare dalle risate.  «Posso sapere, di grazia, perché stai ridendo visto e considerato che io non rido?» chiese il Razzo.  «Rido perché sono felice», rispose la Castagnola.

«Ma se nemmeno lo conosci!» borbottò la Candela Romana.

«E perché non dovremmo?» chiese una piccola Palla di Fuoco. «È un even to molto lieto e non vedo l’ora di sollevarmi in aria per raccontare ogni cosa alle stelle. Le vedrete scintillare quando parlerò loro della graziosa sposina».

«Non c’è dubbio!» esclamò il Bengala. «Anzi tu sei la persona più scossa che abbia mai incontrato». «E tu la più rozza! Non sei in grado di capire la mia amicizia per il Principe».

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«Ma non hanno perduto il loro unico figlio», disse la Candela Romana. «Nessuna sciagura si è abbattuta sugli sposi!»

«Che modo banale di interpretare la vita!» disse il Razzo. «Ma, del resto, cos’altro ci si poteva aspettare? Non c’è nulla in te, sei vuota e superficiale! Po trebbe anche succedere che il Principe e la Principessa vadano a vivere in un paese dove c’è un fiume profondo e che mettano al mondo un unico figlio con i capelli biondi e gli occhi violetti come suo padre; che un giorno la bambinaia lo porti a passeggio, ma che si addormenti sotto un grande albero di sambuco e che il bambino cada nel fiume e anneghi. Che terribile disgrazia! Poveri genitori, perdere il loro unico figlio! Sarebbe spaventoso! Non ci posso neanche pensare!»

«Non ho detto che sia già successo», replicò il Razzo, «ho detto che potreb be succedere. Se avessero perduto il loro unico figlio a che servirebbe con tinuare a parlarne? Io odio chi piange sul latte versato, ma se penso che una simile disgrazia potrebbe anche accadere, allora sì che mi sento scosso».

«Non ho mai detto di conoscerlo», rispose il Razzo. «Oltre tutto penso che

«È una giustificazione molto egoista», replicò il Razzo, a dir poco infuriato. «Che diritto hai di essere felice? Dovresti pensare agli altri. Dovresti pensare a me. Sarà che io penso sempre a me stesso e mi illudo che gli altri facciano altrettanto. Ma questo è ciò che si chiama condivisione e la condivisione è un nobile sentimento che io possiedo al massimo livello. Se questa sera mi capi tasse un guaio, ad esempio, sarebbe una calamità per tutti. La festa di nozze sarebbe completamente rovinata e il Principe e la Principessa non potrebbe ro più essere felici. Quanto al Re, sono sicuro che non riuscirebbe a farsene una ragione. Se solo penso all’importanza della mia posizione mi sento dav vero commosso fin quasi alle lacrime».  «Se gli altri ti stanno tanto a cuore, fa’ in modo di conservarti asciutto», disse la Candela Romana. «Certo!» esclamò il Bengala che aveva superato la frustrazione. «Si tratta di comune buon senso».  «Esatto, comune buon senso!» rispose il Razzo, stizzito. «Ma tu dimentichi che io sono assolutamente fuori del comune e assolutamente eccezionale. È fa cile agire secondo il senso comune quando non si ha immaginazione, ma io ho molta fantasia e non penso mai alle cose nella loro realtà. Io penso le cose in modo diverso e per quanto riguarda il mantenersi asciutto è evidente che qui non ci sia nessuno in grado di apprezzare la mia sensibilità ma, grazie al cielo, la cosa non mi tange. Ho sempre creduto che la consapevolezza dell’immensa inferiorità altrui fosse l’unica consolazione della vita e nulla potrà mai farmi cambiare opinione. Vi guardo e penso che nessuno di voi abbia un cuore. Ridete e scherzate come se il Principe e la Principessa non si fossero appena sposati».

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«Pum…! Pum…!» risposero i Mortaretti, divertendosi come pazzi.

«Evviva! Evviva!» gridavano i cortigiani, mentre la Principessa guardava sbalordita e rideva con gran piacere.

Un attimo dopo scoppiò a piangere davvero e ci mancò poco che le la crime, colando sul bastone come pesanti gocce di pioggia, annegassero due piccoli scarafaggi che avevano appena deciso di trovare casa e cercavano un posticino asciutto dove vivere insieme.  «Di sicuro possiede un temperamento romantico, se piange anche quan do non c’è nessun motivo per farlo», disse la Ruota di Santa Caterina, sospi rando e ripensando alla sua amata scatola di legno. Viceversa, la Candela Romana e il Bengala Colorato reagirono con profonda indignazione e comin ciarono a gridare con quanto fiato avevano in corpo: «Fandonie! Fandonie!» Loro erano tipi molto pratici e usavano quest’espressione ogni volta che dis sentivano da qualcosa.

Lo spettacolo fu strepitoso.  «Vzzz…! Vzzz…!» fece la Ruota di Santa Caterina, girando vorticosamente su sé stessa.

«Boom! Boom!» tuonò la Candela Romana, mentre i Petardi squarciavano il buio della notte e i Bengala Colorati spargevano ovunque la loro luce scarlatta.

Proprio in quel momento si vide in cielo una magnifica luna, scintillante come uno scudo d’argento, le stelle cominciarono a brillare e dalla reggia si diffuse una dolce melodia.  Il Principe e la Principessa guidavano le danze con movimenti così aggra ziati che i bianchi gigli del prato allungavano il collo per sbirciare dalla fine stra e i grandi papaveri rossi battevano il tempo scuotendo la testa.  L’orologio scoccò le dieci e poi le undici e all’ultimo rintocco di mezzanot te tutti uscirono sulla terrazza. Il Re mandò a chiamare il pirotecnico reale e gli ordinò di dare inizio ai fuochi d’artificio, il fedele servitore si profuse in un doveroso inchino e si diresse verso il palco insieme a sei collaboratori, ciascuno dei quali teneva in mano una torcia accesa in cima a un lungo palo.

I parenti poveri del Razzo, quelli a cui lui non rivolgeva mai la parola e che guardava sempre con disprezzo, schizzarono in aria come bolidi e si trasfor marono in meravigliosi fiori dorati con il bocciolo rosso fuoco.

Tutti fecero un figurone tranne il Razzo che a forza di piangere si era tal mente inzuppato da non riuscire ad accendersi. Anche la polvere da sparo, che era la parte migliore di lui, era diventata così umida da non servire più a

se lo conoscessi non potrei essergli amico. È molto rischioso conoscere i pro pri «Farestiamici!» meglio a preoccuparti di rimanere asciutto», disse la piccola Palla di Fuoco. «Questa è la cosa più importante!»  «Senza dubbio la più importante per te», ribatté il Super Razzo, «ma se avrò voglia di piangere, piangerò».

«Addio!» disse la piccola Palla di Fuoco, emettendo un fischio assordante e spiccando un incredibile volo accompagnata da una fitta pioggia di scintille azzurre.

nulla ma, nonostante questo, il Razzo mantenne intatta la sua alterigia e dis se fra sé: «Suppongo che mi tengano da parte per qualche occasione speciale, anzi non dubito che sia proprio così».

Il giorno dopo, quando gli operai andarono a smantellare il palco e a siste mare il giardino, il Razzo pensò: “Sono certamente una delegazione, li riceve rò come si conviene”. Sollevò il mento con atteggiamento imperioso e aggrottò le ciglia come se stesse riflettendo su qualche questione di capitale importan za, ma gli operai si accorsero di lui solo quando stavano per andarsene.

In quel momento una piccola Rana, con gli occhi vispi e luminosi come gemme e la pelle di colore verdastro, gli si avvicinò nuotando e disse: «Un nuovo ospite, a quanto vedo! Del resto non c’è niente come il fango, a me ba sta un po’ di pioggia e un semplice fossato per sentirmi completamente feli ce. Pensi che pioverà oggi pomeriggio? Io lo spero tanto, ma il cielo è perfet tamente azzurro e senza nuvole. Che peccato».

«Ecco un razzo estinto», disse uno di loro prima di afferrarlo e lanciarlo nel fosso al di là del muro.

«La nostra conversazione?» chiese retoricamente il Razzo. «Ma se hai par lato solo tu! Io non la chiamerei conversazione».

Il Razzo si preparò a rispondere con il solito: «Ehm! Ehm!».

“Estinto? Come estinto? Non è possibile!” pensò il Razzo mentre roteava in aria. “Sono sicuro che abbia detto razzo distinto! D’altra parte estinto e di stinto suonano praticamente allo stesso modo e spesso parole diverse signi ficano anche la stessa cosa”.

Mentre si arrovellava, il Razzo finì nel fango e disse fra sé: “Non è un luo go molto confortevole, a dir la verità, ma gli stabilimenti termali non lo sono mai. Sicuramente mi hanno mandato qui affinché recuperi la salute. In effet ti ho i nervi scossi e ho bisogno di riposo”.

«Per carità!» esclamò la Rana dandosi delle arie. «Discutere è estrema

«Ehm! Ehm!» ripeté il Razzo che, non riuscendo a dire la sua, appariva for temente stizzito.

«Una voce veramente amabile!» continuò la Rana. «Spero di vedere anche te allo stagno delle anatre, ma ora devo andare a cercare le mie piccoline. Ho sei belle figlie e temo che si imbattano nel Luccio, un terribile mostro che non esiterebbe a cibarsene neanche un attimo. E dunque ti saluto ma, credimi, mi ha fatto davvero piacere la nostra conversazione».

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«Qualcuno deve pur ascoltare!» replicò la Rana. «E a me piace parlare sen za essere interrotta. Si risparmiano tempo e discussioni».

«Hai una bellissima voce», esclamò la Rana, «somiglia molto a un graci dio che, indubbiamente, è il verso più musicale del mondo. Potrai rendertene conto questa sera, durante il nostro concerto. Ci incontriamo al vecchio stagno delle anatre, vicino alla casa del fattore, e al sorgere della luna cominciamo a cantare. È un concerto così bello che tutti restano svegli ad ascoltarci. Giusto ieri ho sentito la moglie del fattore che diceva a sua madre di non aver potuto chiudere occhio a causa nostra. Certamente fa piacere essere così popolari!»

«Ma a me piacciono le discussioni», disse il Razzo.

«Non credo che sia una gran cosa», rispose l’Anatra, «e non vedo che utili tà abbia. Ben diverso sarebbe se tu sapessi arare i campi come il bue o tirare un carro come il cavallo o proteggere le pecore come un cane da pastore».

«Quack… quack… quack», disse, «che strana forma che hai! Posso chie derti se sei nato così o hai avuto qualche brutto incidente?»

«Si capisce subito che sei sempre vissuta in campagna, altrimenti sapresti chi sono io!» rispose il Razzo. «Ad ogni modo, posso perdonare la tua igno ranza. Sarebbe sciocco da parte mia credere che anche altri possano essere eccezionali come me. Di certo non mi crederesti se ti dicessi che posso schiz zare verso il cielo e ridiscendere coronato da una pioggia d’oro».

«Se questo è vero potresti tenere delle conferenze di filosofia», disse la Li bellula, aprendo le sue lunghe ali trasparenti e volando via.

mente volgare, ecco perché nella buona società sono sempre tutti della stes sa opinione. Allora arrivederci, vedo laggiù le mie figliole», disse la Rana al lontanandosi a nuoto.  «Sei davvero indisponente», disse il Razzo, «e molto maleducata. Io odio la gente che parla di sé, come fai tu, quando anche altri vogliono parlare di sé, come nel mio caso. Sei incredibilmente egoista e io, ben noto a tutti per sen sibilità e generosità, considero l’egoismo il più orribile difetto. Faresti bene a seguire il mio esempio, non potresti trovare un modello migliore e ti consi glio di approfittare dell’occasione senza tergiversare perché dovrò rientrare a corte quasi subito. Naturalmente tu non puoi saperlo perché sei solo una provinciale, ma a corte io sono il beniamino di tutti e appena ieri il Principe e la Principessa si sono sposati in mio onore».  «È inutile che sprechi il fiato», disse una Libellula seduta sulla cima di un grosso giunco marrone. «È assolutamente inutile visto che la Rana se n’è andata».«Peggio per lei!» rispose il Razzo. «Io non smetterò di parlarle solo perché non mi presta attenzione. Io amo sentirmi parlare, è uno dei miei più grandi piaceri. Intrattengo spesso lunghe conversazioni con me stesso e sono tal mente abile che a volte non capisco neanche una parola di quello che dico».

Dopo un po’ gli si avvicinò una grossa Anatra bianca che aveva le zampe gialle e palmate e che era considerata una gran bellezza per la sua cammina ta ondeggiante.

«Che sciocca è stata ad andarsene! Dubito che le capiti spesso l’opportu nità di migliorare il suo spirito. Comunque sia non mi interessa, prima o poi un genio come il mio sarà ampiamente riconosciuto», disse il Razzo, sprofon dando sempre di più nel fango.

«Mia buona creatura», disse il Razzo con tono particolarmente altezzoso, «si vede che appartieni alle classi inferiori. Un tipo come me, della mia estra zione sociale intendo dire, non è mai utile. Noi abbiamo qualità che bastano a sé stesse. Io non sono adatto a nessun genere di lavoro e tanto meno ai lavori che tu sembri stimare molto. A dire il vero ho sempre pensato che il duro la voro non sia altro che il rifugio di chi non ha nulla da fare».

«Capisco, ognuno ha i suoi gusti», rispose l’Anatra, che aveva un’indole

Osc AR W IlDE 91

«Torna qui! Torna qui! Ho tante cose da dirti!» gridava il Razzo mentre l’Ana tra, imperterrita, attraversava lo stagno emettendo i suoi quack! quack! quack!

“Meglio così, sono contento che se ne sia andata. Ha una mentalità decisa mente piccolo borghese”, disse il Razzo fra sé mentre sprofondava un po’ di più nel fango e rifletteva sulla solitudine del genio.  A un tratto vide due ragazzini che correvano sul margine del fosso, indos sando un camiciotto bianco e tenendo in mano una pentola di rame e delle fascine.“Mihanno inviato una delegazione, non c’è dubbio”, pensò il Razzo, sfor zandosi di assumere un atteggiamento dignitoso.

«Fantastico!» esclamò il Razzo in preda all’euforia. «Hanno deciso di ac cendermi in pieno giorno così che tutti possano vedermi».

«C’è stato un tempo in cui pensavo di dedicarmi alla politica», disse l’Ana tra, «perché sono tante le cose che dovrebbero cambiare. A dir la verità ho an che partecipato a un’assemblea nel corso della quale abbiamo votato tutti per la condanna di ciò che non ci piaceva, ma a livello pratico i risultati sono stati deludenti. Ora preferisco fare la casalinga e aver cura della mia famiglia».

«Facciamo un sonnellino intanto», dissero i ragazzi. «Quando ci svegliere mo la pentola finalmente bollirà». Si distesero sull’erba e si addormentarono.

«Io invece sono nato per la mondanità», rispose il Razzo, «come tutti i miei parenti del resto, inclusi i più umili. Ogni volta che ci presentiamo in pubbli co suscitiamo sempre grande attenzione. Io non ho ancora fatto la mia com parsa, ma quando succederà darò un magnifico spettacolo. Quanto alla  vita domestica, io credo che faccia invecchiare troppo presto e che impedisca alla mente di raggiungere traguardi più elevati».

«Ehi, guarda! Un legno palustre, ora lo prendo», gridò uno dei due ragazzi, tirando fuori il Razzo dalla melma.

«Beh, certo! Coltivare le qualità spirituali è il meglio della vita e questo mi fa venire in mente che ho una gran fame», disse l’Anatra e si allontanò, ri prendendo a starnazzare.

paciosa e non discuteva mai con nessuno. «In ogni caso spero che tu stia pen sando di stabilirti qui».  «No, mia cara, assolutamente no!» esclamò il Razzo, dando enfasi al tono della voce. «Sono qui giusto come visitatore… un visitatore d’eccezione, si ca pisce. Il fatto è che trovo questo luogo assai noioso, non c’è né mondanità né solitudine e di fatti è un luogo decisamente suburbano. Molto probabilmente tornerò a corte, perché sono destinato a fare sensazione nel mondo».

“Come legno palustre?” pensò il Razzo. “Non è possibile! Ha detto sicura mente legno illustre. Ha creduto che io fossi un dignitario di corte e ha voluto farmi un complimento”.  «Usiamolo per il fuoco», suggerì l’altro ragazzo, «l’acqua della pentola bol lirà meglio».  E così i due ammucchiarono le fascine, vi appoggiarono sopra il Razzo e accesero il fuoco.

R AccONTI92

Il Razzo era molto bagnato e passò un bel po’ di tempo prima che si accen

2. Rileggi la prima parte del racconto e individua i passaggi più umoristici; confrontandoti con i compagni e con il docente, svela il motivo e la dinamica dell’ironia.

4. Rileggi la parte conclusiva del racconto e individua i passaggi in cui il Razzo non comprende, o finge di non comprendere, ciò che gli sta capitando.

7. Quali difetti o virtù incarna il Razzo eccezionale? Scegli un sostantivo che riassuma la sua indole e, facendo riferimento al racconto, esponi gli attributi, le manifestazioni, le cause o le conseguenze di tale inclinazione.

Osc AR W IlDE 93 desse, ma quando il fuoco lo avvolse lui, prontissimo e impettito, pensò: “Ora parto! Andrò più in alto delle stelle, più in alto della luna e più in alto del sole. Andrò così in alto che…” Ci volle un bel po’ di tempo prima che si accendesse, ma infine prese fuoco.  «Adesso parto!» gridò, irrigidito e teso. «So che andrò più in alto delle stel le, più in alto della luna e del sole. Andrò così in alto che…» Non riuscì a ter minare la frase perché emise un sibilo e si ritrovò a volare.  «Fzz!… Fzz!… Fzz!… Che meraviglia! Continuo a salire… a salire! Che spet tacolo sto offrendo al mondo!» disse. In realtà non c’era nessuno a guardarlo.  A un tratto avvertì una strana sensazione, una specie di formicolio lungo tutto il corpo e pensò: “Sto per esplodere. Spargerò fuoco sul mondo intero e farò un tale rumore che per un anno non si parlerà d’altro». Ed esplose vera mente, di questo bisogna dargliene atto.  «Bang! Bang! Bang!» fece la polvere da sparo ma nessuno se ne accorse, neanche i due ragazzini che dormivano saporitamente.  Alla fine, tutto ciò che rimase del nostro Razzo eccezionale fu soltanto il legno che lo sorreggeva e che cadde sulla schiena di un’Oca intenta a passeg giare sul bordo dello stagno.  «Santo Cielo! Piovono bastoni!» esclamò l’Oca spaventata, tuffandosi nel l’acqua con un gran salto.  «Sapevo che avrei suscitato un’impressione eccezionale!» sibilò il Razzo… e poi si spense.

5. Scrivi un breve riassunto del racconto, mettendo in luce la sua struttura e la personalità dei suoi protagonisti.

6. Inventa un dialogo tra il Principe e la Principessa che concluda il racconto ed espliciti, anche dietro il velo dell’ironia, il significato del racconto.

1. Individua le tre sequenze in cui può essere diviso il racconto.

3. Rileggi la parte centrale del racconto e crea uno schema che raccolga i nomi dei diversi fuochi d’artificio e il loro temperamento.

R AccONTI94

Racconti1/2 brevi

Gli scrittori non hanno bisogno di ricorrere a trucchetti e trovatine né sta scritto che essi debbano sempre essere i più in gamba di tutti. A costo di sembrare sciocco, uno scrittore a volte deve essere capace di rimanere a bocca aperta davanti a qualcosa, qualsiasi cosa –un tramonto o una scarpa vecchia – colpito da uno stupore semplicemente assoluto. Raymond Carver a cura di Benedetto Grava, Gabriele Grava, Giacomo Gregori

Il ladro Luca senza bisogno d’orologio misurava il tempo a perfezione. Quando i cinque minuti furono passati, Luca staccò il braccio dalla parete, tentò5 le cinghie della sacca, poggiò una mano a terra per darsi la spinta a mettersi in piedi. Ma girando frattanto lo sguardo verso la cresta del tetto, agghiacciò6.Dadietro quel vertice era spuntata una testa grossa e nera, due occhi lu cidi traverso l’ombra lo saettarono, poi di colpo un uomo fu in piedi a sommo del tetto col braccio teso e la rivoltella puntata verso Luca, e nel silenzio sonò il suo comando: «Mani in alto!». Il ladro Luca alzò tremando le braccia. «E fer mo!» aggiunse colui. Senza gridare, le sue parole ferivano l’aria e arrivavano taglienti all’orecchio di Luca che sentiva il cuore battere in petto come se si spezzasse: avrebbe voluto abbassare una mano per tenerselo fermo. Aveva riconosciuto l’uomo, era uno dei poliziotti più abili e implacabili della città.

1 abbaino: sottotetto. 2 s’accomodò: si mise comodo a sedere.

3 cresta: culmine, limite superiore.

4 trine: pizzi, tessuti leggeri molto lavorati a scopo ornamentale. 5 tentò: provò la tenuta di. 6 agghiacciò: si sentì gelare il sangue per lo spavento.

R AccONTI96 MASSIMO BONTEMPELLI Il ladro Luca

Al ladro Luca, nella notte annuvolata, bastò la luce d’un quarto di luna e di poche stelle per scendere in una casa dall’abbaino1 e farvi un bottino di prim’ordine. Ora ne riusciva con piena la sacca e l’animo contento. Alzò gli occhi un attimo al cielo che si stava sgombrando, poi guardò il tetto lenta mente in giro. Tutto il mondo era in silenzio e vuoto, non c’era nel mondo altro che lui Luca su quel tetto vicino al cielo. Sentiva stanche le reni e il cuore in pace. Non c’è più da aver paura di niente. Fermata bene la sacca alle spalle, s’accomodò2 a sedere sopra le tego le, e appoggiato un braccio alla parete dell’abbaino si concesse cinque minuti di riposo.Nessuno dei suoi compagni ha mai fatto un bottino tanto importante. L’abbaino sorgeva al mezzo del vasto pendio di tegole che sale dall’orlo del tetto alla cresta3. Luca dall’abbaino volgendosi verso l’alto vedeva quella linea lunga del vertice tagliare il cielo; guardando avanti – intorno a sé, l’immensa distesa del pendio fino all’altro lato del palazzo, rotta solo da un comignolo, in basso quasi addosso al cornicione. La vista delle tegole lo riposava. Lui sa camminare sui tetti come un gatto. Pregustava la maraviglia dei suoi compagni (trine4, seta, argenti) e forse un elogio del Capo.

In quei dieci secondi passò per la fantasia di Luca una ventata rapida di immagini: il contatto con le mani orride dello sbirro, il bottino nella sacca, le manette, poi lo sapranno i compagni e il Capo: tutte mescolate e scompigliate nel soffio della paura. Lo sbirro s’ergeva1 verso la parte estrema della cresta del tetto. Ora avanzò di qualche passo; tramezzo alla2 paura il ladro Luca ebbe modo d’accorgersi che il piede dell’altro non padroneggiava a fondo la tegola3. For se per questo l’altro ora stava fermo; s’era piantato sui due piedi, con le corte gambe un po’ aperte. E parlò a Luca, sempre con quella rivoltella spianata: «Attenzione a quello che dico: alzati, vieni qua, mani in alto; al primo moto che fai per abbassarle o per cambiare direzione, sparo. Forza, don Luca!».

Si guardarono per forse dieci secondi. Lo sbirro fissava Luca negli occhi, Luca guardava l’altro alle ginocchia, e le braccia ogni tanto stavano per rica dergli giù ma lui con uno sforzo le rimetteva subito in alto.

3 non padroneggiava a fondo la tegola: non si sentiva pienamente sicuro e in equilibrio, padrone di sé, sulle tegole del tetto.

2 tramezzo alla: in mezzo alla.

Il cuore di Luca balzò di sorpresa e di gioia, perché lo sbirro per un pic colo moto inconsulto6 del piede aveva barcollato un attimo ed era precipita to scivolando sulle tegole. Subito Luca vide il grosso corpo rotolare giù per la china7 del tetto, egli allora si mise a correre su verso la cima. L’altro s’era smarrito, s’afferrò con la sinistra a una tegola ma questa si staccò di netto e lui mandò un gemito sentendosi straziare le unghie alla radice, tentò invano

Mentre quello parlava il ladro Luca aveva infatti rapidamente esamina to la possibilità di buttarsi a destra verso il cornicione, ma il colpo dell’arma lo avrebbe raggiunto. Scomparire nell’abbaino era mettersi in trappola. Non poteva che ubbidire. Riuscì a levarsi in piedi senza servirsi delle braccia. Poi, ma lentamente (per non rivelare all’altro la propria agilità, per allontanare al possibile il mo mento in cui si sarebbe sentito addosso quelle mani, per un istinto professio nale di finzione), passo passo cominciò a salire obliquamente il tetto in dire zione di quella rivoltella. Le mani gli tremavano. «Più svelto» disse lo sbirro con un sogghigno «pesa tanto quella sacca? più svelto». Il ladro Luca voleva rispondere ma non poté che mandar fuori qualche sillaba fioca4: si rese con to che non aveva ancora detto una parola. Fece qualche altro passo incespi cando ad arte nelle commessure delle tegole5 «Avanti, don Luca, hai lavorato bene, è giusto che ti porti a dormire. Altri menti… Cristo!»

1 s’ergeva: si stagliava, s’innalzava.

MA ssIMO BONTEMPEll I 97

5 commessure delle tegole: punto di unione delle tegole. Per la loro forma a ꓵ, la zona di congiunzione è quella in cui l’equilibrio è più difficile.

6 inconsulto: imprudente o involontario.

7 china: superficie inclinata, pendio.

4 fioca: debole, senza forza.

2 allucinato: come abbagliato e accecato da una luce improvvisa.

1 folgorante: improvvisa come una folgore, un lampo.

3 s’avvide: si accorse.

R AccONTI98 afferrarsi con l’altra che lasciò andare la rivoltella, rotolò ancora, batté la te sta contro il comignolo ma non si fermò; e il ladro Luca raggiunta la cima si voltò e vide lo sbirro arrivare all’orlo della discesa e il suo corpo scomparire nelL’investìvuoto. e lo invase una folgorante1 felicità. Fissò allucinato2 il punto lag giù dove il corpo del nemico era scomparso. E così guardando, s’avvide3 che non era scomparso tutto: le due mani del lo sbirro eran rimaste afferrate all’orlo del cornicione e furiosamente si sfor zavano di tenervisi strette. Luca sedette sulla cima del tetto a fissare quelle due mani grosse, sempre più nere e convulse. Aspettava, prima d’andarsene, di vederle scomparire. Quella sua felicità che per un minuto aveva forse raggiunto il delirio, s’era calmata. Ora il ladro Luca era sicuro e tranquillo, stava seduto col busto e il capo un poco protesi in avanti, come si sta a teatro nei momenti più ansiosi del dramma. E si figurava4 il corpo pendente là sotto, il corpo del nemico che tra poco precipiterà giù a sfracellarsi sul lastrico. Tese l’orecchio per essere pronto a sentire il tonfo. Una di quelle due mani non resse più allo sforzo e si staccò dal cornicione, subito tutta la forza e lo spasimo5 dell’uomo si raccolsero per un momento nell’altra, poi la prima tornò ad afferrarsi e l’altra si staccò e s’agitava nell’aria.

5 spasimo: angoscia e tensione. Dal greco antico σπάω ‘tirare, lacerare’.

D’improvviso qualche cosa d’ignoto brillò nell’animo del ladro Luca, ed era assai diverso dal delirio di quella prima felicità. Chiuse e strinse gli occhi e su bito li riaperse: di laggiù sentì un rantolo, e pareva venisse da quelle mani. Il ladro Luca non capiva più niente, ma senza capire, di colpo s’alzò, in un lampo sfilò dalle spalle la sacca e la posò sulle tegole; un’altra volta chiuse e riaperse per un attimo gli occhi, si passò una mano sulla fronte, e senza sapere perché, senza sentire quello che stava facendo, corse giù, diritto, fin là; arrivato là si gettò ventre a terra, s’apprese con una delle sue mani di ferro allo spigolo del comignolo, si tese in avanti, porse l’altra gridando: «attàccati!» e abbrancò6 la mano alzata dell’uomo che si dibatteva. La sentì stringere, la tirò a sé con tutta la forza, come un pescatore tira la rete pesante: vide venir su la testa e le spal le, tirò ancora; l’uomo aiutava il suo sforzo, arrivò tutto. Luca gli dette un ulti mo strattone, poi aiutò l’uomo a porsi a sedere sull’angolo del tetto. Seguì un silenzio e la notte respirava intorno a loro. Lo sbirro fissava in giù verso l’abisso ma certo non vedeva niente, il ladro Luca gli guardava la schie na ma non sapeva di guardarla. E aveva voglia d’andarsene ormai, ma non si moveva, come se aspettasse qualche cosa, e non sapeva che cosa né perché.

4 si figurava: si immaginava.

6 abbrancò: afferrò in fretta e con forza.

MA ssIMO BONTEMPEll I 99

Finalmente lo sbirro senza voltare la testa verso il compagno mormorò qualche parola. Luca non capì e domandò: «Come?». L’altro ripeté, sempre a capo chino: «Fa freddo». Luca si sentiva a disagio. L’altro si prese la testa tra le mani e cominciò a singhiozzare piano. Il ladro Luca si cercò in tasca un fiammifero e una sigaretta, la accese e la porse: «Prendi». Lo sbirro si voltò, e Luca vide che aveva il volto rigato di lagrime. Ripeté: «Prendi» e chinandosi gli pose la sigaretta tra le labbra. La sigaretta tra le labbra dello sbirro tremava. Dopo un poco lo sbirro balbettò: «Grazie»; la sigaretta gli cadde di bocca, sull’orlo del cornicione. Il ladro Luca fu lesto1 a raccoglierla, scrollò le spalle, finì lui di fumarla. Fatto questo, come l’altro s’era di nuovo girato in là con la faccia tra le mani, Luca s’alzò in piedi, si voltò senza più guardarlo risalì, in cima, dove aveva lasciato la sacca. Se la accomodò sulle spalle, scese piano l’altro versante avviandosi verso un doc cione2 dell’acqua per cui scivolando si scende a terra. La luna era scomparsa e non c’era più una nuvola in cielo. Il ladro Luca pensò con orgoglio alla ma raviglia dei compagni, all’elogio che forse il Capo gli farà per il bottino. Prima di lasciare il tetto e abbracciarsi al doccione, guardò una volta ancora il cielo. Aveva cento volte lavorato di notte ma non s’era mai accorto che ci fossero tante stelle. 1 lesto: rapido. 2 doccione: tubo che porta l’acqua raccolta dalla grondaia fino a terra.

i fatti essenziali del racconto.

R AccONTI1.100Elenca

2. Ora rileggi con attenzione la prima parte del racconto. Come cambiano i pensieri del ladro Luca all’arrivo del poliziotto? Sottolinea le espressioni che fanno emergere questo cambiamento.

4. Nel testo l’azione del salvataggio da parte del ladro Luca viene paragonata a quella di un pescatore che «tira la rete pesante». Cosa comunica al lettore questa immagine?

7. Descrivendo il salvataggio, il poliziotto non è più descritto in alcuni suoi dettagli (la testa, le mani, la pistola) né secondo la sua professione, ma viene chiamato semplicemente «uomo». Riassumi il racconto per mettere in luce il cambiamento del ladro.

3. Le mani del poliziotto, nel momento in cui è a penzoloni dal tetto, sono «sempre più nere e convulse». Cosa sta succedendo nel racconto? Perché viene usata quest’espressione?

9. «Questo racconto parla di…». Scegli una parola astratta che riassuma l’intero racconto e spiega i motivi della tua scelta facendo precisi riferimenti al testo.

8. Immagina di essere il ladro Luca e di raccontare l’episodio ai compagni e al Capo. Nel tuo racconto metti in luce i tuoi pensieri in merito al salvataggio.

5. Quando il poliziotto scivola, il ladro Luca si trova invaso da sentimenti nuovi e, in parte, contrastanti. Sottolinea nel testo tutti i passaggi in cui viene descritto lo stato d’animo del protagonista e ripercorri i momenti e i motivi del suo cambiamento in concomitanza dei diversi colpi di scena.

6. Nel finale vengono ripetute alcune parole e alcune espressioni già incontrate nelle prime righe del racconto. Cosa cambia rispetto all’inizio? Cosa, invece, rimane invariato? Dopo esserti confrontato con il resto della classe, formula un’ipotesi sul significato del racconto.

101 CESARE ZAVATTINI

Ero arrivato a Vienna il giorno prima. Alla sera dovevo recarmi allo  Chat rouge dove ero stato assunto in qualità di cameriere. Avevo abbandonato un eccellente posto a Parigi, al Café de la Coupole, per la mia smania di viaggiare, di veder nuova gente, nuovi cieli. La conoscenza perfetta di quattro lingue, la figura distinta e le commendatizie1 di sir Batman, consigliere delegato della Società Internazionale dei Grandi Alberghi, mi aprivano tutte le porte: per ciò mi era stato facile collocarmi allo  Chat rouge che era il  tabarin2 più lussuoso della capitale Passeggiavoaustriaca.perlestrade, ammirando l’architettura armoniosa dei palaz zi e quella gaiezza del traffico che è una caratteristica dell’allegra metropoli. Era il capodanno e sui volti delle persone, nelle vetrine splendidamente or nate, e perfino nell’aria, c’era il segno della leggiadra solennità. Anch’io par tecipavo a quella mattutina letizia, il mio passo era leggero, molti felici pro positi mi riempivano l’animo, guardavo le donne con una curiosità piccante e vogliosa

1 commendatizie: le lettere commendatizie contengono le referenze dei precedenti datori di lavoro, cioè testimoniano la preparazione professionale e l’onestà del lavoratore, in vista di nuove assunzioni.

Attraversaid’avventura.unapiazzetta quasi deserta. Due ragazzi, uno mingherlino e alto, l’altro tozzo, stavano accapigliandosi. Svagato come ero, bastava un nul la a distrarmi: infatti mi trovai lì fermo a guardare la scena. A un tratto notai che il ragazzo tozzo, mentre con una mano teneva per il petto l’avversario, con l’altra mano cercava di aprire un temperino. Mi precipitai istintivamen te sui due contendenti; nello stesso momento una donna, una signora, anzi, spinta dal mio stesso impulso, si era avvicinata ai due ragazzi. In un momen to quelli si riappacificarono, scoppiarono in una risata e si allontanarono di corsa. Restammo di fronte la signora e io. Ella sorrise, io dissi: «Piccole ca naglie…». Poi avrei aggiunto qualche altra parola se non fossi rimasto vera mente incantato davanti a due occhi neri e vellutati, che erano gli occhi del la sconosciuta. Come per una misteriosa intesa, senza far motto, insieme ci avviammo. Dapprima entrambi scambiammo le solite frasi innocue, poi le nostre parole si fecero più sorvegliate e già in taluna si sentiva l’eco di una viva simpatia. Il suo corpo era snello, fine il vestito, sciolto e appropriato l’eloquio3. Pote va avere venticinque anni, trent’anni; la sua bellezza era riposata, serena, e si capiva che le ansie della giovinezza già in lei si placavano in un consapevole senso della vita. Mi chiese cosa facessi a Vienna. Immaginate il mio imbaraz

2 tabarin: sala da ballo, locale notturno.

3 eloquio: linguaggio, modo di parlare.

Avventura di Capodanno

R AccONTI102 zo: le dissi che viaggiavo per diporto1 e che nella metropoli mi sarei trattenu to forse un mese, ma che da qualche minuto credevo che il mio soggiorno a Vienna avrebbe potuto subire notevoli proroghe. Le offrii un garofano scar latto che comprai da una fioraia, all’angolo di una strada; e al gambo era lega to un grazioso nastrino di seta sul quale era scritto in azzurro: «Buon Anno».

«Arrivederci domani, Hans…» «Arrivederci domani, Mary…» La vidi sparire tra la folla, e il mio cuore era già felice per la gioia del gior no dopo. Ma un’ombra di tristezza mi oppresse per un poco: come avrei fatto a dirle che io ero un cameriere? Sì, un cameriere di prima classe, poliglot ta3 ecc., ma un cameriere; qualche cosa, insomma, per i più, di assolutamen te inferiore. Quando entrai allo  Chat rouge pensavo: “Dimenticherò, dimenti cherò… È stato un sogno, un’avventura di capodanno…”. Ma mentre stappavo le bottiglie di champagne vedevo riflettersi nei sec chielli d’argento il volto di Mary. E i languidi valzer dell’orchestrina nascosta dietro un gioco di veli esasperavano il recente ricordo. Intorno a me uomini e donne si abbandonavano alla più straordinaria allegrezza. Sguardi, carezze, parole piccanti, filtravano attraverso quell’atmosfera greve e fumosa come stelle da un cielo nebbioso. Pareva che tutti si volessero bene. Una coppia di giovani, lui biondo e soddisfatto, lei bruna e maliziosa, seduti al loro tavolo sul quale spiccava una bottiglia di Grand Marnier erano sorridenti come bam bini. Ogni tanto scoppiavano in una sonora risata: e perfino la bottiglia pare va partecipare del loro stato d’animo ondeggiando sul tavolo quasi per magia: ma a tutto ciò non doveva essere estraneo un complicato movimento di piedi sotto il tavolo. Io guardavo, guardavo, e sempre più mi sentivo solo, improv visamente infelice, ostile al mondo. Sì, la vita è bella, il mondo è vario, ma 1 diporto: svago, divertimento. Dalla stessa radice deriva la parola ‘sport’. 2 separé: salottino appartato. 3 poliglotta: che parla molte lingue.

Il pomeriggio l’avevamo trascorso in un cinematografo della periferia, quasi vuoto: seduti vicinissimi, ogni tanto osavo accarezzarle una mano, ma avevo tutta la timidezza dell’uomo innamorato. Quando reclinavo un poco il mio capo verso di lei, in uno struggente desiderio di baci, ella si turbava tutta, mi pareva di sentirla tremare e la sua manina stringeva la mia con violenta dolcezza. Trascorsi i primi istanti nei quali furono più le parole che i silenzi, per il resto della giornata eravamo restati quasi sempre taciti, quasi ad ascol tare il nascere e poi il crescere in noi di un vero affetto.

Ella mi raccontò un po’ della sua vita, e così seppi che era sola, che era ricca, e a Vienna c’era ormai da un anno e contava di restarci perché il cli ma le confaceva assai. Pranzammo da  Caloshenthal, in un  séparé2; oserei di re che ci amavamo già, ma la mia compagna era di quelle rare donne che in un  séparé vogliono essere trattate come davanti al pubblico. Ciò mi fece pia cere, in fondo, e quando ci separammo, verso il tramonto, l’amore divampava già nel mio petto.

cEsARE Z AvATTINI 103 senza l’amore ogni cosa sfuma nel nulla, tutto diventa ragione di tormento. Un signore, sui calzoni del quale avevo, per colpa del mio vaneggiare, versato alcune gocce di champagne, mi redarguì bruscamente. Io stavo per scusarmi quando, come sorta dal sogno, vidi a pochi passi da me, vicino alla scala che portava all’entrata, Mary, lei, viva e bellissima. Che cosa passasse nel mio cer vello durante lo spazio di due o tre secondi sarebbe molto difficile dire: cer to che piuttosto di farmi scorgere da Mary nelle mie vere funzioni avrei dato fuoco allo Chat rouge, avrei ucciso il proprietario, mi sarei ucciso io stesso. Ero proprio nel pieno della mia tempesta intima quando gli occhi di Mary cadde ro su di me: diventai pallido, terribilmente pallido, ma anch’essa non seppe nascondere un profondo turbamento. Per chi sa quale ispirazione, e prima che ella facesse in tempo a formulare una qualsiasi ipotesi, mi avvicinai a lei e con la voce un po’ affannata le dissi: «Che piacere, Mary, sedete… Sono ve nuto qui a passare un’ora». E ci sedemmo a un tavolino, sotto a un abat-jour di seta. Mary disse: «Anch’io sono venuta qui, così, a passare un’ora…». Vi furo no alcuni minuti di penoso silenzio. Ora non più i pensieri di prima, ma altri non meno atroci mi laceravano. Che cosa era venuta a fare Mary allo Chat rou ge? A quell’ora? Mezzanotte era suonata da un pezzo, e una donna sola, bella, non va in un  tabarin con dei propositi innocenti. Dunque, dunque… E più la guardavo e più mi pareva bella, più sentivo di amarla. A un tratto ritornai in me stesso: vidi un vecchio signore con una piccola  cocotte1 sedersi a uno dei tavoli che entravano, per così dire, nella mia giurisdizione. Il vecchio signore si guardava a destra e a sinistra, evidentemente in cerca di un cameriere. Bi sognava evitare che egli chiamasse, o che si lagnasse, insomma che attiras se l’attenzione del mio direttore. Per fortuna la sala era stipatissima, i balli si susseguivano ai balli, il lancio dei coriandoli e delle stelle filanti era al diapa son2, sicché in tal festosa baraonda mi era stato possibile occultarmi un poco. Ma ora il pericolo era imminente. Dissi: «Permettete, Mary, vado a salutare lord Bemson…». Andai dritto al tavolo del vecchio signore, feci un inchino, presi l’ordine, lo passai al cameriere in seconda e in un baleno ritornai da Mary. Stemmo ancora un poco l’uno di fronte all’altra senza dir parola. L’imba razzo di Mary, il suo pallore, aumentavano incredibilmente i miei sospetti. In quale avventuriera mi ero imbattuto? Forse, da un momento all’altro doveva capitare il suo compagno o qualche cliente… Sì, qualche cliente…

Ella disse con un filo di voce: Non«Ballate?».socome, ci trovammo confusi tra la folla dei ballerini, soffocati dalle note eccitanti di un tango. Sentivo il suo corpo sottile e ben fatto, il profumo dei suoi capelli, vedevo il brillare dei suoi denti. A uno a uno i cattivi pensie ri sparirono e rimase soltanto la realtà, Mary fra le mie braccia, Mary che mi 1 cocotte: donna di facili costumi, prostituta. In francese il termine, di origine onomatopeica, indica anche la gallina. 2 al diapason: al culmine, al massimo grado.

R AccONTI104 stringeva la mano con amorosa insistenza… Che importava la verità? Sentivo che in quel momento essa era mia, che mi amava, che per qualunque ragione fosse stato, anche il suo turbamento era un segno d’amore. Navigavo su una vela d’oro tra le nubi, quando una mano pesante mi batté su una «Hans,spalla:siete matto? Nel nostro locale questo non si usa… Andate a servire i clienti…».Escorsi il viso serio ed energico del mio direttore. Non avevo ancora ripre so i sensi, posso proprio dire così, che la voce severa del direttore continuò: «E voi, Mary, come mai simile licenza? Presto, tornate al vostro posto. Sia la prima e l’ultima volta che lasciate il guardaroba senza sorveglianza…». Alle cinque del mattino, spente tutte le luci, mentre il facchino comincia va la pulizia dei pavimenti, uscii dallo  Chat rouge. Nevicava. Sul marciapiedi c’era un’ombra immobile. La«Hans».«Mary».presi sottobraccio e, senza dir parola, insieme ci avviammo, colmi di una infinita letizia.

cEsARE Z AvATTINI 105

2. Rileggi con attenzione: «A uno a uno i cattivi pensieri sparirono e rimase soltanto la realtà, Mary fra le mie braccia, Mary che mi stringeva la mano con amorosa insistenza… Che importava la verità? Sentivo che in quel momento essa era mia, che mi amava, che per qualunque ragione fosse stato, anche il suo turbamento era un segno d’amore». Poi, rifletti: come queste righe illuminano il significato di tutto il racconto?

7. A volte la verità fa paura e si preferisce non conoscerla o nasconderla. Racconta di quella volta in cui, invece, hai trovato il coraggio di affrontarla, illustrando ciò che ti ha permesso di confrontarti con una situazione difficile e quali conseguenze ne sono derivate.

4. Che cosa accade al protagonista nel finale del racconto? Chi è l’«ombra immobile»? Perché, secondo te, i due personaggi si allontanano «senza dir parola»?

6. •   Riassumi il racconto in un testo mettendo in luce ciò che conduce il protagonista alla svolta finale. • Riassumi in un enunciato gli eventi del racconto. • Riassumi in un enunciato il significato del racconto.

3. Qual è la reazione di Mary quando vede Hans all’interno dello Chat rouge? Perché? Che cosa si scopre di lei nel finale del racconto? Da quale frase del testo lo capisci?

1. Che cosa spinge Hans a non farsi conoscere per quello che è veramente? Spiega l’anomalia nel comportamento del protagonista.

5. Nel racconto è importante non solo ciò che avviene ai personaggi, ma anche ciò che accade nel loro animo. Rileggendo il testo, sottolinea le espressioni e i passaggi che mostrano l’evolversi dei sentimenti del protagonista. Poi, elenca le azioni di Hans per mettere in luce le sue aspettative, i suoi dubbi, i suoi desideri, i suoi timori.

Era arrivato ad Assuan risalendo il Nilo da Luxor su una nave per fortuna non troppo affollata di turisti. Dell’Egitto non il Cairo, non il famoso museo con la tomba di Tutankamon, non i templi, e nemmeno le Piramidi o l’in decifrabile volto sfigurato della Sfinge gli sarebbero rimasti nella memoria, ma la navigazione sul Nilo, e quel ciuchino davanti al tempio di Karnak. La nave andava, lui se ne stava sul ponte superiore nella sua sdraio e guarda va, e non si stancava mai di guardare, mentre nel limpido giorno tutto len tamente, monotonamente, con la malìa1 di una nenia araba gli scorreva sot to gli occhi, e sembrava un sogno. Sì, certo, stava sognando. Lì, sulle rive verdi, d’un verde smeraldino, si svolgeva un’altra vita, una vita agreste di uomini e bestie ignari del tempo da lui conosciuto, immersi nell’oblio del la storia, pagliuzze nella corrente dell’esistenza. E guardando il lavoro dei campi, gli uomini nelle loro lunghe  galahie2 , gli asini, le mucche, le capre, l’aratro, gli sembrava di vedere la vita che si svolgeva su quelle stesse rive nel tempo remoto in cui la terra, gli uomini e gli animali erano più vicini al dio della Genesi. Foreste di palme, cammelli in fila, viandanti solitari, fi gure stagliate nitidamente contro il cielo. Mentre la nave lentamente proce deva, sembrava anche a lui che il suo non fosse un viaggio qualsiasi ma il traghetto sulla Nave Sacra in un aldilà, nel Regno Sconosciuto, tanto che a volte si chiedeva: E se fosse veramente così? Se stessi veramente entrando in quell’altro mondo? Quando erano scesi dalla nave per visitare il tempio di Karnak il suo sguardo s’era per caso fermato su un ciuchino bigio, col pelo sbiadito come la polvere delle strade che aveva percorse. Era piccolo e mingherlino, con le ossa sporgenti, e stava lì nello spiazzo davanti al tempio invaso dai turi sti, legato con una corda molto corta a una staccionata. Come era pazien te, umile, mite, quell’animale! Che tristezza infinita gli parve di scorgere nell’occhio lungo e dolcissimo fisso a terra come quello di un penitente. Pa ziente, aspettava. Cosa aspettava? Aspettava le urla furibonde del padro ne, un peso sproporzionato da portare sui sottili garretti per le intermina bili petraie egiziane, un omaccione più grande di lui stravaccato in groppa. E aspettava le percosse. Col pugno, sul muso, sugli occhi, di lato sulla ma scella, o il bastone che cade sull’osso sporgente della spina dorsale con il ru more secco del legno sul legno. Aspettava tutto questo il ciuchino che ave va visto nello spiazzo davanti al tempio di Karnak. Ma non aspettava che la sua sofferenza, il suo duro servaggio, la sua immensa solitudine nel mondo creato da Dio, gli fosse riconosciuta da Qualcuno, lassù o quaggiù. Eppure, 1 malìa: fascino, attrazione. 2 galahie: tuniche indossate dagli uomini egiziani (jallābiyya).

R AccONTI106 RAFFAELE LA CAPRIA Il ciuchino

3. Soffermati sulla presentazione del ciuchino: con quali aggettivi viene descritto? Quale verbo è ripetuto per far capire la posizione del suo animo?

R AffAElE lA cAPRIA 107 se io adesso penso a lui – si chiese seduto a un tavolo sulla terrazza dell’al bergo di Assuan – perché Dio non dovrebbe? E in un lampo: Se così non fos se, perché vivere?

2. Sottolinea con diversi colori ciò che il protagonista vede e ciò che egli immagina durante il viaggio sulla nave.

7. Inventa un racconto in cui il protagonista, assorto nell’osservazione di un particolare che capita al suo sguardo, scopre in sé l’emergere di una domanda nuova e profonda.

5. Perché il protagonista, fra tutte le cose che ha visto nella sua crociera, si ricorda solamente del ciuchino?

6. •   Riassumi in un breve testo le vicende narrate, disponendole in ordine cronologico (fabula) e mettendo in luce le scoperte del protagonista. • Riassumi in un enunciato il significato del racconto.

4. Nel finale l’autore, immedesimandosi nel ciuchino, si pone due domande importanti sulla sua esistenza e su quella di tutti gli uomini. Esplicita il significato di tali domande.

1. Rileggi l’incipit del racconto: «Dell’Egitto non il Cairo, non il famoso museo con la tomba di Tutankamon, non i templi, e nemmeno le Piramidi o l’indecifrabile volto sfigurato della Sfinge gli sarebbero rimasti nella memoria, ma la navigazione sul Nilo, e quel ciuchino davanti al tempio di PerchéKarnak».l’autore utilizza il condizionale passato nell’espressione «gli sarebbero rimasti nella memoria»? Quale tecnica narrativa sta utilizzando? Dopo aver letto tutto il racconto individua la corretta successione cronologica degli eventi.

2 faceva il crawl come Tarzan: l’americano Johann Weissmüller detto Johnny sviluppò e mise a punto la tecnica di nuoto del crawl. Dopo la partecipazione ai Giochi olimpici del 1924 e del 1928 che gli valsero sei medaglie, di cui cinque d’oro, si dedicò al cinema e divenne un celebre attore, principalmente nel ruolo di Tarzan in diversi film di quegli anni.

Il raggio di sole che era riuscito a infilarsi attraverso le imposte nel buio del la stanza e oscillava sul muro come un geroglifico luminoso, gli annunciò quando lui aprì gli occhi che fuori era bello. Una giornata meravigliosa, gli ripete la madre che s’era già alzata da un pezzo, e conveniva sbrigarsi. Col cuore pieno di allegrezza Tonino scese dal letto, si mise il costume da bagno, aprì la finestra. Il mare era intatto e liscio come una tavola, e lontano il pro filo azzurro del Vesuvio si distingueva appena dall’azzurro del cielo. «Andia mo alla Gaiola! Andiamo alla Gaiola!» «Non gridare così» gli disse la madre. Stava in cucina a preparare il cestino con la colazione da portare in barca. Avrebbero mangiato sugli scogli e sarebbero rientrati al tramonto, e neppure un minuto di quella bella giornata sarebbe stato sprecato. «Va’ a lavarti, tra poco si va». In fretta e furia si lavò quel tanto che bastava ad accontentare la madre, poi corse a raccogliere la sua roba, il coppo1 per i gamberi, canna e lenza, e lo spiedo. Alla Gaiola, e vicino, nell’insenatura di Trentaremi, c’erano pesci di scoglio, e granchi grossi così e polpi se eri fortunato. Lui non era come quel le sceme che pensavano solo a starsene sdraiate al sole con l’olio e la crema.

1 coppo: piccola rete da pesca a forma di cono, legata a un cerchio di legno o di ferro sostenuto da una lunga asta.

R AccONTI108 RAFFAELE LA CAPRIA Il granchio

3 dove non c’era piede: dove non si toccava.

Quelle sceme erano Claudia, la cugina più grande di qualche anno che si dava le arie da quando portava il costume a due pezzi, e le sue amiche Orietta e Stefania, gemelle biondissime che quasi non si distinguevano, ma lui però le distingueva eccome!, perché Orietta gli piaceva e Stefania no. Erano state invitate anche loro alla gita, Claudia era già andata a chiamarle. «E lo zio Mario?» «Viene anche lui».

Ci teneva che venisse lo zio, con lui si sentiva più sicuro, se il motore si fermava sapeva farlo ripartire. Gli avrebbe mostrato com’era diventato bravo a nuotare, non nuotava più come un cane, faceva il crawl come Tarzan2 e i tuf fi alti, e non era come l’anno passato che aveva paura dove non c’era piede3.

La madre aveva sistemato i panini nel cesto, e Tonino pensò al pane e sala me, mangiato subito dopo il bagno, col salaticcio del salame e quello dell’ac qua di mare che si confondono in bocca. Era tutt’un altro gusto. E che fame veniva dopo aver nuotato! C’erano nel cesto anche le uova sode. Tonino prese

«Perché no?» «Io lo trovo stupendo» disse con molta serietà. La madre si mise a ridere. «L’uovo è la cosa che mi piace di più» affermò. «Da mangiare o da vedere?» gli chiese lei prendendolo in giro. «Da vedere. Lo sai perché si dice che uno cerca il pelo nell’uovo? Perché un pelo nell’uovo non ci può essere! Un uovo è perfetto, ecco perché». Folgorato da questa scoperta continuava a guardare l’uovo come se lo ve desse per la prima volta. Finché la madre gli disse: «Lascia stare quell’uovo. Va’ a chiamare zio Mario, piuttosto». Lo zio aveva preso in affitto una stanza nello stesso palazzo, ogni estate fa ceva così, si sentiva più libero. Era una stanza con un gran finestrone aperto sul mare, e lì lui dipingeva e suonava il violino. Era un artista, diceva la ma dre sospirando, non sapeva fare altro. Anche ora stava dipingendo un vaso di fiori messo sopra un tavolo davanti al finestrone. «Sei pronto?» «Un momento, un momentino solo» disse senza voltarsi. Si concentrò col pennello sospeso e come esitante, cercando un punto, un punto preciso che però ancora non sapeva quale fosse, e finalmente toccò la tela con un piccolo tocco di blu che andò a posarsi sul petalo di un fiore e lo rav vivò. Lo zio si scostò, inclinò la testa da un lato, socchiuse gli occhi e mormorò: «Tu forse non lo sai, ma una sola pennellata può cambiare tutto intero il senso di un quadro, e perciò tutte le pennellate precedenti. In bene o in male. Lo sapevi?».Cercònel disordine della stanza il suo cappello di paglia, la pipa, prese gli occhiali di gomma e fu pronto. «Ma guarda che bella giornata!» esclamò appena fuori. «Oggi Dio ha supe rato sé stesso». Era vero. Una giornata simile non s’era mai vista dall’inizio dell’estate. La spiaggia, le barche, le vele, le cabine dello stabilimento balneare, gli scogli, tutto scintillava e palpitava sullo specchio dell’acqua.

«Perché strilli tanto?» gli disse la madre che se ne stava a poppa sdraiata in letargo. «Sta’ un po’ calmo, non essere così eccitato».

A prua, di vedetta, con gli spruzzi che a tratti gli arrivavano sul viso frantu mati di sole, additava ogni cosa, una boa, un gabbiano galleggiante, un pesce volante, un barattolo, un pezzo di legno alla deriva. Ma nessuno gli badava.

Quando lo zio riuscì finalmente ad avviare il motore, e la barca con la ma dre, la cugina, le due amiche della cugina si mosse e s’inoltrò sul mare diretta alla Gaiola, a Tonino parve di trovarsi all’interno di un grande uovo azzurro, tra intangibili alte e curve pareti d’aria, un grande uovo tiepido e dolce che racchiudeva per lui tutta la perfezione del mondo.

R AffAElE lA cAPRIA 109 un uovo, lo tenne tra l’indice e il pollice e lo osservò. Era bello un uovo, dav vero bello, possibile che non se ne era mai accorto? E più lo guardava più era attratto da quella forma così semplice ma di una perfezione indicibile. «Mamma, un uovo può essere bellissimo, non trovi?»

E va bene, stette calmo. Ma non si trattenne quando, doppiato il Capo Po sillipo, vide lontano, oltre Marechiaro, il profilo dell’isoletta. «La Gaiola!» gridò. «Eccola laggiù, la vedete! La vedete!».

Pareva fatta d’aria, ma a poco a poco, mentre la barca spinta dal motore si avvicinava, divenne sempre più consistente e si staccò dalla costa di tufo cui pareva unita, si vide la casetta sopra, e infine il piccolo approdo, coi resti ar rugginiti della teleferica che in una notte di tempesta s’era spezzata e aveva causato una tragedia. Era tutto abbandonato, ora. Tonino non poté fare a meno di pensarci: tuo ni e fulmini nella notte e un mare con le onde alte cinque metri. Un uomo e una donna che parlano tedesco tornano un po’ brilli dalla festa, vestiti da sera. Salgono sulla teleferica che porta all’isola, tac!, e il grido della donna.

La sua voce era lagnosa, ripeté più volte che voleva andare a Trentaremi. «Sei petulante1!» gli disse la madre. La barca proseguì, girò intorno a una roccia di tufo, ed entrò nell’insena tura vicina. In fondo c’era la spiaggia. L’acqua era così trasparente che si ave va l’impressione di essere sospesi in alto sopra un paesaggio di rocce bian che, striate di verde e costellate di ricci neri. «Guarda che ricci!» disse Tonino. Spento il motore si sentì il grido dei gabbiani che volteggiavano sulle loro teste. La rada di Trentaremi era tranquilla e selvaggia, c’era solo un’altra im barcazione ancorata più in là. Furono trasbordati sulla spiaggia asciugama ni, cestini, attrezzi da pesca, borse, borsette e tutto l’armamentario. Quando ogni cosa fu scaricata, la barca ormeggiata, e quando la madre ebbe trovato dopo laboriose indagini il posto ideale per distendersi comoda al sole, lo zio disse:«Be’, ragazzi adesso ce lo facciamo un bel bagno?». La cugina e le due biondine entrarono in acqua con prudenza e con qual che strilletto, e Tonino pensò che fosse arrivato il suo momento. Cominciò coi tuffi, gridò ritto su uno scoglio che gli pareva altissimo: «Guardatemi!» e si lanciò nel vuoto, sguazzò, fece capriole, raccolse l’erba del fondo, prese un riccio con le mani, ma nessuno ammirava le sue prodezze. Lo zio se la godeva facendo il morto e andando alla deriva col cappelletto calato sugli occhi. La mamma immobile al sole non dava segni di vita. E la cugina, Orietta e Stefa nia si divertivano per conto loro, chissà che avevano da dirsi poi… Se talvolta lo guardarono fu per caso, così come guardavano gli scogli il mare o il panino che stavano mangiando… Il panino! Ma come, era già l’ora del panino? Era già passata in un lampo tutta la mattina?

Il panino, col sapore di mare. Mare e salame. 1 sei petulante: chiedi e insisti in modo fastidioso e importuno.

R AccONTI110

Fu lei a morire, l’uomo forse si salvò. Non ricordava bene come gliel’avevano raccontata, ma lei era una spia e qualcuno aveva segato i fili.

«Perché non andiamo a Trentaremi?» suggerì. «È proprio qua dietro. An diamo a Trentaremi, si sta meglio. Qui dove ci mettiamo?»

R AffAElE lA cAPRIA 111

Procedette ancora lungo l’arco frastagliato della costa verso la punta che chiudeva l’insenatura. Il mare aveva formato frange anfratti e rientranze e s’infiltrava tra i massi di tufo e le chiane2 coperte di piccole cozze nere e ta glienti. Tonino era abilissimo a camminare su quelle pietre insidiose, sape va dove poggiare i piedi, come tenersi in equilibrio, attento a cogliere ogni particolare, ogni ostacolo tra un passo e l’altro. All’improvviso si fermò. Ave va visto – in una fenditura nascosta il suo occhio esercitato aveva visto – un granchio enorme, un “fellone”, con le tenaglie grosse e robuste quasi quanto quelle di un’aragosta. Sentì il cuore che gli balzava nel petto per l’emozione. Un granchio così grosso non l’aveva mai visto. Altro che pesciolini nel sec chiello! Questo sì che mordeva, se t’afferrava un dito con una di quelle tena glie,Conaddio!lospiedo nel pugno e trattenendo il fiato si accostò alla tana. Il gran 1 vavose: bavose sanguigne. È un pesce che può raggiungere una lunghezza massima di 20 centimetri; è dotato di oltre 60 denti; ha abitudini molto aggressive. In dialetto veneto viene chiamato striga. 2 chiane: terreno paludoso, dove ristagna l’acqua.

«Vuoi l’acqua minerale?» disse a Orietta. Orietta era quella che gli piaceva. Quando finirono di mangiare la prese per mano e le disse: Si«Vieni?».avviarono insieme allontanandosi lungo la scogliera. Una specie di son nolenza avvolgeva ogni cosa. Che silenzio! Perfino i gabbiani se ne stavano zitti, il mare piatto senza un’increspatura, pareva un cielo rovesciato, e il sole non spadroneggiava più dappertutto, la sciava qualche zona d’ombra sotto le rocce più alte. Nelle pozze d’acqua tra gli scogli si agitavano pesciolini vivaci, sfrecciavano sulla luccicante alga marro ne, si mimetizzavano, riapparivano, ma non sfuggivano all’occhio di Tonino. Col coppo ne prese uno, poi un altro ancora, e li mise nel secchiello. Orietta si chinò senz’entusiasmo a guardarli. «Che pesci sono?» Non sapeva nemmeno che erano vavose1. Domandava«Mordono?» se mordevano! «Prova, metti la mano nel secchiello» le disse. «Sei Mise«Così!pazzo?»vedi?»lamano nel secchiello e prese una vavosa. «Che schifo! Ributtali a mare, poveretti». Poi arrivò il richiamo di Claudia e Stefania. Lei si voltò. Le dicevano a gesti di tornare. Orietta si disinteressò di lui, dei pesci, senza una parola gli girò le spalle e raggiunse le altre, saltellando sui massi. “Magari trovassi un bel polpo” pensò Tonino, “per buttarglielo addosso vi vo vivo, sai che strilli?”

112 chio doveva aver avvertito qualcosa, s’era già messo in guardia come un pu gile, le pinze al posto dei guantoni. Tutto raccolto in sé stesso, compatto, aspettava. Ma costretto nella fenditura non aveva gioco, nessuna via d’uscita. Tonino lo puntò, spinse la punta dello spiedo nella corazza. Era dura, faceva resistenza, e lui spinse ancora e la sentì crocchiare, rotta dal ferro, crac!

Con le due pinze protese il granchio afferrò lo spiedo che lo trafiggeva, lo attanagliò con tutta la forza che aveva, per spezzarlo, per trattenerlo, per al lontanarlo da sé. Si difese fino all’ultimo, e quanta vita ci metteva in quella impossibile impari lotta! Con la corazza sfondata da uno squarcio da cui ve niva fuori una materia giallina, se ne stava abbarbicato alla sua tana, e per tirarlo fuori Tonino dovette accanirsi e trafiggerlo più volte da parte a parte. Quando alla fine ci riuscì si accorse che non era un granchio grosso come aveva creduto. Era un cosino da nulla, su cui aveva infierito1. L’aveva fatto a pezzi, dilaniato, smembrato, e perché? Perché? Ebbe uno scatto d’ira contro sé stesso, contro lo stupido impassibile azzurro che avvolgeva il mondo come un guscio trasparente, e buttò via lo spiedo tra gli scogli e i resti del granchio a mare. Mentre affondavano tanti pesciolini velocissimi corsero a divorar li. Un gabbiano volò basso, fece: «Cra cra cra!». Tonino alzò gli occhi e vide l’aria offuscarsi, vide una crepa nera che attraversava il cielo a zig zag come un lampo. Cra, cra, cra, cra!, la giornata perfetta come un uovo s’è rotta, tutta l’armonia del giorno è distrutta da una sola pennellata sbagliata. Cra cra cra cra!…Eanche quel pomeriggio si dileguò lentamente come gli altri. Il cielo si tinse di rosso, il sole diventò una palla rovente e sparì di colpo dietro Capo Miseno. La barca prese la via del ritorno sopra un mare lilla. Tonino a prua guardava davanti a sé voltando le spalle a tutti. Passò una frotta di pesci volanti, Claudia credette di aver visto una medusa, lo zio spie gò cos’era il raggio verde che si vede all’ultimo istante del sole che tramonta, Orietta e Stefania si pettinavano. Dissero che era stata una bellissima giorna ta, una delle due chiese un elastico per i capelli. «Com’è che Tonino sta zitto?» domandò la madre. «Com’è che non si sente la sua voce?» 1 aveva infierito: si era incrudelito, si era accanito con violenza e ferocia. Deriva dal latino fĕrus ‘selvatico, feroce’.

R AccONTI

2. I viaggi di andata e di ritorno sono tra loro molto diversi per Tonino. Come si comporta il ragazzo nei due casi? Quale episodio provoca in lui un cambiamento così radicale?

1. Individua ed elenca i fatti essenziali del racconto.

4. Cosa spiega lo zio a Tonino durante il dialogo davanti al quadro?

6. Perché Tonino invita Orietta a seguirlo sugli scogli? Cosa succede?

3. Nei primi passi del racconto, Tonino ammira un uovo. Di cosa diventa simbolo, nel corso dell’episodio, questo semplice oggetto?

7. Cosa, del granchio, attrae inizialmente Tonino? Come si comporta Tonino nei suoi confronti? Per rispondere fai attenzione in particolare ai verbi che raccontano le sue azioni.

8. Cosa scopre Tonino vedendo gli esiti della sua azione sul granchio?

9. Nel racconto Tonino appare spesso solo e isolato, tanto che per lui pare difficile comunicare con chi gli sta intorno. Sottolinea i passi che esplicitano tale distanza tra i personaggi o che si riferiscono a un bisogno comunicativo che rimane insoddisfatto.

5. Come reagiscono i parenti e gli amici davanti all’entusiasmo di Tonino e alle sue prodezze?

R AffAElE lA cAPRIA 113

11. Racconta di quella volta in cui un gesto, una parola o un atteggiamento sono stati per te la «pennellata sbagliata» che «ha distrutto l’armonia» del momento che stavi vivendo.

Da G. leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna

il racconto mettendo in luce il cambiamento di Tonino.

R AccONTI10.114Riassumi

12. Facendoti aiutare dall'insegnante, leggi i seguenti versi, tratti da una celebre poesia di Giacomo Leopardi. Scrivi un testo che metta a paragone il sentimento descritto dal poeta, quanto raccontato da La Capria e la tua personale esperienza. Desiderii infiniti e visioni altere crea nel vago pensiere, per natural virtù, dotto concento; onde per mar delizioso, arcano erra lo spirto umano, quasi come a diporto ardito notator per l’Oceano: ma se un discorde accento fere l’orecchio, in nulla torna quel paradiso in un momento.

Nostro padre si decise per il gorgo1, e in tutta la nostra grossa famiglia sol tanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.

Il gorgo

Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che l’avrei salvato solo se fa cessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentì, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi più sotto, mi ripeté di tornarme ne su, ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli più grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa.

115 BEPPE FENOGLIO

Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sen 1 gorgo: mulinello del fiume. 2 Niella, Murazzano, Feisoglio: paesi in provincia di Cuneo. 3 Belbo: fiume delle Langhe.

Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente; chiamam mo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio2 e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loroDeperivamoscienza. anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pre gare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella. Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo più posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccon tare che erano in corso coi mori le più grandi battaglie. Cominciammo a reci tare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce or dinaria: – Scendo fino al Belbo3, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia.Nonso come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atter rì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il primo dei suoi figli.

In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia.

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tì al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbatté tre passi su. Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero più sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lì intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: «Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa», ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca. Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo cor rere tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e soprattutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in fac cia, per la vergogna di vederlo come nudo. Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle di un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il pet to per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe volta te tutte, tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina1. Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che ab biamo dietro il collo. 1 una sbronza fina: una bella ubriacatura.

BEPPE fENOGl IO 117

2. Rintraccia, in particolare, il passaggio che esplicita il contesto storico e sociale in cui si situa il racconto. Sottolinea e riporta gli elementi che costituiscono l’antefatto dell’episodio.

3. Cosa si intende con l’espressione «si decise per il gorgo»? Sottolinea il passaggio che ti ha permesso di comprenderne il significato.

8. Racconta di una volta in cui anche a te è capitato di essere l’unico a comprendere ciò che stava accadendo, e ciò ti ha portato a prendere delle decisioni o a compiere delle azioni.

6. Riscrivi il racconto assumendo il punto di vista di un narratore esterno

4. Il padre e il ragazzo sembrano uniti da un legame tanto intenso da non aver bisogno di troppe parole. Individua e sottolinea le espressioni che esprimono la natura profonda di questo rapporto. Spiega quindi ciò che non viene detto a parole, ma si può comprendere da azioni e gesti.

1. Individua le sequenze narrative del racconto ed esplicita le loro funzioni (narrative, descrittive, riflessive, dialogiche).

7. Inventa un racconto nel quale il cambiamento dei protagonisti si esplicita senza aver bisogno di parole.

5. Sottolinea con un colore le espressioni linguistiche che permettono al lettore di entrare nel mondo in cui la vicenda è ambientata.

Almeno a sentire la madre.

Non fumava, non andava a ballare, né all’osteria, non entrava mai in un cinematografo.Ebbenefuproprio

R AccONTI118 GIOVANNINO GUARESCHI

Allora Giacomino perdette la testa. E non la perse poco alla volta, un po’ per giorno: ma tutta in un colpo solo. Un sabato mattina, il padre gli mise in mano qualche lira e gli disse: «Prendi la corriera e va’ in città dal macellaio Tognetti a ritirare i quattri ni di quelle bestie che gli abbiamo vendute. Non tornare se non te li ha dati». Non gli raccomandò neanche di essere prudente e via discorrendo, per ché conosceva il ragazzo e sapeva bene che non ce n’era bisogno.

Una famiglia rovinata

Anche i pregi, però: perché era un lavoratore tenace e instancabile. In quanto a taccagneria poi dava addirittura dei punti alla madre, e, pure essen do già un bel giovanotto, si prendeva esclusivamente quei divertimenti che non costassero niente.

Mai vista gente tanto attaccata al soldo: la linea elettrica passava a dieci metri dalla casa e sarebbero bastati pochi quattrini per fare l’allacciamento ma i Bigatti tiravano ancora avanti con la lucerna, per via che si poteva eco nomizzare usando il petrolio rosso del trattore.

Dei tre figli, il ragazzo di quattordici anni pareva la copia fedele del padre, la ragazza, di diciassette, pareva la copia fedele della madre. E il più vecchio, Gia comino, di diciotto anni, radunava in sé tutti i difetti del padre e della madre.

I Bigatti se la passavano bene perché erano proprietari di un bel podere, ave vano tutti la frenesia del lavoro, e non spendevano una lira.

Il Bigatti-capo non arrivava ai quarantacinque anni e sua moglie toccava appena i quarantadue, ma erano così trasandati che parevano i nonni dei lo ro figli.Ese il Bigatti padre era uno spilorcio maledetto, la Bigatti madre era la spilorceria in persona.

Naturalmente, quando un giovanotto di diciotto anni perde la testa, ci de ve essere per forza di mezzo una gonnella. Nel caso di Giacomino, la gonnella che gli mise a soqquadro il cervello si chiamava Anna. Un nome qualsiasi che però non corrispondeva ad una qual siasi ragazza, bensì a una ragazza piuttosto speciale. Giacomino Bigatti già da un anno teneva dietro alla ragazza e quando gli venne il coraggio di fermarla per spiegarle come stesse la situazione non tro vò il tipo di accoglienza che avrebbe desiderato. Difatti l’Anna, che era una ragazza spiccia, gli rispose chiaro e tondo: «Va bene tutto: però io non mi ci metto col più scalcinato del paese».

lui, Giacomino, quello che inguaiò la famiglia, che la ro vinò e che la portò all’orlo del fallimento.

Giacomino montò sulla corriera, arrivò in città alle nove e alle nove e un quarto entrava nella macelleria Tognetti. La busta coi soldi era già pronta e Giacomino ebbe solo da controllare che i bigliettoni da diecimila fossero venti come dovevano essere.

E si accorse di aver commesso un delitto spaventoso, terrificante. Si ac corse di aver speso le duecentomila lire di suo padre per comprare una motocicletta.Alloradiventò smorto e, tirata la motocicletta sul cavalletto, rimase lì fer mo ad attendere il cataclisma. Intanto la madre era arrivata assieme agli altri due figli, e si vedeva che nessuno dei tre capiva cosa fosse successo o cosa stesse per «Giacomino!»accadere.ripeté il Bigatti padre. «Dove hai preso questa roba?» «L’ho comprata» balbettò Giacomino. «L’ho comprata con le duecentomila lire delle bestie». La moglie del Bigatti lanciò un urlo straziante, come se le avessero aperto il ventre con una vanga. Il Bigatti padre muggì e si precipitò verso Giacomino per sbranarlo. 1 mostra: esposizione dei prodotti. 2 gagliardo: forte, abbondante. 3 nuova di trinca: nuovissima.

La corriera per il paese ripartiva alle due del dopo pranzo e Giacomino pensò che l’unico modo per passare il tempo senza spendere soldi era quello d’andare in giro a guardare le vetrine. Non fu un giro lungo perché, dopo aver fatto tappa davanti alla mostra1 di una merceria e a quella di una calzoleria, Giacomino si trovò davanti alla ve trinaRimasefatale.lì a contemplare quella meraviglia una buona mezz’ora, poi entrò deciso e «Quantodomandò:c’èdaspendere

pagando subito in contanti?». «Duecentomila e io gliela consegno fra due ore pronta da saltarci sopra e partire».Erauno sconto gagliardo2 e Giacomino rispose: «Affare fatto». Alle tre del pomeriggio, Giacomino arrivò nell’aia di casa sua. Ci arrivò a cavalcioni di una motocicletta meravigliosa, nuova di trinca3

GIOvANNINO GUAREschI 119

E il Bigatti padre, quando vide comparirsi dinnanzi il figlio così equipag giato, rimase come fulminato. Poi, ritrovata la parola, domandò: «Giacomino, dove hai preso quella roba?». E fu soltanto allora che Giacomino uscì dal mondo dei sogni. Fino a quel momento aveva vissuto completamente distaccato dalle cose della terra, in una specie di dolce ubriacatura, ma, udendo la voce del padre, rientrò bruscamente nella realtà.

L’occhio gli cadde sulla motocicletta scintillante: il Bigatti aveva fatto il mi litare in un reparto motorizzato, come portaordini. In un secondo gli ritornò in mente tutto: frizione, cambio, gaz.

“Appena trovo un po’ di spazio per girare, faccio dietro front, lo blocco e l’ammazzo!”Dopoquindici chilometri di strada, il Bigatti non aveva ancora trovato il posto giusto per invertire la marcia.

Aveva una ripresa formidabile e il Bigatti, mentre usciva sulla strada, qua si andava a sfasciarsi contro un pilastro del cancello.

“Lo prendo nel ritorno quel delinquente!”, disse fra sé.

Ormai la Strada Quinta era finita: gli conveniva raggiungere Fiumetto, fare la provinciale fino alla Pioppazza e prendere la strada del Molinetto che ap punto l’avrebbe ricondotto sulla Strada Quarta.

Raggiunta la strada, saltò in sella e pigiò disperatamente sui pedali.

R AccONTI120

Ma Giacomino aveva gambe buone e una paura tremenda. Con un balzo si scansò e prese la fuga.

Non parliamo poi del molleggio: al confronto di quel gingillo, le motoci clette militari sono dei carri armati.

Il Padreterno lo aiutò e così il Bigatti riuscì a rimettersi in carreggiata. Ma passò un gran brutto momento e la paura gli fece dimenticare la mascalzo nata del figlio; adesso la cosa essenziale era di capire bene come funzionasse quel maledetto arnese per non correre il pericolo di fracassarsi le ossa.

Suonò il clacson poi girò la manetta e lo sorpassò con un balzo.

Quando il Bigatti si rese conto che il ciclista era Giacomino, ormai lo aveva lasciato indietro in un chilometro.

In verità il maledetto arnese non era poi tanto maledetto né tanto compli cato: anzi era quanto mai semplice e stabile.

«Bisogna che lo prenda! Bisogna che lo ammazzi, quel delinquente!»

Il Bigatti padre dovette rinunciare all’inseguimento. Ma non poteva rinun ciare alla vendetta perché era ormai pazzo furioso. Tornò nell’aia urlando.

Fosse la preoccupazione, fosse la gran rabbia che lo divorava, il fatto è che il Bigatti, invece di svoltare a sinistra svoltò a destra e, per ritornare sulla Strada Quarta, dovette macinare venti o trenta chilometri. Prima di rientrare nella Strada Quarta, il Bigatti ritenne opportuno fermarsi al distributore di Torricella: non voleva rimanere senza benzina. Il benzinaro, svitato il tappo del serbatoio, scosse il capo:

La sua bicicletta era lì, a portata di mano, appoggiata al muro della stalla: passando, la agguantò e se la trascinò dietro.

Agguantò il manubrio della motocicletta, la tirò giù dal cavalletto e diede una gran zampata sulla messa in moto. Una gran zampata alla militare. Una zampata bestiale e inutile perché quella era una macchina che andava in mo to con un soffio.

Il Bigatti raggiunse un ciclista che procedeva nella sua stessa direzione e pompava come un pazzo sui pedali.

«Quasi pieno dopo tanti chilometri?» si stupì il Bigatti. «Questi motori non consumano niente» spiegò di malumore il benzinaro. «Grandi macchine: da anni muoio dalla voglia di prendermene una. Cosa ve l’hanno messa1, completa di tutto?»

«Duecentomila» rispose il Bigatti. «È un affare. Se li avessi me la comprerei subito». Giacomino intanto, dopo aver pedalato fino all’ultimo goccio di fiato, era sceso dalla bicicletta e si era seduto su un mucchio di ghiaia, lungo il ciglio del canalone che costeggiava la Strada Quarta.

GIOvANNINO GUAREschI 121

“Succeda quello che Dio vuole, io non vado più avanti” aveva deciso. “Se mi vuole ammazzare mi ammazzi”. E ora, seduto in riva al fosso, aspettava che il destino lo raggiungesse. Invece fu suo padre a raggiungerlo, e Giacomino, trovandoselo davanti, a cavalcioni della motocicletta, rimase allocchito2. «Se ti fai vedere a casa ti taglio il collo, mascalzone!» gli disse a denti stretti il Bigatti. «Va’ a casa di tuo zio: e aspettami là. Domani faremo i conti». La moglie del Bigatti aveva dovuto mettersi a letto: il colpo era stato grosso. E continuava a gemere: «Duecentomila lire… Duecentomila lire…». Quando il marito entrò nella camera da letto, la Bigatti domandò: «L’hai trovato?».«No!Ma bisogna che lo trovi! Bisogna che gli torca il collo. Duecentomila lire! Buttate via per una mascalzonata di motocicletta». «Duecentomila lire! Siamo rovinati! Devi trovarlo, costringerlo a riportare indietro la moto e a farsi ridare i soldi!» «Ho già provato a far telefonare!» urlò il Bigatti. «Non la rivogliono a nessun costo. Bisognerebbe fare causa. Ho provato a vedere se c’era modo di vender la in paese: non offrono neanche la metà. Se ne approfittano della disgrazia». La donna riprese a singhiozzare e a lamentarsi. La Bigatti passò una notte agitatissima perché la donna continuò a sma niare nel sonno, parlava di rovina, di soldi, di motociclette, di figli delinquenti. Si alzò presto, pieno di malumore. Quando si fu vestito, andò a frugare dentro il comò3 «Cosa cerchi?» «La rivoltella» rispose truce il Bigatti. «L’ha fatta troppo grossa, bisogna che lo ammazzi. Lo devo trovare ad ogni costo». Uscì agitandosi come un indemoniato dopo essersi cacciata la pistola in tasca.Arrivato alla rimessa, nascose la pistola in un buco del muro, tirò fuori la motocicletta e partì. 1 cosa ve l’hanno messa: a che prezzo ve l’hanno venduta. 2 allocchito: sbalordito. 3 comò: mobile pensato per la camera da letto.

«Ma se avete il serbatoio quasi pieno!» borbottò.

3 desinò: pranzò. Deriva dal francese antico disner, derivato dal vocabolo latino mai attestato *disieiunare, letteralmente ‘rompere il digiuno’.

La moto beveva i turniché1 come se fossero bicchieri di marsala2

2 marsala: vino dolce liquoroso.

R AccONTI122

Il fratello del Bigatti si avvicinò: «Pietro, ormai quel che è fatto è fatto» gli disse. «È inutile complicare la faccenda con altre stupidaggini. E poi il valore c’è4».

Era una magnifica mattina e, una volta raggiunto l’asfalto della provincia le, al Bigatti pareva di scivolare sul burro, tanto si viaggiava comodi. Fece poi colazione a Castellino, poi volle provare come la moto si compor tasse in montagna e puntò verso Castellarco.

1 turniché: tornante di montagna. Corrisponde alla pronuncia del francese tourniquet.

4 il valore c’è: la motocicletta ha un valore, i soldi non sono stati buttati via.

Fece tutta la salita del Gallo senza accusare un istante di stanchezza.

Vedendolo brandire minaccioso la rivoltella, la moglie si spaventò: «Pietro, non andare in disgrazia per un delinquente. Lascialo perdere. Non rovinare la famiglia completamente». «Adesso mando giù un boccone e poi mi rimetto in viaggio: se non lo trovo lo vado a denunciare ai carabinieri!» urlò come un pazzo l’uomo. «È già tornato» gli spiegò la moglie.

Giacomino si mostrò timidamente: «Prendi la bicicletta e fila a casa e che non ti veda almeno per due o tre giorni o ti spacco la testa!» urlò feroce il Bigatti. Il giovanotto saltò sulla bicicletta e si allontanò. «Però è una gran bella macchina» riconobbe il fratello del Bigatti. «Qual che giorno me la devi lasciar provare». «Non mi parlare di questo maledetto arnese!» gemette il Bigatti. E, gemendo, raccontò i particolari della mascalzonata che gli aveva com binato il figlio. Pianse sulla prossima rovina della famiglia. Se ne andò imprecando al destino. Arrivato a casa, ripose la moto nella rimessa, cavò la pistola dal buco del muro ed entrò in casa schiamazzando. «Tutto il giorno che lo cerco di qui e di là! Dove si sarà nascosto quel vi gliacco? Gesù, fammelo trovare che lo stendo lì secco come un chiodo!»

Il Bigatti si trovò di bel mezzogiorno in cima al Montefollo. Un monte per modo di dire ma, di lassù, si vedeva l’immensa pianura verde solcata dai fiu mi e questo, per il Bigatti, era come la scoperta dell’America. Mai immaginato che esistesse una meraviglia simile a soli cinquanta chi lometri da casa. Desinò3 nell’osteriola che era piantata in cima al monte, e mai mangiò con tantoRitornòappetito.avalle verso sera e prese la strada che conduceva al podere del fratello.«Gino, hai visto quel vigliacco di mio figlio?» urlò appena fu nell’aia.

Bigatti sentì un rumore sospetto e, sfilatosi dal letto, andò a spiare alla finestra. L’aia era illuminata dalla luna e il Bigatti vide Giacomino che stava cautamente spingendo la moto verso il cancello. Si era vestito di nuovo e, raggiunta la strada, montò in sella. Un leggero colpo di piede ed ecco il motore cantare. Il Bigatti tornò a letto. «Duecentomila lire!» gemette nel sonno la moglie. Il Bigatti si addormentò subito perché aveva premura1 di sognare tutto lo spettacolo che aveva visto dalla cima di Montefollo. 1 premura: fretta.

«E dov’è? Dov’è quel teppista! Lo voglio ammazzare come un cane!»

GIOvANNINO GUAREschI 123

Fece l’atto di uscire ma la moglie gli si aggrappò al collo. «Pietro, non ti compromettere. In fondo non ha che diciotto anni. E poi pa re che il valore ci sia nella macchina». Il Bigatti buttò la rivoltella sulla credenza. «Va bene, non lo ammazzo. Ma voglio vederlo. Voglio parlargli! Voglio riem pirgli la faccia di schiaffi. Dimmi dov’è!» «Pietro, sta calmo o mi farai venire le convulsioni. È sul fienile. Lascialo sta re. Ha già capito di aver fatto una vigliaccata». Il Bigatti uscì sospingendo da parte la moglie. Salì per la scala a piuoli del fienile. Giunto sul fienile sbraitò poi disse sottovoce: «Dove sei, assassino?» «Sono qui» rispose la voce di Giacomino. Il Bigatti sbraitò ancora poi disse sottovoce: «Non mi comparire davanti per almeno due giorni. E, domattina, vedi di pulirla e di registrare la frizione». Scese agitatissimo. Era stanco morto e, appena buttato giù un boccone, an dò a Laletto.moglie lo raggiunse mezz’ora dopo e lo trovò che ansimava. «Quel vigliacco m’ha fatto venire l’affanno!» spiegò a fatica. «Mi ha rovinato». «Mettiti calmo, Pietro» gli disse la donna. «Calmo! Calmo! Tu non sai cosa significhino duecento biglietti da mille buttati via! Buttati dalla finestra! Duecento biglietti da mille». La donna incominciò a gemere e a lamentarsi e, gemendo e lamentandosi, si addormentò.Pocodopoil

6. Come l’esperienza vissuta in motocicletta modifica il rapporto tra padre e figlio? Sottolinea le espressioni dietro cui si nascondono i caratteri di questo nuovo rapporto.

8. Giacomino, pur colpevole nella sua disobbedienza, permette al padre di ottenere ciò che altrimenti avrebbe perso. Racconta un episodio, autobiografico o d’invenzione, in cui da una disobbedienza nasce un cambiamento che alla fine si rivela positivo.

9. Guareschi, fin dal titolo, offre una possibile interpretazione del significato del racconto; eppure, con l’ironia, mostra implicitamente un giudizio differente. Sottolinea nel testo, con diversi colori, le espressioni che fanno riferimento a una o all’altra interpretazione, dunque scrivi un riassunto per ciascuna delle due interpretazioni.

10. Immagina di essere Giacomino e di dover raccontare a un amico ciò che ti è accaduto. Soffermati in particolare nel descrivere l’atteggiamento di tuo padre e le domande che ti sono sorte di fronte ai suoi gesti inaspettati (anomalie).

4. Cosa nasconde il Bigatti a sua moglie? Per quale motivo?

Per rispondere ripercorri il testo e sottolinea i passi che permettono di capire l’esperienza del padre.

R AccONTI1.124Quali

sono le qualità e i difetti della famiglia Bigatti?

5. Il secondo giorno di viaggio, il Bigatti padre si ferma a pranzo a Montefollo. Per quale motivo l’autore dice che «mai mangiò con tanto appetito»?

7. Qual è la differenza tra il padre e la madre?

3. Mentre il Bigatti padre insegue il figlio, cosa lo porta a dimenticare quel che sta facendo? Di cosa si accorge mentre è alla guida della motocicletta?

2. Quale gesto inaspettato compie Giacomino? Perché?

3 storcinatello: termine in dialetto romanesco che ben rende l’idea di un corpo gracile e poco armonioso. 4 stenta: senza vigore. 5 a moro: non conoscendone il nome, il ragazzo si rivolge al narratore riferendosi al colore dei suoi capelli. 6 Orazio: il bagnino. 7 i caposotto, i pennelli e i caprioli: diversi tipi di tuffo.

Sul galleggiante non c’era ancora quasi nessuno. Qualche commesso che se ne sarebbe andato verso le tre. Poi da Ponte Garibaldi e Ponte Sisto1 cominciarono a scendere i veri clien ti. In mezz’ora lo spiazzo di sabbia tra il muraglione e il galleggiante fu un verminaio2.Nandoera seduto sull’altalena; mi voltava le spalle. Era un ragazzino sui dieci anni, magro, storcinatello3, con un ciuffo biondo largo sulla faccina stenta4, dove una grande bocca sorrideva senza sosta. […] Egli mi guardava obliquamente, con l’aria di chiedermi una spinta. Mi avvicinai e gli dissi: «Vuoi che ti spinga?». Lui accennò di sì, allegro, allargando ancora di più la bocca. «Bada che ti lancio in alto!» lo avvertii sorridendo. «Non fa niente» rispose. Lo feci volare, e lui gridava a degli altri ragazzini: «A maschi, guardate come vado alto!». Dopo cinque minuti era di nuovo sull’altalena ferma, e questa volta non si limitò a guardarmi. «A moro5», mi disse, «me dai ’na spintarella?». Quando scese mi stette vicino. Gli chiesi il suo nome. «Nando!» mi fece svelto guardandomi. «E il soprannome?» Lui mi guardò un pochetto, incerto, ridendo e facendosi rosso: poi si decise: «Biciclettone», disse. Aveva le spalle scottate, come se fosse la febbre ad arrossarle, invece del sole. Mi comunicò che gli pizzicavano. Ormai il galleggiante di Orazio6 era un carosello: chi alzava i pesi, chi si issava sugli anelli, chi si svestiva, chi oziava — e tutti urlavano ironici, strafottenti e tranquilli. Una prima squadra mosse verso il trampolino, e cominciarono i caposotto, i pennelli e i caprioli7. An dai a fare il bagno anch’io, sotto i piloni di Ponte Sisto. Dopo mezz’ora, torna to sulla sabbia, vidi Nando aggrappato alla spalletta del galleggiante che mi chiamava. «Aòh», mi disse, «sai portare la barca?». «Me la cavo» risposi. Egli si rivolse al bagnino. «Quanto si paga?» chiese. Il bagnino non lo guardò neanche; pareva che parlasse con l’acqua, su cui era chino, e per di più arrabbiato: «Centocinquanta lire per un’ora, due persone».

125 PIER PAOLO PASOLINI Biciclettone

1 Ponte Garibaldi e Ponte Sisto: sono due ponti sul Tevere a Roma. 2 verminaio: affollamento confuso e brulicante di persone.

R AccONTI126

«Ammazzalo1» disse Nando, col suo faccino che rideva sempre. Poi scom parve dentro gli spogliatoi. Mi ricomparve accanto, sulla sabbia, come un vecchio amico. «Io tengo cento lire» mi disse. «Beato te» gli risposi «io sono completamente al verde». Egli non capì. «Che vuol dire al verde?» chiese. «Che non ci ho neanche un soldo» gli spiegai. «Perché? Non lavori?» «No, non lavoro». «Io credevo che tu lavorassi» aggiunse. «Studio» gli dis si, per semplificare le cose. «E non ti pagano?» «Bè, son io che devo pagare». «Sai nuotare?» «Io sì, e tu?» «Io non sono buono, ho paura. Vado solo nell’ac qua che mi arriva fin qui!» «Andiamo a fare il bagno?» Egli fu d’accordo e mi venne dietro come un cagnolino.Pressoil trampolino, presi la cuffia che tenevo infilata nel costume. «Co me si chiama questa?» egli mi domandò indicandola. «Cuffia» io gli risposi. «Quanto «Quattrocentocosta?»lire, l’ho pagata, l’anno scorso». «Quant’è bella» disse, mettendosela in testa. «Noi siamo poveri, ma se fos simo ricchi mia mamma me la comprerebbe, la cuffia». «Siete poveri?» gli chiesi. «Sì, abitiamo nelle baracche di via Casilina». «E come mai oggi avevi una piotta2 in tasca?» «L’ho guadagnata portando le valigie». «Alla«Dove?»stazione». Ma esitava un po’ nel rispondermi: forse erano bugie; for se era andato all’elemosina: quei suoi due braccini avrebbero stentato a sol levare un fagotto. […] Gli tolsi la cuffia carezzandogli il ciuffo e gli chiesi: «Vai a scuola?».«Sì,faccio la seconda… Adesso ho dodici anni, ma per cinque anni sono stato malato… Non fai il bagno?» «Sì, adesso mi tuffo». «Fai il tuffo a angelo», mi gridò dietro mentre mi spingevo sull’asse del trampolino. Feci un qualsiasi mediocre caposotto, e dopo due bracciate, mi inerpicai per l’erbaccia, il pantano e l’immondezza della riva. «Perché non hai fatto il tuffo a angelo?» mi chiese. «Bè, ora cerco di farlo». Non l’avevo mai fatto, ma per accontentarlo mi ci provai. Lo ritrovai sulla riva contento. «Un bel tuffo a angelo», disse. In mezzo al Tevere un giovanotto remava controcorrente, su un’imbarcazione dall’a spetto di canoa. «Che ci vuole a remare così?» disse Nando «e il bagnino, a me non m’ha fatto andare su quella barca!». 1 ammazzalo: espressione in romanesco che esprime meraviglia e disappunto. 2 piotta: voce gergale in romanesco che indica una moneta da cento lire.

«Hai mai remato?» gli chiesi. «No, ma che ci vuole?» Quando a colpi di pa gaia il giovanotto fu abbastanza vicino al trampolino, Nando si accostò alla corrente e sporgendosi in avanti, con le mani a imbuto, gridò a squarciagola: «A moro, a moro, me fai montà1?». L’altro non gli rispose nemmeno. Allora Nando sempre allegro ritornò verso di me. In quel momento passavano alcu ni miei amici e andai con loro. Essi nel piccolo bar del galleggiante fecero una partita a scopa, e io stavo a guardarli. Nando ricomparve ancora, questa volta con l’«Europeo»2 in mano. «Tie’» mi disse «leggi. È mio!». Lo presi, per fargli piacere, e cominciai a sfogliarlo. Ma venne Orazio, e senza dir nulla me lo tolse di mano, e, impaturgnato3, si mise a leggerlo lui: era uno scherzo. Io risi, e tornai a guardare la partita. Nando si avvicinò al banco.«Iotengo cento lire» disse al bagnino «che me posso comprà?» «Aranciate, birre, chinotti» rispose l’altro, del tutto privo di inventiva. «Quanto costa un chinotto?» chiese ancora Nando. «Quaranta Dopo«Dammenelire».due».unpocomi sentii battere a una spalla, e vidi Nando che mi porge va una bottiglia di chinotto. Mi venne un nodo alla gola, tanto che non avevo quasi la voce per ringraziarlo, per dire qualcosa: ingoiai il liquido e dissi a Nando: «Ci sarai qui lunedì o martedì?». «Sì» «Allorarispose.ricambierò» gli dissi «e andremo in barca». «Lunedì, ci sarai?» mi chiese. «Non è proprio certo, forse avrò da fare. Ma se non lunedì, martedì certamente…»Nandocontò il denaro che gli rimaneva. «Ho ventidue lire» disse. Stet te soprappensiero, guardando con la sua faccia allegra la lista delle bibite coi prezzi. Pensai di andargli in aiuto. «Che me posso comprà co’ venti lire?» chiedeva egli intanto al bagnino. «E tientele» rispose questi. «Guarda» gli dissi io «c’è l’acqua acetosa che costa dieci lire al bicchiere». «È calda» disse il bagnino. «Che me posso comprà co’ venti lire?» si ripeteva intanto Nando. Poi si rivolse al bagnino: «Non fa niente se è calda, dammene du’ bicchie ri». Il bagnino versò due bicchieri, e Nando mi disse: «Bevi». Mi offriva da be re per la seconda volta. «Se non ciài4 da fare, vieni lunedì?» mi chiese. «Certo, e vedrai che ricambierò, ti farò divertire!» Poi decise di tornare un 1 montà: salire, in dialetto. 2 «Europeo»: settimanale illustrato. 3 impaturgnato: infastidito, seccato. 4 Ciài: hai.

PIER PAOlO PA sOl INI 127

3. Riassumi il racconto in una frase, mettendo in luce ciò che scopre il narratore grazie a Nando.

1. Il narratore, nel finale del racconto, dichiara la propria commozione. Perché? Rileggi il racconto e individua le azioni e le frasi che lo colpiscono fino a commuoverlo.

4. Racconta di quando il gesto di una persona nei tuoi confronti o nei confronti di altri ti ha commosso tanto da cambiare il tuo modo di agire o di pensare.

5. Immagina di essere il narratore: tornato a casa, alla sera, racconta a un amico o a un familiare cosa ti è accaduto durante la giornata, facendo capire il motivo per cui anche solo a pensarci fatichi a «cacciare indietro le lacrime».

R AccONTI

2. Quali aggettivi descrivono meglio le caratteristiche di Nando? Trovane almeno tre e sottolinea i passaggi del testo che meglio mettono in luce le sue particolari qualità.

128 po’ sull’altalena: io lo spinsi tanto forte che lui ridendo mi gridava: «Basta, che me gira la capoccia!». Scese la sera, e ci salutammo. Adesso non vedo l’ora che venga martedì, per far divertire un poco Nando; sono senza lavoro, non ho soldi, ma del resto anche Nando possedeva soltanto quelle cento lire. Pensandoci faccio fatica a cacciare indietro le lacrime.

Tra le case pencolanti1, le balconate a traforo marce di polvere, gli anditi2 feti di, le pareti calcinate3, gli aliti della sozzura4 annidata in ogni interstizio, sola in mezzo a una via io vidi a Porto Said una figura strana. Ai lati, lungo i piedi delle case, si muoveva la gente miserabile del quartiere; e benché a pensarci bene non fosse molta, pareva che la strada ne formicolasse5, tanto il brulichio era uniforme e continuo. Attraverso i veli della polvere e i riverberi abbacinan ti6 del sole, non riuscivo a fermare l’attenzione su alcuna cosa, come succede nei sogni. Ma poi, proprio nel mezzo della via (una strada qualsiasi identica alle mille altre, che si perdeva a vista d’occhio in una prospettiva di barac che fastose7 e crollanti), proprio nel mezzo, immerso completamente nel sole, scorsi un uomo, un arabo forse, vestito di una larga palandrana bianca, in te sta una specie di cappuccio – o così mi parve – ugualmente bianco. Cammina va lentamente in mezzo alla strada, come dondolando, quasi stesse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno8. Si andava allontanando tra le buche polverose sempre con quel suo passo d’orso, senza che nessuno gli badasse e l’insieme suo, in quella strada e in quell’ora, pareva concentrare in sé con straordinaria intensità tutto il mondo che lo contornava.

Furono pochi istanti. Solo dopo che ne ebbi tratto via gli sguardi mi accorsi che l’uomo, e specialmente il suo passo inconsueto, mi erano di colpo entrati nell’animo senza che sapessi spiegarmene la ragione. «Guarda che buffo quel lo là in fondo!» dissi al compagno, e speravo da lui una parola banale che ripor tasse tutto alla normalità (perché sentivo essere nata in me una certa inquietu dine). Ciò dicendo diressi ancora gli sguardi in fondo alla strada per osservarlo. «Chi buffo?» fece il mio compagno. Io risposi: «Ma sì, quell’uomo che tra balla in mezzo alla strada». Mentre dicevo così l’uomo disparve. Non so se fosse entrato in una casa, o in un vicolo, o inghiottito dal brulichio che strisciava lungo le case, o addirit tura fosse svanito nel nulla, bruciato dai riverberi meridiani. «Dove, dove?» disse il mio compagno e io risposi: «Era là, ma adesso è scomparso». pencolanti: barcollanti, malferme. anditi: corridoi, angoli. calcinate: bianche, con il colore della calce. sozzura: sporcizia. formicolasse: brulicasse; la strada è piena di gente che si muove come un insieme di : abbaglianti. fastose: ricche. storno: poco lucido.

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3

6formiche.abbacinanti

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129 DINO BUZZATI Ombra del sud

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R AccONTI130

Era un effetto di luce, forse, un’illusione banale degli occhi, ma l’uomo si era ancora dissolto nel nulla, sinistro inganno. In realtà le parole mi si ingor gavano in bocca. Io balbettavo, smarrito, fissando le sabbie vuote. «Tu non stai bene» mi disse il compagno. «Torniamo al piroscafo». Allora cercai di ri dere e dissi: «Ma non capisci che scherzavo?». Alla sera partimmo, la nave scese per il canale verso il Mar Rosso, in dire zione del Tropico, e nella notte l’immagine dell’arabo mi restava fissa nell’a 1 falansteri: edifici. 2 tuguri: abitazioni squallide. 3 filantropie: pensieri nobili ma astratti.

Poi risalimmo in macchina e si andò in giro benché fossero appena le due e facesse caldo. L’inquietudine non c’era più e si rideva facilmente per stu pidaggini qualsiasi, fino a che si giunse ai confini del borgo indigeno dove i falansteri1 polverosi cessavano, cominciava la sabbia e al sole resistevano al cune baracche luride, che per pietà speravo fossero disabitate. Invece, guar dando meglio, mi accorsi che un filo di fumo, quasi invisibile tra le vampate del sole, saliva su da uno di quei tuguri2, alzandosi con fatica al cielo. Uomini dunque vivevano là dentro, pensai con rimorso, mentre rimuovevo un pez zetto di paglia da una manica del mio vestito bianco. Stavo così gingillandomi con queste filantropie3 da turista quando mi mancò il respiro. «Che gente!» stavo dicendo al compagno. «Guarda quel ra gazzetto con una terrina in mano, per esempio, che cosa spera di…?» Non terminai perché gli sguardi, non potendo sostare per la luce su alcuna cosa e vagando irrequieti, si posarono su di un uomo vestito di una palandrana bianca, che se n’andava dondolando al di là dei tuguri, in mezzo alla sabbia, verso la sponda di una laguna. «Che ridicolo» dissi ad alta voce per tranquillizzarmi. «È mezz’ora che gi riamo e siamo capitati nello stesso posto di prima! Guarda quel tipo, quello che ti dicevo!». Era lui infatti, non c’era dubbio, con il suo passo vacillante, co me se andasse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno. E anche adesso voltava le spalle e si andava allontanando adagio, chiudendo – mi pareva – una fatalità paziente e ostinata. Era lui; e l’inquietudine rinacque più forte perché sapevo bene che quello non era il posto di prima e che l’auto, pur facendo giri viziosi, si era allonta nata di qualche chilometro, la qual cosa un uomo a piedi non avrebbe potuto fare. Eppure l’arabo indecifrabile era là, in cammino verso la sponda della laguna, dove non capivo che cosa potesse cercare. No, egli non cercava nulla, lo sapevo perfettamente. Di carne ed ossa o miraggio, egli era comparso per me, miracolosamente si era spostato da un capo all’altro della città indigena per ritrovarmi e fui consapevole (per una voce che mi parlava dal fondo) di una oscura complicità che mi legava a quell’essere. «Che tipo?» rispose il compagno spensierato. «Quel ragazzo col piatto, dici?» «Ma no!» feci con ira. «Ma non lo vedi là in fondo? Non c’è che lui, quello lì che… che…»

Andò la nave e a poco a poco mi convinsi di essere stato in errore: gli arabi si vestono pressappoco tutti uguali, mi ero evidentemente confuso, complice la fantasia sospettosa. Tuttavia sentii ritornare vaga eco di disagio il mattino che approdammo a Massaua. Quel giorno me ne andai girando solo, nelle ore più calde, e mi fermavo agli incroci per esplorare attorno. Mi sembrava di fare una specie di collaudo, come attraversare un ponticello per vedere se tenga. Sareb be ricomparso l’individuo di Porto Said, uomo o fantasma che fosse?

DINO BUZZATI 131 nimo, mentre inutilmente tentavo di pensare alle cose di tutti i giorni. Mi pa reva anzi oscuramente di seguire in un certo modo determinazioni non mie, mi mettevo addirittura in mente che l’uomo di Porto Said non fosse estraneo alla cosa, quasi che ci fosse stato in lui il desiderio di indicarmi le strade del sud, che il suo barcollare, i suoi tentennamenti d’orso fossero ingenue lusin ghe, sul tipo di certi stregoni.

Girai per un’ora e mezza e il sole non mi dava pena (il sole celebre di Mas saua) perché la prova sembrava riuscire secondo le mie speranze. Mi spinsi a piedi attraverso Taulud, mi fermai a perlustrare la diga, vidi arabi, eritrei, sudanesi, volti puri od abbietti1, ma lui non vidi. Lietamente mi lasciavo cuo cere dal caldo, come liberato da una persecuzione. Poi venne la sera e si ripartì per il meridione. I compagni di viaggio erano sbarcati, la nave era quasi vuota, mi sentivo solo ed estraneo, un intruso in un mondo di altri. Gli ormeggi erano stati tolti, la nave cominciò a scostarsi lenta mente dalla banchina deserta, nessuno c’era a salutare e d’un tratto mi passò per la mente che in fondo il fantasma di Porto Said in qualche modo si era oc cupato di me, sia pure per angustiarmi2, meglio che niente. Sì, egli mi aveva fat to paura con le sue sparizioni magiche, nello stesso tempo però c’era un motivo di orgoglio. L’uomo infatti era venuto per me (il mio compagno di passeggiata non lo aveva neppure notato). Considerato a distanza, quell’essere mi risultava adesso come una personificazione3, racchiudente il segreto stesso dell’Africa. Tra me e questa terra c’era dunque, prima che lo sospettassi, un legame. Era venuto a me un messaggero, dai regni favolosi del sud, a indicarmi la via? La nave era già a duecento metri dalla banchina ed ecco una piccola figu ra bianca muoversi sull’estremità del molo. Solissimo sulla striscia grigia di cemento, si allontanava lentamente – mi parve – barcollando come se titu basse o andasse cercando qualcosa, o fosse anche un poco storno. Il cuore mi cominciò a battere. Era lui, ne fui sicuro, chissà se uomo o fantasma, proba bilmente (ma non potevo distinguere a motivo della distanza) mi voltava le spalle, se n’andava in direzione del sud, assurdo ambasciatore di un mondo che sarebbe potuto essere anche mio. Ed oggi, ad Harar, finalmente l’ho incontrato di nuovo. Io sono qui che 1 abbietti: spregevoli. 2 angustiarmi: angosciarmi, preoccuparmi. 3 personificazione: simbolo. L’ombra diviene per il narratore immagine che condensa il significato dell’intero viaggio.

No, non è più paura, come avvenne presso la laguna di Porto Said, è invece come sentirsi deboli, inferiori a ciò che ci aspetta. L’ho rivisto oggi, mentre perlustravo i labirinti della città indigena.

Corsi giù tra i sassi scoscesi, con la maggiore lestezza possibile. Questa volta finalmente non mi sarebbe sfuggito; due muri rossi e uniformi rinser ravano la stradicciola e non vi erano porte.

Corsi fino a che il vicolo faceva un’ansa e mi aspettavo, alla svolta, di tro varmi l’uomo a non più di tre metri. Invece non c’era. Come le altre volte egli era svanito nel nulla. L’ho rivisto più tardi, sempre uguale, che si allontanava ancora per uno di quei budelli3, non verso il mare ma verso l’interno. Non gli sono più corso dietro. Sono rimasto fermo a guardarlo, con una vaga tristezza, finché è spa rito in un vicolo laterale. Che cosa voleva da me? Dove voleva condurmi? Non so chi tu sia, se uomo, fantasma, o miraggio, ma temo che ti sia sbagliato. Non sono, ho paura, colui che tu cerchi. La faccenda non è molto chiara, ma mi pare di avere capito che tu vorresti condurmi più in là, ogni volta più in là, sempre più nel centro, fino alle frontiere del tuo incognito regno. Lo capisco e sarebbe anche bello. Tu sei paziente, tu mi aspetti ai bivi so litari per insegnarmi la strada, tu sei veramente discreto, tu fai perfino mo stra di fuggirmi, con diplomazia tutta orientale, e non osi neppure rivelare il tuo volto. Tu vuoi soltanto farmi capire – mi sembra – che il tuo monarca4 mi aspetta in mezzo al deserto, nel palazzo bianco e meraviglioso, vigilato da

1 Petromax: lampada a petrolio. 2 fortilizi: fortificazioni. 3 budelli: cunicoli. 4 monarca: re, signore.

Tacevo questi pensieri quando lui mi riapparve. Per una combinazione la stradicciola ripida per dove scendevo non era tortuosa come le altre, ma abbastanza diritta, cosicché se ne poteva scorgere un’ottantina di metri. Lui camminava tra i sassi, barcollando più che mai come un orso e volgendo la schiena si allontanava, estremamente significativo: non proprio tragico e nemmeno grottesco, non saprei proprio come dire. Ma era lui, sempre l’uomo di Porto Said, il messaggero di favolosi regni, che non mi potrà più lasciare.

R AccONTI132 scrivo, nella casa di un amico piuttosto isolata, il ronzio del Petromax1 mi ha riempito la testa, i pensieri vanno su e giù come le onde, forse per la stan chezza, forse per l’aria presa in macchina.

Già camminavo da mezz’ora per quei budelli, tutti uguali e diversi, e c’era una luce bellissima dopo un temporale. Mi divertivo a gettare un’occhiata nei rari pertugi, dove si aprono cortiletti da fiaba, chiusi come in minuscoli forti lizi2 tra muri rossi, di sassi e di fango. I viottoli erano per lo più deserti, le case (per così dire) silenziose; alle volte veniva in mente che fosse una città morta, sterminata dalla peste, e che non ci fosse più via d’uscita; la notte ci avrebbe colti alla ricerca affannosa della liberazione.

2. Quali dubbi e quali paure vive il narratore? Quali domande rimangono al termine della narrazione?

6. Immagina di essere il compagno di viaggio del narratore e racconta la vicenda, assumendo il suo punto di vista. Cosa leggi nei mutamenti di stato d’animo del tuo compagno di viaggio? Quali domande sorgono in te? Quali decisioni prendi?

7. Potresti definire Ombra del sud un racconto d’avventura? Facendo riferimento a racconti e a romanzi d’avventura letti in questi anni, esponi il tuo pensiero, per spiegare caratteristiche e condizioni che permettono l’accadere di un’avventura.

3. Quale cambiamento avviene nel narratore? Quale decisione prende, nel finale del racconto? Perché? Cosa invece in lui non cambia?

4. Dividi il racconto in sequenze, per mettere in evidenza i mutamenti dello stato d’animo del narratore.

1. Quali sono le reazioni del narratore all’apparire dell’ombra, nel corso della storia? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le espressioni che ti permettono di rispondere.

8. Racconta di quella volta in cui anche tu sei rimasto affascinato da qualcosa di attraente, anche se non immediatamente comprensibile. Metti in evidenza gli stati d’animo, le domande, i dubbi, le speranze che ti hanno accompagnato nel corso della circostanza narrata.

leoni, dove cantano fontane incantate. Sarebbe bello, lo so, lo vorrei proprio. Ma la mia anima è deprecabilmente timida, invano la redarguisco, le sue ali tremano, i suoi dentini diafani battono appena la si conduce verso la soglia delle grandi avventure. Così sono fatto, purtroppo, e ho davvero paura che il tuo re sprechi il suo tempo ad aspettarmi nel palazzo bianco in mezzo al de serto, dove probabilmente sarei felice. No, no, in nome del Cielo. Sia come sia, o messaggero, porta la notizia che io vengo, non occorre neanche che tu ti faccia vedere ancora. Questa sera mi sento veramente bene, sebbene i pensieri ondeggino un poco, e ho preso la decisione di partire (Ma sarò poi capace? Non farà storie poi la mia anima al momento buono, non si metterà a tremare, non nasconderà la testa tra le ali impaurite, dicendo di non andare più avanti?).

5. Ora ragiona: cosa conosciamo, osservando le reazioni di chi racconta, della anomala e misteriosa ombra?

DINO BUZZATI 133

R AccONTI134 FRANZ KAFKA

L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il mes saggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi sono disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero.Questis’èmesso subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; mano vrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si osta cola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifi ci colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riusci rà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sa rebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secon do palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nes suno riesce a passare di lì tanto meno col messaggio di un morto. Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.

Un messaggio dell’imperatore

fRANZ kAfk A 135

4. Quale ragione spinge il destinatario del messaggio a “stare alla finestra” quando scende la sera?

6. Attèndere: prov. e fr. Attendre; dal lat. Attendere – supino Attentum – composto di Ad e tendere, distendersi, volgere a un termine, inclinare, mirare, aspirare, por mente, considerare, star in attesa o in aspettativa. L’attesa di qualcuno o qualcosa è un’esperienza ben nota a ogni uomo. Essa costituisce un ostacolo o un’opportunità per chi attende? Argomenta a proposito, facendo riferimento alla tua esperienza e alle tue letture.

1. Riassumi il racconto in una frase.

2. L’intero racconto esprime l’attesa di un avvenimento: quale?

3. Quali condizioni costituiscono un conflitto, cioè sembrano impedire che ciò accada?

5. Racconta di quella volta in cui, al termine della giornata, hai avuto l’occasione di comprendere ed esplicitare ciò che il tuo cuore attendeva.

3 carcere di Blackwell: sull’isola di Blackwell (oggi chiamata isola Roosvelt), che si trova a New York tra Manhattan e il Quenns, c’era un carcere, chiuso nel 1935.

Per anni, dell’ospitale carcere di Blackwell3 egli aveva fatto i suoi quartieri invernali. Come i suoi più prosperi concittadini newyorkesi acquistavano i biglietti per Palm Beach e per la Riviera, così Soapy ogni inverno faceva i suoi umili preparativi per l’annuale egira4 sull’Isola. Ed ora era giunto il momento. La notte precedente, tre giornali festivi, distribuiti sotto la sua giacca, attor no alle caviglie e sul grembo, non erano valsi a respingere il freddo mentre egli dormiva sulla sua panchina vicino allo spruzzo impetuoso della fonta na dell’antica piazza. E l’Isola si era affacciata, imponente e tempestiva, alla mente di Soapy. […] Soapy, come ebbe deciso di andare all’Isola, si mise all’opera per realizza re il suo desiderio. Ciò poteva farsi in molti e agevoli modi. Il più piacevole era quello di pranzare festosamente in un costoso ristorante; e, dichiarata la pro pria insolvenza, lasciarsi consegnare, pacatamente, senza clamori, alle mani di un poliziotto. Un benigno magistrato avrebbe pensato al resto. Soapy si alzò dalla sua panchina, lentamente attraversò la piazza e rag giunse il piatto mare di asfalto in cui confluiscono Broadway e la Quinta Ave

Le ambizioni ibernatorie di Soapy non erano smodate. Non aspirava a cro ciere mediterranee, né a sorriso di cieli meridionali, o derive per flutti vesu viani. Tre mesi sull’Isola, ecco quel che la sua anima bramava. Tre mesi di vitto e letto assicurati, e di compagnia congeniale, al riparo da Borea e dalle giac che blu, questo era per Soapy l’essenza delle cose degne di essere desiderate.

Soapy si agitava sulla sua panca in Madison Square1. Quando di notte le oche selvatiche fan suonare alto il loro clackson, e le donne sprovviste di pelle di foca trattano con gentilezza i loro mariti, e irrequieto si agita Soapy sulla panchina del parco, siate pur certi che l’inverno è vicino.

La mente di Soapy constatò che era per lui giunto il momento di erigersi in unitario Comitato Finanziario, investito del compito di prendere misure in vi sta degli imminenti rigori. Pertanto egli si agitava irrequieto sulla sua panca.

Una foglia morta cadde in grembo a Soapy. Era il biglietto da visita di Jack Gelo. Jack è cortese con gli abituali inquilini di Madison Square, e dà tempe stivo preavviso della sua visita annuale. Agli angoli di quattro strade egli con segna il suo biglietto al vento del Nord, lacchè di Magione2 di Tutti all’Aperto, affinché gli inquilini di quella possano provvedere ai necessari preparativi.

R AccONTI136 O. HENRY Lo sbirro e l’inno

4 egira: fuga, ritirata. Parola derivante dalla lingua araba.

1 Madison Square: una piazza di New York. 2 lacchè di Magione: domestico, maggiordomo. Il vento è chiamato ironicamente il maggiordomo di coloro che vivono all’aperto.

«Non ti viene in mente che potrei averci qualche cosa a che fare?» disse Soapy, non senza sarcasmo, ma amichevolmente, come chi dà il benvenuto alla buona fortuna.

«Chi è stato?» chiese l’agente, agitandosi.

La mente del poliziotto si rifiutò di accettare Soapy anche come semplice indizio. Gli uomini che rompono le vetrine non se ne restano poi a discorrere con i valletti della legge. Se la danno a gambe. Il poliziotto scorse un uomo che a mezzo isolato di distanza correva per raggiungere un tram. Impugnando la mazza si diede all’inseguimento. Soapy, il cuore colmo di disgusto, due volte sconfitto, si allontanò pigramente. Dall’altra parte della strada stava un ristorante di modeste pretese. Lusinga va appetiti robusti e umili borse. Stoviglie e atmosfera vi erano spesse. Sottiletti brodi e tovaglie. In codesto luogo Soapy introdusse senza alcun inconveniente le sue scarpe accusatrici e i suoi calzoni rivelatori. Sedette ad un tavolo e con sumò bistecca, focaccia, frittelle e pasticcio. Dopo di che rivelò al cameriere che nessun rapporto intercorreva fra la sua persona e la più trascurabile moneta. 1 Broadway e la Quinta Avenue: due tra le più importanti strade di Manhattan, nelle quali ferve la vita cittadina. 2 strada epicurea: non sarebbe stata una strada caratterizzata da piaceri. Il termine deriva da Epicuro, importante filosofo dell’antica Grecia. 3 limbo: l’anticamera dell’inferno. Qui indica il penitenziario.

O. hENRy 137 nue1. Risalì per Broadway, e si fermò davanti a uno sfarzoso caffè. Era ben ra sato, indossava una giacca decorosa, e la sua bella nera cravatta a farfalla gli era stata regalata da una dama delle missioni nel Giorno del Ringraziamento. Se fosse riuscito a raggiungere un tavolo del ristorante senza farsi notare, il successo era certo. La porzione di lui che si sarebbe mostrata al di sopra del ta volo non avrebbe sollevato alcun dubbio nella mente del cameriere. Un’anitra arrosto, pensava Soapy, era forse quel che ci voleva, con una bottiglia di Cha blis, e poi Camembert, una tazzina di caffè ed un sigaro. Per un sigaro poteva bastare un dollaro. Il totale non sarebbe stato tanto alto da provocare l’ammi nistrazione del caffè ad una suprema manifestazione di vendetta; e tuttavia il cibo l’avrebbe fatto sazio e felice per tutto il viaggio verso il rifugio invernale.

Ma non appena Soapy mise piede oltre la soglia del ristorante, l’occhio del primo cameriere notò i suoi calzoni acciaccati e le scarpe disfatte. Mani rapi de e robuste lo fecero girare su sé stesso e in silenzio, fulmineamente, lo re stituirono al marciapiede così scongiurando il tristissimo fato dell’insidiata anatra. Soapy si allontanò da Broadway. A quel che pareva, non sarebbe stata una strada epicurea2 a condurlo all’Isola bramata. Occorreva scoprire qual che altro mezzo per accedere al limbo3.

Ad un angolo della Sesta Avenue luci elettriche e merci ingegnosamen te disposte in una vetrina rendevano illustre un negozio. Soapy raccolse un ciottolo e lo lanciò contro il vetro. Una folla si precipitò sul posto, con alla te sta un poliziotto. Soapy rimase immobile, le mani nelle tasche, e sorrise alla vista dei bottoni d’ottone.

1 fatuamente: con leggerezza, stupidamente.

2 esecrato: odiato, detestato. Dal latino execrāri “togliere il carattere sacro”.

Il piano di Soapy era di recitare la parte dello spregevole, esecrato2 pappa gallo. L’aspetto raffinato ed elegante della vittima e la prossimità della guar dia coscienziosa lo imbaldanzirono a credere che di lì a poco egli avrebbe avvertito sul braccio la deliziosa morsa ufficiale che gli avrebbe garantito il quartiere d’inverno sull’Isola stretta stretta, piccina picciò.

R AccONTI138

Soapy si rassettò il cravattino donatogli dalla dama missionaria, mise be ne in mostra i polsini sfilacciati, diede al cappello un’angolatura cattivante, e camminando di sguincio si accostò alla giovane donna, le fece l’occhiolino, tossì, fece ehm, sorrise, smorfiò, recitò imperterrito l’impudente spregevole litania del pappagallo. Con la coda dell’occhio Soapy notava che la guardia non lo perdeva di vista. La donna si scostò di alcuni passi, e nuovamente de dicò la sua rapita attenzione alle ciotole da barba. Soapy le tenne dietro, le si pose audacemente al fianco e, toltosi il cappello, disse: «Ohilà, Bedelia! non verresti a spassartela dalle mie parti?». Il poliziotto guardava. Bastava che la giovane molestata alzasse un dito, non di più, e Soapy sarebbe stato virtualmente instradato verso il suo ricetto3 insulare. Già gli pareva di sentire l’amabile calore del commissariato. La don na lo guardò in faccia, e stendendo una mano afferrò Soapy per la manica. «Eccome no, Mike,» disse festevolmente «se hai la grana da pagarmi un gotto di birra. Ti avrei rivolto la parola anche prima, ma c’era lo sbirro che non ci perdeva d’occhio». Soapy, con al fianco la giovane donna abbarbicata come edera tenace alla sua quercia, passò, in preda a tetri pensieri, davanti al poliziotto. Si sentiva condannato alla libertà. Svoltato il primo angolo, si scrollò bruscamente di dosso la sua compagna

3 ricetto: ricovero. È sempre un riferimento al desiderato penitenziario.

«Ed ora affrettati a chiamare un poliziotto,» disse Soapy «e non fare aspet tare un «Nientesignore».poliziotto per te» disse il cameriere con voce pasta margherita e occhio simile alla ciliegia di un cocktail Manhattan. «Ehi, Con!». Esattamente sulla sua orecchia sinistra, contro l’ostile pavimento i due camerieri scara ventarono Soapy. Egli si alzò, snodandosi tutto, come un metro da falegname, e scosse la polvere dai suoi vestiti. L’arresto sembrava più che mai un roseo sogno. L’Isola sembrava ben lontana. Una guardia che stava davanti a uno spaccio lontano due porte, rise e si allontanò per la strada. Soapy camminò per cinque isolati prima che il suo coraggio gli permettes se di sollecitare nuovamente l’arresto. Questa volta l’occasione gli presentò quel che egli si compiacque di definire, un poco fatuamente1, un «colpo sicu ro». Una giovane donna di aspetto discreto e amabile stava di fronte ad una vetrina e contemplava con acuto interesse uno sfoggio di bacinelle da barba e calamai, e a due iarde di distanza un voluminoso poliziotto di aspetto austero stava appoggiato ad una fontanella.

«Naturalmente che è mio» disse Soapy, protervo5. L’ex proprietario di ombrelli batté in ritirata. La guardia si precipitò ad offrire assistenza ad una impellicciata bionda longilinea aggredita nel mezzo della strada da una

O. hENRy 139 e spiccò una corsa. Si fermò nel quartiere dove, di notte, si danno convegno i cuori, i giuramenti, i libretti più frivoli. Lietamente si muovevano per l’a ria invernale donne impellicciate e uomini incappottati. Una sùbita1 paura si impadronì di Soapy, non l’avesse una qualche tremenda malia reso immune all’arresto. Il pensiero gli causò un breve panico, e quando si trovò non lon tano da un altro poliziotto, che autorevolmente bighellonava davanti ad uno splendido teatro, si attaccò all’agevole paglia del «comportamento molesto». Sul marciapiede Soapy cominciò a berciare2 ebbre filastrocche, con tutta la forza della sua rauca voce. Danzò, ululò, smaniò e in altre guise sconvolse l’etere.Ilpoliziotto fece ruotare la mazza, volse la schiena a Soapy, e commentò, rivolto ad un cittadino: «È uno dei ragazzi di Yale; fanno baccano perché han fatto vedere i sorci verdi a quelli dell’Hartford College3. Cagnaroni, ma innocui. Abbiamo istru zioni di lasciarli perdere». Sconsolato, Soapy desistette dall’inutile frastuono. Mai dunque un poli ziotto gli avrebbe messo le mani addosso? Nella sua fantasia, l’Isola diveniva una irraggiungibile Arcadia4. Si abbottonò la giacca leggera, giacché il vento eraScorsegelido.in una tabaccheria un uomo ben vestito che accendeva un sigaro ad una ondeggiante fiammella. Costui aveva, entrando, posto il suo ombrello di seta accanto alla porta. Soapy entrò, afferrò l’ombrello e se ne uscì con stu diata lentezza. L’uomo del sigaro lo seguì in gran fretta. «Il mio ombrello» disse severamente. «Oh, dite davvero?» ghignò Soapy, aggiungendo la insolenza al furto sem plice. «Ebbene, perché non chiamate una guardia? L’ho preso io, il vostro om brello, eh! Chiamate una guardia, dunque, ce n’è una là all’angolo». Il proprietario dell’ombrello rallentò il passo. Ed anche Soapy, colto da presentimento che la sorte gli sarebbe stata nuovamente avversa. La guardia guatava i due uomini con occhio attento.

«Bene… voglio dire… insomma voi sapete come accadono questi equivoci. Io… se è il vostro ombrello, voglio sperare che mi scuserete… l’ho preso que sta mattina in un ristorante…, se lo riconoscete come vostro…, spero che…».

3 Yale; Hartforld College: due università americane. Il poliziotto interpreta le grida di Soapy come urla di esultanza per una vittoria sportiva della squadra di Yale.

4 Arcadia: nella mitologia greca, l’Arcadia, regione del Peloponneso, era ritenuta il regno del dio Pan e della sua corte di driadi, ninfe e spiriti della natura. Qui il termine viene usato ironicamente per indicare il penitenziario come se fosse il paradiso terrestre.

1 sùbita: immediata, improvvisa.

2 berciare: gridare in modo sguaiato. Termine di probabile origine onomatopeica.

5 protervo: arrogante, insolente.

R AccONTI140 macchina lontana due isolati. Soapy s’allontanò verso est, lungo una strada devastata dai lavori di miglioria. Irosamente scagliò l’ombrello in una buca. Bofonchiò contro gli uomini che portano elmetti e mazze. Egli voleva cadere nelle loro mani e costoro parevano considerarlo un re, incolpevole sempre.

Soapy pervenne infine ad uno dei viali verso est, dove si smorzano luci e fragori. Per quel viale mosse i suoi passi verso Madison Square, giacché l’i stinto che riporta l’uomo alla propria casa sussiste anche se la casa altro non sia che una panchina in un parco.

Ma, ad un angolo insolitamente tranquillo, Soapy dové fermarsi. Si trova va lì una vecchia chiesa, un edificio bizzarro, scombinato, irto di guglie. Da una finestra chiazzata di viola usciva un mite chiarore. Senza dubbio l’or ganista indugiava sopra i tasti e provava ancora una volta l’inno da suonarsi nell’imminente festività. Giacché di lì giunse alle orecchie di Soapy una mu sica dolcissima, che lo colse e lo inchiodò ai ghirigori della cancellata di ferro.

La recettività spirituale di Soapy e l’influenza della vecchia chiesa operan do congiuntamente, una sùbita e mirabile trasformazione si operò nella sua anima. Rivide con rapido orrore l’abisso in cui era piombato, i giorni ignobili e le indegne brame; le morte speranze, i talenti dispersi e i miserabili impulsi di cui era fatta la sua esistenza.

E subito il cuore trasalì e assentì al nuovo sentimento. Un impulso ful mineo e potente lo spinse a battaglia contro il suo sciagurato destino. Egli si sarebbe levato dal fango; sarebbe diventato un uomo, nuovamente; avrebbe avuto ragione del male che s’era impadronito di lui. Non gli mancava il tem po; era relativamente giovane; avrebbe ridato vita alle antiche generose am bizioni, e vi si sarebbe consacrato senza esitazione. Quelle note d’organo, so lenni ma dolci, avevano operato una rivoluzione in lui. L’indomani si sarebbe recato nell’operoso quartiere cittadino, a cercare lavoro. Tempo addietro un importatore di pellicce gli aveva offerto un posto di guidatore. L’avrebbe cer cato, e avrebbe chiesto il posto. Sarebbe stato qualcuno nel mondo, sarebbe… Soapy sentì una mano posarglisi sul braccio. Si volse rapidamente e vide l’ampia faccia di una guardia. «Che stai facendo qui?» chiese il poliziotto. «Niente» disse Soapy. «Allora vieni con me» disse la guardia. «Tre mesi nell’Isola» disse il magistrato alla Police Court, il mattino suc cessivo.

Alta era la luna, raggiante e serena; radi, veicoli e pedoni; i passeri pigo lavano assonnati per le gronde; per un istante, il luogo parve un cimitero di campagna. E l’inno incollava Soapy alla cancellata, giacché egli l’aveva ben conosciuto in quei giorni in cui nella sua vita c’era posto per madri e rose e ambizioni e amici e pensieri e colletti immacolati.

2. Quali stratagemmi adotta per raggiungere il proprio obiettivo? In che modo, ogni volta, le sue strategie non sortiscono l’effetto sperato?

O. hENRy 141

6. Nel racconto, un avvenimento tanto inaspettato quanto comune permette al protagonista di cambiare il proprio punto di vista. Racconta di quella volta in cui anche a te è capitato di percepire un possibile cambiamento nella tua vita.

7. Immagina di poter assistere a un dialogo tra Soapy e un detenuto del penitenziario in cui viene incarcerato. Scrivi ciò che l’uomo potrebbe raccontare di quanto gli è capitato, mettendo in luce da una parte l’ironico destino, dall’altra il desiderio di cambiare vita.

1. Soapy, per tutto il racconto, si sente «condannato alla libertà»: qual è dunque il suo desiderio?

3. Quale avvenimento fa percepire al suo cuore un «nuovo sentimento»?

4. Rileggi il finale: in cosa consiste l’ironia del racconto?

5. Dopo aver elencato i fatti essenziali, scrivi un riassunto del racconto per mettere in luce il suo significato.

Il padre di Moon si girò verso la madre di Moon. «Dove le impara simili fra si questo ragazzo, Julia?»

A Moon non piaceva quando i suoi parlavano di lui come se non ci fosse. Erano entrambi medici, spesso parlavano, dal punto di vista clinico, dei loro rispettivi pazienti, e a volte anche di Moon, come se fosse un paziente. Era una cosa irritantissima, ai primi posti nella lista delle cose che lo facevano arrabbiare di più.

«Ha solo tredici anni, santo cielo», disse il padre di Moon.

Ah, quanta pazienza ci vuole, si disse il padre di Moon. «Te l’ho già detto, e te lo ripeto. Quei soldi vanno messi da parte per pagare la tua università».

R AccONTI142 CHAIM POTOK

I genitori di Moon, entrambi bassetti e di costituzione esile, ben oltre la quarantina, stavano chiacchierando tranquillamente, seduti sul sofà. Il pa dre di Moon, irritato dal modo brusco con cui il figlio aveva interrotto la con versazione, pensò: Prima, i tamburi e la batteria; poi l’orecchino e il codino. E adesso addirittura uno studio di registrazione? Con voce controllata, domandò: «E questo cosa comporterebbe, esattamente?».

Una sera d’autunno, Moon entrò a passo di marcia nel tinello di casa e an nunciò ai suoi genitori che voleva costruire uno studio di registrazione dove lavorare col suo gruppo musicale.

Il codino, che veniva fuori come una cascata dai capelli neri e ben pettina ti, era azzurro chiaro, come un cielo mattutino.

«Il mio gruppo farà soldi a palate, papà». «Allora, con una di quelle palate, comprati la roba».

«Questo ragazzo è anche figlio tuo, Kenneth», disse la madre di Moon. «Per ché non lo domandi direttamente a lui?» Lei, in quel momento, era presa da un’altra faccenda, davanti a sé vedeva unicamente un certo ragazzo pakistano.

«Ci vogliono un grande tavolo, i microfoni, i leggii, delle prolunghe elet triche, una bella moquette o qualsiasi altro rivestimento insonorizzante e un mixer», disse Moon. «E come ti procurerai tutto questo materiale?» «Coi soldi che riceverò per il mio compleanno».

Moon Moon Vinten, tredici anni appena compiuti, era basso per la sua età, e troppo ossuto, e troppo smilzo. Aveva un volto piccolo e pallido, gli occhi rabbiosi e scuri, i capelli lisci e neri come l’ebano. Un minuscolo anellino d’argento pen deva dal lobo dell’orecchio destro e il codino che spuntava dalla fitta zazzera che gli copriva la nuca cadeva in mezzo alle scapole spigolose.

«I soldi ci servono ora, per comprare il materiale e realizzare delle regi strazioni di buona qualità», disse Moon, cercando di restare calmo. «Faremo dei demo, e li manderemo in giro, così ci chiameranno per fare delle serate e cominceremo a guadagnare. Ci vogliono i soldi per fare i soldi, papà».

chAIM P OTOk 143

Il padre di Moon, un uomo un po’ pignolo che intimidiva coi suoi modi asciutti, guardò il figlio e domandò: «E dove penseresti di piazzarla tutta que sta roba, esattamente?». «In garage», rispose lui.

«È assurdo attaccare quel “solo” ai tredici anni», disse la madre, avendo sempre davanti agli occhi la faccia di quel ragazzo pakistano, la cui fotogra fia era arrivata nel suo ufficio con la posta del mattino. «Un tredicenne non è mica un bambino».

I genitori lo fissarono. Calma e sangue freddo, pensò suo padre, e restò zitto. La madre di Moon, una donna mite e gentile, vide spegnersi repenti namente l’immagine del macilento ragazzo pakistano dal viso marrone scu ro – le labbra asciutte e sottili, il naso piccolo e dritto, gli enormi occhi neri e atterriti.Convoce tranquilla, disse rivolta al figliolo: «Ma, caro, in garage teniamo le nostre auto». Moon disse: «Allora potrei sistemarmi nel seminterrato». «È un’esperienza che abbiamo già fatto», disse il padre di Moon – e ripen sò al fracasso che erompeva dal seminterrato e s’infilava nei condotti dell’a ria condizionata e riempiva la casa con quel demoniaco rimbombante tam bureggiamento che loro chiamavano musica. «Parliamone un’altra volta». «Quando, papà?»

così, Morgan, devo fare certe telefonate molto im portanti». Morgan era il nome di battesimo di Moon, al primissimo posto nel la lista delle cose che lo facevano arrabbiare. Una volta, anni prima, un suo cugino più grande, uno spiritosone, l’aveva ribattezzato Moon, per qualche ragione ormai dimenticata. Comunque, sia i suoi genitori sia gli insegnanti continuavano a chiamarlo Morgan.

Suo«Presto,«Presto».quando?»padredisse:«Basta

«Il telefono serve anche a me, devo chiamare i ragazzi del gruppo», disse Moon.«Comunque, chiunque sia al telefono, se arriva una chiamata interconti nentale per me, per favore, avvisatemi subito», disse sua madre. «Ho bisogno del telefono», ripeté Moon. «Non devi fare i compiti?», domandò suo padre. «Papà, ho bisogno di parlare coi ragazzi del gruppo, è questione di vita o di morte», insistette Moon. I suoi erano sempre seduti tranquillamente sul divano, e lo guardavano. Persino quando era su di giri o arrabbiato, restava pallido in volto. Ma adesso gli occhi scuri scintillarono, e le labbra sottili si chiusero sopra i piccoli denti bianchi, quasi a sigillare un velenoso ribollire di parole. Squillò il telefono. Il padre di Moon alzò il ricevitore e disse briosamente: «Dottor Vinten». Ascoltò, poi passò il ricevitore alla madre di Moon. «Dal Pakistan», disse. Moon, stringendo i pugni, girò i tacchi e uscì dal tinello.

I predicozzi di sua madre erano senz’altro nella lista delle cose che lo face vano arrabbiare di più. «Adesso posso usare il telefono?», domandò. Lei sospirò. «Sono salita su per dirti che avremo un ospite». «Che ospite?», domandò Moon. «Un ragazzo pakistano». Bambini afflitti da rare malattie venivano da ogni parte del mondo per far si visitare dai suoi genitori e ricevere una diagnosi e una cura. Ma sempre in ospedale, mai a casa.

Domandò: «Perché sta da noi, se è malato?».

Scese dal letto, aprì e vide sua madre in corridoio.

R AccONTI144

Sua madre disse: «Ma lui non è malato, caro. Questo ragazzo arriverà nel nostro paese grazie all’intervento di una organizzazione internazionale, cui apparteniamo sia tuo padre che io. Lo vedrai a scuola».

«Verrà nella mia scuola?» «Sì, caro. Sii gentile con lui, mi raccomando».

Lei, con voce gentile gli disse: «Mi vedo costretta a ricordarti che se chiudi la porta non possiamo comunicare con te. Le porte chiuse finiscono spesso col diventare come muri di pietra».

Scese i gradini moquettati due alla volta fino al secondo piano, e appena aprì la porta della sua camera, la rabbia eruppe. Il cuore gli batteva all’impazza ta, le mani gli tremavano. La rabbia gli bruciava addosso come una seconda pelle. Chiuse la porta sbattendola forte. La grande foto a colori dei Beatles, appesa con una puntina all’interno della porta, ondeggiò per qualche istante e sembrò che i Beatles ballassero e saltellassero. Si lasciò cadere sul letto. Sempre insieme alla collera arrivava anche la paura. Fin da piccolo era andato soggetto a delle stizze occasionali, ma da qualche anno gli attacchi di rabbia erano diventati fin troppo frequenti. Sorgevano all’improvviso dalle profondità più oscure del suo io, e a volte lo dominavano del tutto, anche fisi camente. Restò sdraiato sulla schiena, teso e fremente. «Quando senti che sta per arrivare un attacco di rabbia, interrompi quello che stai facendo», gli ave va consigliato la signora Graham, la psicologa della scuola. «Respira a fondo e comincia a contare, molto lentamente». E Moon si mise a contare: Uno… due… tre… La signora Graham era una donna bonaria, dal volto rotondo. Magari poteva andare su al terzo piano a suonare un po’ le percussioni. Ma prima aveva bisogno del telefono. C’era qualcuno alla sua porta?

Ma Moon stava già immaginandosi il ragazzo pakistano che gironzolava per casa, e saliva su fino allo stanzino del terzo piano. Prese un profondo re spiro, poi disse: «E adesso posso usare il telefono, mamma?».

Lei ripensò a una frase che aveva pronunciato un anno prima, quando il secondo dei suoi figlioli era partito per l’università. «È difficile lasciare an dare, ma aggrapparsi è molto peggio», aveva detto lei al marito, e Moon, sen tendola, tutto a un tratto e senza nessuna spiegazione era corso di sopra, in camera sua, e si era chiuso dentro, sbattendo la porta con tale violenza

1 John Bonham e Steward Copeland: due tra i più acclamati batteristi rock; erano componenti rispettivamente dei Led Zeppelin e dei The Police

«Ehi, Moon, tu passi metà del tempo a dormire. E l’altra metà sei così in verso che non ti accorgi di un accidente». «Sarà. Ma adesso devo chiamare Ronnie e John per dirgli di domani». «Prenditela calma», disse Pete e riattaccò. Moon telefonò a Ronnie Klein e poi a John Wood. Proprio mentre stava co municando a John l’ora dell’appuntamento, sentì il bip dell’avviso di chiamata e chiese a John di riagganciare. Ecco un’altra voce nella lista delle cose che lo facevano arrabbiare: il modo in cui l’avviso di chiamata interrompeva le sue conversazioni con gli unici amici che aveva: i ragazzi con cui suonava. Di nuo vo quel basso segnale, bip: una volta, due volte; la maggior parte delle telefo nate che arrivavano erano per i suoi genitori. Non gli volevano dare un tele fono tutto suo; temevano che ci si attaccasse per giornate intere; i suoi fratelli non avevano avuto un numero personale, e nemmeno lui l’avrebbe avuto.

chAIM P OTOk 145 da crepare, con gran disappunto di suo padre, l’intonaco nell’angolo fra la porta e il soffitto del corridoio. Adesso, la signora Vinten fissò tristemente il suo terzogenito, che aveva un carattere così diverso dai fratelli maggio ri, ben più ambiziosi di lui. Andrew studiava ingegneria e aveva la passione del rugby; Colin, frequentava medicina ed era un campione di canottaggio. Morgan, invece, era così irritabile e scontroso, e sembrava tutto preso solo da sé «Sì,stesso.caro, adesso puoi usare il telefono», gli disse. E rimase ferma in corri doio a guardarlo mentre chiudeva di nuovo la porta. Moon si sedette alla scrivania ingombra e compose un numero al telefono. Rispose il padre di Pete. «Peter sta facendo i compiti», disse. «Gli ruberò solo un minuto, signor Weybridge. Glielo prometto», disse Moon. «O.k., e vedi di non sgarrare», rispose il padre di Peter. Mentre aspettava che Pete venisse al telefono, Moon guardò i grandi po ster sulla parete dirimpetto al letto: John Bonham e Steward Copeland1, che suonavano le percussioni. E i poster sulla parete accanto al letto: George e Paul con le chitarre; Ringo alla batteria; John2 che canta. Si immaginò di en trare nella foto e prendere il posto di Ringo e le sue bacchette e cominciare con un leggero tik tik tik tik sul charleston, e in quel momento… Dal telefono arrivò la voce di Pete: «Ciao, Moon, tutto bene?». «Sì. Senti, Pete, possiamo suonare domani, dopo scuola». «Sai,«Grandioso!»Pete,acasa mia ci sarà un ospite, un ragazzo del Pakistan». «Vuoi dirmi che sta da voi? Ehi, questa sì che è forte davvero!» «Ma cosa ne sai, tu, di ’sto pakistano?» «Quello che sanno tutti». «E com’è che io, invece, non ne so niente?»

2 George, Paul, Ringo, John: i quattro celeberrimi componenti dei Beatles: George Harrison, Paul McCartney, Ringo Starr, John Lennon.

«Grazie, caro». Rispose sua madre, dal tinello. Tornato alla scrivania, Moon avvicinò il ricevitore all’orecchio e sentì: «Sì, dottoressa Vinten, il ragazzo arriverà domattina presto. Certo, sarà stanco, tuttavia…».Moonriagganciò la cornetta. Non aveva pensato di domandare a sua madre dove avrebbe dormito l’o spite. Nella camera di Andy, forse? O in quella di Colin? Moon odiava il crepu scolare silenzio della casa che sottolineava l’assenza dei fratelli e ingigantiva le presenze invisibili, come i rumori che gli scoiattoli facevano scorrazzando sui muri di casa. Moon ebbe l’impressione di sentire le voci dei fratelli: gli insegnavano come si tiene la mazza da cricket, come si riceve una palla da baseball, come si lancia una palla da rugby, come si dribbla a basket; lo sfot tevano, gli dicevano che era pelleossa, la mezza cartuccia della famiglia; lo aiutavano a fare i compiti; litigavano con mamma e papà per questioni di au to e di ragazze e di serate fuori. Il pensiero del ragazzo pakistano in una delle camere dei suoi fratelli… Sentendo la collera che montava e minacciava di prendere il sopravven to, Moon attaccò a contare. Uno… due… tre… quattro… Mise un CD dei Pearl Jam nel giradischi – cinque… sei… sette… – si infilò le cuffie, poi aprì uno dei libri di scuola sulla scrivania. Intanto che leggeva, tamburellava con l’indice e il medio di entrambe le mani sul bordo della scrivania,  dum-d-d-ka-dum-dka-dum-d-d-ka-dum-d-ka, un po’ come se stesse picchiando sul rullante. Le pa role del libro vibravano e tremavano nel torrente della musica e del tam tam. Moon, stravaccato sulla sua sedia in fondo all’auditorium affollato, non ba dava alle telecamere della troupe televisiva, alle sedie vuote schierate sul palcoscenico, e al brusio di studenti e insegnanti. Le assemblee scolastiche –quasi sempre farcite di discorsi barbosi e prediche ipocrite – erano ben piaz zate nella lista di cose che infastidivano Moon e lo facevano arrabbiare di più.

E quel mattino lui era già parecchio inverso. La signora Woolsten gli aveva dato una bella ripassata perché non aveva portato il tema settimanale d’in glese. Era una donna grassa e brutta, con occhiali dalle lenti spesse e una vo ce che pareva acqua ghiacciata. Voleva il tema per l’indomani, e niente scuse. Moon aveva sentito le ghignate dei compagni e con la coda dell’occhio ave va notato l’occhiata solidale di Pete. Non aveva portato il tema perché non gli era venuto in mente niente di cui scrivere, ma la strigliata pubblica della signora Woolsten gli aveva fatto bruciare la faccia. Aveva pensato di alzar si e uscire dall’aula, poi però era rimasto al suo banco, contando fra sé e sé, tamburellando silenziosamente con le dita sulle ginocchia… finché dall’in terfono la voce stridula della vice-preside non aveva annunciato un’assem blea straordinaria.

«Sono il signor Moraes», disse una voce con accento straniero. «Sto chia mando dal Pakistan, vorrei parlare con la dottoressa Julia Vinten». «Un attimo, prego», disse Moon; aprì la porta e gridò, rivolto al piano di sotto: «Mamma, è per te».

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Tutto a un tratto, sull’auditorium affollato scese il silenzio. Moon, sempre stravaccato sulla sedia, guardò una fila di persone emergere dal lato sinistro del palcoscenico, che era immerso nel buio, e avviarsi verso le sedie. Il primo della fila era il dottor Whatley, il preside della loro scuola; poi venivano due uomini che Moon non conosceva, entrambi vestiti di scuro; poi un tipo alto, con la pelle marrone, gli occhiali e un vestito beige parecchio stazzonato, se guito da un ragazzo con la pelle dello stesso colore, e circa della stessa età di Moon, ma quattro o cinque centimetri più basso di lui. Un ragazzo scheletri co. Con gli occhi neri ed enormi. Indossava dei pantaloni neri, un golf di lana azzurro, una camicia bianca e la cravatta. Il collo spuntava dal colletto della camicia come quello di un uccello implume. Dietro il ragazzo, la madre e il padre di Moon.

Moon si ricordò vagamente di avere letto da qualche parte il nome del ra gazzo:AshrafAshraf.disse qualcosa in una lingua straniera, e il tipo, che era stato pre sentato come il signor Khan, tradusse. Il ragazzo parlò di nuovo. Raccontò di un certo signor Malik e dei dodici ragazzi che lavoravano nella sua fabbrica di tappeti. Disse che il signor Malik aveva comprato quei ragazzi dai loro genitori. Comprato? Pensò Moon. Comprato?

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Il ragazzo disse che anche lui era stato comprato, per dodici dollari, quan do aveva cinque anni. Tesseva tappeti, quindici ore al giorno, seduto su una panca insieme ad altri ragazzini, in una stanza lunga e stretta, senza un fi lo d’aria, due fioche lampadine elettriche che pendevano dal soffitto, con la temperatura che spesso toccava i quaranta gradi, le pareti di fango bollenti, se ci posavi sopra la mano, e l’unica finestra sempre chiusa, per evitare gli insetti che potevano mangiare il tappeto. Eppure, lavorare come tessitore era sempre meglio che rompersi la schiena in una cava, trasportando le pietre che servivano per la costruzione delle strade e caricandole sui carri, oppure finire nella fabbrica di articoli sportivi di proprietà di uno dei molti nipoti del signor Malik, a cucire a mano palloni da calcio, ottanta ore a settimana, nel

Moon li osservò, mentre si sedevano tutti sulle sedie schierate lungo il pal coscenico. Il ragazzo, teso e spaventato, sembrava non sapere cosa fare con le mani. Sedeva sul bordo della sedia e, allungato in avanti, fissava ansiosa mente l’auditorium affollato. Il dottor Whatley andò al podio e cominciò a parlare. Moon chiuse gli oc chi, chiedendosi come poteva convincere i suoi a lasciargli costruire uno stu dio di registrazione. Forse si poteva costruire un’aggiunta al garage. Quanto sarebbe venuta a costare? E intanto, con voce monotona, il dottor Whatley andava avanti a parlare, le parole amplificate dal microfono.

Moon era sulle spine. Il preside concluse il suo discorso, seguirono gli ap plausi, poi l’attesa del nuovo oratore.

Un attimo dopo, una strana voce risuonò nella sala, flebile, affannata e acu ta; Moon aprì gli occhi e vide il ragazzo in piedi dietro il podio, da cui spuntava no solo la sua faccia e il collo. Accanto al ragazzo, il tipo con la pelle marrone.

silenzio e nel buio quasi totale. Ai telai dei tappeti, Ashraf lavorava dalle sei del mattino fino alle otto di sera, a volte ininterrottamente, annodando dei pezzetti di filo sottile a un ordito di fili bianchi più grossi. Spesso le dita gli sanguinavano, e il sangue tingeva i fili.

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«Guardate», disse Ashraf e tese le braccia mostrando le palme delle mani, i polsi sottili spuntavano come ossi di pollo dalle maniche del golf, e Moon –sentendo le parole tremanti del ragazzo e la voce bassa del signor Khan – cer cò di vedere le dita ma da dove si trovava non ci riuscì, e così fissò le proprie, così lunghe e ossute, che tamburellavano senza posa sulle ginocchia. Il pubblico restò in silenzio.

Ashraf riprese a parlare, con quella sua voce acuta e affannata. Tre setti mane prima, nel villaggio in cui lavorava, erano arrivati due uomini in giac ca e cravatta, accompagnati da due poliziotti in uniforme; erano entrati nel la fabbrica di tappeti del signor Malik e lo avevano portato via, insieme con quattro ragazzi più piccoli di lui e altri tre più grandi. Il signor Malik aveva fatto un tale baccano! Come osavano portargli via i suoi operai, i suoi ragaz zi? Tutti legalmente comprati dai genitori – aveva le carte per provarlo, docu menti firmati e registrati presso le competenti autorità! Ashraf fece una pau sa, poi proseguì: Era giusto che dei bambini lavorassero nelle fabbriche di tappeti, di mattoni, di tessuti, nelle concerie e nelle cave? Domandò Ashraf. Sarebbe bastato che la gente in America smettesse di comprare i tappeti fat ti nel suo paese. Se i fabbricanti di tappeti non potevano vendere i loro pro dotti, non avrebbero più avuto ragione di usare i bambini, sfruttandoli come mano d’opera a basso prezzo. Ashraf si interruppe, scrutò con aria incerta il signor Khan, che annuì e sorrise. Allora il ragazzo ringraziò i presenti per averlo ascoltato, tornò al la sua sedia e si sedette. Si posò le mani sulle ginocchia e prese a fissare il pavimento. Tutti gli adulti seduti accanto a lui sul palcoscenico rimasero a guardarlo.Nelpubblico serpeggiò una certa inquietudine e scoppiarono degli ap plausi radi e nervosi. Moon, immobile, studiava il ragazzo. Il dottor Whatley tornò al podio e presentò i due sconosciuti: uno era il governatore dello Stato; l’altro, il capo dell’organizzazione che aveva portato Ashraf negli Stati Uniti. Moon non badò a cosa dissero. E nemmeno prestò molta attenzione ai due brevi discorsi tenuti dai suoi genitori, che parlarono entrambi della necessità di alzare il livello della coscienza degli americani. Badava solo a quel ragazzo, Ashraf, che, sempre seduto sull’orlo della sedia e allungato in avanti, sembrava un po’ smarrito. Non era strano che, proprio là sul palcoscenico, davanti a tutti, mentre parlavano prima il governatore, poi il capo dell’organizzazione, e infine i genitori di Moon, Ashraf avesse comin ciato a tamburellare con le dita sulle ginocchia, seguendo con i movimenti appena accennati chissà quale musica interiore che solo lui sentiva? Moon osservò il ritmo e la struttura del tamburellare di Ashraf, il ragazzo seguiva un tempo musicale molto strano, diverso da tutto quello che a Moon era capi

Qualche minuto dopo, il capannello di gente attorno ad Ashraf si diradò, e Moon lo vide che tamburellava sul piano del tavolo con il coltello e la forchet ta. Il signor Khan, seduto accanto a lui, stava finendo di mangiare. Cinque, sei studenti rimasero attorno al tavolo, a guardare Ashraf che tamburellava. «Ehi, amico», disse Pete rivolto verso Moon. «Hai poi parlato coi tuoi per la storia dello studio di registrazione?» «Sì», rispose Moon, sempre guardando Ashraf. «E cos’hanno detto?» «Che ci devono pensare». «Ragazzi, questa sì che sarebbe forte», disse Pete. «Avere un nostro studio col mixer e compagnia bella». Moon avrebbe volu to che Pete stesse zitto per seguire tranquillamente lo strano ritmo di Ashraf. «Cosa succede, amico?», domandò Pete, al telefono, più tardi, quello stesso pomeriggio. «Mi hai beccato per un pelo, stavo già sulla porta». «Non possiamo più suonare da me oggi», disse Moon. «Cos’è successo?» «Il pakistano e l’interprete stanno qui, a casa mia. Dormono. Non si può fare«Accidenti,rumore». se sarà stanco!» «Però mi scoccia che dorma nel letto di Andy. E quel signor Khan, nel letto di Colin».«Ehi,lo sai cosa mi disse una volta mio padre? Disse: “Quando avrai una casa tua, potrai decidere chi ospitare e chi no. Fino ad allora, zitto e mosca”». «Be’, potremmo suonare domani».

chAIM P OTOk 149 tato di sentire fin qui, tanto che si accorse di tamburellare a sua volta seguen do il ritmo dell’altro. E uno, uno, uno. E due, uno, due… Più tardi, quello stesso giorno, nel refettorio della scuola, Moon era a ta vola con Pete e gli altri due membri del gruppo quando Ashraf entrò accom pagnato dal signor Khan. Li vide fare la fila al banco del selfservice, e poi, portando ciascuno il suo vassoio, andarsi a sedere a un tavolo dove erano seduti già altri studenti. Moon stette a guardare Ashraf che mangiava e lo sentì rispondere alle domande che gli studenti gli rivolgevano e che il signor Khan traduceva. Dov’era nato? Cosa gli piaceva mangiare? Sapeva cos’era un McDonald’s, aveva mai visto un film di Walt Disney, conosceva Tom Hanks? Gli piaceva il rock and roll? Appena il signor Khan gli tradusse quest’ultima domanda, Ashraf si illumi nò, spalancò gli occhi e annuì. Qual era il suo gruppo preferito? E lui, raggian te, sorrise per la prima volta e disse: «I Beatles», che pronunciò «Bii-ha-tles». «Ashraf dice», tradusse il signor Khan, «che in una casa vicino alla fab brica di tappeti dove lui lavorava qualcuno ascoltava i dischi dei Beatles, per delle ore di seguito e sempre a volume molto alto». Gli studenti si affollarono attorno al tavolo, ostacolando la visuale di Moon. Qualcuno domandò quale fosse il Beatle preferito di Ashraf e Moon udì la risposta, pronunciata con to no vivace e voce acuta: «Ringo».

Sotto le travi angolari, il tetto inclinato della grande casa di mattoni e pie tra lasciava spazio per tre piccoli locali: una cabina armadio di legno di cedro, lo sgabuzzino che i suoi genitori avevano trasformato in archivio; e, il terzo, lo stanzino dove Moon si esercitava con le percussioni e suonava col suo grup po. C’era a malapena posto per le sedie, i leggii e il tavolo su cui era appog giato il giradischi per i CD e il piccolo registratore che usavano per incidere i loro pezzi. Quello stanzino risicato era l’unico posto della casa dove i genitori gli consentissero di suonare col suo gruppo. Moon tolse la fodera alla batteria, si sedette sullo sgabello, infilò un CD dei Police, si mise le cuffie e prese le bacchette. Conosceva a menadito la pacca e il ritmo di Stewart Copeland, e suonò bene, con grande precisione. Il codino azzurro ondeggiava, sobbalzando fra le spalle e la schiena. Andò avanti a suonare, e dopo un po’ si sentì scivolare nel flusso travolgente della musica, nel fragore delle percussioni, nelle cascate del ritmo primordiale.

Poi avvertì una presenza alle spalle, smise di picchiare sulla batteria e si girò.Ashraf e il signor Khan erano sulla soglia dello stanzino. Moon li fissò. Spense il CD e si tolse le cuffie. «Scusaci, non volevamo disturbarti», disse educatamente il signor Khan. «O.k., non c’è problema», rispose Moon, cercando di non lasciare traspari re la rabbia. Ecco ciò che aveva temuto più di tutto: l’invasione del suo regno più segreto! Calma, respiri profondi… Uno… due… «Ashraf dice che si sentono degli strani rumori contro le pareti. Dei rumo ri che lo hanno svegliato», disse il signor Khan. «Ah», fece Moon. «Sono solo gli scoiattoli. Scorrazzano su e giù dal tetto. In genere si fanno sentire solo di notte». Tre… quattro… cinque… Il signor Khan riferì ad Ashraf, che annuì e parlò di nuovo. «Dice di dirti che le mura della fabbrica dove lavorava erano piene di in setti e certe volte, la notte, li sentiva muoversi».

«Domani non posso, ho lezione di chitarra. Dopodomani?»

«O.k., vada per dopodomani». «E pigliatela calma, eh?», gli disse Pete. Moon telefonò agli altri due ra gazzi del gruppo. Poi si sedette alla scrivania, ad ascoltare il silenzio della casa. Due ore di percussioni sfumate. Pensò alla testa di Ashraf sul cuscino di Andy. E se aveva qualche malattia contagiosa? No, mamma una cosa così l’avrebbe saputa. I suoi erano in ospedale; e quella sera ci sarebbe stata una grande cena con Ashraf e il signor Khan, il governatore e il sindaco. Moon avrebbe cenato a casa da solo, non era la prima volta che succedeva. Avrebbe messo un CD nel giradischi del tinello per riempire l’aria con la musica gon fia e martellante che allontanava i silenzi minacciosi e copriva gli occasionali stridii e lo scalpiccio degli scoiattoli sui muri esterni della casa.

Un rumore lo distolse dai suoi pensieri: delle voci soffocate che venivano dalla stanza accanto. Ashraf e il signor Khan. Moon si alzò, superò la camera da letto dei suoi, arrivò fino in fondo al corridoio e imboccò la scala di legno che saliva al terzo piano.

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Moon disse: «Una volta le api hanno fatto il nido dentro un muro di casa. I miei hanno dovuto chiamare un apicoltore perché portasse via il nido con tutte le api dentro». Perché gli stava raccontando questa storia? Sei… sette… Ashraf ascoltò attentamente la traduzione, annuendo, poi parlò con voce sommessa.«Vorrebbe sapere come ti chiami», disse il signor Khan. «Mi chiamo Moon». Il signor Khan fece una faccia sconcertata. «Mo-on», ripeté Moon, scandendo bene le sillabe. «Davvero?», disse il signor Khan. Riferì ad Ashraf che replicò. «Chiede come mai ti chiami Moon?» «Boh, è il mio nome», rispose Moon. Il signor Khan parlò con Ashraf, che scrutò Moon. Nere luccicanti pupille dentro occhi enormi, curiosi, vivaci. «Ashraf dice che è stato attirato quassù dal suono della tua batteria e chiede se può parlare liberamente e rivolgerti delle domande, come dire? personali». «Personali? In che senso?» «Dice che non si offenderà se preferisci non rispondere». «Allora, ’ste domande?» «Innanzi tutto, Ashraf vorrebbe sapere perché porti l’orecchino». «L’orecchino? Boh, così». «Ashraf dice che non capisce la tua risposta». «Porto l’orecchino perché mi piace sentirmi diverso dagli altri». «E perché hai i capelli lunghi tinti di azzurro?» «L’ho visto su una rivista». «Ashraf dice se lo hai visto su una rivista, allora stai facendo qualcosa che fanno anche gli altri, quindi non sei tanto diverso». Moon si sentì avvampare. «Nessun altro, nella mia scuola, ha i capelli tinti così».«Chiede se può toccarteli». «Ashraf«Cosa?» vorrebbe toccarti i capelli». Moon respirò profondamente. Prima tutte quelle domande, e adesso… vo leva pure toccargli i capelli. Be’, perché no? Girò la testa da un lato. Il co dino azzurro che penzolava dalla zazzera corvina ondeggiò avanti e indie tro. Ashraf si protese, fece correre le dita delicatamente lungo tutto il codino, sfiorando le ciocche di capelli azzurri, un’espressione meravigliata sul volto scarno. Poi ritrasse la mano. Moon vide che si esaminava le dita e lo sentì par lare sommessamente col signor Khan. «Dice che gli piace il colore dei tuoi capelli e la sensazione al tatto», disse il signor Khan a Moon. Moon guardò Ashraf, che gli rivolse un timido sorriso e parlò di nuovo col signor«AdessoKhan.chiede perché suoni la batteria». Moon, dopo una breve esitazione, rispose: «Perché mi piace, punto».

«Ashraf ti ringrazia, sei stato gentile a rispondere».

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«Ashraf dice di dirti che lui a volte suona le percussioni perché in certi momenti picchiare qualcosa fa piacere».

«Be’, sì, anch’io sento la stessa cosa… a volte». Moon non aveva mai parlato prima di queste faccende con nessuno.

«Sì, «Perchécerto».èrimasto in quella fabbrica? Non poteva scappare e basta?»

nessun posto dove andare. Si trovava a centinaia di chilometri da casa e sarebbe morto di fame prima di arrivare, oppure l’avreb bero riacciuffato, riconsegnandolo al suo padrone che lo avrebbe punito se veramente, picchiandolo e magari incatenandolo al banco da lavoro, o riven dendolo come scavatore in qualche cava». «Ma davvero i suoi genitori lo avevano venduto a quel tipo dei tappeti? Possibile?»Ashrafascoltò

la traduzione e sembrò avere un momento di vergogna. «I suoi genitori avevano bisogno dei soldi per sfamare gli altri figli più pic coli e loro stessi». «Ma adesso Ashraf deve tornare laggiù?» «Oh, sì. Lui sente un obbligo morale a ritornare. La nostra organizzazione lo manterrà agli studi, e Ashraf continuerà a lottare per aiutare altri ragazzi come«Perlui».favore, signor Khan, gli dica che gli auguro buona fortuna». Il signor Khan tradusse e Ashraf rispose. «Ti ringrazia e vorrebbe chiederti un piccolo favore». «Chiede«Sentiamo».sepuò suonare un attimo la tua batteria». Moon restò così sorpreso da non sapere cosa dire. La sua batteria! Non la faceva toccare mai a nessuno! Poi guardò Ashraf, che, dopo un istante, parlò di nuovo col signor Khan. «Dice che starà attento a non fare danni», disse il signor Khan. «Allora, o.k.», disse Moon. Ashraf, con gli occhi che gli brillavano, tese le mani verso Moon. Moon gli porse le bacchette e scivolò via dallo sgabello. Ashraf prese le bacchette, se dette al posto di Moon, e picchiò sul rullante. Picchiò sul rullante e sul charle ston, in modo un po’ goffo, e senza nessun ritmo. Dopo un po’, deposte le bac chette, raccolse i bonghi che erano sul pavimento, vicino al charleston, se li mise fra le ginocchia e cominciò a suonare con le dita e le palme callose quel ritmo strano che Moon gli aveva visto accennare quando era sul palco dell’au ditorium e poi di nuovo nel refettorio. E uno uno uno. E due uno due. E… Moon allungò una mano e accese il registratore. Ashraf picchiava sempre più forte. Moon, accanto a lui, si sentì sopraffare dalla potenza di quel ritmo sconosciuto. E Ashraf continuava a suonare: dum

«Ma adesso voglio fargliela io una domanda, posso?»

Il signor Khan tradusse la domanda di Moon e Ashraf abbassò gli occhi mentre«Dicerispondeva.chenonc’era

Quella sera, si sedette in tinello insieme ai suoi genitori, a guardare il tele giornale nazionale. Fecero vedere Ashraf che parlava in una scuola superio re, a Baltimora. Sembrava molto piccolo e spaventato dietro il podio, ma tese le braccia verso il pubblico con aria di sfida, mostrando le mani rovinate. Il signor Khan era accanto a lui, e traduceva.

La sera dopo, Moon rivide Ashraf in televisione, stavolta parlava davanti a una commissione del Congresso. Indossava un completo scuro e una cra vatta uguale, dal colletto della camicia spuntava fuori il collo magro. Sedeva davanti a un lungo tavolo, e accanto a lui c’era il signor Khan. Moon notò che Ashraf, di tanto in tanto, tamburellava silenziosamente con le dita sul bordo delUnotavolo.dei membri della commissione gli rivolse una domanda. Moon vide Ashraf tendere le braccia in avanti, mostrando le dita.

chAIM P OTOk 153 dat, dum dat, dum dat, il sudore gli imperlava la fronte e la faccia, la vista si confondeva a seguire il movimento frenetico delle sue dita: dum dat, dum dat, dum dat. Poi, di punto in bianco, il ragazzo si fermò. Gli occhi sembra vano due carboni ardenti. Il sudore gli colava giù per la faccia scura. Posò i bonghi sul pavimento. Moon spense il registratore. Ci fu un silenzio, poi Ashraf parlò col signor Khan. «Ti ringrazia di tutto cuore per avergli lasciato suonare i tuoi tamburi», disse il signor Khan. «Il piacere è stato mio», disse Moon. «Dice che probabilmente non vi vedrete mai più, ma lui non ti dimenti cherà».Moon scrutò Ashraf, che parlò di nuovo brevemente. «Dice che adesso dobbiamo andare a prepararci per la cena di stasera». Ashraf tese la mano a Moon. Moon gliela strinse e fu sbalordito tanto era ossuta, grezza come un pezzo di legno e coperta da una callosità uniforme. Sorridendo timidamente, Ashraf strinse la mano a Moon, poi si girò e uscì se guito dal signor Khan. Moon riavvolse il nastro e lo ascoltò, ma solo per pochi istanti, giusto il tempo di controllare che la registrazione fosse venuta bene, poi se lo portò giù in camera.  Pete domandò: «Be’, l’hai visto in tivù?». «Chi?», replicò Moon. Erano a scuola, salivano le scale affollate di studen ti, stava per cominciare la lezione d’inglese. «Come, chi? Quel ragazzo, come si chiama? Ashraf!» «Era in tivù?» «Ehi, ma su quale pianeta vivi? Lo hanno fatto vedere al telegiornale, ieri sera, e stamattina era a Today». «Non ho visto la tele, dovevo fare quel tema per la signora Woolsten». «È ancora a casa tua?» «È partito stamattina, prima che mi svegliassi», rispose Moon.

In conclusione, siamo convinti che in ogni società ci sia lo spazio per un migliora mento. Tuttavia, riteniamo che, al presente, la situazione vada accettata per quel lo che è. L’Assemblea Nazionale non deve precipitarsi a varare riforme di cui non sia stato prima valutato l’impatto sul nostro sistema produttivo e commerciale. A nostro avviso, è necessario che il governo eviti le cosiddette «misure umanitarie», quando esse danneggino la nostra competitività sul mercato. L’articolo era firmato da un certo Imram Malik. Moon domandò: «E questo cosa significa, papà?». «Hai tredici anni, Morgan, secondo te cosa intende dire il signor Malik?» «Boh», rispose Moon, che temeva di averlo capito fin troppo bene. «Non oseranno fare del male ad Ashraf», disse sua madre. Moon si sentì gelare il sangue e avvertì quel senso di impotenza che sem pre precedeva gli attacchi di rabbia. Nelle settimane successive riascoltò spesso la registrazione; a volte saliva su al terzo piano e sentiva la cassetta ricordando lo sfavillante luccichio ne gli occhi scuri di Ashraf quando aveva suonato i bonghi. E si trovava appunto nello stanzino sotto il tetto quella sera d’inverno in cui squillò il telefono por tatile, che aveva posato sul tavolo, accanto al registratore. Era qualcuno che chiamava da Washington e cercava sua madre. In casa non c’era nessuno, disse Moon, e appuntò il nome dello sconosciuto e il suo numero telefonico. Aveva appena riattaccato, quando l’apparecchio squillò di nuovo: una voce maschile chiese di suo padre. Moon stava scrivendo il nome e il numero di questo secondo signore quando sentì il bip dell’avviso di chiamata e gli sal tarono i nervi. Adesso gli toccava fare pure il segretario? Era salito lassù per suonare la batteria, non per prendere nota di tutte le telefonate in arrivo per i suoi«Ciao,genitori.Moon». Era Pete. «Ciao, Pete. Come va?» «Hai sentito la notizia?» «Quale «L’hannonotizia?»appena detto in tivù. Quel ragazzo, Ashraf. È morto».

«Quel ragazzo ha del fegato», disse il padre di Moon. «Nel suo paese non l’accoglieranno certo a braccia aperte». «Non può succedergli nulla di male, Kenneth. C’è mezzo mondo che lo os serva», disse la madre di Moon. Il mattino dopo, quando Moon scese per fare colazione, trovò suo padre al tavolo di cucina, teso e irritato. E anche la mamma, che in genere al mattino era sempre troppo allegra per i gusti di Moon, sembrava decisamente preoccupata. «Be’, che succede?», domandò Moon. «Leggi qui», disse suo padre, e gli porse il giornale del mattino, indican dogli l’ultimo paragrafo di un articolo intitolato «Schietta replica alla crociata di unMoonragazzo».lesseil paragrafo:

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chAIM P OTOk 155 «Sissignore.«Cosa?»

Morto stecchito. Travolto da un camion mentre andava in bi ci. E il camion, dopo averlo investito, ha accelerato ed è scomparso». Moon sentì un brivido scuotergli le mani. «Dicono che è stato un incidente, ma chi ci crede?», disse Pete. La rabbia cominciò a bollirgli nello stomaco e bruciargli negli occhi. Re spira«Sailentamente…chetidico?

Dovevano buttargliele giù tutte, quelle lerce fabbriche, dargli fuoco», esclamò Pete, alzando la voce, furente. «Certa gente capisce solo questa lingua». Moon restò in silenzio. Uno… due… tre… quattro… «Ehi, amico», disse Pete. «Ci sei? Pronto, pronto?» «Sì», rispose Moon, «sono qua». «I tuoi sono in casa?» «No». Cinque… sei… sette… «Vuoi che venga lì?» «Sicuro».«Sicuro?»«No». Otto… nove… dieci… «Adesso devo andare. È tardi. Ne parliamo domani». Moon riattaccò, spense il registratore e restò per un po’ lì, immobile, nella stanza silenziosa. Poi tolse la cassetta dal registratore, scese in camera sua e la ripose nel cassetto della scrivania. Si sedette e cominciò a tamburellare sul piano della scrivania con entrambe le mani. Suonò i ritmi base e le va rie figure ritmiche. Destra destra sinistra sinistra destra destra sinistra sini stra… destra sinistra destra destra… sinistra destra sinistra sinistra…  Tumta-ta pum-ta-ta… C’era qualcuno alla porta? Si alzò, aprì e vide i suoi in corridoio. Erano ve stiti da sera. Si guardarono in silenzio per qualche secondo. «L’hai già saputo, vedo», disse suo padre. «Mi ha chiamato Pete», rispose Moon. «Dio, che cosa orribile», disse sua madre. Aveva gli occhi rossi, il volto pal lido.«È stato un omicidio, vero?», chiese Moon. «I nostri, a Washington, stanno indagando», disse suo padre. «Sapete, quando era qui, Ashraf è salito su da me al terzo piano», disse Moon. «Mi ha chiesto di lasciargli usare i bonghi, e io l’ho registrato mentre suonava».«Davvero?», disse suo padre; pareva sorpreso. «Sì, era un tipo in gamba», disse Moon. Vide i suoi genitori lanciarsi una rapida occhiata. «Oh, povero caro», gli disse sua madre. «Sai, non credevamo che quella gente sarebbe giunta a tanto», disse suo padre.

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Più tardi, quella stessa mattina, allievi e insegnanti si radunarono silen ziosamente nell’auditorium. Dall’ala destra del palco, che era immersa nel buio, emerse il dottor Whatley, seguito dal sindaco, dai genitori di Moon, e dallo stesso Moon. Occuparono le sedie predisposte sul palcoscenico. Poi il dottor Whatley andò al podio e disse che erano qui riuniti per onorare la memoria di un ragazzo coraggioso, Ashraf, che aveva tenuto una conferen za nella loro scuola, alcune settimane prima, e ora era morto in un incidente stradale, in Pakistan. Il preside disse che alcuni morivano lasciando una te stimonianza della loro vita che era destinata a durare: un libro, una musica, un dipinto, un atto eroico. Disse che Ashraf aveva scelto di percorrere una strada coraggiosa, in difesa di altri giovani della sua età. E annunciò che sa rebbe stata istituita una borsa di studio speciale, dedicata alla sua memoria. Moon, seduto sulla sua sedia sul palcoscenico, ascoltava.

Moon sentiva il cuore che gli batteva a mille, il viso gli bruciava. Tornò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle. La foto dei Beatles dondolò lentamente.Iltelefono fece due squilli, poi tacque. Un attimo dopo, sentì bussare alla porta.Era sua madre. «Caro, vedo che devo di nuovo ricordarti che se tieni la porta chiusa non possiamo comunicare con te. C’è la tua insegnante d’ingle se alMoontelefono».lasciò la porta, tornò alla sua scrivania e alzò il ricevitore. «Pron to?»,Ladisse.signora Woolsten, l’insegnante d’inglese, disse: «Morgan, il tema che mi hai portato, quello in cui parli del tuo incontro con Ashraf, è davvero un bel tema. Scrivi di avere registrato una cassetta, mentre lui suonava i bonghi. È vero?» «Sì», rispose Moon. «Bene. Potresti portarla lunedì prossimo?» «Devo venire a scuola con la cassetta?» «Sì, «Certo»,puoi?»rispose lui. «E potresti portare anche la batteria?» «La batteria?» «Ci sarà una cerimonia per ricordare Ashraf». «Sì, certo, va bene», disse Moon. Restò un bel pezzo seduto alla scrivania, poi scese di sotto e chiese in pre stito il registratore di suo padre. Di nuovo in camera sua, Moon copiò la cas setta che aveva registrato mentre Ashraf suonava i bonghi. Lunedì mattina, aiutato dal padre, Moon caricò la batteria in auto. Poi si sedette dietro, suo padre si mise al volante, sua madre gli si sedette accanto. Era una giornata fredda e ventosa, il cielo era blu ghiaccio. Non dissero nien te per tutto il viaggio fino a scuola.

Pete andò loro incontro nel parcheggio e aiutò Moon a portare la batteria nell’auditorium e a sistemarla sul palcoscenico, vicino al podio.

Parlò il sindaco; poi, fu la volta dei suoi genitori. Infine, a un cenno del dot tor Whatley, Moon andò a sedersi alla batteria. Un istante dopo, dagli altoparlanti si riversò la musica dei bonghi suonati da Ashraf.Moonaspettò un paio di minuti, poi cominciò a suonare accompagnando i bonghi di Ashraf, e uno e due e tre e quattro… Picchiava il charleston sul le «e», e il rullante sul due e sul quattro, poi aggiunse delle note di appoggio, sempre sul rullante, e infine il campanaccio, così da scivolare lentamente nel sound di Seattle: dum-do’ak-dum-d’dum-ak, mentre i bonghi facevano dam dat, dam dat, dam dat, secondo quello strano ritmo. A quel punto Moon cominciò a suonare sempre più forte, le bacchette picchiavano con una cadenza fre netica, un ritmo rabbioso oltraggioso, e lui lì che picchiava, batteva, vibrava e strappava, rovesciando sul mondo una densa cascata di suoni, e sentiva l’oltraggio nelle braccia, nelle spalle, nel cuore, e una sensazione sublime di segreto potere nel fondo di sé, nel suo io più intimo e oscuro.

I bonghi tacquero. Con un’ultima fragorosa raffica, Moon giunse all’apice della sua esecuzione, coperto di sudore, le ciocche colorate d’azzurro appic cicate sulla faccia e sul collo. Poi si fermò di colpo e restò a capo chino, ansi mando, e lasciandosi invadere da una vivificante esaltazione che sapeva de stinata, purtroppo, a passare in fretta. Seguì un vuoto, una lacuna nel tempo, il pubblico immerso nel più assolu to silenzio. Moon, alzando lentamente la testa, vide i suoi che lo fissavano, le facce come due lampadine accese all’improvviso. E dagli altoparlanti venne il sibilo che segnalava la fine della registrazione effettuata da Moon la sera in cui Ashraf aveva suonato i suoi bonghi.

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R AccONTI1.158Che

7. Nella prima parte del racconto la madre di Moon gli rivolge queste parole: «Se chiudi la porta non possiamo comunicare con te. Le porte chiuse finiscono spesso col diventare come muri di pietra». Spiega in un breve testo come il significato di questa citazione illumina ciò che accade tra Moon e Ashraf.

8. Come mostra la vicenda del protagonista, la conoscenza degli altri è un percorso impegnativo. Esponi in un testo quali condizioni favoriscono questo percorso e quali fattori lo ostacolano, sostenendo la tua argomentazione anche facendo riferimento alla tua esperienza, ad altre letture o a fatti storici e di attualità.

3. Che cosa fa scattare in Moon l’interesse per il ragazzo pakistano? Che cosa hanno in comune i due personaggi?

4. Da quali atteggiamenti e segni, rintracciabili nel testo, si può notare l’evoluzione dei sentimenti di Moon in rapporto ad Ashraf e a sé stesso? Perché Moon cambia in relazione ad Ashraf? In che cosa consiste il suo cambiamento?

5. Rileggi, nel finale, la frase dedicata alla reazione dei genitori di Moon di fronte alla sua performance nella cerimonia in memoria di Ashraf: «Moon, alzando lentamente la testa, vide i suoi che lo fissavano, le facce come due lampadine accese all’improvviso». Come è cambiato lo sguardo dei genitori nei confronti del figlio e della sua passione musicale rispetto alla prima parte del racconto? Che cosa ha permesso questo cambiamento?

tipo di ragazzo è Moon? Come viene presentato nella prima parte del racconto? Da che cosa sembra essere dominato e preso totalmente?

2. Come reagisce inizialmente il protagonista alla notizia che il ragazzo pakistano arriverà in casa sua?

6. Quando suona la batteria, Moon scivola «nel flusso travolgente della musica», sente una «sensazione sublime di segreto potere nel fondo di sé, nel suo io più intimo e oscuro» ed è invaso «da una vivificante esaltazione». Dopo aver spiegato il valore che ha la musica per il protagonista, racconta di una tua passione talmente travolgente da farti vivere un’esperienza simile a quella di Moon.

Un’altra volta andò al cinema coi suoi, c’era un film sull’Africa, e vide le zebre, centinaia di zebre, che galoppavano rumorosamente su una pianura erbosa, alzando torride nuvole di polvere marrone.

Aveva cominciato a correre già prima di vedere quel film, o cominciò do po? Nessuno se lo ricordava più.

Poi, l’anno prima, filando a tutta birra giù per Frank in Avenue, aveva spic cato quel famoso balzo cominciando a trasformarsi in aquila, quando all’im provviso nel suo campo visivo era entrata un’ombra immensa che gli era pre cipitata addosso, piombandolo in una oscurità dalla quale era emerso solo molto, molto lentamente…

CHAIM POTOK Zebra

Zebra correva per tutto il quartiere solo per il piacere di sentire il vento in faccia. La gente diceva che nel correre drizzava la testa e la gettava indietro, così il viso quasi gli si appiattiva. Uno degli insegnanti gli disse che era intelli gente a correre in quel modo, l’equilibrio era migliore. Ma in realtà lui correva in quel modo, con la testa buttata indietro, solo perché gli piaceva sentire il vento scorrergli sul collo. E ogni volta che correva, dopo i primi minuti, cominciava a sentire le gam be stupendamente leggere.

Gli piaceva quel nome e gli piaceva correre. Una volta, da piccolo, i genitori lo avevano portato allo zoo e lì aveva visto per la prima volta le zebre. Erano delle creature strane, somigliavano un po’ ai cavalli ma erano più tozze, con le zampe corte, il collo grosso, il manto a strisce bianche e nere.

C’era una collina in Franklin Avenue, una collina piuttosto ripida. Quan do ci arrivava, sentiva sempre le gambe così leggere che gli sembrava di non averle affatto e di volare. Cominciava a scendere dalla collina, e aveva l’im pressione che a quel punto sarebbe bastato spiccare un balzo e da zebra sa rebbe diventato di colpo un uccello come quello che aveva visto una volta in un documentario sull’Alaska, si sarebbe trasformato in aquila per volare in alto, sempre più in alto, leggero come la più leggera delle brezze, la fresca ca rezza del vento sulle braccia, sulle gambe, sul viso.

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Correva superando la scuola e le case sulla strada alle spalle della chiesa. Nel vicinato lo conoscevano tutti e lo salutavano gridando: «Avanti, Zebra!». E a volte il cane di qualche vicino per un po’ gli correva accanto, abbaiando di gioia. Lui immaginava di essere una zebra in una pianura africana. Al galoppo.

Si chiamava Adam Martin Zebrin, ma tutti nel quartiere lo conoscevano col nome di Zebra. Non ricordava quando avessero cominciato a chiamarlo così. Forse quan do lui aveva cominciato a correre. O forse cominciò a correre quando loro co minciarono a chiamarlo Zebra.

I compagni di scuola e gli amici continuarono a chiamarlo Zebra anche quando seppero che secondo i dottori non avrebbe più potuto correre in quel modo.Col tempo la gamba sarebbe guarita, avevano dichiarato i dottori, e forse, da lì a un anno, avrebbe potuto anche togliersi il tutore ortopedico. Ma per quello che riguardava la mano non potevano dire niente di sicuro.

«Mai, dico mai, devi scendere da quella collina correndo così forte da non riuscire a fermarti quando arrivi all’angolo», gli aveva raccomandato mille volte sua madre.

Così, per caso, vide quell’uomo. E così, sempre per caso, quell’uomo vide lui.In quel momento, caso strano, la traversa su cui si affacciava la scuola era vuota: niente pedoni né auto, e nemmeno uno dei vari cani sempre a zonzo nel quartiere – la strada era deserta e silenziosa, come già immersa nella ca nicola estiva. La casa del signor Morgan, rosso mattone e a un solo piano, e quella di legno della signora English, bianca e a due piani, e le altre case del la via, con i porticati anteriori sostenuti dalle colonne e sul retro il patio, e le alte querce – tutto pareva curiosamente immobile nella calda luce dorata di metàPoimattina.unuomo emerse dal fondo della traversa che sboccava su Franklin Avenue, un viale molto largo e sempre pieno di traffico. Zebra lo vide fermarsi all’angolo e guardare un cassonetto della spazza tura. L’uomo infilò una mano nel cassonetto e rimestò qui e là ma senza tro vare, pareva, niente di interessante. Ritrasse la mano e, usandola per scher marsi gli occhi dal sole, scrutò la targa della via appesa al lampione.

In certi momenti la mano ferita, che portava ancora appesa al collo con una fascia, gli doleva. Ma i dottori non riuscivano a trovare la causa del dolore.

Zebra si metteva vicino al campo di pallacanestro o dietro la re te del campo di baseball a guardare quelli che giocavano. Ma quel giorno, sic come la mano gli faceva davvero male, si fermò dietro la rete metallica della recinzione che chiudeva il cortile della scuola.

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Più tardi, nel cortile della scuola, durante la ricreazione di metà mattina, Zebra si fermò vicino all’alta recinzione, e si mise a guardare la strada, ascol tando i rumori alle sue spalle. I suoi compagni correvano qua e là, giocavano con esuberanza, gridava no e ridevano a piena gola. I loro versi allegri riecheggiavano nella strada silenziosa.Ingenere

«In questo corso, giovanotto, devi concentrare la tua attenzione sulla ter ra, non sul cielo», disse il signor Morgan.

Un mattino, durante la lezione di geografia del signor Morgan, Zebra co minciò a sentire un male cane alla mano. Restò seduto a guardare fuori della finestra, fissando il cielo. Il signor Morgan, un uomo sulla cinquantina dai mo di piuttosto rigidi e con un debole per gli abiti eleganti e i vivaci cravattini a far falla, lo chiamò perché rispondesse a una domanda. Zebra s’impappinò. Il si gnor Morgan gli disse di badare alla geografia dentro l’aula e non a quella fuori.

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L’uomo riprese a camminare, avanzando verso la scuola. Era alto e magro, sembrava sulla quarantina. Nella mano destra regge va una borsa di plastica marrone rigonfia. Indossava una giacca militare co lor cachi, una camicia di cotone blu, dei blue jeans, e degli stivali da cowboy marroni. Il viso scarno e il collo muscoloso erano arrossati dal sole. Da sotto il berretto blu scuro spuntavano lunghi capelli castani. Sul davanti del ber retto, a grandi lettere arancioni, c’era scritto LAND ROVER. L’uomo camminava fissando il marciapiede, come se cercasse qualcosa, e passò davanti a Zebra senza fargli caso. A Zebra faceva molto male la mano. Stava per girarsi e andarsene quando vide l’uomo fermarsi, guardarsi in giro e scrutare la facciata rosso mattone del la scuola. Posò la borsa sul marciapiede, si tolse il berretto e lo ficcò nella tasca della giacca. Da una delle tasche dei jeans tirò fuori un fazzoletto, con cui si asciugò la faccia. Ricacciò il fazzoletto nella tasca e si rimise il berretto in testa. Poi si girò e vide Zebra. Raccattò la borsa e tornò indietro. Quando fu a una decina di passi, Zebra si accorse che la manica sinistra della giacca era vuota. L’uomo gli arrivò davanti e disse, con voce bassa, amichevole e timida, «Ciao».Zebra rispose con un cauto «Ciao», cercando di non guardare la manica vuota, infilata nella tasca della giacca. Poi l’uomo, che aveva un forte accento meridionale, domandò: «Come ti chiami, figliolo?». «Mi chiamo Adam», rispose Zebra. «Com’è questa scuola, Adam?». «Oh, è una buona scuola», rispose lui. «Quanto manca alle vacanze estive?». «Tre giorni», disse Zebra. «Succede niente di speciale da queste parti, d’estate?». «D’estate? No, niente. Non ci sono lezioni, d’estate». «E cosa fate allora?». «Alcuni vanno ai campi-scuola. Altri restano a ciondolare qui intorno. Ci arrangiamo così». La mano adesso gli pizzicava e gli batteva. Perché quest’uomo gli faceva tutte ’ste domande? Zebra pensò che forse aveva fatto male a rispondergli. Aveva qualcosa di minaccioso, con quella giacca militare, il berretto blu scu ro con la scritta LAND ROVER a grandi lettere arancioni, e la manica vuota. Tuttavia, gli occhi grigi e il viso arrossato mostravano una certa gentilezza. L’uomo scrutò alle spalle di Zebra i ragazzi che giocavano in cortile. «Adam, pensi che la tua scuola sarebbe interessata a ospitare un corso di educazione artistica durante l’estate?». La domanda colse Zebra di sorpresa. «Educazione artistica?». «Disegno, scultura, cose così». Zebra stava cercando con tutte le sue forze di non guardare la manica vuo ta dell’interlocutore. «Non saprei…».

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Zebra gridò: «Ehi, signore!». Lui si fermò e si voltò. «Mi chiamo John Wilson», disse con tono dolce. «Signor Wilson, quando arriva agli uffici della scuola, vedrà due porte. Su una c’è scritto “Signor Winter”; sull’altra, “Signora English”. Lei chieda della signora English». Il signor Winter, il preside, era un tipo scorbutico, fissato con la discipli na. Mentre la vice-preside, la signora English, era generosa e gentile. Il signor Winter con tutta probabilità avrebbe detto al signor Wilson di passare dalla se gretaria per fissare un appuntamento. Invece la signora English era capace di riceverlo subito e di offrirgli un caffè mentre stava a sentire cosa aveva da dirle. L’uomo esitò, guardando Zebra. «Grazie del consiglio», disse. Zebra stette a guardarlo mentre si avviava verso l’angolo della strada. Sotto il lampione c’era un altro cassonetto della spazzatura. Zebra vide l’uomo posare la borsa di plastica sul marciapiede, infilare la mano nel cas sonetto e tirare fuori un ombrello tutto sgangherato. Provò ad aprirlo, ma le stecche erano rotte. La stoffa nera penzolava flo scia dal bastone. L’uomo infilò l’ombrello nella borsa di plastica e si diresse verso l’ingresso della scuola. Dopo un attimo, si udì il fischietto che segnalava la fine della ricreazione. Zebra seguì i compagni tenendosi a distanza, attento a evitare che gli urtas sero la Riuscìmano.atenere duro per tutta la lezione di algebra, copiando i problemi dalla lavagna tenendo fermo il quaderno col gomito sinistro. La fascia gli se gava il collo ed era calda e goffa attorno al braccio nudo. Adesso le due dita rattrappite della mano mandavano acute fitte di dolore. Subito dopo la lezione, scese al piano terra, dalla signora Walsh, una don na gioviale, coi capelli grigi, che indossava sempre l’uniforme bianca da infermiera.Leidisse: «Mi spiace tanto, Adam, ma non posso fare molto per te, salvo dar ti due Tylenol». E lui, con un sorso d’acqua, mandò giù le compresse di Tylenol. Poi, tornando al secondo piano, vide il tipo col berretto blu scuro emerge

«Dove sono gli uffici della scuola, Adam?». «In Washington Avenue. Deve andare avanti fino in fondo, e poi girare a destra».«Grazie», disse l’uomo. Esitò un attimo. Poi domandò, con voce calma: «Co sa ti è successo, Adam?». «Sono finito sotto un’auto», disse Zebra. «Ma è stata colpa mia». L’uomo sembrò sussultare. Per un millesimo di secondo, Zebra fu tentato di chiedergli cosa fosse ac caduto a lui. Aveva le parole sulla punta della lingua, ma si frenò e non disse niente.L’uomo si riavviò su per la strada, reggendo sempre in mano la borsa di pla sticaTuttomarrone.auntratto

Finita la storia, nella classe regnò il silenzio. Tutti avevano gli occhi su di lui. «Racconti sempre delle storie così tristi», gli disse Andrea.

Poi toccò a Kevin, che aveva la voce stridula e si mangiava le parole, aiu tandosi spesso con le mani nel raccontare le sue storie. E la signora English, senza scomporsi, doveva ripetere parecchie delle cose che lui diceva. Quel giorno, raccontò la storia di un esploratore che, partito per un lungo viaggio, aveva scoperto una valle piena di pietre gialle e circondata da montagne ros se, dove un esercito di ombre verdi era da secoli in guerra contro un esercito di ombre viola. E l’esploratore gli insegnava come fare la pace.

Mark, che aveva qualche problema al labbro superiore, raccontò con la sua voce tremolante di un cadetto dello spazio, un tipo piuttosto egoista, che era entrato nella macchina del tempo per incontrare il suo io futuro, che era risultato una persona odiosa, così il cadetto, tornando nel presente, aveva de ciso di cambiare per non diventare odioso.

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Ogni anno, venivano scelti i dieci studenti delle classi superiori – settima e ottava, per l’esattezza – che avevano diritto a frequentare il suo corso. Si incontravano per un’ora, tre volte a settimana, e ognuno doveva raccontare una storia. E ogni storia veniva discussa e analizzata dalla signora English e dall’intera classe. La signora English chiamava il suo corso Immaginazione Zebra era felice di non dovere prendere appunti durante queste lezioni. C’era solo da ascoltare delle storie.

re dagli uffici della direzione insieme alla signora English. Allora si fermò a metà delle scale e stette a guardarli mentre parlavano. La signora English an nuì, e sorridendo strinse la mano al tipo. L’uomo, che aveva sempre in mano la sua borsa di plastica marrone, fece tutto il corridoio e uscì dalla scuola. Zebra si avviò lentamente verso l’aula per la lezione successiva. Era una lezione della signora English, che entrò di corsa nell’aula alcuni secondi dopo la campanella. «Scusate il ritardo», disse, trafelata. «Ma ho dovuto occuparmi di una fac cenda importante». La signora English era una donna alta, dai modi affabili, sulla quarantina. Si sapeva che da giovane aveva lavorato come giornalista in un quotidiano di Chicago, e che aveva scritto dei racconti, senza però riuscire a pubblicarli. Poco dopo il matrimonio con un medico, si era messa a insegnare.

La signora English teneva un unico corso.

Quel giorno, Andrea, che occupava il banco accanto a Zebra ed era una ra gazzina coi capelli rossi, il viso pieno di lentiggini e degli occhiali dalle lenti assai spesse, raccontò la storia di una scienziata che aveva scoperto un modo per guarire gli alberi colpiti dai fulmini.

Quando fu il suo turno, Zebra raccontò la storia di un uccello che un gior no era andato a sbattere contro il vetro di una finestra e si era rotto un’ala. Un ragazzo aveva cercato di aggiustargliela, ma non c’era riuscito. L’uccello era morto, e il ragazzo lo aveva seppellito in giardino, sotto un albero.

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Durante la ricreazione di metà pomeriggio, uscì nel cortile della scuola. Di là dalla rete della recinzione c’era il tipo col berretto blu. Zebra gli andò incontro. «Ciao, Adam», disse. «Ti stavo aspettando». «Ciao», rispose Zebra. «Volevo ringraziarti per avermi consigliato di andare dalla signora En glish. Grazie, davvero». «Non c’è di che». «Adam, ti interessa l’arte?». «Ma«No».hai mai provato a fare qualcosa?». «Be’, sì, ho fatto dei disegni per la scuola. Ma non mi piace disegnare». «Se cambi idea, sappi che durante l’estate terrò un corso di educazione ar tistica presso la tua scuola». «Vado al campo-scuola, in agosto», disse Zebra. «Ma c’è anche luglio, che è un mese bello lungo, no?». «Non credo che verrò», disse Zebra. «O.k., fa’ come vuoi. Però voglio darti una cosa, una specie di regalo di ringraziamento».Siinfilòunamano nella tasca interna della giacca e tirò fuori un taccuino e una penna. Piazzò il taccuino contro la recinzione. «Adam, saresti così gentile da aiutarmi un attimo? Infila le dita nella rete e reggimi il Allungandotaccuino».ledita della mano destra, Zebra strinse il taccuino contro la recinzione mentre il tipo lavorava di penna. Il taccuino slittò leggermente. «No, devi tenerlo fermo», gli disse l’uomo. Stava tutto piegato in avanti, a pochi centimetri da Zebra. La scritta LAND ROVER sul berretto scintillava nella luce pomeridiana. Mentre trafficava con la penna, il tipo gli lanciava continuamente delle occhiate. Con la lingua spin geva contro la guancia, un bozzo che compariva e scompariva. Le rughe trac ciavano un’intricata ragnatela sotto i suoi occhi grigi. La fronte liscia, nelle ombre blu e viola sotto la visiera del berretto, era imperlata di sudore. E la mano che si muoveva sul taccuino era lurida, con le dita e il palmo imbrattati di inchiostro nero e incrostati di colore. Poi Zebra abbassò lo sguardo e notò la borsa di plastica posata vicino ai suoi piedi. Stava lì, mezza aperta. Zebra vide una grande bambola rosa sen za braccia, un arnese di metallo grigiastro che sembrava una vecchia padel la ammaccata, vecchi giornali, pezzi di spago, pezzi di stoffa rossa e blu tutti spiegazzati, e l’ombrello rotto. «Un attimo e ho finito», disse l’uomo. Fece un passo indietro, guardò il suo lavoro, e lentamente annuì. Rimise

Suonò la campanella. La signora English congedò gli allievi. In corridoio, Andrea disse: «Sai, Zebra, sei una forma di vita molto malin conica».«Fatti i fatti tuoi», rispose Zebra.

chAIM P OTOk 165 in tasca la penna e strappò la prima pagina del taccuino. L’arrotolò e la infilò fra le maglie della rete. Poi riprese il taccuino dalle dita di Zebra. «Ci vediamo, Adam», disse, raccattando la borsa di plastica. Zebra srotolò il foglio e vide un disegno a tratteggio, una riproduzione per fetta del proprio viso. Era come se si stesse guardando in uno specchio. Il naso lungo e dritto, le labbra sottili, gli occhi tristi, il viso magro; i capelli scuri, le orecchie pic cole e la cicatrice sulla fronte, che risaliva a una vecchia caduta coi pattini a rotelle.Nell’angolo in basso a destra, l’uomo aveva scritto: «Ad ADAM, con molti ringraziamenti. John Wilson». Zebra alzò gli occhi dal disegno. Il tipo stava allontanandosi. Allora gridò: «Signor Wilson, gli amici mi chiamano tutti Zebra». Lui si girò, aveva l’aria stupita. «Per via del mio cognome», disse Adam. «Zabrin. Adam Martin Zabrin. Det to Zebra».«Davvero?», disse l’uomo, riavvicinandosi alla recinzione. «Be’, in questo caso… Ti spiace ripassarmi quel foglio?». Prese taccuino e penna dalla tasca, posò il disegno sul taccuino, e, mentre Zebra lo reggeva, armeggiò con la penna sul foglio, poi glielo restituì. «Abbi cura di te, Zebra, mi raccomando», disse. Si allontanò verso Franklin Avenue. Zebra guardò il disegno. L’uomo aveva tirato un frego sul suo nome e ap pena sopra aveva disegnato un animale col collo tozzo, le zampe corte e il manto a strisce. Una zebra! Il movimento delle zampe indicava che la bestia era al galoppo. Sembrava sul punto di scappare via dalla pagina. Un colpo di vento increspò il disegno, che gli sventolò fra le mani come una bandiera. Zebra tornò a guardare la strada. Il tipo camminava lentamente all’ombra delle alte querce. Zebra ebbe una buffa impressione: gli sembrò che tutte le case della strada si fossero girate a guardare l’uomo che si allontanava. Che cosa assurda: le finestre, i porti cati, le colonne, i portoni sembravano seguire attentamente i passi lenti di quell’uomo alto con un braccio solo – che alla fine girò l’angolo e scomparve in Franklin Avenue. Si udì il fischietto, e Zebra rientrò a scuola. Sedette al suo banco e infilò prudentemente il disegno dentro uno dei suoi quaderni. Ogni tanto gli dava una sbirciata. Appena prima che suonasse la campanella, annunciando la fine della giornata scolastica, guardò per l’ennesima volta il disegno. Ma che strano! Gli sembrava di ricordare che la zebra fosse esattamente sopra il suo no me: la testa all’altezza della A e la coda sopra la M. Adesso invece era molto oltre la A, possibile?

Probabilmente gli era salita di nuovo la febbre. Tre settimane dopo cia scuna delle operazioni subite alla mano, gli erano venuti dei misteriosi feb broni intermittenti. E la febbre a volte gli faceva quell’effetto: gli eccitava l’immaginazione.Zebraabitavaa

Più tardi, entrando a scuola, notò un grande cartello appeso nella bacheca dell’atrio:

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La piccola zebra galoppava… Al mattino, quando si svegliò, la febbre era passata, e la zebra era tranquil la al suo posto, esattamente sopra l’ADAM.

CORSO ESTIVO DI EDUCAZIONE ARTISTICA

Durante l’estate, il noto artista americano John Wilson terrà un corso di educazione artistica per gli allievi della settima e della ottava classe. Il corso è gratuito. Per ulteriori informazioni, rivolgersi alla signora English.

«Signora English, a proposito di quel corso estivo di educazione artistica… potrei sapere… uhm… da dove viene il signor Wilson?».

«Signora English, potrei sapere… uhm… cosa è successo al signor Wilson?». I corridoi della scuola erano sempre molto affollati fra una lezione e l’altra. Zebra e la signora English formavano come una piccola isola nel mare degli studenti.«Ilsignor Wilson è rimasto ferito in Vietnam», disse la signora English. «Ti

Aveva le traveggole, doveva per forza essere la febbre. E infatti, quando sua madre gliela misurò, il termometro segnò quasi trentanove. Sua madre gli diede la medicina, ma non gli fece grande effetto, perché quando si svegliò, nel cuore della notte, e accese la luce sulla scrivania per guardare il disegno, vide che la piccola zebra ormai galoppava in mezzo alla pagina, e superato il contorno del suo viso, correva sulle colline e sulle valli formate dai suoi occhi, dal naso e dalla bocca. E gli sembrò di sentire il rim bombo di quei minuscoli zoccoli, che si lasciavano dietro una scia di nuvo lette di Zebrapolvere.sapeva di essere ancora addormentato. Sapeva che era la febbre a infiammargli l’immaginazione.

Ciò nonostante, quello che vedeva era tremendamente reale.

A metà mattinata, fra una lezione e l’altra, Zebra incontrò la signora En glish nel corridoio del secondo piano.

quattro isolati dalla scuola. Lo scuolabus lo lasciò proprio all’angolo di casa. Nella cartella aveva i libri e il quaderno col disegno. Sua madre gli propose uno spuntino, ma Zebra disse di non avere fame. Ap pena fu in camera sua, guardò di nuovo il disegno e rimase a bocca aperta ve dendo che la zebra era arrivata in fondo al nome e sembrava pronta a saltare.

«Il signor Wilson viene da un piccolo paese della Virginia. Vuoi iscriverti al suo«Noncorso?».sodisegnare», disse Zebra.

«Ma il disegno è qualcosa che si può imparare».

Suo padre disse: «Bravo, è un’ottima idea». «Un momento. Io non ne sono così sicura», ribatté la madre. «Almeno non ciondolerà tutto il giorno per strada», disse suo padre. «E di venterà un Matisse, anziché fare l’avvocato come il suo papà. Vero, Adam?». «Va bene. Ma devi stare molto attento», gli disse la madre. «Non fare nien te che possa farti male alla mano». «Santo Cielo, disegnare come può fargli male alla mano sinistra?», disse suoQuellapadre.notte, a letto, Zebra stette lì a guardarsi la mano. Per lui, questa sua mano era paurosa e misteriosa insieme. Le dita c’erano tutte, ma erano come foglie morte che ancora non si decidevano a cadere, l’anulare e il mignolo erano rigidi e rattrappiti, le altre si muovevano appena. I dottori dicevano che ci vole va del tempo per riportarle in vita. Tutte quelle ossa rotte. Tutti quei muscoli e quei tendini strappati. Tutti quei nervi spezzati. L’immensa ombra nera era ca lata su di lui veloce e improvvisa. Che stupido era stato, che stupido, che stupido. Non riusciva a dormire. Andò alla scrivania e guardò il disegno di John Wilson. La piccola zebra stava perfettamente immobile sopra l’ADAM. Nelle prime ore del pomeriggio seguente, l’ultimo giorno di scuola, Ze

Nell’oraimmaginazione».successiva,Zebra

chAIM P OTOk 167 consiglio vivamente di seguire il suo corso. Imparerai un altro modo per usa re la tua

si lisciò la giacca del vestito estivo beige, si aggiustò il cravattino, srotolò una carta geografica appesa alla parete, prese la sua bac chetta, e si schiarì la voce. «Il Vietnam è questo paese stretto e lungo, nel sud-est asiatico. Confina con la Cina, il Laos e la Cambogia. Nel nord troviamo soprattutto delle val li; nel centro, delle pianure costiere; nel sud, delle paludi. Il terreno presen ta anche delle montagne brulle e delle foreste tropicali. Il Vietnam produ ce principalmente riso, gomma, frutta, e ortaggi. La popolazione conta quasi settanta milioni di persone. Fra il 1962 e il 1973, noi americani combattem mo una terribile guerra per impedire che il Vietnam del Sud cadesse nelle mani del Nord comunista. Ma perdemmo la guerra». «Grazie, signor Morgan». «Mi compiaccio di questo tuo repentino interesse per la geografia, tutta via, giovanotto, mi vedo costretto a ricordarti che stiamo studiando i paesi del Mediterraneo», disse il signor Morgan. Durante la ricreazione del pomeriggio, Zebra, che stava guardando una partita di pallacanestro, a un tratto guardò in fondo al cortile e vide John Wil son che passava in strada con una borsa di plastica stracolma. Poi lo vide ri passare, stavolta senza nulla. Quella stessa sera, a cena, Zebra disse ai suoi genitori che quell’estate de siderava seguire il corso di educazione artistica offerto dalla scuola.

pazientò per tutta la lezione di geografia del si gnor Morgan, e subito dopo si avvicinò all’insegnante. «Signor Morgan, potrei farle una domanda? Vorrei… uhm… sapere dov’è il Vietnam?».IlsignorMorgan

Disse di disegnare ognuno la faccia di chi gli stava attorno. Zebra esitò, si guardò in giro, poi disegnò Andrea. Andrea diligentemente fece il ritratto di Zebra. Mostrò il suo disegno ad Andrea. «È mostruoso», disse lei, con una smorfia. «Sembro un topo». Invece il ritratto di Zebra disegnato da Andrea era ben riuscito. Ma lui dav vero aveva la faccia così triste?

R AccONTI168 bra andò nell’ufficio della signora English e si iscrisse al corso estivo di John Wilson.«Ilcorso si terrà tutte le mattine dei giorni feriali, dalle dieci all’una», disse la signora English. «A partire dal prossimo lunedì». Zebra notò le tre buste di plastica in un angolo dell’ufficio. «Signora English, potrei chiederle… uhm… cosa faceva il signor Wilson in Vietnam?».«Mihadetto che era pilota di elicottero», rispose la signora English. «Ah, dimenticavo, al corso bisogna portare un album e una matita». «Tutto qui? Un album e una matita?». La signora English sorrise. «E la propria immaginazione». Lunedì mattina, quando entrò in classe, Zebra scoprì che si erano iscrit ti al corso di educazione artistica una quindicina di studenti – fra cui anche Andrea, la ragazzina con cui aveva frequentato il corso della signora English. Le pareti dell’aula erano nude. Per l’estate, avevano tolto tutto. Zebra notò due buste di plastica sul pavimento, sotto la lavagna. Si sedette nel banco accanto a quello di Andrea Andrea aveva dei blue jeans e una camicetta estiva gialla a strisce blu. I lunghi capelli rossi erano legati dietro con un nastro blu. Fissò Zebra da die tro le spesse lenti degli occhiali, si allungò verso di lui e disse: «Anche i dise gni ti verranno tristi?».

Si mise accanto alla cattedra, indossava una camicia azzurra a maniche lunghe e dei blue jeans. La manica sinistra era piegata e appuntata sul da vanti della camicia. Il berretto blu con la scritta LAND ROVER era calcato al legramente sulla «Buongiorno»,testa.disse, con un sorriso timido. «Vi sono molto grato di essere qui. Quest’estate, faremo due cose. Trasformeremo la carta in volti e la spaz zatura in persone. Vedo dalle vostre facce che non capite di cosa parlo, è così? Be’, ve lo faccio vedere subito».

John Wilson passò di banco in banco, esaminando attentamente i vari di segni. Stette parecchio a studiare quello di Zebra. Poi, per più di un’ora, di segnando col gesso sulla lavagna, mostrò loro come non bisognava pensare a occhi, labbra o mani quando si disegnava, bensì solo a rette, curve e forme; bi sognava fissare la posizione di ogni elemento rispetto al margine del foglio; e non badare tanto al profilo di ciò che disegnavano, quanto allo spazio fuori di quel profilo.

Proprio in quel momento entrò John Wilson, con una borsa di plastica che posò sul pavimento accanto alle altre due.

Piano piano, nei giorni seguenti, le pareti vennero tappezzate coi disegni. Le sculture realizzate dagli studenti venivano esaminate e discusse da John Wilson e dall’intera classe, e poi venivano sistemate sugli scaffali lungo le pareti: una minuscola bicicletta fatta con del filo di ferro; un pappagallo fatto col vecchio cuscino di un divano; un cowboy fatto di corda e filo elettrico; una cicciona fatta con una brocca di metallo ammaccata; una zebra fatta con dei pezzi di cartone incollato.

«Mi piace la tua zebra», disse Andrea. «Grazie», disse Zebra. «E a me piace il tuo pappagallo».

Un mattino John Wilson chiese ai ragazzi di disegnare la propria mano, destra o sinistra. A Zebra, lavorando, vennero i sudori freddi e la tremarella. «Questo è davvero un bel disegno», disse John Wilson, quando vide il la voro di Andrea. Poi studiò quello di Zebra. «Purtroppo avete lavorato tutti guardandovi direttamente la mano», disse. «Invece avreste dovuto badare solo al suo profilo e allo spazio attorno».

Poi fecero un altro disegno dello stesso viso disegnato prima. «Adesso sembro un cavallo», disse Andrea. «Perché non mi fai anche le strisce?».«Uffa,sei una vera rompiscatole, Andrea», disse Zebra.

Allora Zebra ridisegnò la propria mano. Strana e brutta, con quelle due di ta rigide e rattrappite. Ma stavolta, cosa sorprendente, sembrava davvero una mano.Un giorno, pochi minuti prima della fine della lezione, John Wilson diede

Zebra osservava meravigliato la velocità con cui la mano di John Wilson correva sulla lavagna, e la manica vuota che si alzava leggermente per poi subito«Imparereteriabbassarsi.aguardare in un altro modo», disse John Wilson.

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«Prima che il corso sia finito, imparerete tutti a realizzare sculture come questa», disse John Wilson. «E adesso mettete firma e data sui vostri disegni e consegnateli a me».

«Ecco, questa è una scultura», disse John Wilson, col suo sorriso timido. «Così abbiamo trasformato della spazzatura in una persona». Nella classe scoppiarono gli applausi. Il pagliaccio sulla padella sembrava lì lì per fare un inchino.

Il mattino dopo, rientrando nell’aula, videro che i loro disegni erano stati appesi alle pareti.

Poco prima di mezzogiorno, John Wilson rovesciò sulla cattedra il conte nuto delle buste di plastica: un caos di roba rotta e scartata, fra cui la bambo la eUsandol’ombrello.delle strisce di stoffa, dei pezzi di corda, i giornali sgualciti, la pen na, e la sua unica mano, trasformò rapidamente la bambola sgangherata in un clown col naso rosso e l’ombrello in mano, grossi pantaloni sformati, un cappotto sbrindellato, una bombetta in testa e un sorriso mesto. La padella ammaccata, rigirata, diventò il piedistallo del pagliaccio.

Zebra si ricordò di avere visto nella libreria del soggiorno di casa un libro intitolato Incredibili spaccati. Trovò il libro e se lo portò in camera.

Il mattino dopo, portò in classe l’elicottero. «Uh, ma che roba è?», esclamò Andrea, con una smorfia. «Qualcosa con cui papparti viva», disse Zebra. «Abbassa la cresta, Zebra. Il signor Wilson si farà una bella risata sulla tua scultura».MaJohn Wilson non rise. Tenne in mano l’elicottero per un bel pezzo, gi randolo di qui e di là, poi fece un cenno d’assenso a Zebra, e piazzò la scultura su un davanzale interno, dove scintillò alla luce del sole estivo.

Il cuore prese a battergli forte. C’erano già stati parecchi momenti pieni di speranza, tutti conclusisi però con amare delusioni. Non avrebbe detto nien te a nessuno. Che fossero il fisioterapista o i dottori a dirglielo…

Il giorno dopo, John Wilson ridiede lo stesso compito per casa: disegnare o costruire qualcosa che suscitasse in loro una emozione molto profonda.

Il giorno dopo, John Wilson disse che a fine luglio tre studenti avrebbero lasciato il corso. A ciascuno dei tre chiese di realizzare un disegno apposta per lui, che sarebbe stato conservato in classe. Così tutti si sarebbero ricor dati di loro. Invece gli altri disegni e le sculture i tre ragazzi avrebbero potuto portarseli a casa.

Fece il suo disegno e lo portò in classe il mattino dopo.

Quel pomeriggio, Zebra ispezionò il secchio della spazzatura nella cucina di casa, e i cassonetti fuori della porta di servizio. Trovò qualche scatoletta di sardine, una frusta da cucina rotta, vari pezzi di cartone, dei bottoni scheg giati, delle forcine piegate, e altri rimasugli di questo genere.

Con l’aiuto di un barattolino di colla, cominciò a costruire un elicottero con gli avanzi trovati nella spazzatura. Per appoggiarsi mentre lavorava usò il piano della scrivania, il pavimento, le sue stesse ginocchia, il gomito del braccio sinistro e, a un certo punto, persino il mento. Nel sistemare l’ultimo elemento – un bottone che doveva fungere da ruota – si rese conto che, senza badarci, aveva usato la sinistra, e le due dita rattrappite si erano leggermente raddrizzate per fare la loro parte.

Zebra, seduto alla sua scrivania, studiò attentamente lo spazio attorno al profilo dell’elicottero disegnato nelle pagine dell’Indice.

Nelle pagine dell’indice, c’era un disegno a colori di un elicottero di sal vataggio. A pagina 30 e 31, c’erano disegnate le diverse componenti dell’eli cottero, e dettagliati disegni illustravano le complesse parti interne. Pale ro tanti, sbarre di controllo, congegni elettronici, antenne radar, rotori di coda, motori, sagole di salvataggio, manovelle – tutto era rappresentato a puntino.

John Wilson lo guardò. Davvero il collo muscoloso gli si irrigidì insieme alla mano che reggeva il disegno? Comunque, prese il disegno e lo appese al muro con una puntina.

R AccONTI170 loro un compito per casa: dovevano disegnare o costruire qualcosa di specia le, qualcosa che suscitasse in loro un’emozione profonda. E poi dovevano por tare il lavoro in classe.

Zebra aggiunse il nuovo nome. «Grazie, sei stato molto gentile», disse John Wilson, prendendo il disegno. «Allora, Zebra, divertiti al campo scuola e statti bene. Conoscerti è stato un vero piacere». E strinse la mano a Zebra. Che dita forti aveva! «Mi sa che mi mancherai un po’», disse Andrea a Zebra, dopo la lezione. «Starò via solo un mese». «Vuoi che ti aiuti? Potrei portarti i disegni». «Sì, grazie. Così io porto l’elicottero». Zebra andò in campeggio sui Monti Adirondack. Fece molte passeggiate, lesse e guardò gli altri giocare a palla. Durante il programma di attività ar tigianali, fece qualche buon disegno e imparò i primi rudimenti di pittura all’acquerello. Costruì pagliacci, aerei ed elicotteri usando avanzi di cartone, di stoffa e di legno. Ogni tanto, gli faceva male la mano, ma le dita, sembrava, stavano lentamente tornando in vita.

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Quella sera, a letto, Zebra restò a lungo sveglio, scrutando il buio della ca mera. Non gli veniva in mente niente da disegnare per John Wilson. Il mattino dopo, in aula, se ne stette con lo sguardo fisso sulla finestra, a guardare il cielo e l’elicottero sul davanzale. «Hai deciso cosa disegnare per il signor Wilson?», domandò Andrea. Zebra fece spallucce e rispose che ancora non lo sapeva. «Usa l’immaginazione», gli disse lei. E poi: «Aspetta un attimo», disse. «Cosa vedo? Riesci a muovere quelle dita?». ««Forse». Forse?». «I dottori dicevano che c’era un certo miglioramento». Gli occhi di Andrea luccicarono dietro le spesse lenti. La sua felicità pare va sincera.Zebrasi rimise a guardare fuori della finestra. Alcuni uccelli neri volava no in cerchio, alti nel cielo. Si sentiva il rumore del traffico. L’elicottero era sempre sul davanzale e le pale rotanti fatte col frullino da cucina sembrava no pronte a girare. Più tardi, lo stesso giorno, Zebra si chiuse in camera sua e chino sulla scri vania cominciò a lavorare al suo disegno. Tenne fermo il grande foglio di car ta bianca col palmo e le dita della mano sinistra. E disegnò un grande paesag gio: colline e valli, foreste e pianure, fiumi e altopiani. La cosa strana era che tutta quella roba assomigliava a una faccia. Aggiunse un elicottero e una zebra, che sembravano correre insieme. Non gli venne in mente nient’altro, anche se come disegno non era granché. Ai piedi del foglio scrisse: «A JOHN WILSON, con molti ringraziamenti, Zebra». Il mattino dopo, John Wilson guardò il disegno di Zebra, poi lo pregò di ag giungere a «John Wilson» anche il nome «Leon». «Era un mio amico, un grande artista. Eravamo in Vietnam insieme. Sono sicuro che Leon sarebbe stato un artista di gran lunga superiore a quello che potrò mai essere io».

Zebra vide il nero muro luccicante del Monumento Funebre ai Caduti nel Vietnam, eretto a Washington, D.C. E vide i nomi incisi sul muro, migliaia e migliaia di nomi… Più tardi, nel cortile della scuola, durante la ricreazione, Zebra stava da

«Adam, lo ammetto: muoio dalla curiosità di vedere cosa c’è dentro», disse la signora English. E aiutò Zebra ad aprire la busta.

Gli porse una grossa busta marrone. Era indirizzata ad Adam Zebrin, Ot tava classe, presso la scuola tal dei tali. Il mittente era John Wilson, c’era il suo indirizzo in Virginia.

Fra due pezzi di cartone c’era una lettera e una grande fotografia a colori. La foto mostrava John Wilson, in ginocchio davanti a uno scintillante muro di color scuro. Indossava la giacca militare, i blue jeans, gli stivali da cowboy, il berretto con la scritta LAND ROVER. Accanto a lui, sulla destra, appoggiato al muro c’era il disegno di Zebra, con l’elicottero e la Zebra che correvano insieme dentro un paesaggio che sembrava una faccia. Il disegno era protetto da una sottile cornice. Il muro sembrava luccicare di una strana luce nera. Zebra lesse la lettera, poi la passò alla signora English. Carissimo Zebra, uno di quelli i cui nomi sono scolpiti su questo muro era il mio amico più caro.

Era un artista, si chiamava Leon Kellner. Ogni anno vado a trovarlo e gli porto un regalo – qualcosa di molto speciale che qualcuno ha creato e mi ha regalato. Gli lascio il regalo vicino per tutto il giorno, e poi me lo porto via. Nel mio studio, in Virginia, ho un’intera collezione di questi regali. Poi, per il resto dell’anno lavoro nel mio studio, ma quando arriva l’estate, mi metto in cerca del nuovo regalo per il mio Grazie,amico.Zebra, per il tuo regalo. Il tuo amico John Wilson P.S. Spero che la mano vada meglio. La signora English restò per un bel pezzo a fissare la lettera. Poi si girò di spalle e si sfregò gli occhi. Andò alla libreria, prese un grande libro, lo sfogliò rapidamente, trovò la pagina che cercava, e glielo porse.

«È andata bene l’estate?», domandò la signora English. «Sì, grazie», rispose Zebra.

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«Ci vuol pazienza, giovanotto», gli dissero i medici, quando tornò in città. «Ma ormai ce l’hai quasi fatta». Erano necessari ancora uno o due interventi chirurgici. Ma non c’era fret ta. E poteva smettere di portare il tutore ortopedico alla gamba.

«Questa è per te, è arrivata con la posta».

Il primo giorno di scuola, uno dei segretari lo intercettò in corridoio e gli disse di passare dalla signora English.

Davvero era stato solo frutto della sua immaginazione?

chAIM P OTOk 173 vanti alla rete metallica della recinzione a guardare la strada, verso Franklin Avenue. Ripensò a com’era stato strano, quel giorno, quando gli era sembrato che tutte le case della via si fossero girate verso John Wilson, e le finestre, i porticati, le colonne e i portoni, quasi per salutarlo.

Forse, pensò Zebra, sabato, o domenica, poteva andare a fare quattro pas si fino a Franklin Avenue. Era dal giorno dell’incidente che non capitava più da quelle parti. Sì, sarebbe sceso a passi prudenti giù da quella ripida collina, fino in fondo all’angolo, poi sarebbe tornato in su, avrebbe superato la scuola e i quattro isolati che lo separavano da casa. Andrea lo raggiunse. «Non ci hanno preso nel corso della signora English, quest’anno», disse Andrea. «Così almeno non dovrò più sentire quelle tue storie così tristi». Zebra restò in silenzio. «Non mi va di prendere lo scuola-bus, oggi. Mi sa che torno a casa a piedi», disse«Anch’ioAndrea.pensavo di tornare a casa a piedi», disse Zebra. «Magari, strada facendo, trovo qualche bel pezzo di spazzatura». «Sai, Zebra, stai diventando una forma di vita abbastanza simpatica», con cluse Andrea.

1. Quali sono le caratteristiche di Zebra presentate nella prima parte del racconto? Per rispondere fai attenzione anche a ciò che la ragazzina Andrea dice di lui. Che cosa gli era accaduto un giorno presso Franklin Avenue? Quali conseguenze ha avuto questo fatto?

2. «Quel giorno, siccome la mano gli faceva davvero male, si fermò dietro la rete metallica della recinzione che chiudeva il cortile della scuola. Così, per caso, vide quell’uomo. E così, sempre per caso, quell’uomo vide lui. In quel momento, caso strano, la traversa su cui si affacciava la scuola era vuota». Il dolore alla mano di Adam che ruolo ha in questo incontro? Perché l’autore insiste sulla parola «caso»? Chi incontra Adam in questa occasione? Quali sono le caratteristiche di quest’uomo? Che cosa lo accomuna a Zebra?

3. Da che cosa è attratto Zebra nel rapporto con l’insegnante di educazione artistica? Quali comportamenti del ragazzo e quali segni rintracciabili nel testo mostrano il crescente interessamento di Adam per John Wilson?

4. Come l’insegnante di educazione artistica vive il rapporto con Zebra? Che cosa gli fa fare e perché? Che cosa ottiene alla fine del corso estivo?

6. La signora English, per convincere Zebra a seguire il corso di John Wilson, gli aveva detto: «Imparerai un altro modo per usare la tua immaginazione». Successivamente, lo stesso signor Wilson aveva dichiarato agli studenti riguardo al proprio corso: «Imparerete a guardare in un altro modo». In che cosa consiste, secondo te, questo «altro modo» di «guardare»? Nel finale del racconto si può dire che Adam abbia imparato a «guardare in un altro modo»? Da quali suoi atteggiamenti e azioni lo capisci? Come è cambiato Adam nel rapporto con John Wilson?

8. Immagina e scrivi la lettera che Adam potrebbe scrivere, in risposta a quella ricevuta da John Wilson, ringraziandolo e spiegandogli che cosa ha significato l’incontro con lui.

cambia il rapporto di Adam con la propria mano nel corso della narrazione? Perché? Per rispondere fai particolare attenzione anche a questi passaggi: «Per lui, questa sua mano era paurosa e misteriosa insieme. Le dita c’erano tutte, ma erano come foglie morte che ancora non si decidevano a cadere, l’anulare e il mignolo erano rigidi e rattrappiti, le altre si muovevano appena» «Si rese conto che, senza badarci, aveva usato la sinistra, e le due dita rattrappite si erano leggermente raddrizzate per fare la loro parte. Il cuore prese a battergli forte»

R AccONTI5.174Come

7. Riassumi il racconto esplicitando i diversi passi del percorso di crescita di Zebra.

9. «Era come se si stesse guardando in uno specchio». Questa frase descrive l’esperienza vissuta da Zebra di fronte al suo ritratto ricevuto dall’insegnante di educazione artistica. Per la prima volta, grazie al rapporto con quest’uomo, Adam inizia a conoscere sé stesso e a guardarsi per quello che è veramente. Racconta di un rapporto con una persona che ti ha cambiato e ti ha fatto conoscere di più te stesso.

Lei gli diede il proprio nome, Ann Weiss, e il numero di telefono. La torta sarebbe stata pronta lunedì mattina, con largo anticipo sulla festa di com pleanno del bambino, prevista per il pomeriggio. Il pasticcere non era una persona gioviale. Non si scambiarono complimenti, solo le informazioni es senziali, il minimo indispensabile di parole. Lui la faceva sentire un po’ a di sagio e Ann non gradì la cosa. Mentre era chino sul bancone con la matita in mano, lei studiò i suoi lineamenti pesanti e si chiese se avesse mai fatto qual cosa nella vita oltre al pasticcere. Lei era una madre trentatreenne e pensa va che tutti, specialmente uno dell’età del pasticcere – che avrebbe potuto essere suo padre –, dovevano aver passato la fase delle torte e delle feste di compleanno per i figli. Dovevano avere almeno quello in comune, pensò lei. Ma lui era brusco con lei – non maleducato, solo brusco. Rinunciò all’idea di essere cordiale con lui. Sbirciò nel retrobottega della pasticceria e vide un lungo, massiccio tavolo di legno con una serie di teglie in alluminio impila te a un’estremità; accanto al tavolo c’era un carrello di metallo, pieno di ra strelliere vuote. In fondo c’era un forno enorme. Una radio suonava musica country-western.Ilpasticcerefinì di riempire a stampatello il modulo per l’ordinazione e ri chiuse il raccoglitore. Alzò lo sguardo su di lei e disse: «Lunedì mattina». Lei lo ringraziò e tornò a casa. Il lunedì mattina il bambino che compiva gli anni stava andando a scuola con un suo compagno. Si passavano un sacchetto di patatine e il bambino stava cercando di scoprire che regalo gli avrebbe portato quel pomeriggio il suo amico. A un incrocio, il bambino che compiva gli anni scese dal marciapiede senza guardare e fu immediatamente gettato a terra da una macchina che

175 RAMOND CARVER

Una cosa piccola ma buona

Sabato pomeriggio andò in macchina alla pasticceria del centro commercia le. Dopo aver sfogliato un raccoglitore con le foto delle torte incollate sulle pa gine, ne ordinò una al cioccolato, la preferita di suo figlio. La torta che aveva scelto era decorata con un’astronave sulla rampa di lancio sotto una pioggia di stelle bianche e un pianeta di glassa rossa all’altra estremità. SCOTTY, il nome del bambino, sarebbe stato scritto in verde sotto il pianeta. Il pastic cere, un signore anziano dal collo robusto, rimase ad ascoltarla senza dire niente mentre lei gli spiegava che il figlio avrebbe compiuto otto anni lunedì. Il pasticcere indossava un grembiule bianco che sembrava un camice. I lacci gli passavano sotto le ascelle, si incrociavano sulla schiena e poi tornava no sul davanti dove erano annodati sotto la vita larga. Mentre l’ascoltava, si asciugava le mani sul grembiule. Teneva gli occhi sulle foto e la lasciava par lare. Le diede tutto il tempo che voleva. Era appena arrivato al lavoro e sareb be stato lì tutta la notte a infornare dolci, perciò non aveva fretta.

Howard tornò a casa dall’ospedale. Percorse le strade bagnate e scure a velocità sostenuta, poi se ne rese conto e rallentò. Finora la sua vita era tra scorsa in modo piano e soddisfacente – l’università, il matrimonio, un altro anno di studi per la specializzazione in economia, l’ingresso come socio gio vane in una finanziaria che si occupava di investimenti. La paternità. Si po teva ritenere felice e, almeno per ora, fortunato – lo sapeva. I suoi genitori erano ancora vivi, i fratelli e la sorella si erano sistemati, i suoi compagni d’u niversità avevano tutti trovato il loro posto nel mondo. Finora era riuscito a stare lontano da ogni disgrazia, da quelle forze che sapeva esistere e che era no in grado di paralizzare o abbattere un uomo se la fortuna gli avesse volta

R AccONTI176 passava. Cadde su un fianco, con la testa nel canalino di scolo e le gambe ver so la strada. Teneva gli occhi chiusi, ma muoveva le gambe avanti e indietro come se stesse cercando di scavalcare un ostacolo. Il suo compagno lasciò cadere il sacchetto di patatine e scoppiò a piangere. La macchina era andata avanti un centinaio di metri e s’era fermata in mezzo alla strada. L’uomo al volante si guardò alle spalle. Attese finché vide il bambino rialzarsi con qual che difficoltà. Barcollava un po’. Sembrava stordito, ma se la cavava. L’auto mobilista innestò la marcia e ripartì. Il bambino che compiva gli anni non pianse, ma non sapeva cosa dire. Non rispose all’amico quando gli chiese che effetto faceva essere investiti da una macchina. Se ne tornò a casa, e il suo compagno proseguì per la scuola. Ma una volta rientrato a casa, mentre stava raccontando la cosa a sua madre – seduta accanto a lui sul divano che gli teneva le mani in grembo e gli di ceva: «Scotty, tesoro, sei sicuro di sentirti bene, piccolo?» e stava pensando di chiamare comunque il dottore –, il bambino che compiva gli anni all’im provviso si stese sul divano, chiuse gli occhi e si abbandonò. Quando vide che non riusciva più a svegliarlo, la madre corse al telefono e chiamò il ma rito al lavoro. Howard le disse di rimanere calma, soprattutto di rimanere calma, e poi chiamò un’ambulanza per il bambino. Quindi andò anche lui all’ospedale.Naturalmente, la festa di compleanno fu annullata. Il bambino era sta to ricoverato in ospedale in stato di shock e con una leggera commozione cerebrale. Aveva vomitato e nei polmoni si era accumulato del liquido che quel pomeriggio doveva essere aspirato. Ora sembrava fosse semplicemente immerso in un sonno profondo – ma non era in coma, aveva insistito il dot tor Francis, non era in coma, quando aveva visto l’espressione allarmata dei genitori. Alle undici di sera, quando il bambino pareva riposare abbastanza tranquillo, dopo le tante radiografie e analisi, e bisognava solo aspettare che si svegliasse e riprendesse i sensi, Howard lasciò l’ospedale. Lui e Ann erano stati lì insieme al figlio tutto il pomeriggio e ora lui sarebbe andato a casa per un po’, a farsi un bagno e a cambiarsi. «Torno fra un’oretta» disse alla moglie. Lei annuì. «Va bene» disse. «Io non mi muovo da qui». Lui la baciò sulla fronte e si sfiorarono le mani. Lei era sulla sedia accanto al letto e guardava il figlio. Stava aspettando che Scotty si svegliasse e si sentisse meglio. Poi avrebbe po tuto cominciare a rilassarsi.

R AMOND cARvER 177 to le spalle, se le cose improvvisamente fossero cambiate, Entrò nel vialetto di casa e parcheggiò. La gamba sinistra gli cominciò a tremare. Rimase per un attimo seduto in macchina e cercò di affrontare la situazione in manie ra razionale. Scotty era stato investito da una macchina ed era in ospedale, ma sarebbe andato tutto bene. Howard chiuse gli occhi e si passò una mano sul volto. Scese dall’auto e si avviò verso la porta di casa. All’interno, il cane abbaiava. Il telefono squillava senza posa mentre apriva la porta e cercava a tentoni l’interruttore della luce. Non avrebbe dovuto lasciare l’ospedale, lo sapeva, non se ne sarebbe dovuto andare. «Accidenti!» disse. Alzò la cornetta e disse: «Sono entrato in casa in questo momento!». «C’è una torta che non è stata ritirata» disse la voce dall’altra parte. «Come dice, scusi?» chiese Howard. «Una torta» disse la voce. «Una torta da sedici dollari.» Howard tenne la cornetta premuta contro l’orecchio, cercando di capire. «Non so niente di questa torta» disse. «Santo cielo, di che cosa sta parlando?» «Non mi venga fuori con questa scusa» disse la voce. Howard riattaccò. Andò in cucina e si versò del whisky. Poi chiamò l’ospe dale. Ma gli dissero che le condizioni del bambino erano stazionarie; dormi va ancora e non era cambiato niente. Mentre la vasca si riempiva, Howard s’insaponò la faccia e si fece la barba. Si era appena steso nella vasca a occhi chiusi, quando il telefono ricominciò a squillare. Si tirò su, afferrò un asciu gamano e attraversò di corsa la casa, dicendosi: «Che stupido! Che stupi do!», perché se n’era andato dall’ospedale. Ma quando alzò la cornetta e gridò «Pronto!», dall’altra parte non arrivò alcun suono. Poi la persona che aveva chiamato riagganciò. Arrivò di nuovo in ospedale poco dopo mezzanotte. Ann era ancora sulla se dia accanto al letto. Alzò gli occhi su Howard e poi tornò a guardare il bambi no. Scotty aveva ancora gli occhi chiusi e la testa tutta fasciata. Il suo respiro era regolare e silenzioso. Da un impianto sopra il letto pendeva un flacone di glucosio con un tubicino che lo collegava al braccio del bambino. «Come sta? Cos’è questa roba?» chiese Howard indicando il flacone e il tu bicino.«L’ha ordinato il dottor Francis» rispose la moglie. «Ha bisogno di nutrir si. Deve mantenersi in forze. Ma perché non si sveglia, Howard? Non capisco, se staHowardbene…»lemise una mano dietro la testa. Le fece scorrere le dita fra i capel li. «Andrà tutto bene, vedrai. Tra poco si sveglierà. Il dottor Francis sa quello cheDopofa.» qualche secondo, aggiunse: «Forse è meglio che vai a casa a riposarti un po’. Rimango io qui. Solo, non dar retta a quell’idiota che continua a chia mare. Riaggancia subito». «Chi è che chiama?» chiese lei. «Ah, non lo so. Uno che evidentemente non ha niente di meglio da fare che telefonare alla gente. Adesso vai.»

«Perché non si sveglia?» disse Ann.

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Il dottore era un bell’uomo, con le spalle larghe e il volto abbronzato. In dossava un completo blu col panciotto, una cravatta a strisce e gemelli d’avo

Lei scosse la testa. «No» disse. «Sto bene.» «Davvero» disse lui. «Va’ a casa per un po’ e torna domattina a darmi il cambio. Andrà tutto bene. Che cosa ha detto il dottor Francis? Ha detto che Scotty guarirà. Non dobbiamo stare in pensiero. È solo addormentato ora, tut to qui.»Un’infermiera aprì la porta. Li salutò con un cenno del capo mentre si av vicinava al letto. Tirò fuori il braccio sinistro del bambino da sotto le coperte e gli tastò il polso, poi consultò l’orologio. Dopo poco rimise il braccio sotto le coperte e scrisse qualcosa su una tabella attaccata al letto. «Come sta?» chiese Ann. La mano di Howard cominciava a pesarle sulla spalla. Sentiva la pressione delle sue dita. «È stazionario» rispose l’infermiera. Poi disse: «Il dottore ripasserà tra po co. È tornato in ospedale. Sta facendo il giro adesso». «Stavo dicendo a mia moglie che forse dovrebbe andare a casa a riposarsi un po’» disse Howard. E aggiunse: «Dopo la visita del dottore». «Certo che può farlo» disse l’infermiera. «Secondo me, dovreste sentirvi liberi di farlo tutti e due, se volete.» L’infermiera era un donnone biondo di origini scandinave. C’era una traccia di accento nella sua parlata. «Sentiamo che cosa ci dice il dottore» disse Ann. «Voglio parlare con il dot tore. Secondo me non dovrebbe continuare a dormire così. Secondo me non è un buon segno.» Si portò una mano agli occhi e abbassò un tantino la testa. Howard le strinse la spalla, quindi spostò la mano sul collo, dove le dita co minciarono a massaggiarle i muscoli. «Il dottor Francis arriverà tra qualche minuto» disse l’infermiera. Quindi uscì dalla Howardstanza.fissòper un po’ suo figlio, il minuscolo petto che si alzava e si ab bassava silenzioso sotto le coperte. Per la prima volta dopo i terribili istanti immediatamente successivi alla telefonata di Ann in ufficio, avvertì una vera e propria paura invadergli le membra. Cominciò a scuotere la testa. Scotty stava bene, solo che invece di dormire a casa nel suo letto, era in ospedale con la testa fasciata e un tubo infilato nel braccio. Ma era di questo che aveva bisogno, per il momento. Il dottor Francis entrò nella stanza e strinse la mano a Howard, anche se si erano visti solo poche ore prima. Ann si alzò dalla sedia. «Dottore?» «Ann» disse, salutandola con un cenno del capo. «Vediamo prima di tutto come sta» disse il dottore. Si avvicinò a un lato del letto e misurò il polso del bambino. Gli sollevò prima una palpebra e poi l’altra. Howard e Ann erano in piedi dietro di lui e osservavano. Poi il dottore tirò giù le coperte e auscultò il cuore e i polmoni di Scotty con lo stetoscopio. Gli premette le dita in diversi punti dell’addome. Appena ebbe finito, andò ai piedi del letto e consultò la ta bella. Vi annotò l’ora, scribacchiò qualcosa e poi guardò Howard e Ann. «Dottore, come sta?» disse Howard. «Che cos’ha esattamente?»

Ann appoggiò la mano sulla fronte del figlio. «Almeno non ha la febbre» disse. Poi aggiunse: «Dio mio, però, è così freddo. Howard? Secondo te è nor male? Sentigli un po’ la fronte».

Ann rimase lì in piedi ancora un po’, tormentandosi un labbro con i denti. Poi tornò a sedersi. Howard si sedette sulla sedia accanto. Si scambiarono un’occhiata. Avreb

Howard sfiorò le tempie del bambino. Anche il suo respiro era rallenta to. «Secondo me, è normale che abbia questa temperatura, adesso» disse. «È ancora sotto shock, ricordi? Così ha detto il dottore. L’ha appena visitato. Se Scotty non stesse bene, ce l’avrebbe detto.»

R AMOND cARvER 179 rio. Portava i capelli grigi pettinati all’indietro sui lati della testa e sembrava appena uscito da un concerto. «Tutto a posto» disse. «Non c’è da esaltarsi, secondo me potrebbe stare meglio, ma è tutto a posto. Tuttavia, vorrei tanto che si svegliasse. Si dovrebbe svegliare presto.» Il medico guardò di nuovo il bambino. «Dovremmo saperne di più in un paio d’ore, quando arriveranno i risultati di altre analisi. Ma sta bene, credetemi, a parte la sottile frattura cra nica che abbiamo riscontrato. Quella c’è.» «Oh, no!» esclamò Ann. «E una leggera commozione cerebrale, come ho già detto. E naturalmente, sapete che è ancora sotto shock» disse il dottore. «A volte succede nei pazien ti sotto shock. Questo sonno.» «Ma è davvero fuori pericolo?» chiese Howard. «Lei prima ha detto che non è in coma. Allora non lo chiamerebbe coma, vero, dottore?» Howard ri mase in attesa. Guardava il medico. «No, non voglio definirlo coma» disse il dottore, lanciando un’altra occhia ta al bambino. «È solo immerso in un sonno profondissimo. Si tratta di una reazione difensiva spontanea dell’organismo. Il ragazzo è fuori pericolo, que sto penso di poterlo dire con certezza, sì. Ma ne sapremo di più quando si sveglierà e arriveranno le altre analisi» concluse il dottore. «È coma» disse Ann. «In un certo senso.» «No, non è ancora coma, non esattamente» disse il medico. «Non vorrei chiamarlo coma. Non per il momento, almeno. Ha subito un forte trauma. In casi del genere, questo tipo di reazione è abbastanza comune; è una rea zione temporanea a uno shock organico. Il coma, be’, il coma è uno stato di incoscienza profondo e prolungato, qualcosa che può andare avanti per gior ni, addirittura settimane. Scotty non è in quella zona, almeno per quanto ne sappiamo. Sono sicuro che le sue condizioni mostreranno un miglioramen to domattina. Ci scommetto. Ne sapremo di più quando si sveglierà. Non ci vorrà molto, ormai. Naturalmente, potete fare come preferite, restare qui o andare a casa per un po’. In ogni caso, sentitevi liberi di lasciare l’ospedale quando volete. Mi rendo conto che non è facile.» Il medico scrutò di nuovo il bambino, lo osservò per un attimo, poi si rivolse ad Ann e le disse: «Cerchi di non preoccuparsi, mammina. Mi creda, stiamo facendo tutto il possibile. È questione di poco, ormai». Le fece un altro cenno di saluto, strinse ancora la mano a Howard e uscì dalla stanza.

180 be voluto dirle qualcos’altro per rassicurarla, ma aveva paura anche lui. Le prese la mano e se la portò in grembo e questo lo fece sentire meglio, avere lì la sua mano. Gliela sollevò un po’ e la strinse. Poi gliela tenne e basta. Rima sero seduti così per un po’, guardando il bambino senza parlare. Di tanto in tanto lui le stringeva la mano. Alla fine lei la ritirò. «Ho pregato» disse. Lui annuì. Lei aggiunse: «Credevo di aver dimenticato come si fa, ma mi è tornato in mente. Ho dovuto solo chiudere gli occhi e dire: “Ti prego, Signore, aiutaci –aiuta Scotty” e il resto è stato facile. Le parole sono venute da sole. Magari, se pregassi anche tu» gli disse. «Ho già pregato» disse lui. «Ho pregato oggi pomeriggio – ieri pomeriggio, voglio dire – dopo che hai chiamato, mentre correvo in macchina verso l’o spedale. Ho pregato anch’io.» «Bene» disse lei. Per la prima volta, sentì che erano insieme in quel dolo re. Tutto d’un tratto si rese conto che fino a quel momento era successo solo a lei e a Scotty. Non aveva lasciato che Howard vi entrasse, anche se lui era sempre stato lì e c’era bisogno di lui. Si sentì grata di essere sua moglie. La stessa infermiera tornò e misurò di nuovo il polso del bambino; con trollò anche il flusso del flacone appeso sopra al letto. Dopo un’ora, passò un altro medico. Disse che si chiamava Parsons, di ra diologia. Aveva dei folti baffi. Indossava mocassini, una camicia da cowboy e jeans.«Lo portiamo di sotto per fare delle lastre» disse. «Ce ne servono altre e vogliamo anche fare una TAC.»

«Temo che ne occorrano altre» rispose lui. «Non c’è da allarmarsi. Occor rono solo nuove lastre e vogliamo fargli una TAC al cervello.»

«Oddio mio!» disse Ann. «È una prassi assolutamente normale in questi casi» disse il nuovo dot tore. «Abbiamo bisogno di scoprire con sicurezza come mai non si è ancora svegliato. È una procedura medica normalissima e non c’è da allarmarsi. Lo porteremo di sotto tra qualche minuto» aggiunse. Poco dopo, arrivarono due portantini con una barella. Erano uomini con la carnagione scura e i capelli corvini in uniforme bianca; si scambiarono qualche parola in una lingua straniera mentre staccavano il tubicino dal braccio di Scotty, che trasferirono dal letto alla barella. Poi lo portarono fuo ri dalla stanza. Ann e Howard entrarono nello stesso ascensore. Ann fissava suo figlio. Appena l’ascensore cominciò a scendere, lei chiuse gli occhi. I por tantini rimasero alle due estremità della barella in silenzio, solo a un certo punto uno dei due fece un commento nella loro lingua all’altro che annuì len tamente in risposta. Più tardi, quella mattina, proprio mentre il sole cominciava a illuminare le finestre della sala d’attesa fuori dal reparto di radiologia, riportarono il bam

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«Che cos’è?» chiese Ann. «La TAC?» Era in piedi tra il nuovo dottore e il let to. «Credevo aveste fatto tutte le lastre di cui c’era bisogno.»

R AMOND cARvER 181 bino nella sua stanza. Ann e Howard salirono di nuovo in ascensore con lui e di nuovo presero il loro posto accanto al letto. Aspettarono tutto il giorno, ma il bambino non si svegliò. Qualche volta, uno di loro era uscito dalla stanza ed era sceso al bar per prendere un caffè, ma poi, come se all’improvviso si ricordasse e si sentisse in colpa, si alzava e tor nava di corsa in camera. Il dottor Francis era tornato nel pomeriggio e aveva visitato di nuovo il bambino, poi se n’era andato dicendo che andava tutto bene e che si sarebbe potuto svegliare da un momento all’altro. Ogni tanto arrivavano delle infermiere, diverse da quelle della notte. Poi una giovane donna del laboratorio di analisi bussò ed entrò nella stanza. Indossava pan taloni e camicetta bianchi e portava un vassoietto pieno di cose che appoggiò sul comodino accanto al letto. Senza dire loro una parola, prelevò del sangue al bambino. Howard chiuse gli occhi quando la donna, dopo aver trovato il punto giusto nel braccio di Scotty, vi infilò l’ago. «Non capisco» le disse Ann. «L’ha ordinato il dottore» rispose la ragazza. «Io faccio quello che mi dico no di fare. Mi dicono fai un prelievo a quello, e io lo faccio. Che gli è succes so?» disse. «È tanto carino.» «È stato investito da una macchina» rispose Howard. «Un pirata della stra da.»La giovane scosse la testa e guardò di nuovo il bambino. Poi prese il suo vassoio e se ne andò. «Ma perché non si sveglia?» disse Ann. «Howard? Voglio che questa gente mi dia una risposta.» Howard non disse niente. Si sedette di nuovo e accavallò le gambe. Si pas sò una mano sulla faccia. Guardò suo figlio, si sistemò sulla sedia, chiuse gli occhi e si addormentò. Ann si avvicinò alla finestra e guardò giù nel parcheggio. Era già buio e le macchine entravano e uscivano dal parcheggio con i fari accesi. Rimase alla finestra con le mani che stringevano il davanzale e sentì in cuor suo che or mai erano dentro a qualcosa, qualcosa di estremamente difficile. Aveva pau ra e cominciò a battere i denti, finché non serrò le mascelle. Vide una grossa macchina che si fermava davanti all’ospedale e una persona, una donna col cappotto lungo, che vi saliva. Desiderò essere quella donna e che qualcuno, chiunque, la portasse via da lì, da qualche parte, in un posto dove avrebbe trovato Scotty che l’aspettava, pronto a chiamarla “Mamma” e a farsi stringe re tra le sue braccia quando scendeva dalla macchina. Dopo un po’, Howard si svegliò. Guardò di nuovo il bambino. Poi si alzò, si stirò e si mise accanto a lei davanti alla finestra. Fissavano entrambi il par cheggio. Non dissero niente. Ma sembrava che ormai riuscissero a sentire ciò che l’altro provava nell’intimo, quasi che la preoccupazione li avesse resi tra sparenti in modo del tutto naturale. La porta si aprì ed entrò il dottor Francis. Si era cambiato l’abito e anche la cravatta. I capelli grigi erano sempre pettinati all’indietro sui lati e pareva si

«Non riuscirei a mandare giù niente» disse Ann. «Fate come vi sentite, naturalmente» disse il dottore. «Comunque, volevo comunicarvi che tutti i valori sono a posto, che le analisi sono negative, che non è venuto fuori assolutamente niente e che non appena si sveglierà avrà superato il «Grazie,peggio.»dottore» disse Howard. Gli strinse di nuovo la mano. Il dottore gli diede qualche colpetto sulla spalla e uscì.

fosse appena rasato. Andò dritto al letto e visitò il bambino. «Avrebbe dovuto riacquistare i sensi, ormai. Non c’è ragione per cui non dovrebbe farlo» disse. «Però posso dirvi che siamo tutti convinti che sia fuori pericolo. Ci sentiremo più sollevati non appena si sveglierà, comunque. Non c’è alcuna ragione, as solutamente nessuna, perché non si risvegli. Lo farà presto, molto presto. Oh, quando si sveglierà avrà un terribile mal di testa, potete contarci. Ma i valori sono tutti a posto. Più normali di così non si può.» «Dunque è in coma?» disse Ann. Il dottore si strofinò la guancia ben rasata. «Per il momento chiamiamolo così, finché non si sveglia. Ma voi dovete essere a pezzi. È difficile. Lo so che è difficile. Sentitevi liberi di uscire a mangiare un boccone» disse. «Vi fareb be bene. Metterò un’infermiera qui dentro mentre siete via, se questo vi farà stare più tranquilli. Andate a mangiare qualcosa.»

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«Telefona a uno dei vicini» disse Ann. «Chiama i Morgan. Chiunque darà da mangiare a un cane, se glielo chiedi.» «Va bene» disse Howard. Qualche attimo dopo aggiunse: «Tesoro, perché non lo fai tu? Perché non vai a casa, dai una controllata e poi ritorni? Ti fareb be bene. Io non mi muoverò da qui. Sul serio. Dobbiamo mantenerci in forze. Dovremo stare qui per un pezzo anche dopo che si sarà svegliato». «Perché non vai tu?» disse lei. «Dai da mangiare a Slug. Mangia pure tu.» «Io ci sono già andato» rispose lui. «Sono stato via esattamente un’ora e quindici minuti. Va’ a casa un’oretta e datti una rinfrescata. Poi torni.» Lei provò a rifletterci su, ma era troppo stanca. Chiuse gli occhi e tentò an cora di rifletterci su. Dopo un po’ disse: «Magari vado a casa per un pochino. Magari se non me ne sto qui seduta a guardarlo ogni secondo Scotty si sve glierà e starà bene. Sai? Magari se non ci sono si sveglia. Vado a casa, faccio un bagno, mi cambio. Do da mangiare a Slug. Poi torno». «Resto io qui» disse lui. «Tu va’ a casa, tesoro. Lo tengo d’occhio io, non ti preoccupare.» Aveva gli occhi arrossati e un po’ rimpiccioliti, come se avesse bevuto parecchio. Aveva i vestiti spiegazzati. La barba gli era ricresciuta. Lei gli toccò il viso, poi tolse la mano. Aveva capito che voleva stare da solo, non dover parlare o condividere la sua preoccupazione per un po’. Prese la bor setta dal comodino e lui l’aiutò a infilarsi il cappotto.

«Mi sa che uno di noi dovrebbe andare a casa a controllare le cose» disse Howard. «Tanto per cominciare, bisogna dare da mangiare a Slug.»

«Non starò via molto» disse lei. «Siediti e riposati per un po’ quando arrivi a casa» le disse. «Mangia un boccone. Fatti un bagno. Quando esci dalla vasca, siediti e riposa per un po’.

Ti farà un mondo di bene, vedrai. Poi torna qui» disse. «Cerchiamo di non preoccuparci. Hai sentito che cos’ha detto il dottor Francis.» Lei rimase un attimo lì, con il cappotto addosso, cercando di ricordare le parole esatte del medico, di fare caso a ogni sfumatura, di leggere tra le righe indizi di qualcosa che non aveva detto. Cercò di ricordare se la sua espressio ne era cambiata quando si era chinato a visitare il bambino. Ricordò di come i suoi lineamenti si erano distesi quando aveva sollevato le palpebre di suo figlio e ne aveva auscultato il respiro. Andò alla porta e si voltò a guardare. Guardò prima il bambino e poi il pa dre. Howard le fece un cenno con la testa. Lei uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Superò la postazione delle infermiere e percorse tutto il corridoio in cerca dell’ascensore. In fondo al corridoio girò a destra e si trovò in una piccola sala d’attesa dove una famiglia di colore era seduta su delle poltroncine di vimini. C’era un uomo di mezz’età con camicia e pantaloni color cachi, e un berretto da baseball tirato indietro. Una donna grassa in vestito da casa e pantofole era accasciata su un’altra poltroncina. Una ragazza in jeans e con tante trec cine si era allungata su una sedia e fumava una sigaretta, con i piedi incro ciati. Appena Ann entrò i tre si girarono verso di lei. Il tavolino era ingombro di involucri di hamburger e bicchieri di polistirolo. «Franklin» disse la donna grassa, riscuotendosi dal torpore. «Si tratta di Franklin?» Spalancò gli occhi «Me lo dica subito, signora» disse la donna. «Si tratta di Franklin?» Cercava di alzarsi dalla poltroncina, ma l’uomo le aveva appoggiato una mano sul braccio. «Calma, calma, Evelyn» le disse lui. «Scusate» disse Ann. «Stavo cercando l’ascensore. Mio figlio è ricoverato in ospedale e non riesco a trovare l’ascensore.» «L’ascensore è da quella parte, giri a sinistra» disse l’uomo, indicando col dito.La ragazza aspirò un tiro di sigaretta e fissò Ann. Gli occhi le si erano ridotti a due fessure, e le ampie labbra si schiusero lentamente per esalare il fumo. La donna nera aveva reclinato la testa e, ormai indifferente, non guardava più Ann.«Mio figlio è stato investito da una macchina» spiegò Ann all’uomo. Le pareva di doversi giustificare. «Ha una commozione cerebrale e una piccola frattura al cranio, ma ne uscirà. È ancora sotto shock per il momento, ma può anche darsi che si tratti di una specie di coma. Quello che ci preoccupa è pro prio questa faccenda del coma. Io esco per un po’, ma con lui c’è mio marito. Magari si sveglia mentre sono via.» «Che disgrazia» disse l’uomo, agitandosi nella poltroncina. Scosse la te sta. Abbassò lo sguardo sul tavolino, poi guardò di nuovo Ann. Lei era ancora in piedi davanti a lui. L’uomo disse: «Il nostro Franklin è sotto i ferri in que sto momento. L’hanno accoltellato Hanno tentato di ammazzarlo. È rimasto coinvolto in una rissa. A una festa. Mi hanno detto che lui stava lì a guardare. Non dava fastidio a nessuno. Ma oggigiorno questo non vuol dire niente. E

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R AccONTI184 adesso è di là, sotto i ferri. Noi possiamo solo pregare e sperare; è tutto quello che possiamo fare». Tenne gli occhi fissi su di lei. Ann guardò di nuovo la ragazza, che la stava ancora osservando, e la donna più anziana, che continuava a tenere la testa bassa, solo che ades so aveva anche chiuso gli occhi. Ann vide che le sue labbra si muovevano senza far rumore, formando delle parole. Sentiva il bisogno di chiederle che parole erano. Avrebbe voluto parlare ancora con quella gente che si trovava nello stesso tipo di attesa in cui si trovava lei. Lei aveva paura e loro aveva no paura. Avevano questo in comune. Avrebbe voluto dirgli qualcosa di più sull’incidente, dire qualcosa su Scotty, che tutto era successo il giorno del suo compleanno, lunedì, e che lui non aveva ancora ripreso conoscenza. Ma non sapeva da che parte cominciare. Rimase ancora un attimo lì a guardarli senza dire altro. Poi imboccò il corridoio che l’uomo le aveva indicato e trovò l’ascensore. Restò un attimo ferma davanti alle porte chiuse, chiedendosi ancora se stava facendo bene. Poi alzò un dito e premette il pulsante di chiamata. Entrò nel vialetto e spense il motore. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa al volante per un momento. Ascoltò il ticchettio del motore che cominciava a raffreddarsi. Poi scese dalla macchina. Sentiva il cane che abbaiava dentro casa. Andò alla porta d’ingresso che non era chiusa a chiave. Entrò, accese le luci e mise a bollire un po’ d’acqua per il tè. Aprì un paio di scatolette e die de da mangiare a Slug sulla veranda posteriore. Il cane mangiò avidamente, emettendo piccoli schiocchi. Ogni tanto entrava di corsa in cucina per assi curarsi che lei fosse ancora lì. Appena Ann si sedette sul divano con la tazza di tè, il telefono squillò. «Sì?» rispose. «Pronto?» «Signora Weiss» disse una voce maschile. Erano le cinque del mattino e le parve di sentire un rumore di macchinari o di una qualche apparecchia tura.«Sì, sì! Che c’è?» disse lei. «Sono io la signora Weiss. Pronto? Per favore, che succede?» Rimase in ascolto del misterioso rumore in sottofondo. «Si tratta di Scotty, per l’amor di Dio?» «Scotty» disse l’uomo. «Si tratta di Scotty, già. Il problema riguarda pro prio Scotty. Si è dimenticata di Scotty?» disse la voce. Poi riagganciò.

Lei fece il numero dell’ospedale e domandò del terzo piano. Chiese infor mazioni sul figlio all’infermiera che rispose al telefono. Poi di parlare con il marito. Si trattava, disse, di un’emergenza. Restò in attesa, avvolgendosi il filo del telefono attorno alle dita. Chiuse gli occhi e fu assalita da un senso di nausea. Avrebbe dovuto costringersi a man giare qualcosa. Slug venne dalla veranda sul retro e si sdraiò ai suoi piedi. Agitò la coda. Lei gli tirò un po’ un orecchio mentre il cane le leccava le dita. Howard arrivò al telefono. «Qualcuno ha appena chiamato qui» gli disse, tormentando il filo del tele fono. «Ha detto che si trattava di Scotty» gridò.

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«Non me lo ricordo» rispose lui. «Magari è quello che guidava la macchi na, magari è uno psicopatico che ha sentito la storia di Scotty, vai a sapere. Ma ci sono qui io con lui. Cerca di riposarti come volevi. Fatti un bagno e tor na qui verso le sette, così parliamo insieme con il dottore quando arriva. An drà tutto a posto, tesoro. Ci sono qua io e ci sono un sacco di medici e di infer miere. Dicono che le condizioni sono stazionarie.» «Ho una paura da morire» disse lei. Fece scorrere l’acqua, si spogliò e s’infilò nella vasca. Si lavò e si asciugò rapidamente, senza concedersi il tempo di lavarsi i capelli. Si mise della bian cheria intima pulita, calzoni di lana e un maglione. Andò in soggiorno, dove il cane alzò lo sguardo su di lei e batté la coda con forza sul pavimento. Fuori cominciava appena a fare giorno quando uscì per andare alla macchina.

«Scotty sta bene» le disse Howard. «Cioè, dorme ancora. Non ci sono stati cambiamenti. L’infermiera è già venuta due volte da quando te ne sei andata. O l’infermiera o un dottore. È tutto a posto.» «Ha chiamato un tizio. Ha detto che si trattava di Scotty» ripeté lei. «Tesoro, cerca di riposare un po’, ne hai bisogno. Dev’essere lo stesso a cui ho risposto io. Non ci pensare. Torna qui appena ti sei riposata un po’. Così magari facciamo colazione insieme.» «Colazione» disse lei. «Non voglio fare colazione.» «Sai che cosa voglio dire» disse lui. «Un succo di frutta, qualcosa. Non so. Non so niente, Ann. Gesù, neanch’io ho fame. Ann, adesso è un po’ difficile parlare. Sono qui in piedi al bancone delle infermiere. Il dottor Francis ri passerà alle otto. Quando arriverà potrà dirci qualcosa di più preciso. Me l’ha detto una delle infermiere. Non sapeva altro neanche lei. Ann? Tesoro, ma gari per allora ne sapremo di più. Alle otto. Torna prima delle otto. Intanto, io non mi muovo di qui e Scotty sta bene. Sta sempre uguale» aggiunse. «Stavo bevendo una tazza di tè» disse lei «quando il telefono ha squillato. Hanno detto che si trattava di Scotty. C’era come un ronzio in sottofondo. C’e ra un ronzio quando hanno chiamato te, Howard?»

Entrò nel parcheggio dell’ospedale e trovò un posto vicino all’ingresso. Si sentiva in qualche misterioso modo responsabile di quello che era successo al bambino. Lasciò che i suoi pensieri si rivolgessero alla famiglia di colore. Ricordava il nome, Franklin, e il tavolo coperto da involucri di hamburger, e la ragazza che la fissava fumando. «Non fare figli» disse all’immagine della ragazza mentre entrava in ospedale. «Per l’amor di Dio, non farli.» Salì al terzo piano insieme a due infermiere che dovevano prendere servi zio. Era mercoledì mattina, qualche minuto prima delle sette. Appena le por te dell’ascensore si aprirono al terzo piano, l’altoparlante chiamò un certo dottor Madison. Ann uscì dietro le infermiere, che voltarono dall’altra parte e ripresero la conversazione che avevano interrotto quando era entrata in ascensore. Percorse tutto il corridoio fino alla piccola sala d’attesa dove c’era la famiglia di colore. Adesso se n’erano andati, ma le poltroncine erano spar se in giro come se gli occupanti fossero saltati in piedi un attimo prima. Il

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tavolo era ancora ingombro degli stessi involucri e bicchieri, e il posacenere era pieno di cicche.

Si fermò alla postazione delle infermiere. Una di loro era dietro al banco ne e si spazzolava i capelli, sbadigliando.

«Con lui c’era anche un altro dottore. Un neurologo.» «Un neurologo» ripeté lei. Howard annuì. In effetti teneva proprio le spalle curve, adesso ne era sicu ra. «Che cosa hanno detto Howard? Per l’amor di Dio, che cosa hanno detto? Che«Hannoc’è?» detto che lo porteranno di sotto e gli faranno altre analisi, Ann. Pensano di doverlo operare, tesoro. Tesoro, lo operano senz’altro. Non rie scono a capire come mai non si sveglia. C’è qualcosa di più, oltre allo shock e alla commozione cerebrale, adesso lo sanno. È qualcosa nel cranio, la frattu ra, c’è qualcosa, qualcosa che ha a che fare con quello, così credono. Per que sto lo operano. Ho cercato di avvertirti, probabilmente eri già uscita.» «Oddio!» disse lei. «Oh, Howard, ti prego» disse, afferrandolo per le braccia. «Guarda!» disse Howard. «Scotty! Ann, guarda!» La voltò verso il letto. Il bambino aveva aperto gli occhi, poi li aveva richiusi. Ora li riaprì. Lo

«C’era un ragazzo nero in sala operatoria stanotte» disse Ann. «Si chiama va Franklin. La famiglia era di là in sala d’attesa. Vorrei qualche informazione sulle sue Un’altracondizioni.»infermiera, seduta a una scrivania dietro al bancone, alzò lo sguar do da una tabella che stava consultando. Il telefono squillò e lei rispose, ma tenne gli occhi su Ann.

«Non ce l’ha fatta» disse l’infermiera al bancone. Tenne alzata la spazzola e guardò fissa Ann. «Lei è un’amica di famiglia?»

«Ho conosciuto la famiglia ieri notte» rispose Ann. «Ho anch’io un figlio ri coverato qui. Credo sia sotto shock. Non sappiamo con precisione cos’ha. Mi chiedevo solo come stava Franklin, tutto qui. La ringrazio.» Proseguì lungo il corridoio. Le porte di un ascensore dello stesso colore della parete si aprirono e un uomo calvo e magrissimo, con pantaloni bianchi e scarpe di tela bianche, tirò fuori un carrello pesante. La notte precedente Ann non aveva notato quel le porte. L’uomo spinse il carrello nel corridoio, si fermò accanto alla porta più vicina all’ascensore e consultò una tabella. Poi si abbassò ed estrasse un vassoio. Bussò piano alla porta ed entrò nella stanza. Appena passò accanto al carrello, Ann sentì lo sgradevole odore di cibo caldo. Accelerò il passo, non guardò nessuna delle infermiere e aprì la porta della stanza del figlio.

Howard era in piedi davanti alla finestra con le mani dietro la schiena. Ap pena lei entrò, si voltò. «Come sta?» chiese Ann. Andò dritta al letto. Lasciò cadere la borsetta sul pavimento accanto al comodino. Le pareva di essere stata via un secolo. Sfio rò il viso del bambino. «Howard?» «Il dottor Francis è stato qui poco fa» disse Howard. Lei lo guardò meglio e le parve che tenesse le spalle un po’ curve. «Credevo non sarebbe venuto fino alle otto» si affrettò a dire lei.

sguardo rimase fisso per qualche secondo, poi le pupille si mossero finché non si posarono su Howard e su Ann, quindi ripresero a vagare. «Scotty» disse la madre, avvicinandosi al letto. «Ehi, Scott» disse il padre. «Ehi, figliolo.» Si chinarono sul letto. Howard gli prese una mano e cominciò a carezzarla e a stringerla tra le sue. Ann si piegò sul bambino e gli baciò ripetutamente la fronte. Gli prese il viso tra le mani. «Scotty, tesoro, siamo noi, papà e mam ma» disse. «Scotty?» Il bambino li guardò, ma senza dar segno di riconoscerli. Poi la bocca si spalancò, gli occhi si chiusero con forza e lanciò un lungo ululato fino a che non ebbe più aria nei polmoni. A quel punto il suo volto parve rilassarsi e am morbidirsi. Le labbra gli si schiusero, e l’ultimo respiro gli soffiò nella gola ed esalò delicatamente attraverso i denti serrati. I dottori la definirono un’occlusione nascosta e dissero che si verificava una volta su un milione. Magari se la si fosse potuta scoprire prima e l’avessero operato subito, sarebbero riusciti a salvarlo. Ma era più probabile di no. In ogni caso, che cosa avrebbero dovuto cercare? Le lastre e le analisi non ave vano rivelato niente. Il dottor Francis era scosso. «Non riesco a dirvi come sto male. Mi dispiace talmente tanto che non so come dirvelo» disse mentre li faceva accomodare nella saletta dei medici. C’era un dottore sprofondato in una poltrona con le gambe appoggiate allo schienale di un’altra sedia che guardava un program ma del mattino alla televisione. Indossava uno di quei completi verdi che si usano in sala parto, ampi calzoni verdi e camiciotto verde, e anche una cuffia verde che gli copriva i capelli. Guardò Howard e Ann e poi lanciò un’occhiata al dottor Francis. Si alzò immediatamente, spense il televisore e uscì dalla stan za. Il dottor Francis fece accomodare Ann sul divano, si sedette accanto a lei e cominciò a parlarle a voce bassa, consolatoria. A un certo punto si chinò su di lei e l’abbracciò. Lei sentiva il petto che si alzava e si abbassava con regolarità contro la sua spalla. Tenne gli occhi aperti e si fece abbracciare. Howard andò in bagno, ma lasciò la porta aperta. Dopo un violento attacco di pianto, aprì il rubinetto e si sciacquò la faccia. Poi uscì e si sedette accanto al tavolino su cui era posato un telefono. Lo fissò come per decidere quale cosa fare per prima. Fece alcune telefonate. Dopo un po’, anche il dottor Francis usò l’apparecchio. «C’è qualcos’altro che posso fare per il momento?» chiese loro. Howard scosse la testa. Ann fissò il dottor Francis come se non riuscisse a comprendere quello che diceva. Il dottore li accompagnò fino all’ingresso principale dell’ospedale. La gen te entrava e usciva. Erano le undici del mattino. Ann si rese conto di muove re i piedi con lentezza, quasi con riluttanza. Le pareva che il dottor Francis li stesse mandando via, mentre lei sentiva che sarebbero dovuti rimanere, che la cosa più giusta da fare era rimanere. Fece vagare lo sguardo nel parcheg gio, poi si voltò ancora una volta verso l’ospedale. Cominciò a scuotere la te sta. «No, no» disse. «Non posso lasciarlo qui, no.» Si sentì pronunciare quelle

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188 parole e pensò quanto fosse ingiusto che le sole parole che le uscivano erano quelle che le persone dicono alla televisione quando sono colpite da perdite violente o improvvise. Voleva che le sue parole fossero solo sue. «No» disse, e per qualche ragione le tornò in mente la testa della signora nera che ciondo lava sulla spalla. «No» ripeté. «Ci sentiamo più tardi» il dottore stava dicendo a Howard. «Ci sono ancora alcune cose che dobbiamo fare, cose che dobbiamo appurare per essere sod disfatti. Alcune cose che richiedono una spiegazione.» «Un’autopsia» disse Howard. Il dottor Francis annuì. «Capisco» disse Howard. Poi aggiunse: «Oh Gesù. No, non capisco, dotto re. Non ci riesco, non ci riesco. Proprio non ci riesco». Il dottor Francis mise un braccio sulle spalle di Howard. «Mi dispiace. Dio, quanto mi dispiace.» Tolse il braccio dalle sue spalle e gli tese la mano. Ho ward la guardò e poi la strinse. Il dottor Francis abbracciò di nuovo Ann. Pa reva pieno di una bontà che lei non capiva. Gli appoggiò la testa sulla spal la, ma tenne gli occhi aperti. Continuava a fissare l’ospedale. Anche quando uscirono in macchina dal parcheggio, si voltò a guardarlo. A casa, Ann si sedette sul divano con le mani sprofondate nelle tasche del cap potto. Howard chiuse la porta della stanza del bambino. Mise su il caffè e poi trovò una scatola vuota. Aveva pensato di raccogliere un po’ delle cose del bam bino che erano sparse per il salotto. Invece si sedette accanto a lei sul divano, spinse la scatola da una parte e rimase lì, chinato in avanti, con le braccia tra le ginocchia. Cominciò a piangere. Lei gli fece appoggiare la testa sul proprio grembo e gli massaggiò la spalla. «Se n’è andato» disse. Continuò a massag giargli la spalla. Tra un singhiozzo e l’altro del marito, sentì la caffettiera in cu cina che fischiava. «Su, su» gli disse con tenerezza. «Howard, se n’è andato. Se n’è andato e ormai dobbiamo abituarci all’idea. Al fatto che siamo rimasti soli.» Dopo un po’, Howard si alzò e cominciò a vagare per la stanza con la scato la, senza metterci dentro niente, ma radunando un po’ di cose sul pavimento vicino al divano. Lei continuò a restare seduta con le mani in tasca. Howard mise giù la scatola e portò il caffè in soggiorno. Più tardi Ann telefonò ai pa renti. Quando le persone rispondevano Ann proferiva poche parole e piange va per un momento. Poi, più calma, con voce misurata, spiegava quello che era successo e li informava dei preparativi per il funerale. Howard portò la scatola in garage, dove vide la bici del figlio. Lasciò cadere la scatola e si se dette a terra accanto alla bici. L’abbracciò goffamente in modo da stringerse la al petto. La tenne così, con la gomma del pedale che gli spingeva contro il petto. Fece fare un giro alla ruota. Ann riattaccò il telefono dopo aver parlato con sua sorella. Stava consul tando la rubrica per fare un altro numero, quando il telefono suonò. Rispose al primo«Pronto?»squillo.disse e sentì qualcosa, una specie di ronzio in sottofondo. «Pron to!» ripeté. «Per l’amor di Dio» disse. «Chi è? Che cosa vuole?»

Ann gridò nella cornetta. «Come può fare una cosa così cattiva, brutto figlio di puttana?» «Scotty» ripeté l’uomo. «Vi siete dimenticati di Scotty?» Poi riagganciò. Howard la sentì gridare e quando rientrò di corsa la trovò che piangeva con la testa sulle braccia, appoggiata al tavolo. Raccolse la cornetta e sentì solo il suono di libero. Molto più tardi, poco prima di mezzanotte, dopo che avevano sistemato un sacco di cose, il telefono suonò di nuovo. «Rispondi tu» disse lei. «Howard, è ancora quell’uomo, me lo sento.» Era no seduti al tavolo di cucina davanti a una tazza di caffè. Howard aveva anche un bicchierino di whisky, accanto alla tazza. Rispose al terzo squillo. «Pronto» disse, «chi parla? Pronto! Pronto!» La linea cadde. «Ha riaggan ciato» disse Howard. «Chiunque fosse.» «Era lui» disse lei. «Quel bastardo. Vorrei tanto ammazzarlo» disse. «Vor rei sparargli e vederlo scalciare» disse. «Mio Dio, Ann!» disse lui. «Sei riuscito a sentire qualcosa?» gli chiese lei. «In sottofondo? Un rumo re, come di motore, qualcosa che ronza?» «No, niente. Niente del genere» rispose lui. «Non c’è stato tempo. Mi pa re d’aver sentito della musica, una radio. Sì, c’era una radio accesa, è l’uni ca cosa che posso dire. Quant’è vero Dio, non so proprio che cosa sta succe dendo.»Leiscosse la testa. «Se solo potessi, se potessi mettergli le mani addosso.» A quel punto le venne in mente. Capì chi era. Scotty, la torta, il numero di te lefono. Spinse indietro la sedia e si alzò dal tavolo. «Portami al centro com merciale» disse. «Howard.» «Ma che dici?» «Il centro commerciale. Ho capito chi è che chiama. So chi è. È il pasticce re. Quel figlio di puttana del pasticcere, Howard. Gli avevo ordinato una torta per il compleanno di Scotty. È lui che chiama. È lui che ha il nostro numero e continua a chiamarci. Per darci fastidio per via della torta. Il pasticcere, quel Andaronobastardo.» in macchina al centro commerciale. Il cielo era sereno e si vede vano le stelle. Faceva freddo e accesero il riscaldamento. Parcheggiarono davanti alla pasticceria. Negozi e grandi magazzini erano tutti chiusi, ma c’erano delle macchine ferme all’altra estremità del parcheggio, davanti al cinema. Le vetrine della pasticceria erano buie, ma scrutando attraverso i vetri videro un chiarore provenire dal retrobottega e di tanto in tanto un omone in grembiule che entrava e usciva da un riquadro di luce bianca e intensa. Attraverso i vetri riuscirono anche a intravedere le sagome degli espositori e alcuni tavolini con le sedie. Ann provò ad aprire la porta. Bussò

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«Il vostro Scotty, ce l’ho qui pronto per voi» disse la voce maschile. «Ve ne siete«Bruttodimenticati?»bastardo!»

R AccONTI190 ai vetri. Ma se il pasticcere li udì, non lo diede a vedere. Non si girò verso di loro.Fecero

il giro della pasticceria e parcheggiarono sul retro. Scesero dall’au to. C’era una finestra illuminata, ma era troppo alta perché potessero guar darci dentro. Un cartello accanto alla porta del retrobottega diceva: PASTIC CERIA LA DISPENSA, ORDINAZIONI SPECIALI. Ann riusciva a sentire una vaga eco di musica e qualcosa che cigolava – lo sportello di un forno che si apriva? – provenire dall’interno. Bussò alla porta e aspettò. Poi bussò di nuo vo, più forte. Il volume della radio si abbassò e si sentì un cigolio, il rumore inequivocabile di un cassetto che veniva aperto e richiuso. Qualcuno fece scattare la serratura e aprì la porta. Il pasticcere si stagliò nella luce e li scrutò. «Sono chiuso per i clienti» disse. «Che cosa volete a quest’ora? È mezzanotte. Siete ubriachi o cosa?» Ann fece un passo avanti per mettersi nella luce che proveniva dalla por ta aperta. Il pasticcere sbatté le palpebre pesanti appena la riconobbe. «Ah, è lei»«Sonodisse.io» disse lei. «La mamma di Scotty. E questo è il papà di Scotty. Vor remmo entrare un momento.» Il pasticcere disse: «Adesso ho da fare. Devo lavorare». Ma lei oltrepassò la soglia lo stesso. Howard la seguì. Il pasticcere indie treggiò. «C’è un buon odore di forno qui dentro. Senti quest’odore di forno, Howard?»«Checosa vuole?» chiese il pasticcere. «Magari vuole la sua torta? Ecco, ha finalmente deciso che vuole la torta. Aveva ordinato una torta, vero?» «Per essere un pasticcere, è perspicace» disse Ann. «Howard, questo è il tizio che ci ha fatto quelle telefonate.» Serrò i pugni. Lo fissò furibonda. Si sentiva qualcosa bruciare in fondo all’anima, una rabbia che la faceva sentire più grande di quello che era, più grande di quei due uomini. «Un momento, un momento» disse il pasticcere. «Vuole ritirare la sua torta di tre giorni fa? È questo che vuole? Guardi, signora, non ho alcuna voglia di litigare con lei. Eccola laggiù, la sua torta, eccola là, è diventata vecchia. Gliela do per la metà del prezzo che le avevo chiesto. No. La vuo le? Se la prenda. Io non ci faccio niente, nessuno ci fa più niente, ormai. Mi è costato tempo e denaro farla. Se la vuole, va bene, se non la vuole, va bene lo stesso. Ora devo tornare al lavoro.» Li guardò e si passò la lingua dietro i denti.«Per fare altre torte» disse Ann. Sapeva che ormai l’aveva sotto controllo, quello che cresceva in lei. Era calma. «Signora, io lavoro sedici ore al giorno in questo posto per guadagnarmi da vivere» disse il pasticcere. Si pulì le mani sul grembiule. «Lavoro qui den tro giorno e notte per far quadrare il bilancio.» L’espressione che attraversò il volto di Ann fece indietreggiare il pasticcere e gli fece dire: «Non mi crei problemi, adesso». Allungò una mano sul bancone, prese un mattarello nella destra e cominciò a picchiarlo sul palmo dell’altra mano. «Insomma, la torta la vuole o no? Devo rimettermi a lavorare. I pasticceri lavorano di notte» ripe

R AMOND cARvER 191 té. Aveva gli occhi piccoli, cattivi, pensò Ann, quasi si perdevano nella carne ispida delle guance. Aveva il collo spesso e grasso. «Lo so che i pasticceri lavorano di notte» disse Ann. «E fanno anche tele fonate, di notte. Brutto bastardo!» aggiunse. Il pasticcere continuò a picchiare il mattarello sul palmo della mano. Lan ciò uno sguardo a Howard. «Attento, attento» gli disse. «Mio figlio è morto» disse lei in tono freddo, definitivo. «È stato investito da una macchina lunedì mattina. Siamo stati al suo capezzale finché non è morto. Ma, naturalmente, non ci si può aspettare che lei lo sapesse, vero? I pasticceri non possono sapere tutto – vero, signor pasticcere? Però lui è mor to. È morto, brutto bastardo!» Con la stessa rapidità con cui era cresciuta, la rabbia scemò e lasciò spazio a qualcos’altro, un vertiginoso senso di nausea. Si appoggiò al tavolo in legno coperto di farina, si coprì il volto con le mani e cominciò a piangere, con le spalle che si alzavano e si abbassavano. «Non è giusto» diceva. «No, non è giusto.» Howard le appoggiò una mano sulla schiena e guardò il pasticcere: «Si ver gogni» gli disse. «Si vergogni.» Il pasticcere posò il mattarello sul bancone. Si slacciò il grembiule e gettò anche quello sul bancone. Li guardò e poi scosse lentamente la testa. Tirò fuo ri una sedia da sotto il tavolinetto dove teneva, tra carte e ricevute, una calco latrice e un elenco del telefono. «La prego, si sieda» disse. «Lasci che prenda una sedia anche per lei» disse a Howard. «Ora si sieda, prego.» Il pasticce re andò in negozio e tornò con due piccole sedie di ferro battuto. «Vi prego, sedetevi.»Annsi asciugò gli occhi e guardò il pasticcere. «Volevo ucciderla» disse. «La volevo morto.» Il pasticcere aveva sgomberato uno spazio per loro sul tavolo. Spostò la calcolatrice da una parte, insieme ai blocchetti per gli appunti e le ricevute. Spinse l’elenco del telefono e lo fece cadere sul pavimento con un tonfo. Ho ward e Ann si sedettero e avvicinarono le sedie al tavolo. Anche il pasticcere si sedette.«Permettetemi di dirvi quanto mi dispiace» disse, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Dio solo sa quanto mi dispiace. Sentite. Io sono solo un pasticce re. Non pretendo di essere altro. Magari una volta, anni fa, forse, ero una per sona diversa. Me ne sono dimenticato, non ne sono sicuro. Comunque non lo sono più, e mai lo sono stato. Ora sono solo un pasticcere. Questo non mi scusa per quello che ho fatto, lo so. Ma mi dispiace veramente. Mi dispiace per vostro figlio e mi dispiace per la parte che ho avuto in tutto questo» disse il pasticcere. Allargò le mani sul tavolo e le girò per mostrare i palmi. «Io figli non ne ho, così posso solo immaginare quello che state passando. Tutto quel lo che posso dirvi ora è che mi dispiace. Perdonatemi, se potete» disse. «Non sono un uomo cattivo, almeno non credo. Non sono cattivo, come ha detto al telefono. Dovete cercare di capire, il problema è che non so più come com portarmi, a quanto pare. Vi prego» disse l’uomo, «permettetemi di chiedervi se ve la sentite in cuor vostro di perdonarmi.»

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Nel retrobottega faceva caldo. Howard si alzò dal tavolo e si tolse il cap potto. Poi aiutò Ann a togliersi il suo. Il pasticcere li guardò per un attimo, poi annuì e si alzò anche lui. Andò al forno e spinse alcuni interruttori. Scovò un paio di tazze e le riempi di caffè da una caffettiera elettrica. Mise un cartone di panna e una ciotola di zucchero sul tavolo. «Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa» disse il pasticcere. «Spero vogliate assaggiare alcune delle mie paste calde. Dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo.»Servì loro delle paste alla cannella appena sfornate, con la glassa ancora morbida. Mise del burro sul tavolo e dei coltelli per spalmarlo. Poi anche il pasticcere si sedette al tavolo. Aspettò. Aspettò finché non presero una pasta dal vassoio e cominciarono a mangiare: «Fa bene mangiare qualcosa» disse, osservandoli. «Ce ne sono altre. Mangiatene. Mangiate tutte quelle che volete. Qui ci sono tutte le paste del mondo.» Mangiarono le paste e bevvero il caffè. Ann senti all’improvviso una gran fame e le paste erano calde e dolci. Ne mangiò tre, cosa che fece contento il pasticcere. Poi lui si mise a parlare. Loro lo ascoltavano con attenzione. An che se erano esausti e angosciati, ascoltarono quello che il pasticcere aveva da dire. Annuirono quando l’uomo cominciò a parlare della solitudine e del senso di dubbio e limitatezza che l’aveva assalito con la mezz’età. Disse che cosa si provava a non avere figli per tutti quegli anni. Giorno dopo giorno a riempire forni senza posa, e poi ogni volta a svuotarli. Le ordinazioni per le feste e gli anniversari su cui aveva lavorato. Le dita sempre incrostate di glas sa. Le statuine degli sposi che aveva infilato sulle torte. A centinaia, anzi a migliaia, ormai. Compleanni. Immaginate tutte quelle candeline accese. Lui faceva un mestiere di cui c’era bisogno. Era un pasticcere. Era felice di non essere un fioraio. Dar da mangiare alla gente era meglio. C’era sempre un odore più buono di quello dei fiori. «Sentite» disse il pasticcere, spezzando una pagnotta di pane nero. «È un pane pesante, ma nutriente.» Ann e Howard lo odorarono, poi lui glielo fe ce assaggiare. Sapeva di melassa e di frumento integrale. Continuarono ad ascoltarlo. Mangiarono tutto quello che poterono. Mandarono giù quel pane scuro. Sembrava giorno sotto le luci fluorescenti. Rimasero lì a parlare fino all’alba, quando dalle vetrine cominciò a entrare la luce alta e pallida del pri mo sole, e a loro non venne in mente di andarsene.

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9. A volte, come per i protagonisti del racconto, ciò che crea inimicizia e distanza tra le persone è l’incomprensione delle motivazioni che stanno alla base del loro agire. Quali sono le condizioni per cui questa distanza venga azzerata e quali le possibili conseguenze? Scrivi un testo argomentativo, facendo riferimento, oltre che a questo racconto, anche ad altre letture, alla tua esperienza personale o a fatti storici e di attualità.

5. «Spero vogliate assaggiare alcune delle mie paste calde. Dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo». Che cosa intende dire il pasticcere con queste frasi? Esplicita il significato di queste parole, che danno il titolo al racconto.

Quali sono i pensieri di Ann di fronte a lui? Cosa, inizialmente, la donna reputa di poter avere in comune con lui?

1. Come viene presentato il pasticcere nell’incipit della storia?

2. Quale fatto sconvolge la vita di Ann e Howard? Che cosa genera in loro? Da quali sentimenti sono invasi? Come questo evento cambia il loro rapporto?

3. Chi è Franklin? Perché Ann Weiss si interessa tanto di lui e dei suoi famigliari, nonostante non lo conosca neanche?

6. Rileggi le pagine conclusive del racconto. Che cosa si scopre riguardo ai motivi della sofferenza del pasticcere? Che cosa accade ad Ann e Howard nel rapporto con il pasticcere? Che cosa permette ai personaggi di cambiare opinione sull’altro e di aprire di nuovo il cuore?

4. Come si comporta il dottor Francis nei confronti dei genitori di Scotty? Come reagisce la donna di fronte alle sue parole e al suo atteggiamento?

8. Riassumi il racconto per mettere in luce le «cose piccole ma buone» (fatti e incontri) che portano conforto nella drammatica vicenda di Ann e Howard.

7. Immagina e scrivi la conversazione che intrattengono per tutta la notte, fino all’alba, Ann, Howard e il pasticcere, esplicitando particolari della loro storia passata e alcune delle loro aspettative per il futuro.

Legna Roy fa il tappezziere e il restauratore di mobili. Qualche volta gli capita anche di rimettere in sesto sedie e tavoli che hanno perso un piolo, una gamba, o che per qualsiasi motivo sono malridotti. Non c’è più tanta gente che faccia questo genere di lavori, perciò ha più commesse di quante riesca a smaltirne. Non sa come risolvere il problema. La sua giustificazione per non assumere qualcuno che gli dia una mano è che il governo gli imporrebbe un mucchio di scartoffie burocratiche, ma forse la ragione vera è che si è abituato a lavo rare da solo – fa questo mestiere da quando ha lasciato l’esercito – e fatica a immaginare di avere una persona intorno tutto il tempo. Se lui e sua moglie Lea avessero avuto un figlio maschio, il bambino, crescendo, avrebbe potuto manifestare interesse per l’attività e, quando fosse stato grande abbastanza, magari entrare in bottega. Forse sarebbe successo anche con una femmina. Una volta Roy aveva pensato di addestrare Diane, la nipote di sua moglie. Da piccola passava ore a osservarlo e, subito dopo essersi sposata – improvvisa mente, all’età di diciassette anni –, era venuta ad aiutarlo qualche volta per ché lei e il marito avevano bisogno di soldi. Purtroppo era incinta, e gli odori di prodotti svernicianti, vernici impregnanti, olio di lino, smalto e fumi del legno le davano la nausea. O così disse a Roy. A Lea confidò il motivo vero, e cioè che, secondo suo marito, quello non era un mestiere adatto a una donna.  Adesso ha quattro figli e lavora nella mensa di un ricovero per anziani. A quanto pare il marito lo trova un mestiere adattissimo. Il laboratorio di Roy è sistemato in un capanno alle spalle della casa. Per riscaldarlo c’è una stufa a legna e la necessità di procurarsi il combustibile per la stufa ha favorito un secondo interesse, molto personale senza essere segreto. Vale a dire che tutti ne sono al corrente, ma nessuno sa quanto Roy ci pensi né quanto significhi per lui.  Tagliare legna.

A suo modo di vedere, il lavoro di Roy era un obbligo morale, una cosa che faceva per aiutare gli altri. Quando aumentava i prezzi lei si vergognava –

Nei primi tempi, quando andava nel bosco, Lea si preoccupava. Temeva che potesse avere un incidente là fuori da solo, ma anche che trascurasse il lavoro. Non era la qualità dei risultati a preoccuparla, ma il controllo delle scadenze. «Non devi deludere la clientela, – ripeteva. – Se uno dice che una cosa gli serve per una certa data, c’è un perché».

Possiede un furgone a quattro ruote motrici e una sega a catena e un’ac cetta da otto libbre. Passa sempre più tempo nel bosco, a tagliare legna. Più di quanta gliene serva per uso personale, in effetti, perciò ha cominciato a venderla. Nelle case moderne c’è spesso un camino in salotto, uno in sala da pranzo e una stufa in soggiorno. E la gente vuole il fuoco acceso in continua zione, non solo se dà una festa o per Natale.

R AccONTI194 ALICE MUNRO

Erano entrambi convinti di volersi più bene, in un certo senso, di tante coppie schiacciate dal peso dei figli.

L’inverno scorso, Lea era stata quasi sempre poco bene tra influenze e bronchiti. Le pareva di prendersi tutti i germi che la gente portava nello stu dio del dentista. Perciò aveva lasciato l’impiego: disse che cominciava a es serne un po’ stufa comunque, e che voleva più tempo per dedicarsi alle cose che aveva sempre desiderato fare.

Anche se Roy non riuscì mai a capire quali fossero. Le forze di Lea aveva no subito un crollo dal quale non si riprendeva più. E che sembrò produrre un cambiamento profondo nel suo carattere. Le visite la innervosivano, quel

Il fatto che se ne andasse per conto proprio non creava problemi. I paren ti non si offendevano: nutrivano un interesse modesto nei riguardi di gente come Roy, che era entrato in famiglia solo sposandosi, che non aveva accre sciuto il clan nemmeno di un figlio e che era di un tipo completamente diver so. Loro erano di stazza notevole, ciarlieri, espansivi. Lui era basso di statu ra, massiccio e silenzioso. Sua moglie era una donna perlopiù accomodante, alla quale Roy stava bene così com’era, perciò né lo rimproverava né tentava di giustificarlo.

Al IcE MUNRO 195 del resto anche lui – e non sapeva più che cosa inventare per spiegare a tutti quanto gli costassero i materiali, ultimamente.  Finché Lea mantenne il suo impiego, a Roy non fu difficile andarsene nel bosco dopo che lei era uscita, e cercare di essere di ritorno prima che rinca sasse. Lea faceva la segretaria di studio e la ragioniera per uno dei dentisti del paese. Era un posto adatto a lei, perché le piaceva parlare con la gente, e vantaggioso per il dentista, perché Lea apparteneva a una grande famiglia li gia al dovere, i cui membri non si sarebbero mai sognati di farsi curare i denti da altri che dal suo datore di lavoro.  Quei suoi parenti, i Bole e i Jetter e i Poole, giravano spesso per casa, quan do non era Lea a voler andare da loro. Erano un clan e, sebbene non sempre gradissero la reciproca compagnia, si assicuravano di averne in perenne ab bondanza. A Natale e per il Ringraziamento si accalcavano in venti o trenta in un’unica casa, ma potevano tranquillamente raggiungere la dozzina in una domenica qualunque, guardando la tv, chiacchierando, cucinando e man giando. A Roy non dispiace guardare la tv, e nemmeno chiacchierare, o man giare, ma non ama la combinazione di due di queste attività e sicuramente non di tutte e tre. Perciò, quando sceglievano di radunarsi da lui la domenica, prese l’abitudine di alzarsi, ritirarsi in laboratorio e accendersi un fuoco di acacia o di melo – entrambi, ma soprattutto il melo, bruciando, producono un odore dolce e gradevole. Appena fuori del capanno, sullo scaffale delle verni ci e degli oli, teneva una bottiglia di whiskey di segale. Ne aveva anche in casa e non si faceva pregare a offrirne ai suoi ospiti, ma quello che si concedeva quando era solo in laboratorio sembrava più buono, esattamente come più buono era l’odore del fumo se intorno non c’era nessuno a dire, Oh, che bello, no? Roy non beveva mai mentre lavorava a un mobile, né quando andava nel bosco; soltanto in quelle domeniche piene di parenti in visita.

R AccONTI196 le dei suoi parenti, soprattutto. Si sentiva troppo stanca per conversare. Non aveva voglia di uscire. Teneva la casa discretamente, ma si riposava fra un lavoro e l’altro sicché le consuete faccende le occupavano l’intera giornata. Perse quasi del tutto l’interesse per la tv, pur continuando a guardarla quan do Roy l’accendeva, e perse anche la sua bella linea morbida, per diventare sottile e sgraziata. Il calore e la luce – ciò che l’aveva resa attraente, insomma – si prosciugarono dalla sua faccia, come dai suoi occhi scuri.

Non fa più commenti sul fatto che Roy se ne vada nel bosco.  Può darsi che ne salti fuori, dice Diane. (Diane è praticamente l’unica per sona che continui a venire in casa). Come può darsi di no.  Il che è più o meno quel che ha detto, in termini molto più cauti, anche il dottore. Secondo lui, le pastiglie che le ha prescritto dovrebbero impedirle di andare troppo giù. Quanto sarà, troppo giù, si domanda Roy, e come si fa a stabilirlo?  A volte gli succede di trovare un terreno dal quale gli uomini della segheria so no usciti dopo aver disboscato lasciando a terra i cimali1. E altre volte ne trova uno nel quale gli addetti alla gestione forestale sono passati a cercinare2 gli alberi che ritengono sia meglio espiantare perché malati o storti o inutilizza bili come legname. I carpini bianchi, per esempio, non sono adatti, e neppure i biancospini e i carpini americani. Quando si imbatte in un posto del genere, Roy si mette in contatto con l’agricoltore o con il proprietario del terreno e ini zia la trattativa; poi, se si accordano sul prezzo, va a prendersi la legna. Gran parte dell’attività si svolge in autunno inoltrato – come adesso, novembre, o inizio dicembre – perché quello è il periodo migliore sia per vendere legna da ardere, sia per raggiungere il bosco con il furgone. Oggigiorno non tutti i proprietari hanno piste ben battute per inoltrarsi nella vegetazione, come accadeva quando ancora tagliavano e trasportavano legname personalmente. Capita spesso di dover passare dai campi coltivati, il che è possibile soltanto in due momenti precisi dell’anno: prima dell’aratura e dopo il raccolto.  1 cimali: cime recise degli alberi. 2 cercinare: rimuovere parte della corteccia di un albero, fino a raggiungere la sua linfa, per favorire il suo appassimento. Tale pratica viene spesso usata per contrastare il diffondersi di malattie tra gli alberi.

Il medico le prescrisse certe pastiglie, ma Lea non avrebbe saputo dire se le facessero bene. Una delle sorelle la accompagnò da un medico olistico, il cui consulto costò trecento dollari. Anche da quello Lea non avrebbe saputo dire se avesse avuto qualche miglioramento.  Roy sente la mancanza della moglie di un tempo, piena di energia e buo numore. La rivorrebbe indietro, ma non può far nulla, tranne mostrarsi pa ziente con questa donna apatica e mesta che ogni tanto si passa una mano davanti alla faccia come se la infastidisse una ragnatela o fosse finita in un intrico di rovi. Ma a chi le chiede se ha problemi agli occhi, risponde che ci vedeNonbenissimo. guidapiù.

Meglio dopo il raccolto, però, quando il terreno è indurito dal gelo. E quest’autunno la richiesta di legna è maggiore del solito, perciò Roy si è ritro vato a fare anche due o tre giri la settimana.  Molta gente riconosce gli alberi dalle foglie o da dimensioni e forma della chioma, ma camminando nel fitto del bosco sfrondato, Roy li distingue dalla corteccia. Il carpino bianco, un legno pesante e ottimo da ardere, ha la cor teccia bruna e fessurata sul tronco robusto, ma liscia sui rami e decisamente rossiccia alle estremità. Il ciliegio è l’albero più nero del bosco, e la sua cor teccia si screpola in un bel mosaico di scaglie. La maggior parte delle per sone si stupirebbe di quanto possano diventare alti i ciliegi nel bosco; non somigliano certo a quelli coltivati nei frutteti. I meli sono più simili ai loro esemplari da frutto: non tanto alti, corteccia non così scura e squamosa co me quella del ciliegio. Il frassino è un albero dal portamento marziale e dal tronco rugoso come un velluto a coste. La corteccia grigia dell’acero ha una superficie irregolare il cui gioco di ombre disegna striature nere che posso no a volte unirsi in rozzi rettangoli, e a volte no. C’è una sorta di rassicurante noncuranza in quella corteccia, adatta a una pianta così comune e domesti ca, quasi per tutti l’idea stessa di albero che abbiamo in mente.

Ben altra faccenda sono i faggi e le querce: c’è qualcosa di insigne e di solenne in quegli alberi, benché né l’uno né l’altro raggiunga la bellezza dei grandi olmi ormai pressoché scomparsi. Il faggio ha la corteccia liscia e di colore grigio, a pelle d’elefante, quella di solito preferita per l’incisione delle iniziali. Con il trascorrere degli anni e dei decenni, gli intagli si dilatano pas sando dalle sottili scanalature del coltello a quegli sgorbi più larghi che lun ghi che alla fine rendono le lettere illeggibili.

Un faggio può superare i trenta metri di altezza nel bosco. In uno spazio aperto la chioma si espande anche in larghezza, mentre nel bosco cresce ver so l’alto, e i rami apicali assumono angolature estreme, come corna di cervo. Eppure, quest’albero dall’aspetto altero può nascondere la debolezza di ve nature storte, identificabili da certe ondulazioni nella corteccia. Si tratta di un segnale che l’albero potrebbe cedere o essere abbattuto, in caso di vento forte. Quanto alle querce, non sono molto diffuse in questa zona del paese, non come i faggi, insomma, ma risultano altrettanto facili da individuare. Se l’acero è l’albero più comune, quello che si deve per forza avere nel giardino dietro casa, la quercia è l’albero delle fiabe, come se tutte le storie che inizia no con «C’era una volta, in un bosco» si riferissero a boschi pieni di querce. Le loro foglie scure, lucide e dentellate contribuiscono a completare l’immagine, ma le querce restano leggendarie anche da spoglie, quando se ne possono ve dere bene sia la corteccia spessa e sugherosa, di colore grigio-nerastro e di superficie ruvida, sia il diabolico gioco di curve dei rami ritorti.  Roy pensa che non sia affatto rischioso andare da solo nel bosco a taglia re legna; basta sapere quel che si fa. Se si decide di abbattere un albero, per prima cosa si deve individuarne il baricentro, quindi praticare una tacca cu neiforme con un’angolatura di settanta gradi, subito sotto il baricentro del tronco. Il lato della tacca determinerà, ovviamente, la direzione di caduta. Si

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Del resto, in certa misura, i suoi pensieri sul legno sono troppo riservati: sono morbosi, per non dire ossessivi. Non è mai stato un fanatico, in nessun altro campo. Eppure, è capace di starsene sveglio per notti a pensare a uno splendido faggio che si vuole portar via, domandandosi se si rivelerà buono come sembra o se gli riserva qualche imprevisto. Ripassa tutti i terreni bo schivi della regione su cui non ha ancora nemmeno posato gli occhi, perché stanno alle spalle di fattorie, dietro coltivazioni private. Se viaggia in mac china su una strada che taglia per i boschi, volta la testa da una parte all’al tra con il terrore di perdersi qualcosa. Lo interessa anche quello che non è adatto al suo scopo. Una macchia di carpini, per esempio, ancora troppo de licati, troppo stenti per poter fare al caso suo. Osserva le costole scure dei rami che spuntano sbieche dai tronchi più chiari: si ricorderà dove sono. Gli

R AccONTI198 effettua il taglio di abbattimento, sul lato opposto, e non in linea con la base della tacca a cuneo, bensì con il suo punto più alto. L’idea è quella di taglia re il tronco trasversalmente, lasciando intatto lo spessore di una cerniera di legno che coincide con il centro del peso dell’albero e che ne guiderà la ca duta. La cosa migliore è che l’albero cada libero da altre chiome, ma talvol ta risulta irrealizzabile. Se un albero ha i rami impigliati in quelli di un al tro, e non è possibile sistemare il furgone in un punto dal quale trascinare il tronco abbattuto con una catena, occorre tagliare in sezioni a partire dal basso, finché la parte alta si libera e cade. Se l’albero abbattuto poggia sui propri rami, si procede a portare il tronco sul terreno, eliminando via via i rami fino a raggiungere quelli che lo tengono sollevato. Questi ultimi sono sotto pressione – possono risultare tesi come un arco –, perciò il trucco è tagliare in modo che l’albero rotoli in direzione opposta alla nostra, e i rami non ci frustino distendendosi. Una volta che il tronco sarà al sicuro a terra, potremo tagliarlo in ciocchi di lunghezza adatta alla stufa, che poi spacche remo con un’accetta.  A volte c’è una sorpresa. Certi blocchi di legno capricciosi che non si la sciano spaccare a colpi di scure; bisogna appoggiarli di lato e sezionarli con la sega a catena; la polvere di legno prodotta in questo modo tagliando lungo la venatura, verrà via a brandelli. Capita anche ogni tanto con gli aceri o con i faggi, di dover procedere lateralmente, mordendo nel grosso ciocco lungo gli anelli di crescita da ogni direzione fino a ridurre il tronco a una forma pressoché squadrata e più semplice da aggredire. A volte il legno è spugnoso e tra gli anelli sono cresciuti dei funghi. Ma perlopiù la durezza del tronco è prevedibile: maggiore nel fusto che non nei rami, e maggiore nei grossi tron chi cresciuti almeno in parte su spazi aperti che non in fusti alti e sottili che svettano in mezzo al bosco.

Sorprese. Ma ci si può preparare. E se ci si prepara, il pericolo non esiste. In passato Roy avrebbe voluto spiegare tutto questo a sua moglie. Le proce dure, le sorprese, l’identificazione degli alberi. Ma non riusciva a immagina re il modo per renderle interessante il discorso. In alcuni momenti rimpian geva di non aver insegnato ciò che sapeva a Diane, quando era più giovane. Ormai non potrebbe più trovare il tempo di starlo a sentire.

– Tutto il terreno qui intorno va sotto contratto adesso.

Roy dice: – Può darsi –. Teme che Percy possa essere a caccia di un po’ di legna gratuita.

Roy non può fare a meno di gratificarlo chiedendogli a che genere di con tratto si riferisca. Percy è un pettegolo ma non un bugiardo. Almeno non ri guardo alle cose che lo interessano veramente, tipo vendite, eredità, assicu razioni, furti con scasso, questioni economiche di ogni genere. È un errore

– Pensi di venire a tirarli via, quegli alberi?

piacerebbe farsi una mappa mentale di ogni bosco che ha visto e, anche se sarebbe in grado di giustificarsi, adducendo motivi pratici, sa che non esau rirebbero la verità.  Un paio di giorni dopo la prima neve, è fuori nel bosco a osservare alcuni alberi cercinati. Non sta commettendo nessun illecito, ha già cominciato a parlare con il proprietario del terreno, un certo Suter.

Percy risale faticosamente dalla discarica, come se si sentisse in dovere di fare un po’ di conversazione.

– Come mai?

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Ai margini di quel bosco si trova una discarica abusiva. La gente si disfa dei propri rottami in questa zona riparata anziché portarli nella discarica del Comune, i cui orari o la cui posizione possono risultare scomodi per qualcu no. Roy vede qualcosa che si muove. Un cane?  Poi però la sagoma si tira su e Roy riconosce un uomo con un giaccone lurido addosso. Si tratta in effetti di Percy Marshall, venuto a rovistare nella discarica con la speranza di trovare qualcosa. In passato capitava di trovare qualche vecchio coccio di valore o bottiglie o perfino caldaie di rame, ma or mai è ben poco probabile. E Percy comunque non è un gran razziatore. Sa rà giusto venuto a cercare qualunque oggetto possa tornargli utile, benché non sia facile individuarne alcuno in quel mucchio di contenitori di plastica, schermi rotti e materassi con l’imbottitura che esplode dalla fodera.  Percy vive da solo in un’unica stanza sul retro di una casa per il resto di sabitata e sbarrata, a poche miglia da qui. Vaga per le strade, lungo i corsi d’acqua e in città, parlando da solo, alternando il ruolo del vagabondo idio ta a quello del sagace indigeno. Questa esistenza all’insegna di malnutrizio ne, sporcizia e disagi è una sua scelta. Ha provato il Ricovero pubblico, ma non sopportava né il trantran né la compagnia di così tanti altri vecchi. Mol to tempo fa aveva avviato una discreta fattoria, ma la vita dell’agricoltore era troppo monotona, perciò a poco a poco ha disceso la china passando dal con trabbando di alcolici a qualche maldestra effrazione e qualche periodo in ga lera, mentre nell’ultimo decennio, con l’aiuto di una pensione sociale, è riu scito a riguadagnarsi una certa posizione protetta. Hanno perfino pubblicato la sua foto e un articolo su di lui, sul giornale locale.  L’ultimo di una stirpe. Storie e impressioni di uno spirito libero delle nostre cam pagne.

– Allora è meglio che ti sbrighi, – fa Percy.

Eliot Suter non aveva fatto riferimento a questo tipo di offerta, parlando con lui. Ma era senz’altro possibile che l’abboccamento fosse avvenuto più tardi e che lui avesse deciso di non badare affatto alla proposta di accordo informale avanzata da Roy. Che avesse deciso di dare il permesso al bulldo zer. In serata, Roy pensa di chiamarlo e di chiedergli che sta succedendo. Poi però riflette che se l’agricoltore ha in effetti cambiato idea, non c’è più niente

– Non sono fatti miei. Io ho anche troppo da fare.

– Se pensano di portarla via tutta, dovranno procurarsi un permesso.

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200 credere che certe persone non pensino ai soldi solo perché non ne hanno mai avuti. Che sorpresa avrebbe in proposito chi considera Percy una specie di vagabondo filosofo, tutto assorto nei suoi ricordi dei tempi andati. Benché sia anche capace di farsi qualche sparata di quel genere, in caso di bisogno.

– È un mucchio di legna, – dice, ostentando indifferenza.

Per tutto il tragitto verso casa Roy non riesce a pensare ad altro. Gli è capitato di vendere della legna alla River Inn, qualche volta. Devono aver deciso di prendersi un unico fornitore fisso, che non sarà lui.

Quattro metri cubi al giorno.  Roy dice: – Dove l’hai sentito?

– Eccome. A meno che non ci sia sotto qualcosa, – dice Percy con intenso piacere.

– Altro che.

– Birreria. Ascolta, ci vado solo di tanto in tanto. Mai più di una pinta. Co munque c’erano dei tipi, manco li conosco, ma non erano sbronzi nemmeno loro. Parlavano del bosco, e dov’era e tutto, ed era proprio questo. Il bosco di Suter.  Roy aveva parlato all’agricoltore solo la settimana prima ed era convinto di essere già a buon punto con la trattativa, per la solita ripulitura del bosco.

– Ho sentito di un tale, – fa Percy, compiaciuto. – Mentre ero in città. Non so. Sembra che questo tizio abbia una segheria e si sia accaparrato un con tratto con la River Inn per la fornitura di tutta la legna che bruciano in un in verno. Quattro metri cubi al giorno. È quello che bruciano.

– Ma certo. Anche troppo.

Perciò non sembrava un incarico da ritagli di tempo, di quelli che svolge lui. Doveva esserci di mezzo una grossa squadra, magari qualcuno che arri vava persino da fuori.

Pensa alla difficoltà di tagliare tanta legna ora che ha cominciato a nevica re. L’unica soluzione sarebbe trascinare i tronchi fuori dal bosco, prima che arrivi sul serio l’inverno. Bisognerebbe portarli via il più in fretta possibile, farne una grande catasta, segarli, e spaccarli in seguito. E per tirarli fuori, ci vorrebbe un bulldozer o almeno un grosso trattore. Si dovrebbe spianare una pista nel bosco e trascinare i tronchi con le catene. Ci vorrebbe una squadra di uomini, non sarebbe pensabile fare da soli o in due. Si tratterebbe di un lavoro su larga scala.

Al IcE MUNRO 201 da fare. Inutile tirare in ballo un accordo verbale. Rischia di sentirsi suggerire di levarsi di torno.

La cosa migliore per Roy potrebbe essere comportarsi come se non aves se mai sentito la storia di Percy, mai sentito parlare di nessun altro, e andarsi semplicemente a prendere al più presto gli alberi che vuole, prima che arrivi sul posto il bulldozer.  Naturalmente esiste sempre la possibilità che Percy abbia frainteso tutto quanto. È poco probabile che si stia inventando quella storia solo per fare un dispetto a Roy, però potrebbe non avere capito.  Eppure, più Roy ci pensa e più tende a escludere questa eventualità. Con tinua a immaginarsi il bulldozer e i tronchi incatenati, le grandi cataste di le gna nel campo, gli uomini armati di seghe a catena. È così che si fanno le cose al giorno d’oggi. All’ingrosso.  Il motivo per cui la storia gli ha dato tanto fastidio è in parte che la River Inn, una locanda sul Peregrine River, non gli piace. Si erge su quel che resta di una vecchia segheria non lontana dall’incrocio dove vive Percy Marshall. La locanda, anzi, possiede anche il terreno su cui sorge l’abitazione di Percy e l’abitazione stessa. C’era stato il progetto di abbattere l’edificio, ma poi si è scoperto che gli ospiti della locanda, non avendo molto da fare, gradisco no passeggiare su quella strada e scattare foto della casa decrepita, del vec chio erpice1, del carro capovolto accanto, della pompa inservibile e anche di Percy, quando accetta di farsi fotografare. Alcuni villeggianti disegnano schizzi. Vengono da città lontane come Ottawa e Montreal e sono senz’altro convinti di trovarsi nel mezzo del nulla.  La gente del posto, alla locanda ci va per un pranzo o una cena specia li. Lea c’è stata una volta, con il dentista, sua moglie e l’assistente di studio con il marito. Roy non ci è voluto andare. Si è rifiutato di mangiare un pasto che costava un occhio della testa, anche se a pagare era qualcun altro. Ma non saprebbe dire esattamente perché ce l’ha con quella locanda. Non è di princi pio contrario all’idea che la gente spenda denaro nella speranza di divertirsi, né all’idea che altra gente si faccia i soldi alle spalle di chi vuole spenderli. È pur vero che i mobili d’epoca della locanda sono stati restaurati e tappezzati da altri e non da lui – artigiani nemmeno della zona – ma se glielo avessero chiesto avrebbe probabilmente detto di no, con la scusa che aveva già anche troppo lavoro. Quando Lea gli ha domandato che problema personale avesse con la River Inn, l’unica cosa che gli è venuta in mente di rispondere è stata che quando Diane aveva fatto domanda di assunzione come cameriera, l’ave vano bocciata sostenendo che era sovrappeso.  – Be’, infatti, – disse Lea. – È così. Lo dice anche lei.  Vero. Roy comunque non può non pensare che quelli siano degli snob. Gente rapace e snob. Stanno tirando su altri edifici che dovrebbero ricorda re il vecchio emporio, il vecchio teatro lirico, giusto per fare scena. Bruciano legna per fare scena. Quattro metri cubi al giorno. E adesso se ne arriverà un 1 erpice: macchina agricola la cui funzione è quella di frantumare le zolle.

– Come al solito, – dice Roy. – Vuoi un lavoro? È il loro rituale.  – Ce l’ho, un lavoro. No, senti, sono venuta a chiederti un favore. Avrei bi sogno che mi prestassi il furgone. Domani devo portare Tiger dal veterinario. Non mi ci sta, in macchina. È diventato troppo grosso. Mi spiace tanto dover telo chiedere.  Roy le dice di non preoccuparsi. Tiger dal veterinario, pensa, chissà cosa costa.

– Ehilà, – dice. – Ehilà. – Si fatica?

– Non è che serviva a te il furgone, per caso? – fa lei. – Voglio dire, puoi usare la macchina, invece?

R AccONTI202 operatore con un bulldozer a spianare il bosco come se fosse un campo di granoturco. Proprio il genere di prepotenza prevedibile, il tipo di saccheggio al quale c’era da immaginare che sarebbero arrivati.  Roy racconta a Lea la storia che ha sentito. Le racconta ancora le cose –per abitudine – ma ormai non si stupisce più che lei non gli presti attenzio ne e a stento si accorge se gli risponde. Questa volta Lea ripete quello che ha detto lui.  – Non importa. Hai già abbastanza lavoro così.  Quello che si aspettava da Lea, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. Che non afferrasse il concetto. Non è forse questo che fanno le mogli –e mi sa, anche i mariti – più o meno una volta su due?  Il mattino dopo, per un po’ è alle prese con un tavolo a ribalta. Intende starsene tutto il giorno al capanno e finire un paio di lavori per i quali è in ri tardo. Verso mezzogiorno sente il baccano della marmitta di Diane e guarda dalla finestra. Sarà venuta a prendere Lea per accompagnarla dalla riflesso loga; è convinta che le faccia bene e Lea non si oppone.  Ora però viene verso il capanno, anziché dirigersi a casa.

Naturalmente aveva intenzione di andare nel bosco domani, a patto di riu scire a finire i lavori entro oggi. A questo punto, decide, dovrà anticipare al pomeriggio. –Tifaccio il pieno, – dice Diane.  Ecco, deve anche ricordarsi di fare il pieno, per evitare che ci pensi lei. È sul punto di dire: «Sai perché voglio andare laggiù? Perché è successa una cosa che continua a ronzarmi in testa… » Ma Diane è già fuori, diretta a pren dere Lea.  Non appena si sono allontanate e lui ha rimesso a posto, monta sul furgo ne e torna dove è stato il giorno prima. Per un attimo pensa di fare una sosta da Percy e scucirgli qualche altra informazione, ma decide che non servireb be. Mostrare tanto interesse potrebbe solo indurlo a inventare storie. Ripen sa anche all’ipotesi di andare a parlare con l’agricoltore ma ci rinuncia per le ragioni che si è già dato ieri sera.  Parcheggia il furgone sulla pista che entra nel bosco. Il sentiero si inter

Si è sentito andare giù quasi al rallentatore, in modo inevitabile e coe

Quello che accade ora a Roy è la cosa più banale e incredibile al tempo stesso. Quel che potrebbe succedere al primo sciocco svampito che cammina nel bosco con la testa tra le nuvole, a qualunque vacanziere imbambolato da vanti alla natura, a chiunque pensi che il bosco sia una specie di parco dove si va a passeggiare. Uno che si mette le scarpe leggere anziché gli scarponi e che non si prende la briga di guardare sempre dove mette i piedi. A Roy non è mai successo nemmeno lontanamente in tutte le centinaia di volte che è entrato nel bosco.  Ha cominciato da un po’ a nevicare piano, perciò sul terreno e sulle foglie morte si scivola. Un piede di Roy slitta e si storce, mentre l’altro sprofonda più giù del previsto sotto una coltre leggera di neve e terriccio. Cioè, Roy fa il passo distrattamente – quasi si lascia andare – in uno di quei punti in cui si dovrebbe procedere con cautela e circospezione, o non procedere affatto, se si hanno alternative migliori. Comunque, che cosa succede? Non va giù di peso, non come se fosse inciampato nella tana di una marmotta. Si limita a perdere l’equilibrio, ma poi resiste, ondeggiando, quasi incredulo, e infine va giù, scivolando sul piede che resta in qualche modo intrappolato sotto l’altra gamba. Cadendo, tiene la sega distante da sé e scaglia via l’accetta. Non ab bastanza lontano, però: il manico lo colpisce forte contro il ginocchio della gamba che si è storta. Il peso della sega lo ha trascinato, ma per fortuna non ci è caduto sopra.

Al IcE MUNRO 203

rompe poco dopo, ma Roy l’ha già lasciato prima che si concluda. Vaga qua e là osservando gli alberi che sembrano identici a quelli di ieri sera e non dan no segno di partecipare ad alcuna congiura contro di lui. Si è portato l’accet ta e la sega a catena, e ha la sensazione di doversi sbrigare. Se si presentasse qualcun altro, se qualcuno dovesse provocarlo, reagirà dicendo che ha avuto il permesso dal proprietario e che non sa niente di nessun altro accordo. Dirà anche che intende procedere a tagliare, a meno che non venga il proprietario in persona a dirgli di andarsene. Se succede davvero, dovrà farlo per forza. Ma è poco probabile, perché Suter è un omone sciancato che non ama girare a piedi per i suoi terreni.  – … chi lo stabilisce, – dice Roy, parlando da solo come Percy Marshall, –voglio vederlo scritto, nero su bianco.  Si rivolge all’estraneo che non ha mai neanche visto.  Il suolo di qualunque bosco è di norma più accidentato della superficie cir costante. Roy ha sempre creduto dipendesse dagli alberi che, cadendo, solle vano terra con le radici e rimangono poi a marcire sul posto. In quel punto si sarebbe formato un tumulo, mentre là dove le radici avevano smosso la terra, ci sarebbe stata una fossa. Da qualche parte, però, ha letto – non è da molto e gli piacerebbe ricordarsi dove – che la vera causa è quel che accadde mol tissimo tempo fa, poco dopo l’Era glaciale, quando, fra gli strati di terreno, si formò del ghiaccio che spinse fuori la terra in gobbe ineguali, esattamente come accade oggi nelle regioni artiche. Dove il terreno non è stato lavorato e spianato, le gobbe rimangono.

R AccONTI204 rente. Si poteva rompere una costola, ma non è successo. Il manico dell’ac cetta poteva volargli in faccia e colpirlo, ma non è successo. Poteva tagliarsi una gamba in modo serio. Roy enumera mentalmente tutte queste possibili tà, non con immediato sollievo, ma come se ancora non fosse certo che non si siano verificate. Perché il modo in cui tutto è cominciato, il modo in cui gli è mancato il piede slittando nel terriccio e facendolo cadere, è stato tal mente stupido e maldestro, talmente incredibile da non escludere alcun esi to assurdo.  Prova a tirarsi su. Gli fanno male tutte e due le ginocchia – uno per il colpo del manico e l’altro per aver battuto forte a terra. Si aggrappa al tronco di un giovane ciliegio – nel quale avrebbe potuto andare a sbattere con la testa – e si tira su a poco a poco. Prova ad appoggiare il peso su un piede e sfiora ap pena il suolo con l’altro, quello che è scivolato e si è storto sotto di lui. Verifi cherà l’appoggio tra un attimo. Si china a raccogliere la sega e per poco non cade di nuovo. Una fitta lancinante parte da terra e gli serpeggia in corpo fino a raggiungere il cranio. Roy si scorda della sega e cerca di rizzarsi, non sa pendo da dove arrivi il dolore. Dal piede: ci avrà messo sopra il peso mentre si chinava? Il dolore si è ritirato in buon ordine nella caviglia. Roy raddrizza la gamba quanto è possibile, tenendo conto delle condizioni in cui si trova, poi, con estrema cautela, prova a mettere il piede a terra, a poggiarci il peso. Non si capacita di quanto possa far male. E di come non smetta, di come abbia la meglio su di lui. La caviglia non può essere soltanto storta, deve essersi sloga ta. Rotta, magari? A vederla così, dentro lo scarpone, non si direbbe diversa dall’altra, quella che non lo ha tradito.  Sa che gli toccherà sopportarlo. Ci si dovrà abituare, se vuole uscire da qui. E infatti riprova, ma non progredisce per niente. Non riesce a metterci sopra il peso. Deve essere rotta. Una caviglia rotta: anche questo è comun que un infortunio di poco conto, da vecchia signora scivolata sul ghiaccio. Ha avuto fortuna. Una caviglia rotta, un infortunio di poco conto. Ciononostante, non è in grado di fare un passo. Non può camminare.  Alla fine capisce che, se vuole tornare al furgone, dovrà abbandonare l’ac cetta e la sega a catena, mettersi a quattro zampe e avanzare carponi. Si la scia cadere il più agilmente possibile per poi issarsi in direzione della trac cia delle sue stesse impronte che intanto si vanno riempiendo di neve. Ha la prontezza di spirito di controllare la tasca dove tiene le chiavi, per assicurarsi che la cerniera sia chiusa. Si fa cadere di dosso il berretto scuotendo la testa e lo lascia a terra, perché la visiera gli impedisce la vista. A questo punto gli ne vica sul capo scoperto. Ma non fa tanto freddo. Una volta accettata l’idea di utilizzare il moto carponi come sistema di locomozione, le cose migliorano; vale a dire, spostarsi non risulta impossibile, pur essendo gravoso per le ma ni e per il ginocchio sano. Ora sì che sta attento, trascinandosi sul terriccio e fra gli arboscelli del suolo gibboso. Anche quando trova una lieve pendenza dalla quale potrebbe lasciarsi rotolare, non rischia: deve proteggere la gamba lesa. Per fortuna non si è inoltrato su un terreno fradicio, e per fortuna non ha aspettato oltre, prima di tornare indietro: si è messo a nevicare più forte e le

Al IcE MUNRO 205 sue orme sono già quasi scomparse. Senza quella traccia da seguire, sareb be complicato sapere al livello del suolo se sta avanzando dalla parte giusta.  La situazione che in un primo momento gli pareva surreale comincia ad assumere tratti di maggior naturalezza. Procede su mani, gomiti e un solo ginocchio, a distanza ravvicinata da terra, verifica la tenuta di un tronco as sicurandosi che non sia marcio, poi ci striscia sopra di pancia, si inzacchera le mani di foglie morte, di terra e di neve (i guanti ha dovuto toglierseli: non riesce ad avere la giusta presa né la sensibilità delle cose che tocca sul suolo, se non con le mani nude, intirizzite e graffiate), ma non si stupisce più di sé stesso. Ha smesso di pensare all’accetta e alla sega rimaste indietro, sebbene all’inizio abbia fatto fatica a staccarsene. I suoi pensieri quasi non risalgono a prima dell’incidente. È successo, non importa come. L’intera vicenda ha per so ogni sfumatura incredibile o innaturale.  C’è da risalire una scarpata piuttosto ripida e, quando la raggiunge, si con cede una breve sosta, soddisfatto di essere arrivato fin qui. Si scalda le mani dentro la giacca, una per volta. Per qualche ragione, gli viene in mente Diane con quella giacca a vento rossa da sci che non le dona, ma decide che ognuno ha la propria vita e che non serve a molto preoccuparsi. Poi pensa a sua mo glie, che fa finta di ridere davanti alla televisione. Al suo silenzio. Se non altro è al caldo e ha da mangiare, non deve trascinarsi in mezzo a una strada, come una sfollata. Ci sono cose peggiori, si dice. Cose peggiori.  Affronta la salita, puntando bene i gomiti e, dove può, il ginocchio dolente ma utilizzabile. Continua a salire; stringe i denti come se questo lo aiutasse a non scivolare all’indietro; si aggrappa a qualsiasi radice scoperta, a tutti gli steli vagamente robusti che vede. Certe volte scivola, gli manca l’appiglio, ma in quei casi si ferma e poi riprende a salire un centimetro dopo l’altro. Non solleva mai la testa per valutare quanto gli resti da percorrere. Se finge che la pendenza duri per sempre, arrivare in cima sarà una sorpresa, un premio.  Ci vuole molto tempo. Ma alla fine raggiunge il pianoro e, attraverso gli alberi e la neve che cade riesce a vedere il furgone. Eccolo, il vecchio Mazda rosso, che miracolosamente lo aspetta, come un amico fedele. Essere in pia no gli infonde nuova fiducia nelle proprie capacità perciò si mette in ginoc chio, e fa estrema attenzione alla gamba malata e si rialza tremante su quella sana, lasciando penzolare quell’altra e ondeggiando come un ubriaco. Azzar da una specie di saltello. Macché: perderebbe l’equilibrio, così. Tenta con de licatezza di spostare un poco del peso sulla gamba malata e si rende conto che il dolore potrebbe fargli perdere i sensi. Si rimette giù come prima e ri prende ad andare carponi. Ma anziché procedere in mezzo agli alberi verso il furgone, taglia ad angolo retto e si dirige dove sa di trovare la pista. Quando ci arriva, avanza più spedito sui solchi di terra compatta, e sul fango che du rante il giorno è sgelato ma che ora si va indurendo di nuovo. Per il ginocchio e i palmi delle mani è atroce, ma talmente più agevole rispetto al tragitto per corso che quasi gli gira la testa. Vede il furgone davanti a sé. Che lo guarda, lo aspetta. Riuscirà a guidare. Che fortuna, essersi fatto male alla gamba sinistra. Ora

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che il peggio è passato lo assalgono tante domande moleste, insieme al sol lievo. Chi andrà a recuperargli la sega e l’accetta, come farà a spiegare a qual cuno esattamente dove si trovano? Quanto ci metterà la neve a coprirle? Tra quanto tempo potrà camminare?

– Sono riuscita a vedere il furgone, – aggiunge. – Perciò ho fatto a piedi quel tratto, ho aperto e mi sono seduta. Ho pensato che non ci avresti messo tanto a tornare, visto che nevicava. Ma non avrei mai pensato di vederti arri vare a quattro zampe.  Il moto, o magari il freddo, le hanno colorito la faccia e ravvivato la voce. Lea si china a controllargli la caviglia e dice che le sembra gonfia.

Non serve. Scaccia questi pensieri, solleva la testa e dà un’altra occhiata rassicurante al furgone. Si ferma di nuovo per riposare e scaldarsi le mani. Potrebbe rimettersi i guanti ormai, ma perché rovinarli?

Un grosso uccello si alza in volo di fianco a Roy, che allunga il collo per ve dere che cos’è. Gli pare un falco, ma potrebbe anche essere una poiana. In tal caso, magari lo terrà d’occhio e valuterà la propria fortuna, vedendolo ferito.

E mentre si dedica a questo, mentre aspetta e osserva le ali – è una poiana, in effetti – si va anche facendo un’idea completamente nuova della storia che lo ha impensierito per le ultime ventiquattr’ore.  Il furgone si muove. Quando ha cominciato? Mentre lui osservava l’uccello? Da principio, il movimento è minimo, un dondolio nei solchi, potrebbe quasi essere un’allucinazione. Roy però sente il motore. È acceso. Sarà salito qual cuno mentre lui era distratto, o già era a bordo ad aspettarlo da prima? È sicu ro di avere chiuso, e le chiavi le ha. Si tocca di nuovo la tasca con la cerniera. Qualcuno gli sta rubando il furgone sotto il naso e senza avere le chiavi. Dalla sua postura, Roy urla e agita le braccia come se potesse servire a qualcosa. Il furgone però non sta facendo retromarcia nello spiazzo per andarsene via; sobbalza dritto verso di lui e adesso la persona alla guida suona anche il clac son, più in segno di saluto che di avvertimento, e intanto rallenta.  Roy vede chi è.  L’unica in possesso dell’altro mazzo di chiavi. L’unica possibile. Lea.  Roy si sforza di portare il peso del corpo sulla gamba sana. Lea salta giù dal furgone e gli corre incontro, per sostenerlo.

– Poteva andare peggio, – dice lui.

– Sono andato giù, – le dice lui, ansimando. – È stata la cosa più cretina che ho fatto in vita mia –. Poi gli viene in mente di chiederle come sia arriva ta fin lì.  – Volare non sono volata, – risponde lei.  È arrivata in macchina, dice – a sentirla parlare si direbbe che non abbia mai smesso di guidare –, è arrivata in macchina ma poi l’ha lasciata sulla strada.

– Troppo leggera per questa pista, per carità, – dice. – E poi ho pensato che potevo impantanarmi. Ma non sarebbe successo, il fango è ghiacciato.

Roy aspetta che riprenda a volteggiare sopra di lui per poter stabilire di che uccello si tratta dalla tecnica del volo, dalla posizione delle ali.

– Magari è una stupidaggine… – dice Roy. – Sapevo che l’avresti detto, ma pensaci…

Lea commenta che per una volta non si era preoccupata. Proprio l’unica volta in cui avrebbe dovuto. (Roy non si prende la pena di farle notare che non dà segno di preoccuparsi di niente da mesi, ormai). Non ha avuto il minimo presentimento.

– Ero solo venuta per dirti una cosa, – prosegue, – per ché non vedevo l’ora di dirtela. E un’idea che mi è venuta mentre la signora mi massaggiava. Poi ti ho visto che gattonavi. E ho pensato, Oh mio Dio.  – Che idea?  – Ah, già, – fa lei. – Be’, non so che cosa ne pensi tu. Posso anche dirtelo dopo. Dobbiamo farti sistemare la caviglia.  Che idea?  L’idea è che la squadra di cui ha sentito parlare Percy non esista. Percy ha sentito delle voci in effetti, ma non riguardavano dei forestieri con il permes so di disboscare. Si parlava soltanto di lui, di Roy.  – Il vecchio Eliot Suter è uno che le spara grosse. Conosco la famiglia, sua moglie era sorella di Annie Poole. Lui va in giro a raccontare a destra e a man ca la storia dell’affare concluso e ogni volta ne aggiunge un pezzo, e come va a finire? Che ci mette di mezzo la River Inn per esagerare e centinaia di metri cubi di legna al giorno. Un ubriacone pieno di birra che ne ascolta un altro, ed è bell’e fatta. D’altra parte, tu ce l’hai una specie di contratto… sì, insomma, un accordo…

Al IcE MUNRO 207

– Magari è una stupidaggine, però è la stessa idea che è venuta anche a me circa cinque minuti fa.  Ed è vero. È proprio questo che ha improvvisamente pensato mentre guardava la poiana in volo.  – Lo vedi, è bell’e fatta, – dice Lea, ridendo compiaciuta. – Basta che una cosa sia anche lontanamente collegata alla locanda, e diventa subito chissà quale storia. Una storia di soldi a palate.  E andata così, pensa Roy. Ha sentito parlare di sé stesso. Tutto quel tram busto, riguardava soltanto lui.  Nessun bulldozer in arrivo, niente squadra di uomini armati di seghe a ca tena. Frassini, aceri, faggi, ciliegi e acacie sono tutti al sicuro e aspettano lui. Per adesso, sono al sicuro.  Lea è senza fiato per lo sforzo di sostenerlo, ma riesce comunque a dire: –Dio li fa e poi li accoppia.  Questo non è certo il momento adatto per sottolineare il suo cambiamen to. Non più di quanto si congratulerebbe con qualcuno in bilico su una scala a pioli.  Roy ha battuto il piede mentre si sistemava – e in parte veniva sistema to – al posto del passeggero, sul furgone. Emette un gemito che è diverso da quello che gli uscirebbe se fosse solo. Non che intenda drammatizzare il dolore, diciamo piuttosto che utilizza questa espressione per descriverlo a sua moglie.

– … bisogna che ti diano un’occhiata. Le cose importanti, prima di tutto.  Per quanto ne sa Roy, è la prima volta che Lea guida quel furgone.  È notevole, come se la cava.  Foresta. Ecco la parola. Tutt’altro che un termine strano, eppure è possibile che non l’abbia mai usato in vita sua. Contiene una certa solennità dalla quale lui tende a ritrarsi.

Il buio e la neve sono troppo fitti per riuscire a vedere oltre i primi alberi. Roy è già stato là dentro in questo periodo, quando il buio annuncia la serra ta generale d’inizio inverno. Oggi però ci fa caso, nota qualcosa che pensa di essersi perso le altre volte. Quanto sia intricato quel posto, quanto sia impe netrabile e arcano. Non è questione di un albero dopo l’altro, ma di tutti gli alberi insieme, che complici, solidali si intessono in una cosa sola. È una me tamorfosi che avviene alle nostre spalle.

C’è un altro modo per dire il bosco, e quel nome adesso è in agguato nella sua testa, va avanti e indietro e quasi si lascia afferrare. Ma non del tutto. È una parola illustre che suona oscura ma imperturbabile.

– Piano, – le dice. – Così. Piano. Ecco, ci sei. Vai bene. Vai così.

– La Foresta Deserta, – dice, come se questo mettesse fine a qualcosa.

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– Ho lasciato l’accetta, – dice Roy automaticamente. – L’accetta e la sega.

Quasi per dedicarglielo. Perché Roy sa di non provare ciò che si aspettava di provare se Lea avesse recuperato vitalità. E il verso che emette potrebbe servire a mascherare quella insufficienza, o a giustificarla. Certo, un po’ di cautela è normale, non essendo sicuro che sia un cambiamento definitivo e non soltanto un fuoco di paglia.  Ma se anche è per sempre, se anche è per il meglio, c’è qualcos’altro. Uno svantaggio che ridimensiona il vantaggio. Uno svantaggio che si vergogne rebbe ad ammettere, se avesse la forza di farlo.

Ha la voce svagata, perché intanto fa retromarcia con il furgone, verso lo spiazzo. Procede piano, ma non pianissimo, sobbalzando nei solchi, pur sen za uscire di pista. Roy non è abituato a guardare negli specchietti retrovisori da quella angolazione, perciò abbassa il finestrino e allunga il collo, pren dendosi in faccia la neve. Non lo fa solo per vedere dove sta andando Lea, ma anche per schiarirsi un poco la mente dal senso di vertigine che gli è calato addosso come un calore.

– E poi c’è la macchina. Pensi di tornare a casa con quella e di farmi gui dare il furgone?  – Ma sei impazzito?

– E allora? Chiediamo a qualcuno di andartele a prendere.

Lei, intanto, gli sta dicendo qualcosa riguardo all’ospedale.

7. «Tagliare legna» è per Roy un interesse «molto personale senza essere segreto»; nessuno riesce a comprendere quanto egli «ci pensi né quanto significhi per lui». Perché è così importante per Roy «tagliare legna»? Cosa significa per lui questo interesse? Dopo aver spiegato l’importanza di questa attività per il protagonista del racconto, racconta di un tuo particolare interesse «molto personale senza essere segreto» e spiega ciò che significa per te questa occupazione.

5. Riassumi ciò che viene narrato nel racconto, per mettere in evidenza da una parte il carattere e le convinzioni di Roy, il protagonista, dall’altra ciò che di nuovo gli accade.

6. Dopo aver riletto la descrizione del bosco e degli alberi, descrivi anche tu un albero che ti è familiare.

3. Rileggi le ultime pagine del racconto e individua le frasi che fanno emergere con maggior chiarezza ciò che di nuovo accade a Roy al termine della storia.

2. Roy ha un particolare rapporto con la natura: rileggi e sottolinea i passaggi in cui meglio vengono espressi il suo amore per il bosco e la sua conoscenza degli alberi.

Al IcE MUNRO 209

4. Fai un sommario del racconto, elencando gli avvenimenti principali.

1. Nella prima parte del racconto viene messo in evidenza il progressivo isolamento di Roy: rileggi le prime pagine e ritrova i passi che parlano della solitudine del protagonista.

Da che esiste, Rembrandt, Goethe, Beethoven, Dostoevskij e Tolstoj hanno reso più profonda la nostra anima e più bella la nostra vita.

L’hanno vista dodici generazioni di esseri umani, questa tela, un quinto dell’umanità passata sulla faccia della terra dall’inizio dell’evo moderno fino ai giorni nostri.

Vedo una giovane madre con un bambino in braccio.

Da che questo quadro esiste si sono formati e dissolti imperi europei e co loniali, è nato il popolo americano, sono sorte le fabbriche di Pittsburgh e di Detroit, ci sono state le rivoluzioni, e l’assetto sociale del mondo è cambiato…

Da che esiste, l’umanità si è lasciata alle spalle gli alchimisti e le loro super stizioni, i filatoi a mano, i velieri e le carrozze postali, i moschetti e le alabar de, ed è entrata nel secolo dei generatori, dei motori elettrici e delle turbine, ha messo piede nell’èra dei reattori atomici e delle reazioni termonucleari.

L’hanno guardata vecchiette in miseria, imperatori europei e studenti, miliardari d’oltreoceano, papi e principi russi, l’hanno ammirata vergini pu rissime e prostitute, colonnelli dello Stato maggiore, ladri, geni, tessitori, pi loti di caccia e maestri di scuola, l’hanno vista i buoni e anche i cattivi.

Da che esiste, Galileo ha formulato il concetto di Universo e ha scritto il suo Dialogo, Newton i Principia e Einstein L’elettrodinamica dei corpi in movimento.

R AccONTI210 VASSILIJ GROSSMAN La Madonna Sistina

Dopo aver sconfitto e annientato l’esercito della Germania nazista, le vitto riose armate sovietiche portarono con sé a Mosca le tele della pinacoteca di Dresda. E a Mosca quelle tele sono rimaste sotto chiave per circa un decennio. Ora, nella primavera del 1955, il Governo sovietico ha deciso di restituirle alla città di Dresda. Prima di rispedirle in Germania, però, saranno esposte al pubblico per novanta giorni.  E dunque nella fredda mattina del 30 maggio 1955 attraverso via Volchonka, supero i cordoni di polizia che regolano il flusso delle migliaia di persone de siderose di ammirare i quadri di artisti sommi, entro al Museo Puškin, salgo al primo piano e mi avvicino alla Madonna Sistina.  Dalla prima occhiata una cosa è subito – e soprattutto – evidente: quella tela è immortale.  E capisco di avere sempre usato con leggerezza una parola dalla potenza tremenda – immortalità –, di averla sempre confusa con la pur possente vita lità di alcuni capolavori dell’uomo. Nonostante la mia venerazione per Rem brandt, Beethoven e Tolstoj, mi è finalmente chiaro che di tutte le opere capa ci di colpire il mio cuore e la mia mente, opere create dal pennello, dal cesello o dalla penna, solo questo quadro di Raffaello non morirà fino a che l’uomo avrà vita. Anzi, se anche l’uomo dovesse estinguersi, gli esseri che prenderan no il suo posto sulla terra – lupi, ratti, orsi o rondini che siano – verranno sulle loro zampe o con le loro ali ad ammirare la Madonna di Raffaello…

E penso anche che esprima non solo l’umano, ma quanto di altro esiste sulla terra, fra gli animali, ovunque gli occhi scuri di una giumenta, di una mucca, di una cagna che allattano ci lascino intuire e cogliere l’ombra mira bile della Madonna.

I volti di entrambi sono calmi e accorati. Forse già distinguono il Golgota1 e la strada di polvere e sassi che vi conduce, e anche la croce brutta, tozza, pesante e scabra destinata a posarsi sulla piccola spalla che ora, invece, sen te soltanto il calore del seno materno…

E il cuore ha una stretta, non d’angoscia, né di dolore.

Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita, di quell’u mano a cui il divino non partecipa.

Come posso rendere la grazia della pianta – esile, sottile – che genera il suo primo frutto, una mela pesante e ancora pallida; o quella di mamma uc cello alla sua prima nidiata; oppure di una giovane femmina di capriolo… La maternità e la fragilità di una ragazza – una bambina quasi.

Ancora più terreno è il bambino che tiene fra le braccia. Ha un viso più adulto di quello della madre. Quegli occhi tristi e gravi – fissi al contempo fuori e dentro di sé – vedono e conoscono il destino.

È, anche questa, una caratteristica della tela.

Con la sua Madonna Raffaello ha svelato lo splendido arcano della materni tà. Ma non è a questo che si deve la vita imperitura della sua tela. Il corpo e il viso della Madonna sono la sua anima, perciò è così bella. C’è, in questa raffi gurazione visiva dell’anima di una madre, qualche cosa che la mente umana non riesce a cogliere.  Sappiamo che nelle reazioni termonucleari la materia si trasforma in una quantità enorme di energia, ma ancora oggi non riusciamo a figurarci il processo inverso, la materializzazione dell’energia; sulla tela, invece, la for za dello spirito, la maternità si cristallizzano e prendono forma nella soavità della Madonna.

La bellezza della Madonna è legata saldamente alla vita terrena. È demo cratica, umana; è la bellezza di tante, tantissime persone – gialli con gli oc chi a mandorla, gobbi con il naso lungo e pallido, neri con i capelli crespi e le labbra tumide. È universale. La Madonna è anima e specchio dell’uomo, e chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie.

vA ssIl I j GROssMAN 211

È un sentimento nuovo, mai provato prima – umano e nuovo insieme, sgorgato da profondità marine impregnate dell’acre sapore di sale – a farci battere il cuore con la sua straordinaria novità.

1 Golgota: colle al di fuori di Gerusalemme su cui, secondo il Vangelo, Gesù venne crocifisso.

Dopo la Madonna Sistina una grazia simile non può più dirsi ineffabile, mi steriosa.

L’umano nell’uomo ha continuato a esistere su tutte le croci a cui l’hanno inchiodato e in tutte le prigioni in cui lo torturavano.

È rimasto vivo nelle cave di pietra, ai cinquanta gradi sotto zero nei boschi da tagliare nella tajga, nelle trincee allagate vicino a Przemyśl e Verdun. È rimasto vivo nell’esistenza monotona degli impiegati, nella miseria delle la vandaie e delle domestiche, nella loro lotta estenuante e vana con il bisogno, nella fatica spenta, senza gioia, delle operaie in fabbrica.

Perché il volto della madre non tradisce paura e perché le sue dita non strin gono il corpo del suo bambino con una forza che nemmeno la morte riuscireb be a sconfiggere? Perché non fa nulla per sottrarre il figlio al suo destino?

Essi sono una cosa sola e due persone diverse. Insieme vedono, sentono e pensano, fusi l’uno nell’altra, ma tutto ci dice che l’uno dall’altra si staccherà, che non potrà non farlo, che la sostanza della loro unità, della loro fusione è proprio in quel separarsi.  Ci sono momenti tristi, dolorosi, in cui i bambini stupiscono gli adulti per buonsenso, calma, rassegnazione. Come i figli dei contadini falcidiati dalle annate di carestia e di vacche magre; o i figli dei bottegai e degli artigiani ebrei durante il pogrom di Kišinëv; o i figli dei minatori, quando il fischio della sirena annunciava al borgo impazzito un’esplosione nelle gallerie.

La Madonna con il bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità.

Ella offre il bambino alla sua sorte, non lo nasconde.  Né il bambino nasconde il viso nel seno della madre. Fra poco lascerà le sue braccia e andrà incontro, scalzo, al suo destino.

Perché? Come dobbiamo interpretarlo?

La nostra epoca guarda la Madonna Sistina e vi intuisce il proprio destino. Ogni epoca fissa lo sguardo su questa donna con il bambino in braccio, e fra esseri umani di generazioni, popoli, razze e secoli diversi si instaura un sen so di fratellanza dolce, commovente e doloroso insieme. L’uomo prende co scienza di sé e della propria croce e comprende di colpo il legame prodigioso fra le epoche, il legame di quanto è vivo oggi con ciò che vivo lo è stato e non lo è più, e con ciò che invece ancora deve esserlo.  2 Più tardi, mentre camminavo per strada sbalordito e turbato dalla potenza di un’emozione inattesa, non provai nemmeno a sbrogliare quella matassa di pensieri e sensazioni.

Il subbuglio dei miei sentimenti non era paragonabile ai giorni di lacrime

Essa genera qualcosa di nuovo, quasi che ai sette colori dello spettro se ne aggiungesse un ottavo che l’occhio ancora non conosce.

L’umano nell’uomo va incontro alla propria sorte, che in ogni epoca fa sto ria a sé, è diversa da quella dell’epoca precedente. Un tratto comune c’è, però: il destino è sempre, immancabilmente, difficile…

R AccONTI212

2 Da V. Grossman, L’inferno di Treblinka, Adelphi, Milano 2010, pp. 75-78.

vA ssIl I j GROssMAN 213 e gioia che, ragazzino quindicenne, vissi leggendo Guerra e pace, né con quan to avevo provato ascoltando Beethoven nei momenti più cupi e difficili della mia vita.  Poi capii. La vista della giovane madre con il bambino in grembo non evo cava in me un libro o una musica…  Treblinka1…  «Sono gli stessi pini, la stessa sabbia e lo stesso ceppo, in lontananza, che milioni di occhi umani videro dai vagoni che scivolavano lenti verso la ban china … Entriamo nel lager, calpestiamo la terra di Treblinka. I baccelli di lu pino scoppiano al minimo contatto, scoppiano con un suono lieve … Il suono dei semi che cadono e quello dei baccelli che scoppiano si fondono in una melodia triste e silenziosa. È come se dalle viscere della terra giungessero i rintocchi di minuscole campane a morto: appena udibili, mesti, distesi, quieti … Sono camicie bruciacchiate … scarpe … ingranaggi di orologi, temperini … candelabri, scarpe da bambino con i pompon rossi … biancheria in pizzo, for bici … cocci, bidoni … tazzine in plastica per bambini … lettere scarabocchiate da mani infantili, un libro di versi … Continuiamo a camminare su quella terra senza fondo, ma poi ci fermiamo. Di colpo. Capelli biondi dai riflessi color del rame, i capelli ondulati, folti, sottili, lievi, incantevoli di una ragazza si mesco lano alla terra calpestata. Poco distante altri boccoli chiari, e poi trecce nere, pesanti sulla sabbia chiara, e poi altre e altre ancora … E intanto i baccelli di lupino tintinnano, tintinnano, e i semi tamburellano sul terreno come se dav vero, da sotto terra, si levassero alti i rintocchi a morto di un’infinità di minu scole campane. E il cuore sembra fermarsi, stretto da una tristezza, da un do lore, da un’angoscia che un essere umano non può sopportare…»2.

Era lei a calpestare scalza, leggera, la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto da dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas. La riconosco dall’espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio e riconosco anche lui dall’espressione adulta, strana. Così dovevano es sere madri e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka sullo sfondo verde scuro dei pini, così era la loro anima.

1 Treblinka: campo di sterminio nazista, dove trovarono la morte quasi un milione di ebrei tra il 1942 e il 1943. Grossman nel 1944 entrò nel campo di Treblinka come corrispondente giornalistico. Da quella terribile esperienza nacque il reportage L’inferno di Treblinka.

Il ricordo di Treblinka era riaffiorato nel mio cuore senza che me ne ren dessi conto…

Quante volte ho cercato di distinguere nel buio coloro che scendevano dal treno; i profili di quelle figure, tuttavia, erano sempre vaghi – o erano i volti a sembrare sfigurati da un orrore infinito e tutto si strozzava in un grido tremen do, o era la prostrazione fisica e morale, la disperazione a coprire quei visi con un velo di indifferenza ottusa e testarda, oppure era il sorriso ebete della follia a stamparsi sui volti di chi, sceso dal treno, marciava verso la camera a gas.

La loro forza umanissima ha avuto la meglio sulla di lui violenza. La Ma donna è entrata a piedi nudi, a passo lieve, nella camera a gas, stringendo il figlio fra le braccia sulla terra tremula di Treblinka.

3 Adolf Hitler fu effettivamente pittore e produsse centinaia di opere.

Dov’è tuo padre, piccolino? È morto nel cratere di una bomba, in qualche lager della tajga, in una baracca per dissenterici?

Ha camminato con noi, con noi ha viaggiato per un mese e mezzo su un va gone cigolante, cercando i pidocchi fra i capelli soffici e sporchi del suo bam bino. Ha vissuto con noi la collettivizzazione forzata.

Il nazismo tedesco è stato abbattuto, la guerra si è portata via decine di milioni di persone, città enormi sono state ridotte a cumuli di macerie.

La madre allatta il figlio e intanto migliaia di migliaia di esseri umani ti rano su muri, stendono rotoli di filo spinato, costruiscono baracche… Intanto nel silenzio degli uffici si progettano le camere a gas, i camion della morte, i forni crematori…  È l’epoca dei lupi, l’epoca del nazismo. Un’epoca in cui gli uomini vivono da lupi, e i lupi da uomini.

Conosce ogni cosa di noi: la neve e la fanghiglia fredda d’autunno, la gavet ta ammaccata dei soldati con dentro una brodaglia torbida e le croste di pane nero con un pezzo di cipolla appassita.

2 Moabit: carcere cittadino di Berlino.

Nella primavera del 1945 la Madonna ha visto il cielo del Nord. È arrivata da noi non da ospite né da viaggiatrice, ma con tanto di autisti e soldati sul le strade che la guerra aveva distrutto; è parte della nostra vita, è una nostra contemporanea.

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Eccola che si avvia, scalza, con il figlioletto, verso il treno dove la cariche ranno. Ha davanti a sé un lungo viaggio, da Obojan’, dai dintorni di Kursk, dalle terre fertili di Voronež fino alla tajga, alle paludi dei boschi oltre gli Ura li, alle sabbie del Kazachstan.

La Cappella Sistina… La camera a gas di Treblinka…  L’ha partorito oggi, il suo bambino, quella giovane madre. È tremendo ave re un figlio in grembo e sentire il boato di chi acclama Adolf Hitler. La madre guarda il viso del suo neonato e sente lo schianto dei vetri che si infrangono, le sirene delle auto che ululano, e il coro dei lupi che per le vie di Berlino intona la marcia di Horst Wessel1. E il colpo sordo della scure nel carcere di Moabit2.

In quest’epoca una giovane madre partorisce e cresce il suo bambino. E il pittore Adolf Hitler3 si piazza di fronte a lei nella pinacoteca di Dresda per decidere il suo destino. Ma il dominatore dell’Europa non riesce a reggerne lo sguardo, né riesce a reggere quello del figlio di lei – perché sono sguardi di esseri umani.

1 la marcia di Horst Wessel: inno del partito Nazionalsocialista tedesco.

Finalmente vedevo la verità di quei visi, l’aveva dipinta Raffaello quattro secoli prima. Così l’uomo affronta il proprio destino.

Il mondo intero – tutta l’immensità dell’Universo – è schiavitù rassegnata della materia inerte, solo la vita è miracolo di libertà.  1 Stalin, poco più che ventenne, fu deportato in Siberia nei primi anni del 1900, a causa di attività rivoluzionarie.

E dalla penombra di quell’alba affiora il suo nuovo presente: la tradotta, il carcere di transito, le guardie sulle torrette di legno dei lager, il filo spinato, le notti a lavorare nelle officine del campo, e l’acqua bollita, e tavolacci, tavo lacci, tavolacci…  Con il suo passo lento, morbido negli stivali di capretto dal tacco basso, Stalin si avvicina al quadro, osserva a lungo, molto a lungo i visi della madre e del figlio accarezzandosi i baffi ingrigiti.

E l’abbiamo incontrata nel 1937, nella sua stanza, mentre stringeva a sé per l’ultima volta il figlio, gli diceva addio, fissava il volto di lui prima di cor rere giù per le scale deserte di un condominio muto… Sulla porta della sua stanza un sigillo di ceralacca, da basso l’aspettava una macchina… Che silen zio strano, inquieto, in quell’alba grigia e polverosa dove non fiatavano nean che i palazzi.

La tela ci parla della gioia di essere creature vive su questa terra, è questa la sua forza prodigiosa e quieta.

Ivan, mio piccolo Ivan, perché sei così triste? Il destino ha sbarrato dietro a te e a tua madre le finestre di un’izba abbandonata. È lungo il viaggio che vi aspetta? Riuscirete ad arrivare? Oppure, stremati, morirete lungo la strada in una stazione della ferrovia a scartamento ridotto, nei boschi, sulla riva mel mosa di un fiumiciattolo al di là degli Urali?  È proprio lei, sì. L’ho vista anche nel 1930 alla stazione di Konotop: si av vicinò al vagone di un rapido, terrea di sofferenza, e alzò i suoi occhi meravi gliosi per dire senza voce, muovendo appena le labbra: «Pane…».  E ho visto suo figlio, ormai trentenne, con un paio di scarponi militari con sumati – di quelli che non si sfilano neanche ai morti, tanto sono malridotti –, e con il giubbotto strappato su una spalla bianca come il latte. Marciava su un sentiero in mezzo alle paludi, avvolto in un nugolo di zanzare, e non riusciva a scacciarlo, quel nimbo vivo e scintillante di miliardi di insetti, perché con le mani doveva reggere sulla schiena un tronco grezzo, pesante. Ma poi sol levò la testa china e vidi il suo volto, la barba chiara, crespa, uniforme da un orecchio all’altro, e le labbra socchiuse; vidi i suoi occhi e li riconobbi subito – sono gli stessi occhi che mi guardano ora dalla tela di Raffaello.

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L’avrà riconosciuta? L’avrà incontrata anche lui nei suoi anni da deportato nella Siberia orientale1 – a Novoudinsk, Turuchansk e sul fiume Kurejka? –, nei trasferimenti, nelle prigioni di transito? Avrà pensato a lei negli anni del suo sommo potere?  Ma noi, tutti noi l’abbiamo riconosciuta, e abbiamo riconosciuto suo figlio, perché lei siamo noi, il loro destino siamo noi, madre e figlio sono l’umano nell’uomo. E se il futuro porterà la Madonna in Cina o in Sudan, anche laggiù la riconosceranno come oggi la riconosciamo noi.

Ha vissuto la nostra vita insieme a noi. Dunque giudicateci, noi esseri uma ni, insieme alla Madonna col bambino. Noi lasceremo presto questa vita, ab biamo già i capelli bianchi. Lei, invece, giovane madre con il figlio in braccio, andrà incontro al suo destino e con la prossima generazione di esseri umani vedrà una luce possente e accecante splendere nel cielo: il primo scoppio del la potentissima bomba a idrogeno, foriero di una nuova guerra globale.

La tela ci dice anche quanto deve essere bella e preziosa la vita, e che non c’è forza al mondo in grado di costringerla a trasformarsi in qualcosa che, pur somigliandole, non sia vita vera.

Diremo che non c’è stata un’epoca più dura della nostra, ma che non ab biamo lasciato morire l’umano nell’uomo.

Che cosa diremo al cospetto del tribunale del passato e del futuro, noi uo mini vissuti nell’epoca del nazismo? Non abbiamo giustificazioni.

La terra su cui tutti viviamo trema – alle armi atomiche sono subentrate quellePrestotermonucleari. diremoaddio alla Madonna Sistina.

La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni: so no invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta.

Siamo di fronte a lei, giovani e vecchi che viviamo in Russia. La nostra è un’epoca inquieta… Le ferite ancora non si sono rimarginate, ancora fumano i falò, e ancora fremono i tumuli sopra le fosse comuni di milioni di soldati –nostri figli e fratelli. Nelle campagne arse vive sono ancora in piedi pioppi e ciliegi morti e bruciati, l’erbaccia cresce, triste, nei villaggi partigiani, sui cor pi inceneriti di nonni, madri, ragazzi e ragazze. È ancora smossa la terra sulle fosse dove riposano i corpi dei bambini ebrei uccisi insieme alle loro madri. La notte ancora si leva il pianto delle vedove nelle tante, infinite izbe russe, nei casolari bielorussi e ucraini. La Madonna ha patito con noi ogni momen to, perché lei siamo noi, perché siamo noi suo figlio.

E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a cre dere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più subli me dell’umano nell’uomo.

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Terrore, vergogna, dolore: perché ci è toccata una vita così atroce? Non sa rà anche colpa mia, colpa nostra? Perché siamo vivi? Una domanda tremen da, dura, che solo i morti possono fare ai vivi. Ma i morti tacciono, non fanno domande.  Il silenzio che è seguito alla guerra viene violato ogni tanto da qualche esplo sione, e sul cielo si stende una nebbia radioattiva.

Che vivrà in eterno, e vincerà.

7. Perché lo scrittore è certo che nel futuro gli uomini «la riconosceranno»?

2. In un rapido elenco, Grossman riporta alcuni tra i cambiamenti avvenuti sulla Terra dopo che Raffaello ha dipinto il suo quadro: cosa vuole sottolineare? Cosa invece non è cambiato da quell’epoca, secondo lo scrittore russo?

10. In collaborazione con il docente di arte e immagine, trova l’immagine del quadro di Raffaello e descrivilo, confrontandoti con la descrizione che ne ha fatto Grossman.

4. Cosa si intende affermare con le espressioni «è democratica … è universale»?

1. Osservando il quadro di Raffaello, l’autore si accorge di non aver mai compreso, fino a quel momento, il significato della parola immortalità. Con cosa l’aveva confusa?

9. «In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta». Facendo riferimento allo studio della storia del XX secolo e alle letture affrontate in classe, confrontati con questa affermazione per mettere in luce quali condizioni hanno permesso o hanno impedito agli uomini di sconfiggere il dolore dell’epoca che hanno vissuto.

5. Cosa ricorda lo scrittore nella seconda parte del racconto? Perché è proprio il quadro a suscitare in lui tale memoria?

11. Capita, talvolta, che l’osservazione attenta e intensa di un particolare (come in questo caso il quadro di Raffaello) permetta di scoprire qualcosa su ciò che si è vissuto e che si vive (come in questo caso l’inferno di Treblinka). Racconta di quella volta in cui anche a te è capitato che l’osservazione di un particolare ti ha fatto capire qualcosa di nuovo e per te importante.

3. Sottolinea le espressioni che descrivono le caratteristiche del quadro. Fai attenzione: Grossman si sofferma su alcuni particolari della rappresentazione, sul loro significato, sulle impressioni che sono in grado di suscitare in chi osserva l’opera.

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8. Al termine del racconto, cosa ha compreso di nuovo Grossman a proposito dell’immortalità?

6. Cosa intende affermare Grossman con l’affermazione: «la Madonna … è una nostra contemporanea»?

R AccONTI218 Racconti1/3 di guerra Non muoio neanche se mi ammazzano! Giovannino Guareschi a cura di Dorotea Moscato, Alessandro Italia

Il protagonista è il diciottenne tedesco Paul Bäumer che, convinto dal professore Kantorek della grandezza e della necessità della difesa della patria, si arruola volon tario nell’esercito coi suoi compagni Kropp, Müller e Leer, per poi scoprire al fronte la vera realtà della guerra. La prima linea è una specie di gabbia in cui si soffre l’attesa nervosa di ciò che sta per avvenire. Viviamo sotto la traiettoria incrociata delle granate, nella tensione dell’ignoto. Sopra di noi pende il caso. Quando un colpo arriva tutto quel che posso fare è di rannicchiarmi; dove vada a battere non posso sapere, né influirvi. È appunto questo che ci rende indifferenti. Alcuni mesi fa mi trovavo in un ricovero a fare una partita: dopo qualche tempo mi alzai e andai a trovare alcuni amici in un altro ricovero. Quando ri tornai non trovai più nulla del primo, che era stato annientato da un grosso calibro. Tornai allora al secondo e giunsi in tempo per aiutare a dissotterrar lo, perché, nel frattempo, era franato.

1 Detering: contadino adulto, compagno d’armi del protagonista Paul. 2 glabri: lisci, senza peluria. 3 Kropp: Albert Kropp, compagno di scuola e amico di Paul, da lui descritto come il miglior pensatore del gruppo.

R AccONTI220 ERICH MARIA REMARQUE

Il caso, i topi, l’arma bianca Nel romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale pubblicato nel 1929, l’autore racconta l’esperienza vissuta dai soldati tedeschi in prima linea presso Verdun du rante la Prima guerra mondiale.

Particolarmente ripugnanti sono qui i topi, per via della loro grossezza. È la razza che si chiama dei topi di cimitero. Hanno orribili musi, glabri2 e cat tivi, e le loro lunghe code prive di peli danno un senso di nausea. Hanno l’aria d’essere molto affamati. A quasi tutti noi hanno smozzicato il pane. Kropp3 ha bene avviluppato il suo nel telo da tenda e se lo tiene sotto la testa, ma non può dormire perché gli trottano continuamente sul viso per arrivare al pane. Detering invece ha voluto fare il furbo: aveva attaccato al soffitto un filo di ferro, e a questo legato il pane. Di notte accende la lampadina tascabile e

Per puro caso posso esser colpito, per puro caso rimanere in vita. In un ri covero a prova di bomba posso essere schiacciato come un topo e su terreno scoperto posso resistere incolume a dieci ore di fuoco tambureggiante. Cia scuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi; perciò il soldato crede e fida nel caso. Dobbiamo stare attenti al nostro pane. I topi si sono enormemente moltipli cati in questi ultimi tempi, dacché le trincee non sono più così ben tenute. Detering1 pretende esser questo il segno più sicuro d’aria pesante.

Dopo qualche minuto sentiamo rosicchiare e mordere. Il fruscio si accre sce, ormai udiamo lo scalpiccio di molte zampette. Allora le lampade scatta no e tutti insieme diamo addosso al mucchio nero, che schizza in tutte le di rezioni. Il successo è buono: gettiamo i topi fatti a pezzi fuori della trincea e ci appostiamo nuovamente. Il colpo ci riesce due o tre volte ancora, poi le bestiacce si sono accorte di qualche cosa o hanno fiutato il sangue: non compaiono più. Tuttavia ciò che avanza del pane, il giorno appresso, è sparito. Nel reparto vicino i topi hanno assalito, morsicato e in gran parte divorato un cane e due grossi gatti!

Alcune reclute sono ancora fornite di sciabole-baionette di questo tipo. Le facciamo sparire e ne procuriamo loro delle altre. La sciabola-baionetta, del resto, ha perduto molto della sua importanza. Per gli attacchi è venuto ora di moda avanzare soltanto con bombe a mano e vanghette. La vanghetta da trincea, affilata agli orli, è assai più leggera e di migliore uso; serve non soltanto a colpire sotto il mento, ma a menare gran fendenti, con efficacia assai maggiore: quando si vibra il colpo fra la spalla ed il collo, si spacca talvolta il nemico fino al petto. Invece la baionetta resta sovente conficcata nel corpo dell’avversario, sicché bisogna puntargli i pie di sulla pancia per liberarla, e nel frattempo ti arriva qualche colpo. Inoltre qualche volta si spezza.

Per tutta la giornata non abbiamo altra distrazione che quella di tirare sui topi e gironzolare qua e là. Viene aumentata la dotazione di cartucce e di bom be a mano. Quanto alle baionette, le ispezioniamo personalmente: ve ne sono che hanno il dorso fatto a sega. Quando quelli di là trovano un simile gingillo a qualcuno dei nostri, lo sgozzano senza misericordia. Nel settore vicino hanno ritrovato dei nostri ai quali con le stesse seghe avevano tagliato il naso e cavati gli occhi, riempiendo poi bocche e nasi di segatura, per soffocarli.

ERIch MARIA REMARQUE 221

Infinepagnotta.decidiamo di farla finita: tagliamo via con cura i pezzi di pane che le bestiacce hanno addentato; buttar via le pagnotte non si può, sotto pena di rimanere domani senza mangiare. Raccogliamo per terra, in mezzo, i pezzetti così tagliati. Ciascuno prende la sua vanghetta e si mette in posizione di combattimento. Detering, Kropp e Tjaden1 tengono pronte le lampadine tascabili.

All’indomani ci distribuiscono formaggio d’Olanda, quasi un quarto a te sta. In un certo senso è buona cosa, perché il formaggio piace a tutti, ma in un altro senso è brutto segno, perché quelle grosse palle rosse hanno sem pre annunziato le giornate più terribili. Il nostro presentimento si accresce quando vediamo distribuire anche la grappa. Naturalmente si beve, ma non siamo propriamente allegri.

vede il suo filo di ferro che dondola in qua e in là. Un topaccio stava a cavallo sulla

A notte si dà l’allarme dei gas. Aspettiamo l’attacco e ci corichiamo a terra con le maschere preparate, pronti ad applicarle alla prima ombra che si ve 1 Tjaden: giovane fabbro amico di Paul, ritrovatosi con lui al fronte.

R AccONTI222 da. Ma si fa giorno senza che accada nulla. Solo quell’eterno rotolare lontano che logora i nervi: convogli su convogli, autocarri su autocarri; che diavolo stanno concentrando? La nostra artiglieria li bersaglia di continuo, ma non cessano mai, non cessano mai.

2 Kat: Stanislaus Katczinsky, soldato incontrato da Paul e dai suoi compagni al fronte, diventato per loro un punto di riferimento per il suo carisma e la sua maggiore età. 3 L’unico … è Tjaden: essendo un gran mangiatore.

1 Somme: fiume francese della Francia settentrionale vicino al quale le truppe anglofrancesi cercano di sfondare le linee tedesche del fronte occidentale, in una delle più celebri e sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale.

I nostri visi sono stanchi, e ci diamo una guardata l’uno all’altro. «Sarà co me sulla Somme1; sette giorni e sette notti è durato il fuoco tambureggiante» dice Kat2 nero nero. Dacché siamo qui ha perduto il suo buon umore; catti vo segno anche questo, perché Kat è un vecchio lupo di trincea e ha un fiuto straordinario. L’unico che se la goda con le doppie razioni e col rum è Tja den3: arriva persino a sostenere che ce n’andremo tranquillamente a riposo e che non accadrà nulla. Per qualche tempo i fatti sembrano dargli ragione.

2. Che conseguenza genera tale esperienza nei soldati? Rispondi esplicitando le motivazioni della tua affermazione.

3. Quali sono le condizioni di vita in trincea? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni del narratore in merito.

5. Come vengono definiti i nemici? Cosa fa capire questo epiteto della percezione che hanno i soldati al fronte dei nemici?

7. «Ciascuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi; perciò il soldato crede e fida nel caso». Spiega il significato di quest’affermazione, facendo riferimento alle esperienze al fronte raccontate dal narratore. Confronta poi in classe la tua risposta con quella dei compagni.

1. Che esperienza vivono i soldati in prima linea? Cosa ne logora i nervi? Rispondi prestando particolare attenzione alle affermazioni del narratore sia nell’incipit sia nel finale del racconto.

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4. Quali sono i segni dell’avvicinarsi delle «giornate più terribili»?

6. Quali armi preferiscono usare i soldati per assaltare i nemici? Per quali motivi?

8. Scegli la frase del racconto che ti ha colpito maggiormente e presentala, motivando le ragioni della tua scelta.

R AccONTI224 ERICH MARIA REMARQUE

Mi trascino dunque nell’angolo più lontano, e resto là, con gli occhi sbarra ti, il coltello in pugno, pronto, se si muove, a saltargli addosso un’altra volta… Ma non farà più nulla, lo sento dal suo rantolare. 1 mota: fango. 2 pezzi: il protagonista sottintende “di artiglieria”. 3 mi tradisce: può svelare la mia presenza.

Una granata scoppia, seguita subito da altre due. Comincia la musica: raffica di fuoco. Crocchiano le mitragliatrici. Per il momento non resta altro da fa re che rimaner distesi. Sembra delinearsi un attacco. Da ogni parte salgono razzi, ininterrottamente. Me ne sto curvo in una grande buca, con le gambe nell’acqua fino alla vita. Se l’attacco si sferra, mi immergerò nell’acqua quan to più posso senza affogare, con la faccia nella mota1, facendo il morto.

D’un tratto sento che il fuoco arretra. Subito mi lascio scivolare giù nell’ac qua, l’elmo sulla nuca, la bocca a fior d’acqua, tanto appena da respirare. E resto immobile, – giacché poco distante sento pedate e rumor d’armi – i nervi mi si contraggono agghiacciati. Il rumore mi oltrepassa. La prima ondata è passata. Ho avuto un solo pensiero, imperioso: che fa re, se qualcuno salta nella buca? Strappo fuori il pugnale, lo impugno forte, lo nascondo, con tutta la mano, nella mota. Colpire subito, se qualcuno salta dentro; questo mi martella in fronte: colpire alla gola, perché non possa gri dare; non c’è altro scampo; sarà spaventato al pari di me, il terrore ci getterà l’uno contro l’altro, e allora devo essere io il primo. Ora entrano in azione le nostre batterie. Una granata scoppia vicino: ciò mi rende pazzo di furore, ci mancherebbe altro che i nostri pezzi2 mi colpis sero! Digrigno i denti nella mota: è un delirio di rabbia; alla fine non so che gemere e supplicare. Si è fatto un poco chiaro. Passi affrettati mi sfiorano. I primi. Si allontanano. Altri ancora. Il crepitare delle mitragliatrici si estende a una catena ininter rotta. Sto per voltarmi un poco e cambiar posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo pesante è cascato nella buca, ad dosso a me…

I suoi occhi mi seguono

Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida…

L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un gri do, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere, mi tradisce3; ma so no già tanto tornato in me, e sono ad un tratto così debole, che non posso più alzar la mano contro di lui.

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Faccio la prova col mio elmo, sollevandolo un poco per constatare la ra denza del tiro. Dopo un istante una pallottola me lo strappa di mano: dunque il fuoco passa proprio a fior di terra. E non sono abbastanza lontano dalla po sizione nemica perché qualche tiratore scelto non mi colga subito, al primo tentativo di fuga. L’aria schiarisce sempre più. Aspetto febbrilmente un attacco dei nostri. Le nocche delle dita sembravano voler bucare la pelle, con tanto spasimo stringo i pugni, supplicando che il fuoco cessi e che i miei compagni arrivino. I minuti stillano ad uno ad uno. Non oso più guardare l’oscura figura dell’altro, che è con me nella buca. Guardo fissamente più in là, e aspetto, aspetto. I colpi sibilano, formano una rete d’acciaio sopra il mio capo, e non cessano mai, non cessano mai. Guardo la mia mano insanguinata, e all’improvviso provo un senso di nausea: prendo un po’ di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca, e non vedo più il sangue.

Il fuoco non diminuisce: ora è egualmente intenso dalle due parti. Certo i nostri mi hanno dato per morto da un pezzo.

È giorno, un mattino chiaro e grigio. Il rantolo continua. Io mi tappo le orecchie, ma poi subito riapro le mani, perché altrimenti non odo più gli altri rumori.Lafigura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero in chiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue. È morto, dico a me stesso: deve esser morto, non sente più nulla; chi ran tola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di lui.

Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi pare che ab biano la forza di rapir lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d’un sol balzo. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaven toso orrore della morte… e di me.

In confuso posso vederlo. E provo un desiderio solo, venirmene via. Se non parto subito diventerà troppo chiaro: già ora è difficile. Ma quando tento di alzare la testa, vedo già che è impossibile. Il fuoco delle mitragliatrici è così fitto, che sarei crivellato prima di fare un sol balzo.

Io mi accascio a terra, sui gomiti: «No, no» mormoro. I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così.

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Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: «No, no, no» e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte. A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero1, e cerco di poggiare più comodamente la sua testa. La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prender ne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo, se si può. Devo fare così ad ogni modo, affinché quelli di là, se mi fanno prigioniero, vedano che ho cer cato di soccorrere il loro compagno e non mi fucilano sul posto. Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla. Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la ca micia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpe bre, mentre mormoro: «Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade2…». E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca. Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme. È tutto quello che posso fare. Ora non resta che aspettare, aspettare… Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile. Ho bensì cercato di illudermi, ma verso mezzogior no il suo gemito ha dissipato il mio inganno. Se nell’avanzare non avessi per duto la mia rivoltella, lo finirei con una palla. Ma pugnalarlo non posso. Verso mezzogiorno la mia mente tituba ai margini dell’incoscienza. La fa me mi rode i visceri; quasi piango di rabbia per questo voler mangiare, ma non me ne posso difendere. Più volte vado a prendere acqua pel moribondo, e ne bevo io stesso.

È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io pos sa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia. Kat e Kropp e MüIler3 hanno già visto, quando hanno colpito qualcuno in un corpo a corpo, come spesso accade…Maogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio pensiero. Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, do verlo vedere, doverlo udire… 1 bavero: colletto. 2 camarade: compagno, in francese. 3 Müller: compagno di scuola di Paul, appassionato di fisica.

3 Kemmerick: compagno di classe di Paul, a cui è stata amputata una gamba, ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale da campo.

Alle tre del pomeriggio è morto.

2 conchiudono: conducono.

4 Haje: Haje Westhus, scavatore di torba coetaneo di Paul, ferito gravemente alla schiena durante un combattimento.

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Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di prima. Vorrei che il rantolo ricominciasse, roco, interrotto, ora fischiando piano e ora più aspro e più forte. È stupido quello che faccio. Ma ho bisogno di occuparmi. E dunque metto il morto in una posizione più comoda, benché non senta più nulla. Gli chiudo gli occhi. Sono castani; i capelli neri, con qualche riccio sulle tempie. La bocca è carnosa e tenera sotto i baffi; un po’ arcuato il naso, bruna la pelle, non più livida, come poc’anzi, mentre era ancora in vita. Per un istan te il viso sembra anzi riacquistar salute; poi subito si trasfigura in quel viso spento dei cadaveri che ho visto tante volte e che li fa tutti uguali. Certo, sua moglie ora penserà a lui: essa non sa quello che gli è accaduto. Egli ha l’aria d’un uomo che scriva spesso alla moglie: ed ella riceverà ancora lettere di lui, domani, tra una settimana, forse una lettera perduta ancora fra un mese. Ella le leggerà, ed egli le parlerà ancora. Il mio stato peggiora sempre, non sono più padrone dei miei pensieri. Co me sarà quella donna? Assomiglierà alla sottile bruna, di là dal canale? Non mi appartiene un po’? Forse è mia, ora che ho ucciso il suo uomo. Oh se avessi vicino Kantorek1! Se mia madre mi vedesse così… Quest’uomo avrebbe potu to campare altri trent’anni, se io mi fossi impresso meglio la via del ritorno. Se fosse passato due metri più a sinistra, a quest’ora sarebbe là, nella sua trincea, e scriverebbe un’altra lettera alla sua donna. Ma questi pensieri conchiudono2 a poco: si sa che è il destino di tutti noi; se Kemmerich3 avesse tenuto la sua gamba dieci centimetri più a destra… se Haje4 si fosse curvato cinque centimetri più basso… Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi ri volgo al morto e gli dico: «Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragione vole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formu la. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sem pre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire…

1 Kantorek: professore di ginnastica di Paul e dei suoi compagni che li ha convinti e accompagnati ad arruolarsi nell’esercito.

Sento che perdo la testa: ma una cosa comprendo bene, che a questa gente non dovrò mai scrivere, come pensavo di fare poc’anzi. È impossibile. Guar do ancora una volta i due ritratti; non è gente ricca. Potrò mandare loro dana ro, senza svelarmi, se un giorno guadagnerò qualcosa. M’aggrappo a questa idea, che è un piccolo punto fermo.

Dopo mezzogiorno mi sento più calmo. La mia paura era infondata: il nome non mi turba più. Quella febbre è passata. «Compagno» dico al morto, ma con

Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Albert. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare».

Silenzio. Il fronte è tranquillo, salvo il crepitare della fucileria. Il tiro è fitto, non si spara a caso, si mira bene da ambe le parti. Uscire è impossibile. «Scriverò io a tua moglie» mormoro in fretta al morto «le scriverò, avrà la notizia da me, le dirò tutto quello che dico a te, non deve patire, voglio soccor rerla lei e i tuoi genitori e il tuo bambino». La sua uniforme è ancora a metà aperta. Il portafogli si trova facilmente. Ma esito a mettervi le mani. C’è dentro il libretto personale. Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagi ne. Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai più. E avrà il potere di rievocare ad ogni istante questa scena: tutto ritor nerà e ricomparirà davanti a me.

Indeciso, tengo in mano il portafogli. Mi sfugge dalle dita e si apre; ne ca dono alcune fotografie, qualche lettera. Raccatto ogni cosa e vorrei riporre tutto a suo luogo, ma la tensione in cui mi dibatto, l’incertezza della situazio ne, la fame, il pericolo, queste ore in compagnia del morto mi hanno reso di sperato: voglio affrettare lo scioglimento, accrescere la tortura perché abbia fine, così come si sbatte una mano atrocemente dolorante contro un tronco d’albero, accada ciò che vuole. Sono i ritratti di una donna e d’una bambina, piccole fotografie da dilet tante, davanti a un muro vestito d’edera. Poi le lettere. Le traggo dalle buste e tento di leggerle. Capisco ben poco, son difficili da decifrare, e il mio francese è scarso. Ma ogni parola che riesco a intendere è come una fucilata, come una pugnalata nel petto.

Questo morto è legato alla mia vita; perciò, se voglio salvarmi, devo fare tutto per lui, promettergli tutto; faccio voto, ciecamente, che vivrò d’ora in nanzi soltanto per lui e per la sua famiglia, e continuo a parlargli con labbra umide, e nel mio profondo c’è la speranza che in questo modo io mi riscatti, e possa forse uscir salvo di qui, e, più in fondo ancora, la piccola riserva men tale che dopo ci sarà tempo e si vedrà. Perciò apro il libretto e leggo lenta mente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l’indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba.

R AccONTI228

Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo, tipografo…

ERIch MARIA REMARQUE 229 pacatezza: «oggi a te, domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combat tere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita… e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno. Non dovrà accadere mai più».

Il sole è obliquo. Sono intontito dall’esaurimento e dalla fame. Il passato di ieri è come una nebbia; non spero di uscire di qui. Sonnecchio, e non mi accorgo che si fa sera. È il crepuscolo. Ora il tempo passa presto. Un’ora di at tesa ancora; se fosse d’estate, tre ore: ma oggi, un’ora appena. A un tratto comincio a tremare che qualcosa sopravvenga e si metta di traverso. Non penso più al morto, mi è diventato affatto indifferente. Di col po la bramosia di vivere è scattata su, e tutti i proponimenti di prima ne sono sommersi. Solo per scongiurar la mala sorte balbetto ancora macchinalmen te: «Manterrò tutto, manterrò tutto quello che ti ho promesso» ma già sento che non lo farò. A un tratto mi viene in mente che i miei compagni stessi possono sparar mi contro, mentre mi avvicino ai reticolati; non possono sapere. Dovrò grida re, appena sarà possibile, perché m’intendano; e rimaner disteso davanti alla trincea, finché non rispondono. La prima stella. Il fronte rimane tranquillo. Respiro e, tutto eccitato, parlo con me stesso: «Attento a non fare sciocchezze, Paul. Calma, Paul; calma e sei salvo, Paul». Continuo a ripetere il mio nome, e mi fa bene, come se un altro mi parlasse e mi desse ordini. L’oscurità cresce. La mia agitazione si calma, aspetto per prudenza che salgano i primi razzi. Poi striscio fuori dalla buca. Ho dimenticato il morto. Davanti a me si stende la campagna, nella prima notte, sotto le luci bianche. Prendo di mira una buca, e appena il razzo si spegne, vi corro; torno ad orien tarmi, ne prendo di mira un’altra, mi curvo, e avanti, via. Mi avvicino. Finalmente alla luce di un razzo vedo nel reticolato qualcosa che si muove ancora appena e poi s’irrigidisce; allora mi stendo a terra. Al raz zo successivo guardo di nuovo; sono i compagni della nostra trincea senza fal lo. Ma io voglio essere prudente finché riconosco i nostri elmi. Allora chiamo. E subito risuona in risposta il mio nome: «Paul! Paul!». Torno a chiamare. Sono Kat e Albert, usciti con un telo da tenda, a cercarmi. «Sei ferito?» «No, Ruzzoliamono…» dentro la trincea. Chiedo da mangiare e inghiotto avidamen te. Müller mi dà una sigaretta. In poche parole spiego l’accaduto. Non è cosa nuova: avventure simili si sono avute spesso. L’unica singolarità nel mio ca so è stato quell’attacco notturno. Ma a Kat è capitato in Russia di giacere per ben due giorni dietro il fronte nemico, prima di potersi aprir la strada verso i nostri.Deltipografo morto non faccio parola. Ma la mattina seguente non ne pos so più, e devo raccontare la cosa a Kat e ad Albert. Entrambi mi tranquil lizzano: «Non puoi farci nulla. Che altro avresti voluto fare? Se sei qui per questo!».Liascolto al sicuro, confortato dalla loro vicinanza.

«Guarda un po’, da quella parte» dice Kat. Ai parapetti stanno appoggiati alcuni tiratori scelti. Hanno fucile a cannocchiale, ed esplorano il settore di fronte. Di quando in quando schiocca un colpo.

1. Dove si rifugia Paul nella notte? Perché?

3. All’aurora «qualcosa ruzzola giù» nella buca: come reagisce Paul? Rispondi, dopo aver sottolineato nel testo le parole del narratore a riguardo.

Ci guardiamo in faccia: «Io non lo farei» dico. «Però» dice Kat «è bene che tu l’abbia visto fare proprio oggi.»

Udiamo un’esclamazione: «In pieno!». «Hai visto che salto?» Il sergente Oellrich si volge tutto fiero, e segna il punto. Nell’elenco dei tiri oggi egli sarà in testa con tre centri regolarmente constatati. «Che ne dici?» domanda Kat. Io chino la testa. «Se continua di questo passo, questa sera avrà un nastrino di più» osser va Kropp.«Odiventerà presto sergente maggiore» soggiunge Kat.

R AccONTI230

Quanta roba insensata sono andato fantasticando in quella buca!

2. Quale pensiero domina inizialmente la sua mente? Rispondi esponendo le motivazioni che il narratore adduce in merito.

4. Cosa vorrebbe fare Paul dopo aver colpito il nemico? Quale situazione invece è costretto a vivere? Per quali motivi?

Il sergente Oellrich si pianta nuovamente al parapetto. La bocca del suo fucile si sposta cercando il bersaglio. «Così non hai da perdere altre parole intorno alla tua avventura» fa Albert. Io stesso non capisco più quello che fui ieri. «È stato soltanto» dico io «per aver dovuto rimanere così a lungo in quella compagnia». In fin dei conti la guerra è la guerra. Il fucile di Oellrich schiocca breve e secco.

5. Inizialmente Paul non riesce nemmeno a guardare il nemico agonizzante: in quale momento e per quale motivo cambia atteggiamento nei suoi confronti? Come si comporta a questo punto con lui? Sottolinea nel testo i passaggi che giustificano la tua risposta.

11. «Questo testo non vuole essere né un atto di accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale –anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra». Esponi le tue considerazioni in merito a tale affermazione fatta dall’autore nell’introduzione del romanzo, facendo riferimento all’esperienza narrata nel racconto.

7. Giunta l’oscurità, Paul riesce a rientrare nella propria trincea: secondo te per quali motivi inizialmente non dice nulla ai compagni del nemico ucciso?

8. Come reagiscono i compagni quando la mattina seguente Paul racconta loro quanto gli è accaduto? Di cosa si convince Paul?

ERIch MARIA REMARQUE 231

10. Durante l’esperienza narrata, Paul passa dal pensare che «questo morto è legato alla mia vita; perciò, se voglio salvarmi, devo fare tutto per lui, promettergli tutto; […] nel mio profondo c’è la speranza che in questo modo io mi riscatti, e possa forse uscir salvo di qui» ad affermare «quanta roba insensata sono andato fantasticando in quella buca»: spiega quali motivazioni sono sottese alle due posizioni contrapposte e quale ritieni essere la più autentica.

9. «I suoi occhi mi seguono». Dopo aver sottolineato nel testo con due colori diversi i passaggi che descrivono gli occhi di Paul e quelli del nemico, esponi le tue considerazioni in merito a quanto esprimono i loro sguardi, soffermandoti in particolare sull’affermazione del titolo.

12. Scegli una frase del racconto che ritieni significativa e motiva la tua risposta.

6. Cosa accade a Paul alla morte del nemico? A che conclusione giunge? Rispondi ripercorrendo i passaggi dei suoi pensieri e in particolare le parole rivolte al nemico ucciso.

«A «Aitutti.»“gatti neri”4?» «Ai “gatti neri”.» «Ai “gatti rossi”?»

2 silurato: sostituito, esonerato, dal comando. È un termine del gergo militare, diffuso ora anche tra gli studenti.

Il tenente generale comandante la divisione, ritenuto responsabile dell’ab bandono ingiustificato di Monte Fior1, fu silurato2 . In sua sostituzione, prese il comando della divisione il tenente generale Leone. L’ordine del giorno del comandante di corpo d’armata ce lo presentò «un soldato di provata fermez za e d’esperimentato ardimento». Io lo incontrai la prima volta a Monte Spill3, nei pressi del comando di battaglione. Il suo ufficiale d’ordinanza mi disse che egli era il nuovo comandante la divisione ed io mi presentai. Sull’attenti, io gli davo le novità del battaglione. «Stia comodo,» mi disse il generale in tono corretto e autoritario. «Dove ha fatto la guerra, finora?»

4 “gatti neri” e “gatti rossi”: nomi in codice segreto con cui vengono chiamate le azioni militari durante la guerra.

«Sempre con la brigata, sul Carso.» «È stato mai ferito?» «No, signor generale.»

R AccONTI232 EMILIO LUSSU

Nel racconto autobiografico Un anno sull’altipiano pubblicato nel 1938, l’autore racconta le vicende accadutegli sull’altipiano d’Asiago fra il giugno 1916 e il luglio 1917, come ufficiale di fanteria della Brigata Sassari.

1 Monte Fior: monte situato nella parte centrale dell’altipiano di Asiago, considerato dalle truppe italiane ed austriache che vi si contrappongono durante la Prima guerra mondiale il punto strategico per la conquista di tutto l’altipiano.

3 Monte Spill: altro monte situato nella parte centrale dell’altipiano di Asiago.

«Come, lei ha fatto tutta la guerra e non è stato mai ferito? Mai?»

Una lira per un eroe

«Mai, signor generale. A meno che non si vogliano considerare tali alcune ferite leggere che mi hanno permesso di curarmi al battaglione, senza entra re all’ospedale.»«No,no,ioparlo di ferite serie, di ferite gravi.» «Mai, signor generale.» «È molto strano. Come lei mi spiega codesto fatto?» «La ragione precisa mi sfugge, signor generale, ma è certo che io non sono stato mai ferito gravemente.» «Ha preso lei parte a tutti i combattimenti della sua brigata?»

EMIl IO lUssU 233

«Molto strano. Per caso, sarebbe lei un timido?»

Il generale non sorrise. Già, credo che per lui fosse impossibile sorride re. Aveva l’elmetto d’acciaio con il sottogola allacciato, il che dava al suo vol to un’espressione metallica. La bocca era invisibile, e, se non avesse portato dei baffi, si sarebbe detto un uomo senza labbra. Gli occhi erano grigi e duri, sempre aperti come quelli d’un uccello notturno di rapina. Il generale cambiò argomento. «Ama lei la guerra?» Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v’erano ufficiali e soldati che sentivano. Mi decisi a rispondere. «Io ero per la guerra, signor generale, e anche all’università, rappresenta vo il gruppo degli interventisti2.» «Questo,» disse il generale con tono terribilmente calmo, «riguarda il pas sato. Io le chiedo del presente.» «La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se… è difficile… Comunque, io faccio il mio dovere.» E poiché mi fissava insoddisfatto, sog giunsi: «Tutto il mio dovere.» «Io non le ho chiesto,» mi disse il generale, «se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il ri schio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra.»«Amare la guerra!» esclamai io, un po’ scoraggiato. Il generale mi guardava fisso, inesorabile3. Le pupille gli si erano fatte più grandi. Io ebbi l’impressione che gli girassero nell’orbita. «Non può rispondere?» incalzava il generale. «Ebbene, io ritengo… certo… mi pare di poter dire… di dover ritenere…» Io cercavo una risposta possibile. «Che cosa ritiene lei, insomma?» «Ritengo, personalmente, non potrei affermare di prediligere, in modo par ticolare, la guerra.» «Si metta sull’attenti!» Io ero già sull’attenti. 1 propiziatorio: un sorriso appena accennato, per ottenere la simpatia del generale. 2 interventisti: coloro che erano favorevoli all’entrata in guerra dell’Italia. 3 inesorabile: inflessibile.

«Ai “gatti rossi”, signor generale.»

Io pensavo: per mettere a posto un uomo simile, ci vorrebbe per lo meno un generale comandante di corpo d’armata. Siccome io non risposi subito, il generale, sempre grave, mi ripeté la domanda. «Credo di no,» risposi. «Lo crede o ne è sicuro?» «In guerra, non si è sicuri di niente,» risposi io dolcemente. E, soggiunsi, con un abbozzo di sorriso che voleva essere propiziatorio1: «Neppure di es sere sicuri.»

3 feritoie: fori praticati nelle trincee, da cui le sentinelle osservavano il nemico e 4sparavano.arrogante: di sfida.

dissi io, «gli Austriaci hanno degli ottimi tiratori ed è pericoloso scoprirsi così.»

Il generale parve rassicurarsi. Mi rivolse ancora qualche domanda di ser vizio2 e mi pregò di accompagnarlo in linea. Quando fummo in trincea, nel punto più elevato e più vicino alle linee nemiche, in faccia a Monte Fior, mi chiese:«Quale distanza corre qui, fra le nostre trincee e quelle austriache?»

R AccONTI234

«Ah, lei è per la pace?»

«No, signor generale.»

«E quale pace desidera mai, lei?» «Una pace…» E l’ispirazione mi venne in aiuto. «Una pace vittoriosa.»

«Duecentocinquanta metri circa» risposi. Il generale guardò a lungo e disse: «Qui, ci sono duecentotrenta metri.» «È «Nonprobabile.»èprobabile. È certo.»

Noi avevamo costruito una trincea solida, con sassi e grandi zolle. I soldati la potevano percorrere, in piedi, senza essere visti. Le vedette osservavano e sparavano dalle feritoie3, al coperto. Il generale guardò alle feritoie, ma non fu soddisfatto. Fece raccogliere un mucchio di sassi ai piedi del parapetto, e vi montò sopra, il binoccolo agli occhi. Così dritto, egli restava scoperto dal petto alla «Signortesta.generale,»

2 qualche domanda di servizio: riferita al funzionamento dei servizi militari in quel settore del fronte.

Ora, nella voce del generale, v’erano sorpresa e sdegno. «Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cuci na, all’alcova1, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! È così, signor tenente?»

Il generale non mi rispose. Dritto, continuava a guardare con il binocco lo. Dalle linee nemiche partirono due colpi di fucile. Le pallottole fischiarono attorno al generale. Egli rimase impassibile. Due altri colpi seguirono ai pri mi, e una palla sfiorò la trincea. Solo allora, composto e lento, egli discese. Io lo guardavo da vicino. Egli dimostrava un’indifferenza arrogante4. Solo i suoi occhi giravano vertiginosamente. Sembravano le ruote di un’automo bile in corsa. La vedetta, che era di servizio a qualche passo da lui, conti nuava a guardare alla feritoia, e non si occupava del generale. Ma dei soldati e un caporale della 12a compagnia che era in linea, attratti dall’ecceziona le spettacolo, s’erano fermati in crocchio, nella trincea, a fianco del genera le, e guardavano, più diffidenti che ammirati. Essi certamente trovavano, in 1 alcova: camera da letto.

EMIl IO lUssU 235 quell’atteggiamento troppo intrepido del comandante di divisione, ragioni sufficienti per considerare, con una certa quale apprensione, la loro stessa sorte1. Il generale contemplò i suoi spettatori con soddisfazione. «Se non hai paura,» disse rivolto al caporale, «fa’ quello che ha fatto il tuo generale.»«Signor sì,» rispose il caporale. E, appoggiato il fucile alla trincea, montò sul mucchio di Istintivamente,sassi.io presi il caporale per il braccio e l’obbligai a ridiscendere. «Gli Austriaci, ora, sono avvertiti,» dissi io, «e non sbaglieranno certo il tiro.»Ilgenerale, con uno sguardo terribile, mi ricordò la distanza gerarchica2 che mi separava da lui. Io abbandonai il braccio del caporale e non dissi più una«Maparola.non è niente,» disse il caporale, e risalì sul mucchio. Si era appena affacciato che fu accolto da una salva3 di fucileria. Gli Au striaci, richiamati dalla precedente apparizione, attendevano coi fucili pun tati. Il caporale rimase incolume4. Impassibile, le braccia appoggiate sul pa rapetto, il petto scoperto, continuava a guardare di fronte. «Bravo!» gridò il generale. «Ora, puoi scendere.» Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, traversandolo da parte a parte. Il sangue gli usci va dalla bocca. Gli occhi socchiusi, il respiro affannoso, mormorava: «Non è niente, signor tenente.» Anche il generale si curvò. I soldati lo guardavano, con odio. «È un eroe,» commentò il generale. «Un vero eroe.» Quando egli si drizzò, i suoi occhi, nuovamente, si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell’istante, mi ricordai d’aver visto quegli stessi oc chi, freddi e roteanti, al manicomio della mia città, durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale. «È un eroe autentico,» continuò il generale. Egli cercò il borsellino e ne trasse una lira d’argento. «Tieni,» disse, «ti berrai un bicchiere di vino, alla prima occasione.» Il ferito, con la testa, fece un gesto di rifiuto e nascose le mani. Il generale rimase con la lira fra le dita, e, dopo un’esitazione, la lasciò cadere sul capo rale. Nessuno di noi la raccolse. 1 la loro stessa sorte: capirono che l’ordine del generale era spavaldo, inutile, non eroico, ma incosciente e temevano per il loro futuro, comandati da un tale folle. 2 distanza gerarchica: la distanza di grado tra generale e sottotenente, come era 3l’autore. salva: scarica. 4 incolume: sano e salvo.

6. Che richiesta fa il generale al caporale? Come reagisce Lussu? Perché?

2. Di cosa si stupisce il generale parlando con Lussu? Cosa pensa quindi di lui?

10. Rifletti sul titolo del racconto «Una lira per un eroe»: che cosa vuole sottolineare? Ritieni che sia una ricompensa adeguata per un eroe? Che cosa dimostra l’ultimo gesto del generale Leone? Esprimi il tuo giudizio personale e confrontalo con quello dei tuoi compagni.

7. Cosa succede al caporale? Quali sono le reazioni del caporale, del generale e degli altri soldati presenti? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo con colori diversi il comportamento del caporale, del generale e quello degli altri soldati.

sostituisce il comandante della divisione? Per quale motivo?

9. In questo racconto Lussu denuncia il dramma vissuto al fronte dai soldati di dover obbedire a ordini folli e insensati ricevuti da superiori esaltati: ripercorri i passaggi del suo racconto delle azioni del generale Leone ed esponi gli atteggiamenti che dimostrano la follia di tale comandante.

R AccONTI1.236Chi

4. Che gesto compie il generale giunto nel punto più elevato e vicino alle linee nemiche della trincea? Secondo te a che scopo? Che atteggiamento dimostra?

8. A quale conclusione giunge Lussu? Di cosa si è ricordato?

3. Il generale chiede a Lussu se ama la guerra: cosa fa capire di lui questa domanda? Cosa gli risponde Lussu?

5. Quali sentimenti genera tale gesto nei soldati presenti? Perché? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni dell’autore in merito.

Non si parlava più di nuovi assalti. La calma sembrava ridiscesa per lungo tempo sulla vallata. Dall’una parte e dall’altra, si rafforzavano le posizioni. I zappatori lavoravano tutta la notte. Il cannoncino da 37 continuava a darci fastidi, sempre invisibile. Rimaneva dei giorni interi senza sparare un col po, poi, improvvisamente, apriva il fuoco contro una feritoia e ci feriva una vedetta.Ilmio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il battaglione di rincalzo ci desse il cambio. Io volevo poter dare indicazioni precise al coman dante del reparto che mi avrebbe sostituito. Giorno e notte, avevo un servizio speciale di osservazione, nella speranza che il bagliore dello sparo o il movi mento dei serventi tradisse l’appostazione del pezzo. La notte precedente a quella del cambio, poiché il servizio di vigilanza non ci aveva dato alcun risultato, accompagnato da un caporale, io stesso m’ero voluto mettere in osservazione. Il caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo. La luna rischiarava il bosco e, all’apparire di qualche raro razzo, la luce improvvisa dava un’apparenza di movimento alla foresta. Era difficile capire se si trattasse sempre d’una illusione. Potevano anche es sere uomini che si spostassero, non alberi che, per la velocità del passaggio della luce dei razzi attraverso i rami, sembrassero muoversi. Noi due era vamo usciti all’estrema sinistra della compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano più vicine alle trincee nemiche. Camminando carponi, erava mo arrivati dietro un cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina dall’austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la trincea an tistante. Eravamo là, immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci, quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla nostra sinistra. In quel tratto di trincea non v’erano alberi: non era quindi possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d’infilata. Un simile posto non l’avevamo ancora scoperto, in nessun altro punto. Decisi perciò di rima nere là tutta la notte, per essere in grado di osservare l’animarsi della trincea nemica, ai primi chiarori dell’alba. Che il cannoncino sparasse o tacesse, mi era ormai indifferente. L’essenziale era mantenere quell’insperato posto di osservazione.Ilcespuglio e il rialzo ci mascheravano e ci proteggevano così bene che decisi di ricollegarli alla nostra linea e di farne un posto clandestino di osser vazione permanente. Rimandai indietro il caporale e feci venire un graduato dei zappatori al quale detti le indicazioni necessarie al lavoro. In poche ore, tra il cespuglio e la nostra trincea, fu scavato un camminamento di comuni cazione, il rumore del lavoro fu coperto dal rumore dei tiri lungo la nostra

237 EMILIO LUSSU Avevo di fronte un uomo

Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trin cea, fra due traversoni, v’era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno di tanto in tanto si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli al tri, perché v’era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all’arrivo di un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch’era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l’uniforme appariva nuovissima. Proba bilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancor più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott’anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La di stribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo cheIol’ufficiale.facevola guerra fin dall’inizio. Far la guerra, per anni, significa acqui

R AccONTI238 linea. Il camminamento non era alto, ma consentiva il passaggio al coperto, anche di giorno, ad un uomo che avesse camminato strisciando. La terra sca vata fu ritirata indietro nella trincea e dello scavo non rimasero tracce appa riscenti. Piccoli rami freschi e cespugli completarono il mascheramento. Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l’al ba ci compensò dell’attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmit te. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com’erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni late rali proteggevano dall’osservazione e dai tiri d’infilata della nostra linea. Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch’egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lunga mente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai no stri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutil mente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi miste riosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il ne mico, gli austriaci, gli austriaci!… Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muoveva no, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prende re il caffè? Perché mai mi appariva straordinario prendessero il caffè? E, ver so le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?

EMIl IO lUssU 239 stare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo sola mente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pen siero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaret ta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qual cuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbli gato a Certo,pensare.facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e po liticamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di solda ti. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di ve detta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell’ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero af fatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormi to quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa mia, nella mia città. Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guer ra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovra stava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella di stanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si fa ceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale!

Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscien ze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così!».

Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: «Neppure Rientrammo,io».carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendem mo anche noi. La sera, dopo l’imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.

Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esa me di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chia ramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il capo rale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:«Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi?»

Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’as salto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prende re un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: «Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido» è un’altra. È assolutamente un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assas sinare un uomo.

R AccONTI240

2. Quale postazione riesce a trovare inaspettatamente con il suo caporale? Quali caratteristiche vantaggiose ha?

1. L’autore racconta quanto gli accade la notte prima che il battaglione di rincalzo gli dia il cambio: per quale motivo esce in avanscoperta verso la trincea nemica? Cosa fa capire del suo atteggiamento nei confronti del suo ruolo?

8. A quale decisione, condivisa anche dal caporale, arriva Lussu? Di cosa si è reso conto?

7. Nell’autore si formano «due coscienze, due individualità, una ostile all’altra»: sottolinea nel testo con due colori diversi i passaggi relativi alle riflessioni delle due coscienze, poi spiega il conflitto interiore vissuto dall’autore.

10. Su fronti diversi Remarque e Lussu vivono un’esperienza simile: spiega in cosa consiste e cosa li conduce alla stessa conclusione. Poi confronta la tua risposta con quella dei compagni.

3. Dopo un’intera notte d’appostamento, all’alba Lussu e il caporale riescono a vedere i soldati austriaci nella trincea nemica e provano «una sensazione strana»: da cosa è originata? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo l’osservazione dell’autore in merito.

9. «Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo così, è assassinare un uomo». Prova a spiegare il significato di questa frase, esprimi il tuo giudizio personale e confrontalo con quello dei tuoi compagni.

EMIl IO lUssU 241

5. A un certo punto appare il giovanissimo ufficiale austriaco: come reagisce Lussu? Per quali motivi? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le espressioni utilizzate a riguardo dall’autore.

6. Cosa porta Lussu a riflettere sul gesto che sta per compiere?

4. «Ora prendevano il caffè. Curioso!» Di cosa si stupisce Lussu continuando a osservare i nemici? A quale conclusione giunge?

R AccONTI242 MARIO RIGONI STERN Ritorno tra le rovine

Nel romanzo L’anno della vittoria , pubblicato nel 1985, l’autore racconta il ritorno a casa del giovane Matteo e della sua famiglia sull’altipiano d’Asiago, abbandonato precipitosamente nella primavera del 1916 dopo lo sfondamento delle truppe au striache del fronte in Trentino e rivisto solamente nell’inverno fra il 1918 e il 1919, dopo la vittoria delle truppe italiane nella celebre battaglia di Vittorio Veneto. Proseguirono per la Barental1. Matteo e suo padre avevano già visto come la guerra era passata e cosa aveva provocato, ma per il nonno e la madre era questa la prima volta che vedevano il disastro e guardavano più stupiti e increduli che addolorati. Solo quando giunsero all’apertura della Luka2 e davanti a loro si presentò la conca dove tutto era stato più volte distrutto, il vecchio non seppe trattenere una bestemmia e una violenta imprecazio ne contro l’Austria e contro l’Italia e i loro governanti. Matteo e suo padre si voltarono a guardarlo, ma videro che anche Nina e la madre piangevano in silenzio, abbracciate strette. La strada che attraversava il paese era stata sgomberata dalle macerie e ora potevano transitare persino i camion; le pietre delle case erano state am mucchiate ai lati della via e sul torrente era stata gettata una passerella di tronchi. Negli orti senza più recinti crescevano le ortiche, i susini e i ciliegi erano senza gemme ma rinsecchiti e uccisi dalle schegge delle bombe e dalle pallottole. La chiesa di San Rocco dove un tempo si tenevano le celebrazio ni dei poeti paesani e le premiazioni degli scolari meritevoli, e dove prima dell’alba domenicale don Titta Müller detto Lepre celebrava la messa per bo scaioli e cacciatori, era solo un ammasso di pietre con sopra quelle del qua drante che era stato l’orologio del campanile romanico.

La famiglia di Matteo proseguiva in fila attraversando questo paese morto, il loro paese, e nessuno parlava e il passo del mulo grigio che smuoveva i sas si e i rottami era unico accompagnamento alla loro angoscia.

Con gli occhi e con la memoria cercavano di collocare in quello spazio rotto e distrutto case e famiglie di conoscenti, negozi, botteghe di artigiani, osterie. Qui doveva esserci la casa dell’avvocato Bonomo, quello che aveva sposato una cantante d’opera; qui la birreria del Macia; l’Albergo all’Aquila Imperiale dei Tessari; la Croce Bianca dove soggiornavano le persone impor

Lungo la via Maggiore erano in piedi alcuni resti di muri sbrecciati e fo racchiati, con le aperture di porte e di finestre che al di là facevano vedere il cielo. Sopra i resti delle case posavano come padroni corvi e cornacchie, co me corvi e cornacchie posavano sulla testa della statua della beata Giovanna.

1 Barental: località dell’altipiano di Asiago.

2 Luka: radura da cui si vede il paese dei protagonisti.

Poco fuori da quelle macerie, dove la strada tra due file di tavole di pie tra proseguiva un tempo verso le loro contrade al sole, era tutto uno scavo di camminamenti e di trincee. Ai lati c’erano mucchi di reticolati in rotolo, di tavole, di travi, di lamiere ondulate; cataste di bombe divise per calibro e nazionalità da conservare per un’altra guerra e, anche, un grande deposito di casse da morto. Bianche, di abete piallato.

4 trinciato: tabacco tagliato fine. 5 febbre spagnola: una febbre maligna che infierì alla fine della guerra.

3 fardelli: sacchi, fagotti, pacchi.

2 dicatum: dedicato, in latino.

1 mascalcia: bottega del maniscalco.

MARIO RIGONI s TERN 243 tanti; la casa dei Ronnar con la mascalcia1 e gli affreschi che la tradizione di ceva dipinti da un Bassano; la bottega del barbiere; la casa dei Prucar, la bot tega del Pacca, la casa dei Ristar e quella dei Nittar, la farmacia dei Bortoli; la casa del direttore Müller; la bottega degli Stern… i Pulledri, i Parent… Ma invece non c’era niente e in quel vuoto videro i resti del duomo a San Matteo dicatum2 e nemmeno più il bel campanile in pietre rosse e bianche ma una scaletta di legno che tra le macerie entrava in un bosco dove, forse, c’era stato un osservatorio per l’artiglieria.

Proseguirono senza parlare, passarono i tre cimiteri di soldati italiani se polti dove un tempo erano gli orti delle loro contrade. Li avevano messi lì per ché la terra era nera e soffice per secoli di lavoro e di letame. Il vecchio Tana che stava a proteggerli dai corvi e dalle volpi vide il piccolo gruppo con il mu lo e uscì incontro con il fucile in spalla e un grande sorriso sul volto che vo leva far apparire severo: «Finalmente arriva qualcuno,» disse. «Ero proprio stanco di restare solo. Mi avete portato un po’ di tabacco?» Scaricarono i loro fardelli3 e il carico del mulo sopra le macerie della loro casa come a riprenderne il possesso. La madre e il nonno non avevano pa role e si guardavano attorno sospirando. Finalmente Nina disse: «Ci hanno rotto tutto!» Si sedettero per mangiare qualcosa e bere un sorso di vino dalla fiasca che avevano avuto in regalo dagli Scalchi. Matteo levò dalla tasca due pacchetti di trinciato4 per il vecchio Tana che subito caricò e accese la pipa. «Giorni fa,» incominciò, «sono stati qui anche i Sech e i Ballot e la settima na scorsa anche i Zat e i Pûne. Entro il mese saremo qui nuovamente tutti. O quasi,» aggiunse sottovoce. Si era accorto che nel gruppo mancava una bam bina; ricordava che quando erano fuggiti la donna ne aveva due, ma sapeva anche della febbre spagnola5 che aveva fatto più morti che la guerra. Dopo che furono un poco riposati e rifocillati, si misero al lavoro per preparare un ricovero per la notte. Tana li aiutò a liberare uno spazio tra i tronconi di muro che erano rimasti in piedi a un paio di metri dal suolo. Levarono pietre, travi carbonizzate cadute dal tetto e dai soffitti, mattoni; trovarono pure le dure re ti del letto matrimoniale e anche se contorte e arrugginite le misero da parte per ripararle. Ma i materassi di lana, le coperte, le lenzuola e l’altra bianche

3 Prunnele: località dell’altipiano di Asiago.

4 lonicera: pianta comunemente chiamata caprifoglio.

Il vecchio Tana rimase con loro a cenare con polenta calda e formaggio e restò sino alle nove per parlare e sentire come avevano passato il profugato6, se avevano notizie degli altri compaesani; ma più di tutto voleva sentire del la guerra, dei conoscenti e parenti della contrada che erano stati insieme nel battaglione degli alpini e rimase male quando sentì che anche Nin Sech, do po la battaglia di novembre sul Monte Fior, era stato dato per disperso. Ange lo Sech, fratello di Nin, era ben vivo, come lo erano Toni Scoa, Toni Ciorgolo, Menego Pûn. Forte era morto sul Piave, a Vidor, negli ultimi giorni di guerra, come erano morti Gaiga e Sciràn, il Nesc.

La bambina si era addormentata in braccio alla madre; lei si alzò e andò a posarla sul saccone coprendola assieme alla bambola. Anche Matteo e il nonno andarono a dormire perché erano molto stanchi. Il vecchio Tana vole va ancora restare, come a filò7, ma capì che era tempo di andare; ricaricò la

2 cazza: mestolo di metallo.

ria da letto e da casa erano bruciacchiate e marcie; come inutilizzabili erano la cassapanca, l’armadio, le sedie, il tavolo. Ma sotto tutto questo discoper sero il focolare con il segno di un proiettile esploso sulla grossa pietra squa drata, lavorata a bocciarda1 da chissà quale antenato. I secchi di rame non c’erano più: chissà quale soldato li aveva presi, in quale parte d’Europa erano andati a finire! «Si vede che la cazza2 per l’acqua l’avevano portata al Prunne le3 prima che la casa venisse bombardata,» fu il commento del nonno. Dopo che un piccolo spazio tra i tronconi di muro venne liberato Tana consigliò di andare con il mulo nelle postazioni degli Austriaci per prendere travi, lamie re e una stufa, per intanto, poi un poco alla volta avrebbero rifatto la casa. Andarono Matteo, il padre e Tana e lì presero quanto faceva a loro bisogno, in più viaggi. Intanto la madre mentre aspettava aveva tagliato dei rami di loni cera4 che era cresciuta spontanea tra le macerie e con questi aveva fatto una scopa che già era all’opera sulle lastre di pietra della sua cucina, quella dove era arrivata sposa quasi vent’anni prima dalla contrada dei Camplan. Seduta in un angolo Nina aveva ripreso a giocare con la sua bambola.

1 lavorata a bocciarda: zigrinata con un martello per ottenere la ruvidità delle pietre da selciato od ornamentali.

6 profugato: periodo trascorso come profughi, lontano dal paese.

R AccONTI244

Quando venne la notte un tetto provvisorio era steso sopra i resti dei mu ri maestri e una stufa da trincea, di robusta lamiera, con i cerchi in ghisa e il suo tubo per il fumo, riscaldava il loro ritorno. Sul pavimento, sopra delle as si, erano stesi i sacconi di cartocci5: da una parte per Matteo, il nonno e Nina, dall’altra quello per il padre e la madre, protetto questo da un telo da tenda teso su un filo di ferro.

5 cartocci: giacigli formati da grossi sacchi riempiti di foglie secche di granturco.

7 a filò: a chiacchierare, come si faceva un tempo, nelle stalle d’inverno o sull’aia d’estate.

1. Quali sono le reazioni dei protagonisti all’arrivo nella loro terra? Da cosa sono motivate? Rispondi dopo averle sottolineate nel testo con colori diversi.

MARIO RIGONI s TERN 245 pipa, l’accese con una brace, diede la buona notte; si mise sulla spalla il suo fucile e uscì per ritornare al suo ricovero, ai Raitele1. Era ritornato il silenzio, un grande silenzio come d’inverno quando nevica e pareva che tra quelle macerie fosse ritornata la vita. I due uscirono a guar dare la loro terra. Sentirono gli uccelli del ripasso che si chiamavano in volo, una leggera pioggia primaverile che lavava via la guerra e un odore nuovo, di bosco in amore. Rientrarono nella loro casa tenendosi per mano.

5. Che cosa sta facendo il vecchio Tana? Di cosa è contento?

6. Cosa fanno i protagonisti una volta arrivati nella loro casa? Dove si recano Matteo, il padre e Tana per trovare ciò di cui hanno bisogno? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le azioni dei vari personaggi.

2. Come si mostra il paese ai loro occhi? Come è definito? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le affermazioni del narratore a riguardo.

7. Di cosa dialogano i protagonisti durante la cena? Al termine di essa cosa vorrebbe fare il vecchio Tana? Perché?

8. «Era ritornato il silenzio, un grande silenzio come d’inverno quando nevica e pareva che tra quelle macerie fosse ritornata la vita. I due uscirono a guardare la loro terra. Sentirono gli uccelli del ripasso che si chiamavano in volo, una leggera pioggia primaverile che lavava via la guerra e un odore nuovo, di bosco in amore. Rientrarono nella loro casa tenendosi per mano». Il racconto termina con queste affermazioni: secondo te quali sentimenti provano i genitori di Matteo finalmente a casa insieme?

1 Raitele: località dell’altipiano di Asiago.

3. Cosa cercano di fare i protagonisti «con gli occhi e con la memoria»?

4. Cosa si trova al posto degli orti? Perché?

R AccONTI9.246Appena

arrivati a casa, i protagonisti «scaricarono i loro fardelli e il carico del mulo sopra le macerie della loro casa come a riprenderne il possesso». Prova a spiegare che cosa intende l’autore con questa affermazione.

10. «La famiglia di Matteo proseguiva in fila attraversando questo paese morto, il loro paese, e nessuno parlava e il passo del mulo grigio che smuoveva i sassi e i rottami era unico accompagnamento alla loro angoscia. Con gli occhi e con la memoria cercavano di collocare in quello spazio rotto e distrutto case e famiglie di conoscenti, negozi, botteghe di artigiani, osterie. […] Ma invece non c’era niente e in quel vuoto videro i resti del duomo a San Matteo dicatum e nemmeno più il bel campanile in pietre rosse e bianche ma una scaletta di legno che tra le macerie entrava in un bosco dove, forse, c’era stato un osservatorio per l’artiglieria». Prova a riflettere su cosa renda «morto» il paese della famiglia di Matteo: che cosa genera più dolore? Potrebbe aiutarti a rispondere la lettura della poesia di Ungaretti San Martino del Carso che parla della medesima esperienza di ritorno a casa dopo la fine della guerra.

2 pastiglie: per tenerlo sveglio ed evitare così che si congeli.

247

1 Moscioni: Cristoforo Moscioni Negri, pesarese tenente degli alpini della stessa compagnia di Rigoni Stern (la 55a), che tornato dalla guerra scriverà I lunghi fucili.

MARIO RIGONI STERN Saper restare uomini

3 Cenci: Nelson Cenci, riminese sottotenente degli alpini della stessa compagnia di Rigoni Stern, che tornato dalla guerra scriverà Ritorno. 4 giberne: custodie per i caricatori o le cartucce del fucile.

Nel racconto autobiografico Il sergente nella neve , pubblicato nel 1953, Mario Ri goni Stern narra l’esperienza personale vissuta durante la Seconda guerra mon diale come sergente maggiore dei reparti mitraglieri nel battaglione alpino Vestone dell’Armir (armata italiana in Russia) costretto nell’inverno fra il 1942 e il 1943 a una tragica ritirata dopo la sconfitta dell’armata tedesca alleata a Stalingrado. Si cammina e viene ancora notte. È freddo: più freddo di sempre, forse qua ranta gradi. Il fiato si gela sulla barba e sui baffi, con la coperta tirata sulla testa si cammina in silenzio. Ci si ferma, non c’è niente. Non alberi, non case, neve e stelle e noi. Mi butto sulla neve; e sembra che non ci sia neanche la ne ve. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà così la morte, o forse dormo. Sono in una nuvola bianca. Ma chi mi chiama? Chi mi dà questi scossoni? Lascia temi stare. «Rigoni. Rigoni. Rigoni! In piedi. La colonna è partita. Svegliati, Rigoni». È il tenente Moscioni1 che mi chiama quasi con angoscia e aprendo gli occhi lo vedo curvo su di me. Mi dà un paio di scossoni e vedo bene il suo viso ora, e i due occhi scuri che mi fissano, la barba dura e lucente di brina, la coperta sopra la testa. «Rigoni, prendi,» dice. E mi dà due piccole pastiglie2 . «Inghiotti, fatti forza, avanti». Mi alzo, cammino con lui e a poco a poco rag giungiamo la compagnia e capisco tutto… Ma quanti che si sono buttati sulla neve non si alzeranno più? Cenci3 e Moscioni mi fanno salire su un caval lo. Ma è peggio che camminare; temo di congelarmi, ridiscendo e cammino. Cenci mi dà una sigaretta e fumiamo. «Di’ Rigoni, che desidereresti adesso?» Sorrido, sorridono anche loro. La sanno la risposta perché altre volte l’ho det ta camminando nella notte. «Entrare in una casa, in una casa come le nostre, spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne4, senza coperte sulla testa; fa re un bagno e poi mettermi una camicia di lino, bere una tazza di caffé-latte e poi buttarmi in un letto, ma un letto vero con materassi e lenzuola, e grande il letto e la stanza tiepida con un fuoco vivo e dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e sentire il suono delle campane e trovare una ta vola imbandita: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliege, fichi, e poi tornare a dormire e sentire una bella musica». Cenci ride, Antonelli ride e anche i miei compagni ridono. «Eppure la voglio fare, se ci ritorno,» dice Cenci, «e poi,» aggiunge, «un mese di mare alla spiaggia, sulla sabbia tutto nudo, solo con il

5 «Spaziba»: «Grazie», in russo.

7 arnie: cassette per le api.

1 Danda: Giobatta Danda, vicentino tenente degli alpini della 54a compagnia del 2Vestone. isba: abitazione dei contadini russi costruita interamente di alberi e tavole di legno.

6 «Pasausta»: «Prego», in russo.

Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stel la rossa sul berretto3! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stan no mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. «Mnié khocetsia jestj,»4 dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. «Spaziba,»5 dico quando ho finito. E la donna prende dal le mie mani il piatto vuoto. «Pasausta,»6 mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie7. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco. Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarci, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto

3 stella rossa sul berretto: il contrassegno dell’esercito sovietico.

R AccONTI248 sole che brucia». Intanto camminiamo e Cenci vede il mare verde e io un letto vero. Ma Moscioni è serio, è il più consapevole tra noi, ha i piedi nella neve e vede steppa, alpini, muli, neve. Laggiù si vede un lume. Non è il mare verde, non è il letto vero, è solo un villaggio. […] La nostra artiglieria non spara più da un pezzo. Avevano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non scende il grosso della colonna? Che co sa aspettano? Da soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati a metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati ora che abbiamo fatto ri piegare i Russi e li stiamo tenendo a bada. Invece c’è uno strano silenzio. Non sappiamo più niente nemmeno degli altri plotoni venuti all’attacco con noi. Compresi gli uomini del tenente Danda1, saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno mu nizioni! Ma sento che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo stec cato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e bus so alla porta di un’isba2. Entro.

4 «Mnié khocetsia jestj»: «Datemi da mangiare», in russo.

MARIO RIGONI s TERN 249 semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un ar mistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a suc cedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere. Tornato tra i miei compagni appendiamo il favo di miele al ramo di un al bero e un pezzo per uno ce lo mangiamo tutto. Io poi mi guardo attorno come risvegliandomi da un sogno. Il sole scompare all’orizzonte.

quali condizioni disumane si trovano a vivere i soldati italiani? Quali sono le loro diverse reazioni? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni dell’autore a riguardo.

4. Secondo te perché, a ripensarci, Rigoni ritiene che si sia trattato di un fatto naturale? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le sue riflessioni in merito. 5. Cosa desidera Rigoni per chi ha incontrato nell’isba russa? Perché?

2. Di cosa si rende conto Rigoni quando il suo plotone arriva in un villaggio? Cosa decide ugualmente di fare? Per quali motivi?

3. Cosa accade all’interno dell’isba russa?

6. Quale speranza nutre Rigoni per il futuro a fronte dell’esperienza da lui vissuta?

R AccONTI1.250In

8. «Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere». Secondo te è possibile quanto sostiene l’autore? Rispondi argomentando la tua posizione.

7. «In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». Prova a spiegare cos’è l’armonia di cui parla l’autore e in che senso i protagonisti del racconto hanno saputo restare uomini, poi confronta la tua risposta con quella dei tuoi compagni.

9. «Tornato tra i miei compagni appendiamo il favo di miele al ramo di un albero e un pezzo per uno ce lo mangiamo tutto. Io mi guardo attorno come risvegliandomi da un sogno. Il sole scompare all’orizzonte». Il racconto termina con queste affermazioni: prova a spiegarne il significato tenendo presente l’incipit

7 Bartolan e Fraita: sergenti capipezzo della batteria alpina “Ventisei”.

3 attendente: soldato addetto al personale servizio di un ufficiale.

La crosta Nel romanzo Centomila gavette di ghiaccio , pubblicato nel 1963, l’autore raccon ta l’esperienza del sottotenente medico Italo Serri durante la Seconda guerra mon diale, dapprima impiegato nel 1941 sul fronte greco-albanese nell’11° Reggimento fanteria e successivamente impiegato, dopo un periodo di servizio presso un ospeda le da campo, nel 1942 sul fronte russo nel 3° Reggimento artiglieria da montagna della Divisione alpina Julia nella batteria “Ventisei” con cui partecipa nel 1943 alla drammatica ritirata di tutta l’Armir. Sul mezzogiorno il tempo cambiò, sulla steppa si levò il dannato vento, gli uomini e le bestie rallentarono l’andatura. […] «Forza, Sorgàto1!» gridò Pilòn2 all’attendente3 che incespicava spesso. «Se el xe tornà a casa da la ritirata de Russia ànca Napoleòn, picoléto e col mal de pànsa, no te vol arrivàr ti, bestiòn?»4 Il vento soffiò più crudelmente, la steppa parve ribollire nel turbine, un sol dato s’abbatté, i successivi lo incontravano e lo scansavano lasciandolo mori re. Cominciò ancora una volta lo stillicidio dei corpi prostrati sulla neve. […] Un mulo della terza slitta stramazzò nella neve e non si mosse più. «E uno!» brontolò Scudrèra5. «Alt!» ordinò Reitani6 alla breve colonna della Ventisei; oggi dobbiamo ri manere uniti anche a costo di restare un po’ indietro.

4 Si tratta, come più avanti, di dialetto veneto.

6 Reitani: Ugo Reitani, capitano della batteria alpina “Ventisei”.

1 Sorgàto: soldato della batteria alpina “Ventisei”.

251 GIULIO BEDESCHI

2 Pilòn: ufficiale della batteria alpina “Ventisei”.

5 Scudrèra: conducente dei muli della batteria alpina “Ventisei”.

Dopo qualche minuto la Ventisei ripartì tentando di raggiungere il Gruppo che si era avvantaggiato di qualche centinaio di metri; camminando, il pic colo reparto raggiungeva e superava uomini isolati che avanzavano a passo lentissimo, barcollando, trascinando innanzi il corpo esausto con un ultimo sforzo di volontà. […] La Ventisei raggiunse un erculeo soldato che stava in ginocchio sulla ne ve. Dal suo atteggiamento si capiva che non aveva la forza di rialzarsi ma non s’arrendeva ancora a lasciarsi cadere definitivamente. Gli uomini dapprima

Mentre alcuni artiglieri liberavano la slitta dal mulo morto, il capitano rac comandò agli ufficiali e ai due capipezzo superstiti, Bartolan e Fraita7, di non lasciare nulla di intentato affinché né un uomo né una slitta s’attardassero restando isolati.

R AccONTI

Un mulo dell’ottava slitta cadde morto sulla neve, la Ventisei si fermò.

Un gruppo di sbandati si era gettato sul mulo per asportare pezzi di carne prima che la slitta fosse svincolata dalla carogna; gli altri due muli attaccati allo stesso traino, alla vista di quel sangue si infuriarono, fu necessario impe gnare una violenta colluttazione per allontanare gli sbandati, che alla parten za della slitta si ributtarono sulla preda come iene magre per fame.

«Ho fame, signor capitano» disse a un tratto Sorgàto che si trascinava con immensa fatica; «non vado più avanti… muoio di fame…»

«Chi è quello?» domandò Reitani a Bartolan quando il sergente raggiunse la Ventisei.«Nonl’avete riconosciuto? Era l’uomo più forte del reggimento; faceva il “presentat’arm”1 per tre minuti tenendo la bocca da fuoco del pezzo al posto del moschetto; per questo i soldati si sono spaventati a vedere che non ha più forze neppure lui» rispose Bartolan; «dice che verrà avanti fra poco». […]

[…] Il vento sibilava sulla colonna, questa procedeva verso ovest.

[…] Fu spaventoso quando uomini validi fino a quel momento sentirono le forze fisiche crollare mentre l’animo ancora anelava a procedere: tutti cam minavano contro il vento dosando con angosciosa cautela le estreme sfug genti energie, quando quelli iniziarono a piegare un ginocchio nella neve, poi l’altro, poi curvavano la schiena, affondavano le mani nella neve e tendevano la testa in avanti, gli occhi fuori dalle orbite, protesi in un immane sforzo di sperato, simili a cani rattenuti dalla catena; non parlavano, soltanto guardava no con occhi sbarrati i compagni procedenti, l’implacabile colonna che avan zava; altri alla vista orrenda si sentivano mancare, venivano anch’essi tirati giù nella neve, s’acquattavano a quattro zampe fra i piedi dei marciatori che li scansavano. Trovavano forze, allora, per spingere avanti un ginocchio, una mano, l’altro ginocchio, avanzavano così nella neve per lunghi tratti, fissando gli occhi sui piedi dei camminatori per vedere se quel procedere carponi con sentiva un progresso apprezzabile, se c’era speranza. Ma a qualcuno già man cava forza per stare chino nella positura bestiale, le braccia non reggevano e cadeva prono, rimanendo disteso e ansante sulla neve; richiamava allora un residuo di forze e con quelle strisciava ancora avanti, lasciava un solco dietro 1 “present’arm”: è il comando militare con cui si ordina di presentare le armi.

«Due» sogghignò Scudrèra. «Di questo passo non ci resteranno muli sufficienti a trainare le slitte» dis se Reitani nervosamente.

«Coraggio, Sorgàto!» esclamò Reitani; «sai che non abbiamo viveri, non posso far nulla. Ma tieni duro, pensa ai tuoi figli. Vieni!» Il capitano e Serri si posero ai fianchi dell’anziano artigliere che cammi nava appoggiandosi alle loro braccia.

252 lo guardarono incuriositi, poi lo fissarono sgomenti; il sergente Bartolan si distaccò dalle slitte seguito da Fraita ed entrambi lo aiutarono a sollevarsi; l’uomo si alzò, disse qualcosa senza fare un passo, fece cenno ai due d’andare avanti e rimase fermo, in piedi sulla neve, incapace a muoversi.

GIUl IO BEDEschI 253 a sé procedendo come un rettile, progrediva a sbalzi, a sussulti, a rantolanti ansiti, con movenze non più umane. Immobilizzato dall’abbandono delle for ze protendeva infine un braccio convulso, lo levava dalla neve, stendeva le dita verso la colonna come per aggrapparsi a essa, per farsi trascinare.

La colonna procedeva, la sua corrente lo sfiorava lasciandolo gemere sulla riva gelida; perché nessun uomo poteva reggere una soma di dolore che non fosse la «Sonopropria.uncristiano come voi… non abbandonatemi… per amor di Dio» rantolava quello. Poi taceva, poiché anche il viso gli era caduto nello spessore della neve. Oppure rimaneva a lungo reclinato nel bianco, col mento proteso e il braccio levato verso le ginocchia degli altri, a poco a poco il gelo lo induriva in quel gesto, lo fissava così, l’uomo diveniva una forma immobile e tragica. Il brac cio gliel’avrebbe abbassato a suo tempo il disgelo. Il nevischio sibilava sulla colonna; questa procedeva verso ovest. «Non stai più dritto, eh?» gridò Scudrèra volgendo lo sguardo al limite poste riore della sua slitta: aveva scorto Sorgàto che appoggiandosi con le mani al basso bordo di legno arrancava ricurvo e pareva cadere a ogni passo. «Non ne posso più…» rantolò Sorgàto.

Rallentò poi lievemente il passo, la slitta gli passò innanzi e il conducente si trovò all’altezza di Sorgàto.

«Fratelli…» ansimava con voce fioca: «Fratelli… Sono un uomo anch’io… non lasciatemi…» singhiozzava.

«Tienti a mente quel che ti dico: tu sarai per tutta la vita una bestia cor nuta, ònta de vaselina» gli disse irosamente Scudrèra offeso dalla domanda.

Il conducente non gli rispose, continuò a camminare a fianco dei suoi muli. «Zoffoli1!» disse a un tratto scorgendo l’infermiere che gli marciava vicino; «tienimi le redini per un poco, sta’ attento che non tocchino la neve, se no le se giàssa e po’ le se rompe». «Molli anche tu?» rispose all’imprevista richiesta Zoffoli, allarmato ma canzonatorio; si affrettò tuttavia a sfilare le redini dal collo del conducente e a prendere la guida dei muli.

«Te te divèrti a star tacà al tranvài?» chiese all’anziano, dopo aver percorso in silenzio un centinaio di metri al suo fianco. Aggiunse poi, cambiando tono: «Come la va, vécio?» Sorgàto girò lo sguardo verso il conducente, lo guardò con occhi inespres sivi e abbassò il capo sul bordo della slitta senza rispondere.

«Ohe’! Digo a ti!» gridò Scudrèra. I due per poco camminarono vicini in completo silenzio. Sorgàto ansava. «Tu stai crepando» constatò a un tratto Scudrèra guardando con curiosità l’amico. Non ottenendo risposta, si chiuse in uno sdegnoso silenzio per qual che minuto. 1 Zoffoli: infermiere in servizio alla batteria alpina “Ventisei”.

R AccONTI254

«Arri Gigia» gridò allora «che te te scaldi le rècie!!!» […] Dopo ancora una disperata ora di marcia la brancolante colonna rag giunse alfine il paese di Jvonka, si buttò al frenetico arrembaggio delle isbe1; 1 isbe: abitazioni rurali russe, costruite in legno e con tetti in legno e paglia.

Come Sorgàto riuscì a camminargli ritto a fianco, il conducente con un go mito tentò di allontanare un bordo del cappotto e disse: «Sai, ho deciso di farla finita col mio pezzo di formaggio, ma con ’sti strac ci sulle mani non riesco a mettere le dita nella tasca della giacca. Prendimelo fuori tu, è questo che ti chiedo».

«A me…?» gli chiese Sorgàto riuscendo a far filtrare nello sguardo una espressione di desolata ironia! «A te, sì, cosa c’è di strano?» proseguì Scudrèra bruscamente; «lo dico a te, perché siamo fra le slitte e nessuno ci bada. Alzati un poco, dammi retta».

«Ma, che cosa?» urlò Scudrèra indignato; «cosa credi, che sia scemo? Che lo faccia per te, per la tua faccia da ebete? O credi invece che mi sia dimenti cato de quei cinque rachìtichi che mi hai mostrato a casa tua? Bell’affare go fàto, quèla volta, a venirte a trovàre…!» E guardava con adorazione e rispetto il formaggio.«Matu…» mormorò Sorgàto. «Io…» disse Scudrèra rabbonito «mi a casa go soltanto do veci insemenìi che non so neppure se hanno ancora cervello che basta a ricordarsi di me. E poi» concluse orgogliosamente «vuoi confrontare le mie forze con le tue? Sbrigati a mangiare piuttosto, se non vuoi crepare; se non lo mangi subito, ti porto via il formaggio. Non sono una monaca io, non faccio complimenti: ti lascio crepare sulla neve io, non me ne importa niente!» «Sì» disse l’altro, dando il primo morso. Scudrèra, che guardava, deglutì faticosamente. «E pensare» brontolò tra i denti «che avevo fatto anche la fatica di raschia re via la crosta… Bel fesso!» Ma già aveva piantato Sorgàto e allungava il passo per raggiungere le sue bestie.«Adesso dammi pure le redini» disse bruscamente a Zoffoli; «e non pen sare di darti delle arie da conducente, sai, perché resterai sempre un lurido infermiere che non capisce niente di muli».

«Ma…» disse incredulo Sorgàto, con occhi in cui riluccicava la vita.

E si gettò sulle spalle le briglie fissandole con due giri attorno al collo; un ter zo giro lo diede attorno al braccio fra gomito e polso, alla sua balzana maniera.

«Senti» proruppe alfine: «ti devo chiedere un piacere…»

Sorgàto tolse il guanto, infilò la mano sotto il cappotto di Scudrèra, tras se la famosa crosta e dilatò gli occhi nel veder comparire un gran pezzo di formaggio; era annerito dalla lunga permanenza nella tasca del conducente, ma in compenso pesava forse tre etti, mirabolante visione, per quei morti di fame.«Bravo» disse Scudrèra «adesso màgnatelo ti, e tìrate su».

GIUl IO BEDEschI 255 con un’altra ora d’affannose ricerche nel buio la Ventisei riuscì a trovare qualche casa semivuota, gli uomini entrarono piombando a terra annientati. […] «Sei tu, Scudrèra?» mormorò nell’oscurità Sorgàto passando la mano su un braccio smagrito ma ancora potente e solido.

«Vedi che alla fine salta sempre fuori il cretino?» sbottò Scudrèra già con trastato e deluso «non c’è gusto a parlare con te; sta’ zitto e lasciami dormire».

«Non fare storie, piantala, noioso» disse Scudrèra ormai sveglio «e non credere di cavartela con quattro stupide parole: non dubitare, io rivoglio in dietro il mio formaggio, verrò a prendermelo a casa tua quando sarò in Italia, parola d’onore! E se farai finta di non ricordarti del debito, ti butterò la casa per aria, come è vero Dio!» «Faremo una cena, Scudrèra…» sussurrò con entusiasmo Sorgàto strin gendo il gomito del conducente; «una cena come non si è mai sentita dire nel mio paese, e neanche nel tuo…» «Si capisce!» aggiunse con voluttà il secondo affamato già preso nell’in canto «poi tu verrai da me e ti farò vedere io cosa vuol dire una cena a casa mia. Una pagnotta e un pollastro, una pagnotta e un coniglio e così via; e fia schi de vin da tute le parti, par tuta la cusina…» «Benon,» gongolò Sorgàto sorridendo nel buio «mi me vojo cavar la voja de pastasuta, da restar fora solo con la testa: e un bocon de qua e un bocon de là, vojo magnàr fin che me la sugo tutta…!» E dopo qualche secondo di silenzio aggiunse: «Tutto sta a poter uscire da questa sacca…»

«Sì, perché?» mugolò a fatica Scudrèra che stava addormentandosi. «Mi sono messo qui vicino a te perché…» disse Sorgàto imbarazzato. «Lasciami dormire, piaga» brontolò il conducente. «Volevo dirti che tu sei…» riuscì a dire Sorgàto «che tu oggi mi hai… Che io oggi ho potuto arrivare… Be’, insomma, che tu mi potrai chiedere sempre quello che vorrai e io… Lo sapranno anche i miei figli, ecco».

Entrambi rimasero in silenzio a inseguire i propri sonnolenti pensieri, sottolineati dal russare dei dormienti. Sorgàto poi mormorò: «Scudrèra, ti volevo dire…» «Che cosa vuoi ancora?» «I miei figli… ti sono davvero sembrati cinque rachitici, come hai detto oggi?»Scudrèra raccolse nell’aria fredda il tono dolente, rivide nel buio le cinque splendide creature radunate attorno al grembiale materno, e tacque. Portò alla bocca lo straccio gelido che gli avvolgeva una mano, poggiò le labbra sul la tela e soffiò lentamente per far penetrare il calore dell’alito; indugiava, cer cando parole che non tradissero la commozione del suo cuore. «Oh, sai, ixe rachìtichi de sicuro…» disse infine con studiata indifferenza «…se li metto a confronto con quelli che avrò io, quando saremo in Italia e mi sposerò la Pasquala. Per il resto, si può dire che i tuoi figli sono normali, su per giù».

1. Quali elementi fanno emergere in maniera cruda la condizione della Ventisei nella prima parte del racconto?

4. Cosa spinge Scudrèra a dare il suo formaggio al compagno?

L’anima di Sorgàto si distese; per tutta la sera, nonostante la delizia del formaggio, era rimasto come aggrovigliato in quella cattiva frase di Scudrèra. Ora si sentiva quasi felice, restava soltanto un po’ piccato per la burla. «Pasquala Scudrèra…» suggerì allora Sorgàto, allargando con un’intona zione ironica la rotonda sonorità del nome. «Sì» confermò con orgoglio il conducente, ben lontano dal poter raccoglie re, a quel richiamo, la provocazione; «Pasquala Scudrèra». E rivoltandosi sul pavimento si sentì all’improvviso la voglia e la forza di riattaccare i muli alla slitta e avventurarsi solo coi suoi feriti nel gelo, a gua dagnarsi un passo, un metro, una nottata su quella maledetta interminabile strada che fulgente di speranze puntava verso l’ovest.

5. Perché, dopo aver mangiato il formaggio, Sorgàto rimane ancora inquieto? Come risolve il suo dubbio?

8. Scegli una frase del racconto che ritieni significativa e motiva la tua risposta.

9. Nell’orrore della guerra è possibile rimanere uomini: argomenta questa affermazione facendo precisi riferimenti al testo.

[…] Alle prime luci gli uomini della Ventisei ripresero il loro posto nella colonna.

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2. Qual è la condizione particolare di Sorgàto?

6. «E rivoltandosi sul pavimento si sentì all’improvviso la voglia e la forza di riattaccare i muli alla slitta e avventurarsi solo coi suoi feriti nel gelo, a guadagnarsi un passo, un metro, una nottata su quella maledetta interminabile strada che fulgente di speranze puntava verso l’ovest». Cosa provoca in Scudrèra questa nuova determinazione?

7. Immagina di essere Sorgàto e di scrivere una lettera a moglie e figli. Racconta quanto ti è accaduto ed esprimi i tuoi pensieri e il tuo stato d’animo.

3. Quali azioni compie Scudrèra da quando vede Sorgàto a quando gli consegna il formaggio? Rispondi dopo averle sottolineate nel testo.

Nel romanzo storico Il cavallo rosso , pubblicato nel 1983, Eugenio Corti racconta le vicende accadute a vari personaggi fra il 1940 e il 1974, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Fra questi vi è Luca Sambruna, meccanico brianzolo arruolato nel corpo degli alpini della Tridentina, nella divisione Morbegno, con cui viene in viato al fronte russo e partecipa alla tragica ritirata dell’Armir del 1943. Terminata la battaglia le massacrate compagnie del battaglione Tirano con versero sulla pista che usciva da Arnautovo1 e cominciarono a incolonnarsi; erano quasi le nove del mattino, i feriti nostri venivano in gran fretta raccol ti e caricati sulle slitte, su qualcuna addirittura ammucchiati (c’erano slitte con dieci e più feriti), il cappellano del battaglione padre Crosara si dava un gran da fare intorno a loro, don Carlo Gnocchi invece non si vedeva: come Luca2 apprese in seguito, era sceso con due volontari nella balca3 a cercar di sistemare in qualche modo i feriti russi, se mai fosse tornato in seguito qualche loro camion a raccoglierli (due giorni prima aveva assistito in punto di morte anche il tedesco generale Eibl, comandante del distrutto XXIV corpo corazzato). Mentre s’incolonnavano, le compagnie facevano dolorosamente la conta: mancavano all’appello più di trecento alpini, oltre la metà degli alpi ni con la nappina rossa4 dunque, e mancava la maggior parte degli ufficiali, quegli splendidi ufficiali alpini che guidavano i loro uomini soprattutto con l’esempio; erano caduti tutt’e tre i comandanti di compagnia (Briolini: ‘Avan ti 49a , compagnia di Dio!’, Grandi, che ispirava tanta fiducia a Luca, e Piatti della 48a , la compagnia entrata nella fornace un po’ dopo le altre), il costo per aprire la strada era stato tremendo. Intanto l’enorme massa di sbandati in attesa ormai da qualche ora, coi suoi feriti e i congelati che ogni tanto ur lavano dalle slitte la loro disperazione, premeva sempre più alle spalle: finì che – non potendo attraversare il paese dove gli artiglieri da montagna sbar ravano il passo – alcuni imboccarono un tracciato minore, la massa li seguì: aggiravano Arnautovo e la zona della battaglia lasciandoli sulla sinistra.

La morte del capitano

1 Arnautovo: città russa. 2 Luca: Luca Sambruna, uno dei protagonisti del romanzo, personaggio ispirato a due persone reali del paese di Corti: un contadino, morto al fronte russo, e un giovane operaio, Umberto Terenghi. Nel Cavallo rosso, è un meccanico che lavora nella ditta della famiglia Riva, che viene arruolato nel corpo degli alpini della Tridentina, il cui cappellano è don Carlo Gnocchi. 3 balca: o balka, avvallamento del terreno. 4 nappina rossa: la nappina è il fiocchetto tondo di lana colorata su anima di legno che sta alla base della penna alpina. Quella di colore rosso contraddistingue i battaglioni Aosta, Trento, Pieve di Cadore, Tolmezzo e Vicenza.

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EUGENIO CORTI

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Finalmente anche il Tirano si mise in movimento, in buon ordine come sempre, solo che adesso la sua colonna era lunga la metà. In testa procedeva il maggiore Maccagno con i resti del reparto comando, al termine del quale camminava la squadra di Luca; ancora una volta il giovane portava la mitra gliatrice a spalla, gli spallacci però gli tagliavano già le ascelle come coltelli, sebbene la marcia fosse solo all’inizio. Dietro il reparto comando veniva la compagnia ch’era stata del valoroso capitano Grandi, e dietro le altre due. A differenza degli altri due comandanti di compagnia Grandi – col ventre squarciato da una raffica – non era morto, era moribondo; perciò al momen to dell’incolonnamento gli alpini l’avevano, senza parlare, sistemato su una slitta in testa alla compagnia, perché egli, finché era in vita, stesse davanti a loro come era sempre stato. Luca e i suoi – in coda al reparto comando, come s’è detto – venivano appena prima di quella slitta, ogni tanto l’uno o l’altro si voltava a lanciarle un’occhiata: il capitano aveva il cappello con la penna co perto di brina ed era esangue1, doveva essere fuori coscienza. Dietro la sua slitta gli alpini, alquanto più fitti che nel resto della colonna, marciavano in silenzio, qualcuno piangeva. Il freddo era sempre tremendo, ma c’era un po’ di sole che consentiva al lo sguardo di spaziare lontano, fino al desolato orizzonte; un po’ alla volta il passo si fece sostenuto. Il battaglione, seguito dal gruppo Val Camonica con gli otto pezzi da 105 al traino, e dall’unico pezzo superstite della 33a batte ria, raggiunse il punto in cui, dopo avere aggirato Arnautovo, gli sbandati confluivano sulla pista principale: davanti a questa formazione armata, che avrebbe costituito una sicurezza per tutti, gli sbandati (in questo punto te deschi, in qualche modo più ordinati degli altri) ristettero il tempo necessa rio per farla entrare in colonna; poi la marcia proseguì nel silenzio di tutti, si udiva solo il calpestio affrettato delle scarpe sulla neve e lo stridio delle slitte. Col trascorrere del tempo l’ambiente tornò a farsi a grandi linee: per quanto si marciasse di buon passo, sembrava a momenti d’essere fermi nell’immensità.Aunsobbalzo improvviso della slitta il capitano dal ventre squarciato aprì gli occhi. Prese lentamente coscienza della propria situazione e si guardò in torno: incontrò lo sguardo di un alpino che gli camminava a lato: «La batta glia è finita?» chiese. «Sì, è finita». «Ce l’abbiamo fatta, eh?» «Sì, abbiamo aperta la strada». Accorse l’unico ufficiale rimasto alla compagnia, si chinò sul ferito: «Ce l’abbiamo fatta signor capitano. Abbiamo riaperta la strada». «Mm. Meno male». «Come vi sentite signor capitano?» «Io? Ne ho per poco». L’ufficiale non ribatté. «Loro erano tre battaglioni» disse invece: «Adesso 1 esangue: che ha perso molto sangue, dunque pallido, sfinito, privo di forze.

lo sappiamo con certezza. Il Tirano è ridotto alla metà, però» ripeté «ha aper to la strada alla colonna». «Se arrivi fuori, dillo a mia madre». «Signorsì, m’impegno a dirglielo». «Dille che ho fatto il mio dovere, e perciò muoio in pace con gli uomini e conDall’unaDio». e dall’altra parte della slitta i suoi alpini, fattisi avanti, guardava no con facce angustiate il capitano; anche il conducente che camminava con le redini dei due muli girate intorno alle spalle alla brava, si voltava ogni poco a guardarlo, aveva le lacrime agli occhi. «Cosa sono quei musi lunghi?» esclamò a un tratto il capitano Grandi: «Sotto piuttosto, cantate con me». E con la voce che si ritrovava, che sarebbe stata ridicola in un momento meno tragico, attaccò la tremenda canzone al pina del capitano che sta per morire e fa testamento: Il capitano l’è ferito l’è ferito e sta per morir Subito i circostanti gli si unirono nel canto, più d’uno fece segno a quel li che seguivano, corse la voce, tutta la compagnia serrò sotto e si mise con grandissimo dolore a cantare. Nella canzone il morente prescrive che il suo corpo sia tagliato in cinque pezzi: Il primo pezzo alla montagna che lo ricopra di rose e fior Che struggimento, che pena il ricordo delle native montagne in quell’e norme pianura senza confini… secondo pezzo al re d’ltalia che si ricordi del suo soldà Il terzo pezzo al reggimento. Nella sterminata colonna di formiche che procedevano frenetiche, eppure parevano ferme nella gelida immensità, c’era quel breve tratto che cantava. E la madre compariva nel canto, e la donna amata: il quarto pezzo alla mia mamma che si ricordi del suo figliol, il quinto pezzo alla mia bella che si ricordi del suo primo amor Addio dunque anche a te primo amore, addio per sempre, ciò che abbia mo sognato non sarà mai… Addio montagne, patria, reggimento, addio mam ma e primo amore, cantavano gli alpini. Cantavano e piangevano gli alpini

EUGENIO cORTI 259

5. Di fronte alla tristezza dei compagni, il capitano Grandi invita tutti a cantare. Perché lo fa?

8. «Cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e c’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impotenza». Spiega il contenuto di questa considerazione facendo riferimento all’intero racconto e ad altri testi letti sull’esperienza della guerra.

R AccONTI260 valorosi, e c’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impotenza; cantarono anche quando il capitano ormai non cantava più e li accompagnava solo con gli occhi; cessarono di cantare solo quando si resero conto che il capitano Grandi era morto.

7. Dopo un’adeguata ricerca e il dialogo con gli insegnanti di storia e musica, scrivi un testo espositivo cercando di mettere in luce storia e peculiarità del corpo degli alpini. In particolare soffermati sul valore del canto per loro.

3. Cosa chiede il capitano appena apre gli occhi? Cosa dice di lui quella domanda?

4. Cosa il capitano vuole che si dica alla madre?

6. Qual è il contenuto della canzone?

1. Qual è la situazione del battaglione Tirano dopo la battaglia? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni del narratore in merito.

2. Chi è il capitano Grandi? In che stato si trova?

La strada La raccolta Il bene sia con voi! , pubblicata nel 1988, presenta otto racconti scritti da Vasilij Grossman tra il 1943 e il 1963. Fra questi il racconto La strada narra le paradossali vicissitudini di un mulo italiano sulle strade degli uomini in guerra, in particolare della Russia. La guerra non risparmiò nessuno nella penisola percorsa dalla dorsale ap penninica.Anchesenza sapere che il Führer aveva convinto il duce a dichiarare guer ra all’Unione Sovietica, il giovane mulo Giu, in servizio al carreggio1 di un reggimento d’artiglieria, il 22 giugno 1941 si accorse subito dei cambiamenti intervenuti2.Lagentesi stupirebbe molto se sapesse quante cose notò il mulo il gior no in cui la guerra cominciò a est: la radio sempre accesa, la musica, le porte spalancate della scuderia, le folle di donne e bambini fuori della caserma e le bandiere sopra la caserma, l’odore di vino in bocca a gente che di vino non aveva mai puzzato, le mani di Niccolò che tremavano quando lo portò fuori dalla stalla e gli infilò l’imbraca3. Giu non piaceva al mulattiere che lo attaccava sempre al tiro di sinistra, così da poterlo frustare comodamente con la destra. E non lo frustava sul di dietro, dove la pelle era più spessa, ma sul ventre. Aveva la mano pesante, Niccolò, scura e con le unghie ricurve, la mano di un contadino.

Dell’altro mulo del carreggio a Giu importava poco. Era un animale grosso e forte, laborioso e cupo; l’imbraca e le tirelle gli avevano consumato il pelo sul petto e sui fianchi, ormai le zone spelacchiate, nude e grigiastre, avevano un riflesso untuoso di grafite.

Gli occhi dell’altro mulo erano appannati da un velo azzurrognolo, e il mu so dai denti gialli e consumati aveva sempre un’espressione indifferente e assonnata, sia che salissero su per un monte lungo l’asfalto reso molle dalla calura, sia che riposassero sotto gli alberi, all’ombra. Come in quel momento, per esempio, sul valico nella vallata in mezzo alle colline: davanti orti e vigne ti intessuti del nastro grigio dell’asfalto già percorso, in lontananza il mare luccicante, e nell’aria profumo di fiori, di iodio, di fresca brezza montana, ma anche di polvere calda e asciutta della strada… Ha gli occhi spenti, l’altro mu lo, le sue narici non fremono, e dal labbro inferiore gli colano lunghi filamenti di bava trasparente; giusto l’orecchio ha un sussulto ogni tanto – sente i passi

3 imbraca: cinghia di cuoio fatta passare dietro le cosce dell’animale e unita alla groppiera e alle tirelle.

261 VASILIJ GROSSMAN

2 Il riferimento è all’invasione della Russia da parte di Hitler e del suo alleato Mussolini.

1 carreggio: trasporto di cose su carri.

La fatica senza senso a cui era costretto gli metteva voglia di scalciare con tro il carro e di strappare le tirelle a morsi, e la strada non era più qualcosa in cui sperare, e a lui non andava più di percorrerla. Nella sua grossa testa vuo ta si ripresentavano continuamente le stesse immagini, il profumo e il sapo re del cibo, visioni nebulose che lo tormentavano: l’odore delle giumente, la dolcezza succosa del fogliame, il calore del sole dopo il freddo della notte, la frescura dopo il caldo torrido della Sicilia…

La mattina infilava la testa nell’imbraca che gli porgeva il mulattiere e co me ogni giorno il suo petto percepiva il freddo di quel cuoio morto e lustro. Ormai si comportava come il suo vecchio compagno, non tirava indietro la testa e non mostrava i denti – l’imbraca, il carro, la strada erano parte della suaEvita.tutto era diventato consueto, dunque normale, tenuto insieme e trasfor mato in quanto di più naturale ci sia nella vita: la fatica, l’asfalto, l’abbevera

E allora si riconciliò con la strada; prima o poi, pensava, gli avrebbero tol to di dosso carro e carrettiere. La strada saliva, si infilava fra gli aranci, e in tanto il carro sbatacchiava dietro di lui, monotono, inesorabile, e l’imbraca di cuoio gli schiacciava le ossa del torace.

Le prime volte che lo avevano legato al carreggio aveva provato un segre to rancore per quella lunga striscia assurda di asfalto che non si poteva né masticare, né bere, mentre ai lati c’era abbondanza di foglie ed erba, e pure d’acqua – laghi e pozze.

R AccONTI262 del mulattiere Niccolò. E anche quando i cannoni tuonano, durante le eser citazioni, il vecchio mulo sembra sempre dormire della grossa, le sue lunghe orecchie restano immobili.

E dunque, malgrado tirassero ogni giorno lo stesso carreggio stipato di casse di munizioni, si abbeverassero allo stesso secchio e, la notte, Giu sen tisse il respiro profondo del vecchio mulo nella stalla accanto alla sua, aveva no smesso di curarsi l’uno dell’altro.

Una volta Giu aveva provato a spintonarlo, per gioco, ma l’altro gli aveva sferrato un calcio – pacifico, senza cattiveria – e si era girato dall’altra parte; altre volte Giu smetteva di tirare e con la coda dell’occhio osservava il compa gno che non mostrava i denti né abbassava le orecchie, ma prendeva a tirare con tutta la forza che aveva in corpo, ansimando, con la testa che intanto an dava su e giù, su e giù.

Il mulattiere, i suoi obiettivi, il potere, la frusta, gli stivali e la voce roca non suscitavano in lui alcun senso di succube venerazione.

L’asfalto sembrava il suo peggior nemico, ma bastò poco perché Giu pren desse in odio ancora maggiore il carro pesante, le redini e la voce del mulattiere.

Per Giu c’erano solo l’altro mulo sulla destra, il tintinnio del carro e le gri da sporadiche del mulattiere dietro, e davanti agli occhi la strada. Certe vol te pareva che il mulattiere fosse tutt’uno con il carro, altre che il carro fosse tutt’uno con il mulattiere. La frusta? Le mosche gli rosicchiavano a sangue la punta delle orecchie, ma le mosche facevano il loro mestiere. E altrettanto fa ceva la frusta. E così pure il mulattiere.

Su quella pianura aleggiava una polvere soffice, grigia, una polvere che non era né italiana né africana, e lungo la strada, verso il punto in cui sorgeva il sole, muoveva una fila ininterrotta di camion, cingolati, cannoni con pro boscidi lunghe e corte, e colonne di mulattieri appiedati. Era una vita duris sima, fatta solo di spostamenti con il carro sempre carico, e il suo compagno ansimava tanto forte che Giu ne sentiva il respiro nonostante il frastuono del la strada grigia e polverosa.

Su quella terra pianeggiante il cibo era davvero saporito. Per la prima volta Giu assaggiava un’erba tanto tenera e succosa. Per la prima volta, nella sua vi ta, mangiava un fieno così soffice e odoroso. E in quel paese di pianure anche l’acqua era buona e dolce, e l’amaro dei rametti più teneri si sentiva appena.

Poi, vinti dall’immensità di quegli spazi, i muli cominciarono a morire. I loro corpi venivano trascinati al lati della strada e lì restavano, ventre gonfio e zampe divaricate che non avrebbero più marciato; gli uomini passavano oltre, indifferenti, e anche gli altri muli non sembravano fare caso ai propri morti – scuotevano la testa e continuavano a tirare, ma era solo un’impres sione – li vedevano eccome, i loro morti.

Il vento caldo della pianura non bruciava come i venti dell’Africa e della Sicilia, e il sole riscaldava la pelle – dolce, soave, diverso dal sole implacabile dell’Africa. 1 Abissinia: attuale Etiopia, era possedimento coloniale italiano.

vA sIl I j GROssMAN 263 ta, l’odore del grasso delle ruote, il boato dei cannoni puzzolenti dalle lunghe proboscidi, le dita del mulattiere che sapevano di cuoio e tabacco, il secchio con il granturco la sera, la bracciata di fieno ispido… Ogni tanto, però, quella monotonia veniva interrotta. Giu si spaventò a morte quando, imbragato per bene, fu sollevato da una gru e depositato su un battello. E gli venne la nausea: quella terra di assi di legno scivolava sotto gli zoccoli, e Giu non volle saperne di mangiare. Poi arrivò il caldo, ancora più torrido di quello italiano, e gli calcarono in testa un cappello di paglia; quindi fu la volta dei ripidi pendii dell’Abissinia1 con le sue rosse strade sassose, e le palme con quelle foglie troppo alte per la sua bocca. Un giorno fu molto incu riosito da una scimmia su un albero e molto spaventato da un grosso serpente sulla strada. Laggiù le case si mangiavano, e ogni tanto Giu ne assaggiava le pareti di canne e i tetti d’erba. I cannoni sparavano spesso e altrettanto spesso divampava il fuoco. Quando il carro si fermava sul limitare scuro di un bosco, di notte Giu sentiva suoni sinistri, fruscii, certi rumori che lo terrorizzavano, e tremava, sbuffava. Poi la nausea tornò e tornò anche quella terra di tavole che sfuggiva da sotto i piedi, e intorno c’era solo una distesa azzurra, poi, senza sapere come – si era mosso appena! –, all’improvviso era spuntata la scuderia dove la notte, nella stalla accanto, ansimava il suo vecchio compagno.

Poi, poco dopo il giorno con la musica e le mani tremanti del mulattiere, la scuderia sparì di nuovo e tornò la terra di tavole di legno, e furono colpi sordi e scosse e stridori, e alla fine il buio della stalla stretta e cigolante venne rim piazzato dallo spazio aperto di una pianura senza fine.

Giu non si accorse che era cominciata la stagione delle piogge: arrivò a poco a poco. Erano fredde, quelle piogge, e da fatica monotona che era, la sua vita diventò sofferenza tagliente, estenuante.

E anche la polvere grigia e sottile che restava sospesa giorno e notte nell’a ria sembrava setosa, morbida, in confronto alla polvere rossa e pungente del deserto.Eppure l’immensità di quella pianura era inesorabile, crudele, infinita –per quanto i muli avanzassero trotterellando e scrollando le orecchie, la pia nura era più forte di loro. Marciavano a passo lesto con il sole e con la luna, ma lei non finiva mai. Correvano, battevano gli zoccoli sull’asfalto, sollevava no polvere sullo sterrato, ma lei non voleva saperne di finire. Non aveva fine né con il sole, né con la luna e le stelle. E da quella pianura non nascevano i monti e neppure il mare.

La pianura continuava ad allargarsi – così immensa che non la si perce piva più con gli occhi, ma con tutti e quattro gli zoccoli… Quegli stessi zoccoli che affondavano sempre più nella terra ammollata, mentre le zolle melmose si attaccavano ostinatamente alle zampe e la pianura appesantita dalle piogge si allargava, si espandeva sempre più immensa, sempre più vasta e possente. Nel cervello grande, capace del mulo, che partoriva immagini nebulose di odori, forme e colori, stava ora spuntando un’immagine completamente di versa, frutto del pensiero di filosofi e matematici – l’immagine dell’infinito: la brumosa pianura russa e la fredda pioggia d’autunno che su quella pianura scendeva senza sosta. Poi al posto di quell’immagine buia, torbida e greve ne apparve una nuova – bianca, asciutta, farinosa, che bruciava le narici e scot tava le L’invernolabbra.aveva divorato l’autunno, ma non aveva tolto a Giu il suo fardel lo. Che, anzi, divenne pesantissimo. Un predatore crudele e affamato aveva divorato un altro predatore meno forte di lui…

Lungo la strada, accanto ai corpi dei muli, ora c’erano i cadaveri degli uo mini – il gelo si era preso la loro vita.

Ogni aspetto della sua esistenza si fece più complicato: la terra divenne più appiccicosa – e parlava, e sciaguattava –, la strada molto melmosa e perciò più lunga, e ogni passo era come tanti passi, e anche il carro era pigro e testardo da non poterne più – pareva quasi che Giu e l’altro mulo non ne stessero ti rando uno solo, ma diversi. Il mulattiere non la smetteva di gridare, li frustava spesso, duramente, e pareva quasi che sul carro non ce ne fosse uno solo, di mulattiere, ma diversi. E anche le fruste si erano moltiplicate, ed erano tutte cattive, linguacciute, fredde e roventi insieme, e pungevano, mordevano.

Trainare il carro sull’asfalto era cosa più dolce dell’erba e del fieno, ma gli zoccoli non lo sfioravano per giorni interi, l’asfalto.

E i muli conobbero il freddo e i brividi della pelle zuppa per la pioggerelli na fitta d’autunno. E cominciarono a tossire, si presero la polmonite. Sempre più spesso qualcuno trascinava ai lati della strada quelli per i quali la strada era finita, quelli che non sarebbero più andati avanti.

R AccONTI264

La fatica continua e abnorme, il freddo, l’imbraca che gli consumava la

La frusta era sulla neve, e anche il mulattiere Niccolò era sulla neve. Giu non sentiva più lo scricchiolio dei suoi stivali, e neanche l’odore di tabacco, vino e cuoio non conciato. Se ne stava lì, nella sua indifferenza rassegnata, ad aspettare senza fret 1 garrese: nei quadrupedi, è il punto più alto del dorso.

vA sIl I j GROssMAN 265

Il fiume della ritirata non lo inghiottì; Giu rimase fermo, con la testa bassa e la coda penzoloni, mentre accanto a lui gli altri scappavano, cadevano, si rialzavano e ricominciavano a scappare, a strisciare, uomini, cingolati e ca mion dal muso rincagnato. A un certo punto l’altro mulo diede un raglio strano, con una voce che pa reva umana, cadde a terra, agitò le zampe e poi si zittì, mentre attorno la neve si tingeva di rosso.

Si stava impossessando di lui un’indifferenza senza limiti. Il mondo gli franava addosso, enorme, impassibile. E si era esaurita anche la cattiveria del mulattiere – ormai era tutto rattrappito, non imperversava più con la frusta, né lo prendeva a pedate su quell’osso tanto sensibile della zampa anteriore…

Lenti, inesorabili, l’inverno e la guerra stavano schiacciando Giu, e all’in differenza sconfinata che lo stava sommergendo e si preparava ad annien tarlo, Giu oppose la propria indifferenza, altrettanto infinita. Era l’ombra di sé stesso, e quell’ombra viva e cinerea non sentiva più né il calore del suo stesso corpo, né il piacere del cibo e del riposo. Che dovesse avanzare sulla strada gelata, con un incedere meccanico delle zampe, o re stare fermo a testa bassa, non faceva differenza per lui. Masticava il fieno, in differente, senza gioia, e con altrettanta indifferenza sopportava la fame, la sete, il vento dell’inverno che lo sferzava. Il bianco della neve gli feriva i bulbi oculari, ma le tenebre e il buio lo lasciavano comunque indifferente, Giu non li desiderava e non li aspettava.

Quando i russi attaccarono, il freddo non era più così intenso. Giu non perse la testa sotto il fuoco devastante dell’artiglieria. Non strap pò le tirelle, non scalciò quando fra le nubi divamparono i bagliori dell’arti glieria, e la terra cominciò a tremare e l’aria squarciata dal rombo e dal frago re dell’acciaio si riempì di fuoco, fumo e zolle di terriccio e neve.

Essere o non essere, per Giu non aveva più importanza: il mulo aveva ri solto il dubbio amletico. E poiché era ormai indifferente e rassegnato all’esistere come al non-esi stere, Giu smarrì la cognizione del tempo, notte e giorno si confondevano nel la sua mente che non distingueva più un sole gelato da una notte senza luna.

pelle sul petto fino alla carne viva, le piaghe insanguinate sul garrese1, il do lore alle zampe, gli zoccoli spezzati, sbriciolati, le orecchie congelate, gli oc chi doloranti, le fitte allo stomaco per il cibo schifoso e l’acqua gelata a poco a poco spegnevano le forze di Giu, nei muscoli come nello spirito.

Avanzava accanto al suo vecchio compagno, ormai del tutto simile a lui, e l’indifferenza reciproca era senza fine, quanto l’indifferenza verso sé stesso. Quell’indifferenza verso sé stesso che era la sua ultima rivolta.

R AccONTI266

E quando i carri armati violarono il silenzio, Giu li sentì perché il loro suo no metallico riempì l’aria conficcandosi nelle orecchie morte di uomini e ani mali e in quelle vive del mulo stremato.

Poi dalla pianura bianca si staccarono alcune figure bianche, uomini che si muovevano silenziosi, rapidi, uomini che non sembravano uomini ma pre datori, rapaci. Quindi scomparvero, dissolti, ingoiati dall’immobile distesa di nevePoiintonsa.Giusentì il rumore di una fiumana di esseri umani, macchine e pezzi d’artiglieria che scendeva da nord, carreggi che cigolavano…

L’uomo tirò un’altra volta le redini, ma il mulo restò dov’era.

L’uomo si mise a gridare, gesticolò, ma il suo modo di incitarlo era diver so da quello dell’italiano. Non perché fosse più imperioso, no: erano diversi i suoni di cui quelle minacce erano fatte.

Poi l’uomo gli diede una pedata sull’osso della zampa anteriore e la zampa

Scese il silenzio. Il mulo era sempre lì, con la testa bas sa e la coda penzoloni. Non si guardava intorno, non tendeva l’orecchio. Nella sua testa vuota e indifferente continuavano a rombare i cannoneggiamenti ormai sopiti dell’artiglieria. Ogni tanto, ma solo ogni tanto, spostava prima una zampa, poi l’altra, per poi fermarsi di nuovo, immobile. Attorno a lui corpi di uomini e animali, camion a pezzi o rovesciati e qua e là un filo di fumo che si alzava pigro.

E quando l’immobilità della pianura fu violata e i carri armati si mossero in colonna cigolando sulla distesa di neve vergine, da nord a sud, Giu li vide – riflessi nei parabrezza e negli specchietti dei veicoli abbandonati, riflessi negli occhi del mulo accanto al carro rovesciato. Ma non si fece da parte nem meno quando i cingoli gli passarono proprio accanto, alitandogli addosso il loro caldo aspro e l’odore di grasso bruciato.

ta che la sorte si compisse: nuovo o vecchio, il suo destino gli era comunque indifferente.Vennel’imbrunire.

Fu allora che gli si avvicinò un uomo con una frusta in mano. Osservò Giu e Giu sentì odore di tabacco e di pelle non conciata.

E in lontananza – senza inizio e senza fine – la pianura caliginosa, scura, innevata.Lapianura aveva inghiottito tutta la sua vita passata – il caldo torrido, le impervie strade rossastre, l’odore delle giumente, il gorgoglio dei ruscelli. Era difficile distinguere Giu dalla fissità immobile che lo circondava e con cui si fondeva, il mulo era tutt’uno con la pianura brumosa.

La fiumana avanzava lungo la strada, ma il mulo non la degnava di uno sguardo, immobile, mentre quel movimento gli scorreva accanto fino a farsi talmente impetuoso da straripare oltre il ciglio della strada.

E proprio come Niccolò, anche quell’uomo lo colpì sui denti, sul muso, sui fianchi.Diede uno strattone alle redini e attaccò a parlare con voce roca, e al mu lo venne istintivamente da guardare verso il mulattiere Niccolò riverso sulla neve. Ma Niccolò non parlava.

Lei agitò la coda sfiorandolo, e quella coda scivolosa di seta non somiglia 1 cavezza: fune che serve a legare per il capo una bestia.

vA sIl I j GROssMAN 267

E come al solito – così aveva già fatto centinaia di volte – infilò la testa nell’imbraca che non era di cuoio ma che come quella di cuoio lambì il suo petto stanco; mandava uno strano odore, odore di cavallo. Ma al mulo non importava granché. Aveva per compagno una cavalla, ma il calore che proveniva dal suo fian co sudato lo lasciava indifferente. La cavalla appiattì le orecchie contro la testa e l’espressione sul suo muso si fece cattiva, rapace, non da erbivoro. Strabuzzò gli occhi, sollevò il labbro superiore e scoprì i denti pronta a mordere, ma Giu, nella sua indifferenza, le offrì lo zigomo e il collo, indifesi. E anche quando la cavalla cominciò a indie treggiare, tirando la cavezza1 per girarsi e rifilare al mulo un colpo di zoccolo, Giu non se ne curò rimanendo dov’era, a testa bassa, com’era rimasto accan to al suo carro distrutto, all’altro mulo morto, a Niccolò morto e alla frusta sulla neve. A quel punto, però, il mulattiere lanciò un grido e frustò la cavalla, poi con la stessa frusta – sorella di quella rimasta sulla neve – colpì anche il mulo: quell’animale abbacchiato doveva dargli sui nervi, e anche la sua mano era come quella di Niccolò, la mano pesante di un contadino.

E allora Giu lanciò uno sguardo di sbieco alla cavalla e la cavalla guardò Giu.

Era una cavalla scura, piccola, e Giu, mulo robusto, risultò più alto di lei. La cavalla lo guardò, abbassò le orecchie, le drizzò di nuovo, poi scrollò la te sta, si girò e sollevò una delle zampe posteriori, pronta a scalciare. Era magra, e quando respirava le costole affioravano come un’onda sotto la pelle; sopra la pelle, invece, aveva un tappeto di ferite insanguinate – pro prio come Giu. Giu se ne stava a testa bassa, essere o non essere continuava a non fare differenza per lui, placido e indifferente verso il mondo che con indifferenza lo stava annientando.

gli fece male, era lo stesso osso delle pedate di Niccolò, ed era particolarmen te sensibile.Giuseguì l’uomo. Si avvicinarono ai carri. Furono circondati da altri mu lattieri chiassosi che gesticolavano anche loro, ridevano e gli davano delle pacche sulla schiena e sui fianchi. Gli portarono un po’ di fieno, Giu lo man giò. Ai carri erano attaccate coppie di cavalli con le orecchie corte e gli occhi cattivi. Niente muli.

Poco dopo il carro si mosse. E di nuovo ricominciò a cigolare come suo solito, e di nuovo davanti agli occhi c’erano la strada e dietro il carico, il mu lattiere e la frusta, ma ormai Giu sapeva che la strada non lo avrebbe liberato dal suo fardello. Avanzava trotterellando, e la pianura nevosa non aveva ini zio né Stranamente,fine. però, nel suo abituale procedere nel mondo dell’indifferen za Giu sentiva di non essere indifferente alla cavalla che gli stava accanto.

Il mulattiere lo portò fino a un carro a cui era attaccato un cavallo soltanto.

E senza sapere perché, Giu fece tendere le tirelle, le ossa della sua cassa toracica avvertirono il peso e la pressione, l’imbraca della cavalla si allentò e fu più semplice, per lei, tirare il carro.

R AccONTI268 va affatto alla frusta o alla coda dell’altro mulo suo compagno – infatti scivolò dolcemente sulla sua pelle.

Avanzarono così, a lungo, poi la cavalla nitrì. Fu un suono lieve, così lieve che non lo sentirono né il mulattiere, né la pianura tutt’attorno. Era così lieve perché doveva sentirlo solo il mulo al suo fianco.

Lui non rispose, ma da come dilatò le narici era chiaro che l’aveva udito.

Avanzarono a lungo, molto a lungo, fintanto che il carro non si fermò per la sosta; fianco a fianco, con le narici dilatate e i loro odori – l’odore del mulo e della cavalla aggiogati allo stesso carro – che si fondevano in uno solo.

In quel tepore buono ciò che si era assopito si risvegliò, ciò che era morto da tempo riprese vita: la dolcezza del latte materno che aveva tanto amato da piccolo, e il primo filo d’erba che aveva assaggiato, e la pietra rossa e crudele delle strade di montagna in Abissinia, e il caldo torrido tra le vigne, e le notti di luna negli aranceti, e la fatica enorme, tremenda che pareva dovesse ucci derlo con il suo fardello di indifferenza, e che invece non c’era riuscita.

Dopo qualche istante la cavalla agitò di nuovo la coda; strano, su quella pianura innevata non c’erano né mosche, né moscerini, né tafani.

La vita del mulo Giu e il destino della cavalla di Vologda1 si erano contagia ti a vicenda con il tepore del fiato, con la stanchezza degli occhi, e uno strano incanto si era prodotto in quei due esseri fiduciosi e teneri che stavano l’u no accanto all’altra nella pianura spazzata dalla guerra sotto un grigio cielo invernale.«Quell’asino d’un mulo ci ha messo poco a farsi piacere la Russia!» rise un mulattiere.«No,guarda meglio, stanno piangendo tutti e due» disse un altro. E sì, stavano proprio piangendo. 1 Vologda: città della Russia occidentale.

E quando il carro si fermò e il mulattiere tolse loro l’imbraca e insieme mangiarono e bevvero l’acqua dallo stesso secchio, la cavalla si avvicinò al mulo e appoggiò la testa sul collo di lui, e le sue morbide labbra gli sfioraro no l’orecchio, e allora lui guardò con fiducia gli occhi tristi di quella povera cavalla di campagna e il suo fiato si mescolò a quello di lei, caldo, benevolo.

Muovendosi, i corpi delle due bestie si scaldarono e Giu avvertì il sudore della cavalla, mentre il suo fiato, che sapeva di fieno umido e dolce, lo sfiora va, via via sempre più intenso.

E allora Giu sbirciò la cavalla che gli correva accanto, e in quello stesso momento la cavalla guardò verso di lui. I suoi occhi non erano più cattivi, for se solo un po’ maliziosi. In quel mare di indifferenza universale si era formata una piccola fendi tura, una piccola crepa.

1. Nella prima parte del racconto sono descritti il mulo Giu e l’«altro» mulo. Cosa li differenzia?

5. Il racconto si conclude con il riso del mulattiere e il pianto degli animali: secondo te qual è la causa di queste azioni?

7. Nel racconto emerge la contrapposizione tra il mondo degli uomini e quello degli animali: spiega in cosa consiste facendo precisi riferimenti al testo.

6. «In quel mare di indifferenza universale si era formata una piccola fenditura, una piccola crepa». Ti è mai capitato di provare lo stato d’animo dell’indifferenza e che qualcosa lo abbia rotto? Racconta questo momento, sottolineando che cosa, secondo te, lo aveva provocato e cosa ha permesso di superarlo.

4. Cosa provoca il loro cambiamento? Quali gesti lo dimostrano? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo i passaggi a riguardo.

2. Quale stato d’animo comincia a impossessarsi di Giu? Cosa lo causa? In che modalità si manifesta?

3. A un certo punto Giu viene attaccato a un carro accanto a una cavalla: come reagiscono inizialmente entrambi?

vA sIl I j GROssMAN 269

Nel romanzo storico Vita e destino , scritto fra il 1950 e il 1960, ma pubblicato sol tanto postumo nel 1980 per la censura dell’Agenzia per la sicurezza dell’Urss (Kgb),

Vasilij Grossman racconta le vicende di molteplici persone comuni durante e dopo il sanguinoso scontro tra le truppe tedesche e l’Armata Rossa per il controllo della regione strategica tra i fiumi Don e Volga e dell’importante centro politico ed econo mico di Stalingrado, vinto dai russi il 2 febbraio 1943.

Solo uno, un giovane con il cappotto da ufficiale e un fazzoletto sporco che gli copriva il naso e la bocca, scuoteva la testa in modo convulso2, come un cavallo morso dai tafani. Nei suoi occhi si leggeva un tormento che rasentava la follia.Iprigionieri poggiavano a terra le barelle e osservavano pensierosi i cada veri prima di cominciare a scaricarli: alcuni corpi erano senza braccia e sen za gambe, e i tedeschi avvicinavano loro l’una o l’altra estremità cercando di capire a chi appartenesse. I morti erano per buona parte seminudi, con la so la biancheria; alcuni indossavano pantaloni militari. Uno era completamen te nudo, con la bocca spalancata in un grido, lo stomaco incavato, incollato alla spina dorsale, e una peluria fulva sui genitali e le gambe sottili, magre.

1 Gestapo: polizia segreta del regime nazista.

Non era possibile immaginare che quei cadaveri, i buchi che avevano al posto della bocca e degli occhi, fossero stati fino a poco prima degli esseri vi venti con un nome e una casa, uomini che avevano detto: «mia cara, amore mio, dammi un bacio, non mi dimenticare», che avevano sognato un boccale di birra e fumato qualche sigaretta. L’unico a rendersene conto sembrava l’ufficiale3 con il fazzoletto sulla bocca. Eppure era proprio lui a esasperare le donne in piedi all’ingresso del sotterraneo, che non gli staccavano gli occhi di dosso e ignoravano gli altri prigionieri tedeschi, due dei quali indossavano un cappotto con una chiazza più chiara al posto delle mostrine da SS strappate.

R AccONTI270 VASILIJ GROSSMAN È il giorno del giudizio

Fra queste vicende narra la drammatica convivenza tra i prigionieri tedeschi e la folla russa inferocita per aver perso i propri cari. Dalle cantine dell’edificio a due piani in cui era situato il comando della Ge stapo1, alcuni prigionieri tedeschi portavano fuori i cadaveri dei sovietici. Malgrado il freddo, donne, vecchi e bambini restavano accanto alla senti nella a guardare i tedeschi che depositavano i corpi sulla terra gelata.

Erano quasi tutti senza espressione, trascinavano i piedi e si riempivano il naso, rassegnati, di odore di cadavere.

2 convulso: incontrollato e violento. 3 l’ufficiale: un ufficiale delle SS tedesche fatto prigioniero dai russi.

vA sIl I j GROssMAN 271

Camminavano lentamente, i prigionieri: l’istinto suggerì che sarebbe ba stato un movimento brusco perché la folla li attaccasse. Il tedesco con il cappotto da ufficiale diede un grido.

«Ehi tu, ragazzino, perché tiri i sassi?» sbottò la sentinella. «Se quello mi cade, la porti tu, la barella, al posto suo?».

Il tedesco con il cappotto da ufficiale lavorava insieme a un soldato basso con un asciugamano al collo e le gambe avvolte da sacchi, legati con un filo del telefono. Le persone mute in piedi accanto allo scantinato avevano sguar di talmente malvagi che per i tedeschi era un sollievo tornare sottoterra. Non avevano fretta di uscire, preferivano il buio e il fetore all’aria e alla luce del sole. E quando tornavano sotto con le barelle vuote, ad accompagnarli c’era una salva di improperi1 russi che ben conoscevano.

Intanto nel sotterraneo i soldati commentavano: «Per il momento l’unico bersaglio è l’Oberleutnant2». «L’hai vista, quella donna che lo fissa in continuazione?». Dal buio si stagliò una voce: «Resti un po’ qua sotto, tenente. Hanno cominciato con lei, ma finiranno con«Nonoi».no, non serve nascondersi,» farfugliò l’ufficiale con voce spenta «è il giorno del Giudizio» e rivolto al suo compare aggiunse: «Andiamo, andia mo…».Quella volta l’ufficiale e il soldato uscirono dal sotterraneo con un passo leggermente più deciso: il carico era leggero. Sulla barella c’era il corpo di una ragazza, un’adolescente. Il cadavere era tutto raggomitolato, rinsecchito, e solo i capelli chiari e arruffati erano ancora belli come il grano e fluidi come il latte, sparsi intorno al viso orrendo e scuro di quell’uccellino ferito a morte. Un sospiro si levò fra la folla. Poi toccò al grido lancinante della donna tarchiata, e fu come se una lama avesse lacerato l’aria fredda. «Bambina! Bambina mia! Tesoro adorato!»

«Giri la testa, eh?» mormorò, seguendolo con gli occhi, una donna tarchia ta con un bambino per mano.

Il tedesco con il cappotto da ufficiale sentì addosso la pressione dello sguardo lento, smanioso della donna russa. Una volta apparso, l’odio non può non trovare uno sfogo, così come non può non trovare uno sfogo l’elettricità raccolta in una nuvola nera sospesa sopra un bosco, che sceglie a caso un tronco d’albero da incenerire.

Quell’urlo per un figlio che non era il suo scosse la folla. La donna si diede a sistemare intorno al viso del cadavere quei capelli che conservavano l’ar ricciatura. Fissava quel viso, la bocca storta, impietrita, e insieme all’orrore vedeva anche – come solo una madre può fare – il viso vivo e amato che un giorno le aveva sorriso dalle fasce. 1 improperi: insulti. 2 Oberleutnant: è il comandante superiore di una compagnia delle forze armate tedesche.

R AccONTI272

La donna si rialzò e andò verso il tedesco. La videro tutti: lo fissava, e in tanto i suoi occhi cercavano un mattone che il gelo non avesse incollato per sempre ad altri mattoni, un mattone che la sua grossa mano deformata dal troppo lavoro, dall’acqua troppo fredda o troppo calda e dalla candeggina po tesse staccare. La sentinella capì che stava per accadere qualcosa di inevitabile, capì di non poter fermare una donna che era più forte di lui e della sua mitraglia. I soldati tedeschi non riuscivano a distogliere lo sguardo, i bambini la fissava no Intantoimpazienti.ladonna non vedeva altro che il viso del tedesco con il fazzoletto sulla bocca. Senza capire cosa le stesse succedendo, latrice1 e vittima di una forza che aveva soggiogato2 a sé ogni cosa, la vecchia cercò tentoni nella tasca della giacca un pezzo di pane che un soldato le aveva regalato il giorno prima, lo porse al tedesco e disse: «Tieni, Sarebbemangia».statala prima, poi, a non capire come fosse successo e perché. Nelle ore peggiori dell’umiliazione, dell’ira e dell’impotenza – e ce n’erano state tante nella sua vita: la zuffa con la vicina che l’aveva accusata di averle rubato una bottiglietta d’olio di girasole; il presidente del comitato di zona che l’aveva buttata fuori dal suo ufficio pur di non ascoltare le sue lamentele riguardo alla casa; il dolore e l’umiliazione di quando il figlio, appena spo sato, l’aveva cacciata dalla sua stanza e la nuora l’aveva chiamata «vecchia puttana» –, la rabbia non la faceva dormire… Una notte, rigirandosi nel letto arrabbiata e nervosa, ripensò a quella mattina d’inverno. Scema ero e scema rimango, si disse. 1 latrice: portatrice. 2 soggiogato: sottomesso.

1. Dove si trovano e cosa stanno facendo i prigionieri tedeschi? Quali sentimenti provano?

6. Cosa pensa del suo gesto la donna riflettendo a posteriori? Secondo te perché lo ha compiuto?

8. La donna compie un gesto apparentemente inspiegabile, tanto da pentirsene successivamente nei momenti di risentimento: rifletti su quale può essere stata la causa del suo gesto e presentala, confrontando tale esperienza con quella narrata in altri testi.

4. Quali gesti compie la donna nei confronti della figlia? Secondo te cosa manifestano?

2. Come reagisce la folla circostante? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le diverse azioni dei presenti.

3. Perché a un certo punto la donna tarchiata grida?

7. «“Resti un po’ qua sotto, tenente. Hanno cominciato con lei, ma finiranno con noi”. “No no, non serve nascondersi,” farfugliò l’ufficiale con voce spenta “è il giorno del Giudizio”». Prova a spiegare perché secondo l’ufficiale tedesco la situazione che sta vivendo «è il giorno del Giudizio».

vA sIl I j GROssMAN 273

5. «La donna si rialzò e andò verso il tedesco». In questo passaggio pieno di suspense, cosa si aspettano tutti che accada? Cosa succede invece?

«Non gli hai dato un pezzo di pane?» riprese a domandare il carabiniere. «Non gli hai indicato la strada? Nel tuo interesse, ti prego di rispondere la ve rità».Caterina posò la scodella vuota accanto a sé sulla panca e poi domandò al fratello: 1 breccia: scaglie di marmo.

Caterina avvicinò la sua testa all’orecchio del fratello. «M’avrà confusa con Caterina la fornara» gli disse sottovoce. «Dovresti indicargli la casa della for nara. Non fargli perdere tempo». «No, no» insisté il carabiniere. «Conosco la fornara. La denunzia non riguar da lei».Caterina non s’occupava più del carabiniere, come se ne ignorasse la pre senza; ascoltava però le sue parole. «Si tratterà di Caterina la scopina» ella disse al fratello. «Si è sbagliato. Do vresti indicargli la casa della scopina».

R AccONTI274 IGNAZIO SILONE Pane nero

«Parlo con te» disse il carabiniere alla donna. «Non ti chiami Caterina?»

«Parlo invece con te» disse il carabiniere alzando la voce. «Non può esser ci sbaglio. Questo pomeriggio, tornando giù dalla cava con l’asino carico di breccia1, non sei stata avvicinata da un forestiero?» Cosimo guardò la sorella che aveva già ripreso a mangiare la sua minestra e l’interrogò con gli occhi. La sorella, dopo aver riflettuto, gli fece cenno di sì.

Nel romanzo Una manciata di more , pubblicato nel 1952, l’autore narra la storia di Rocco, un giovane abruzzese capo di un gruppo partigiano durante la Resistenza antifascista, che, dopo un viaggio a Mosca, torna nel suo paese totalmente disilluso da ciò che ha visto.

Davanti alla loro casa, accanto alla porta, c’era una vecchia panca bassa, fatta di una tavola inchiodata su quattro piuoli. Fratello e sorella tenevano le scodelle sulle ginocchia, quando si presentò un carabiniere.

«C’è contro di te una denunzia abbastanza grave» disse il carabiniere alla donna senza tante cerimonie.

Caterina alzò gli occhi dal piatto, guardò prima il carabiniere e poi il fratello.

Le sue vicende s’intrecciano con quelle di altri semplici paesani: come Caterina, la madre di un giovane ucciso per errore dal gruppo partigiano guidato da Rocco, che si trova a vivere una situazione paradossale per il rovesciamento della situazione politi ca in Italia prima e dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tra Italia e Alleati. La prima volta che le autorità si dovettero occupare di Caterina avvenne in un modo strano. Caterina e Cosimo stavano mangiando una minestra di fave, seduti fuori casa.

«È un peccato quello di cui mi accusa? Fare la carità adesso è un peccato? Non sapevo che fosse un peccato». «Secondo voi, dare un pezzo di pane è proibito?» domandò Cosimo al ca rabiniere. «Da quando?» «Perché l’hai fatto?» insisté il carabiniere, rivolto a Caterina. La donna guardava il fratello impaurita e sorpresa. «Cosa dice?» gli domandò. «Cosa sta dicendo?» «Probabilmente quell’uomo aveva fame» suggerì Cosimo al carabinie re. «Non credi che forse aveva fame? Se non avesse avuto fame non avrebbe chiesto«Nonl’elemosina».tiseiaccorta»

riprese il carabiniere rivolto a Caterina «che quell’uo mo era un soldato nemico? Un prigioniero evaso?» «Cosa dice?» domandò Caterina al fratello. «Cosa sta dicendo?» Cosimo le fece cenno di non aver paura. «Scusa,» egli domandò al carabiniere «nemico di chi?» «Nemico nostro» spiegò il carabiniere adirandosi. «Nemico anche vostro». Cosimo credette di aver capito e cercò di spiegare il fatto alla sorella. «Era un nemico?» egli le domandò. «Caterina, dimmi la verità, senza aver paura».«Non l’avevo mai visto prima d’oggi» confessò Caterina. «Era un nemico?» «Cosa vuol dire? Mi devi spiegare cosa vuol dire». «Che aspetto aveva?» «Un aspetto di uomo». «Non ti sei accorta» gridò il carabiniere «che non era un uomo di questa contrada? Parlava forse il dialetto della Fornace1? Potevi dunque immaginare che fosse straniero. Perché gli hai dato il tuo pezzo di pane e gli hai indicato la strada?»Cosimo cominciò anche lui ad aver paura. «Perché l’hai fatto?» egli disse, rivolto alla sorella. «Non potevi riflettere prima di farlo? Non ha riflettuto» egli disse al carabiniere.

Caterina gli confermò di no con un cenno degli occhi. «Avrei dovuto riflettere?» ella domandò al fratello sottovoce. «Cosa c’era da riflettere? Anche quello è un figlio di madre. Aveva fame. Cosa c’era da riflettere?»«Inaltre parole» cercò di concludere il carabiniere «tu ammetti il fatto». Ma egli venne bruscamente interrotto da Cosimo, che si alzò in piedi tre mante di paura e di collera.

«Caterina non ammette niente» egli disse balbettando. «Proprio niente. Lo vuoi sapere? Noi siamo stanchi e adesso andiamo a dormire. All’infuori di que sto, non ammettiamo altro». Il carabiniere rimase un po’ sovrappensiero, poi disse: 1 Fornace: frazione del comune di Manoppello nella provincia di Pescara.

IGNAZIO sIlONE 275

Caterina avvicinò la testa all’orecchio del fratello e gli chiese impaurita: «Parla con me quest’uomo? Digli che certamente si è sbagliato». «Con chi parli?» gli chiese Cosimo. «Sì, parlo con te» ripeté il carabiniere sorridendo rivolto a Caterina. «Vo glio dire che nel frattempo le cose sono cambiate». «Cos’è cambiato?» gridò Cosimo. «Tutto» disse il carabiniere di buon umore. «Non leggete i giornali? Non leggete gli affissi sui muri?» «Niente di quello che mi riguarda è cambiato» disse Cosimo. «Le pietre so no rimaste dure. La pioggia è sempre umida». «La situazione in città è però cambiata» spiegò il carabiniere. «Cosa dice?» domandò Caterina al fratello. «Noi non leggiamo le carte» rispose Cosimo al carabiniere. «Dobbiamo fa ticare per mangiare, non abbiamo tempo per le carte». «Digli che si è sbagliato d’indirizzo» suggerì Caterina al fratello. «Fa’ in mo do che se ne vada». «Le cose sono cambiate» insisté a spiegare il carabiniere. «Ve lo assicuro sul mio onore. Quelli che erano i nostri nemici adesso sono i nostri alleati; e i nostri alleati invece sono i nostri nemici. Perciò quello che alcuni mesi fa sembrava un vostro delitto…» «Cosa dice?» domandò Caterina al fratello. «Siamo da capo con quella storia del pezzo di pane» le spiegò Cosimo. «Ancora?» disse Caterina tutta intimorita. «Ancora? Da capo con quel po vero pezzo di pane? Era un pezzo di pane scuro, come usiamo noi contadini. Un pezzo di pane qualsiasi. L’uomo aveva fame. Anche lui era un figlio di ma dre. Doveva morire di fame?» «Dunque, siamo da capo» disse Cosimo al carabiniere. «Non finirà più que sta storia? Non avete proprio da pensare ad altro?» 1 nel frattempo … varie cosette: prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943 l’Italia, sotto il regime fascista, era alleata dei tedeschi, mentre dopo è alleata con inglesi e americani.

R AccONTI276

Ma, dopo alcuni mesi, nelle medesime circostanze della volta precedente, mentre Caterina e Cosimo mangiavano la minestra, seduti sulla panca davan ti alla casa, il carabiniere riapparve in fondo al vicolo. Caterina fu presa da batticuore.«Siavvicina di nuovo l’ombra nera» ella mormorò a Cosimo. «Madonna mia, solo tu ci puoi proteggere». Il carabiniere si fermò proprio davanti a loro. «Sai,» egli disse sorridendo a Caterina «nel frattempo sono mutate varie cosette1. Quel fatto di cui ti si incolpava, adesso non è più una colpa, anzi».

«Mi dispiace, ma sul fatto non potrò fare a meno di scriverci sopra un rap porto».Non doveva poi essere tanto cattivo quel carabiniere. Non si fece più vede re. Per conto suo Caterina, con tutte le sue altre pene, finì col non pensarci più.

1 anno santo 1900: il Giubileo indetto da papa Leone XIII. 2 Bonifazio: il figlio di Caterina e nipote di Cosimo.

«Non fu un atto di coraggio» disse Cosimo al carabiniere. «Né di paura. Fu un semplice pezzo di pane. L’uomo aveva fame». «Parlate così perché siete ignoranti» rispose il carabiniere. «Ma per le au torità di oggi quello fu un atto di eroismo. Vi ripeto, le cose nel frattempo sono cambiate. Anche il modo di decidere se un fatto è bene o male». «Cos’è cambiato?» domandò Caterina al fratello. «Il bene e il male?» Il fratello stava però riflettendo per conto suo. «Va bene» egli disse al carabiniere. «Tu ci assicuri che le cose sono diver se. Ma se cambiassero di nuovo?» Il carabiniere rimase a bocca aperta. Per nascondere la sua confusione, ebbe uno scatto d’ira. «Insomma, donna ignorante,» egli disse a Caterina «rinunzi alla meda glia?»«Cosa ha detto?» domandò Caterina al fratello. «Hai capito qualcosa di quel lo che sta «Potrestidicendo?»avereuna medaglia» Cosimo le spiegò. «Adesso distribuiscono le medaglie».«Perché? Che specie di medaglie? Le medaglie dei santi?»

IGNAZIO sIlONE 277

«Al contrario» cercò di chiarire il carabiniere. «Caterina è ora una bene merita. Essa aiutò un nemico che ora è però un alleato. Per il suo atto di co raggio adesso merita un onore». «Cosa dice?» domandò Caterina al fratello. «Non potresti persuaderlo a lasciarci in pace?»

«Non credo che sia una medaglia di santi. Una medaglia piuttosto per quel pezzo di pane» le spiegò Cosimo. «Ancora? Ne parla ancora? Madonna mia, era un pezzo di pane qualsiasi. Non glielo hai spiegato?» «Non lo vuol capire. Adesso, dice, distribuiscono le medaglie». Caterina si mise a riflettere, ma poi fece di no con la testa. «Gli devi spiegare che una medaglia l’ho già» ella disse al fratello. «La me daglia dell’anno santo 19001, che ricevetti a Roma come pellegrina, da ra gazza. Una medaglia non basta? Gliela mostrerei, ma adesso, gli devi dire, la tiene al collo Bonifazio2, per la sua protezione. A ogni modo, una medaglia in famiglia l’abbiamo già». Il carabiniere si allontanò scoraggiato. Il racconto di quel suo incontro fe ce ridere parecchio gli impiegati del municipio. Arrivò poi il tempo che i sol dati cominciarono a tornare alle loro famiglie. Così i contadini capirono che la guerra era finita.

R AccONTI1.278Chi

3. Qual è l’atteggiamento della donna? Qual è l’atteggiamento di Cosimo?

4. Come giustifica il suo gesto Caterina? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le sue affermazioni in merito.

sono Caterina e Cosimo?

6. Cosa succede qualche mese dopo?

9. Quale reazione provoca il racconto del carabiniere negli impiegati del municipio? Secondo te perché?

10. «Il carabiniere si allontanò scoraggiato». Immagina di essere il carabiniere di ritorno dall’incontro con Cosimo e Caterina e di rivolgerti agli impiegati del municipio. Racconta quanto ti è accaduto ed esprimi i tuoi pensieri e il tuo stato d’animo.

8. Cosa decide di fare Caterina alla fine? Perché?

11. Nel racconto emerge lo scontro tra la legge degli uomini e la coscienza di Caterina, tra il mondo dei potenti e quello dei semplici. Spiega in che cosa consiste questo scontro facendo precisi riferimenti al testo.

7. Che cosa intende il carabiniere quando dice che «tutto» è cambiato? Perché Cosimo gli risponde dicendo «Niente di quello che mi riguarda è cambiato. Le pietre sono rimaste dure. La pioggia è sempre umida»?

5. A un certo punto il narratore commenta: «Non doveva poi essere tanto cattivo quel carabiniere». Da cosa nasce questa considerazione?

2. Di che cosa il carabiniere accusa Caterina?

PRIMO LEVI

Nel memoriale Se questo è un uomo , pubblicato nel 1947, Primo Levi racconta la tragica esperienza vissuta fra il 1944 e il 1945 nel campo di concentramento nazista di Monowitz, durante la Seconda guerra mondiale. Introduce il testo la poesia Se questo è un uomo, che dà il titolo all’intera opera. Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.

279

Se questo è un uomo

chi si rivolge Primo Levi in questa poesia?

3. Che cosa vuole denunciare l’autore con questo testo?

4. Come descrive gli uomini e le donne ebrei internati nei lager nazisti?

6. Questa poesia introduce il racconto di Primo Levi della sua esperienza nel Campo di concentramento nazista a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Polonia: prova a spiegare quali possono essere le motivazioni per cui l’autore ha deciso di introdurre il suo racconto con tale testo, riflettendo su quale può essere stato il suo scopo.

R AccONTI1.280A

5. Che cosa augura l’autore a chi non lo ascolterà? Secondo te perché?

2. Che cosa comanda? A quale scopo? Rispondi dopo aver sottolineato le richieste esplicitate nel testo.

7. L’autore utilizza una similitudine nel testo: rintracciala e spiegala.

281 PRIMO LEVI

La demolizione di un uomo Il viaggio non durò che una ventina di minuti1. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci ren de feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchez ze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, «essi» sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten2. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dol ciastra, ha odore di palude. Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pen sare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia. Non siamo morti; la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta, chiede: «Wer kann Deutsch?»3. Si fa avanti uno fra noi che non ho mai visto, si chiama Flesch; sarà lui il nostro interprete. La SS fa un lungo discorso pacato: l’interprete traduce. Bisogna mettersi in fila per cin que, a intervalli di due metri fra uomo e uomo; poi bisogna spogliarsi e fare un fagotto degli abiti in un certo modo, gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto dall’altra, togliersi le scarpe ma far molta attenzione di non far celeRubarerubare.da chi? perché ci dovrebbero rubare le scarpe? e i nostri docu menti, il poco che abbiamo in tasca, gli orologi? Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il tedesco, e il tedesco fumava e lo guardò da parte a parte come se fosse stato trasparente, come se nessuno avesse parlato.

2 Wassertrinken verboten: acqua potabile vietata, in tedesco. 3 «Wer kann Deutsch?»: «Chi conosce il tedesco?», in tedesco.

1 Il viaggio … minuti: Primo Levi si riferisce al viaggio di trasferimento, avvenuto a bordo di un autocarro, dalla stazione della cittadina polacca di Auschwitz, dove gli ebrei sono arrivati in treno dal paese italiano di Carpi dopo quattro notti e quattro giorni di viaggio stipati in vagoni merci senza neppure poter bere, al campo di lavoro di Monowitz.

Poi[…] viene un altro tedesco, e dice di mettere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è finito e ci sentiamo fuori del mondo e l’unica

Adesso è il secondo atto. Entrano con violenza quattro con rasoi, pennel li e tosatrici, hanno pantaloni e giacche a righe, un numero cucito sul pet to; forse sono della specie di quegli altri di stasera (stasera o ieri sera?); ma questi sono robusti e floridi. Noi facciamo molte domande, loro invece ci ag guantano e in un momento ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbiamo senza capelli! I quattro parlano una lingua che non sembra di questo mon do, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo capisco. Finalmente si apre un’altra porta: eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell’acqua, è una sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parliamo, e tutti domandano e nessuno risponde. Se siamo nu di in una sala di docce, vuol dire che faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora. E allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci dànno da bere, e nessuno ci spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure sederci. E le nostre donne?

Andiamo in su e in giù senza costrutto, e parliamo, ciascuno parla con tutti gli altri, questo fa molto chiasso. Si apre la porta, entra un tedesco, è il maresciallo di prima; parla breve, l’interprete traduce. «Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è una scuola rabbinica2». Si ve dono le parole non sue, le parole cattive, torcergli la bocca uscendo, come se sputasse un boccone disgustoso. Lo preghiamo di chiedergli che cosa aspet tiamo, quanto tempo ancora staremo qui, delle nostre donne, tutto: ma lui dice di no, che non vuol chiedere. Questo Flesh, che si adatta a malincuore a tradurre in italiano frasi tedesche piene di gelo, e rifiuta di volgere in tedesco 1 vilipenderci: offenderci. 2 scuola rabbinica: scuola ebraica tenuta dal rabbino (maestro), considerato la guida spirituale della comunità ebraica per essersi distinto nello studio della Torah (legge ebraica).

R AccONTI282 cosa è obbedire. Viene uno con la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio. È matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi sa ranno spaiate. La porta dà all’esterno, entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il te desco la riapre, e sta a vedere con aria assorta come ci contorciamo per ripa rarci dal vento uno dietro l’altro; poi se ne va e la richiude.

L’ingegner Levi mi chiede se penso che anche le nostre donne siano così come noi in questo momento, e dove sono, e se le potremo rivedere. Io ri spondo che sì, perché lui è sposato e ha una bambina; certo le rivedremo. Ma ormai la mia idea è che tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci 1, e poi è chiaro che ci uccidono, chi crede di vivere è paz zo, vuol dire che ci è cascato, io no, io ho capito che presto sarà finita, forse in questa stessa camera, quando si saranno annoiati di vederci nudi, ballare da un piede all’altro e provare ogni tanto a sederci sul pavimento, ma ci sono tre dita d’acqua fredda e non ci possiamo sedere.

Il tedesco se ne va, e noi adesso stiamo zitti, quantunque ci vergogniamo un poco di stare zitti. Era ancora notte, ci chiedevamo se mai sarebbe venuto il giorno. Di nuovo si aprì la porta, ed entrò uno vestito a righe. Era diverso dagli altri, più anziano, cogli occhiali, un viso più civile, ed era molto meno robusto. Ci parla, e parla italiano. Oramai siamo stanchi di stupirci. Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio. Parla italiano malamente, con un forte accento straniero. Ha fatto un lungo discorso, è molto cortese, cerca di rispondere a tutte le nostre domande. Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz2, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa dieci mila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.

PRIMO lE v I 283

Riceveremo scarpe e vestiti, no, non i nostri: altre scarpe, altri vestiti, co me i suoi. Ora siamo nudi perché aspettiamo la doccia e la disinfezione, le quali avranno luogo subito dopo la sveglia, perché in campo non si entra se non si fa la disinfezione. Certo, ci sarà da lavorare, tutti qui devono lavorare. Ma c’è lavoro e lavoro: lui, per esempio, fa il medico, è un medico ungherese che ha studiato in Ita lia; è il dentista del Lager. È in Lager da quattro anni (non in questo: la Buna esiste da un anno e mezzo soltanto), eppure, possiamo vederlo, sta bene, non è molto magro. Perché è in Lager? È ebreo come noi? «No,» dice lui con sem plicità, «io sono un criminale». Noi gli facciamo molte domande, lui qualche volta ride, risponde ad al cune e non ad altre, si vede bene che evita certi argomenti. Delle donne non parla: dice che stanno bene, che presto le rivedremo, ma non dice né come né dove. Invece ci racconta altro, cose strane e folli, forse anche lui si fa gioco di noi. Forse è matto: in Lager si diventa matti. Dice che tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio. Dice che chi tira bene di boxe può diventare cuoco. Dice che chi lavora bene riceve buoni-premio con cui ci si può com 1 combattendo … sul Piave: combattendo nell’esercito austro-ungarico contro quello italiano durante la Prima guerra mondiale sul fronte italiano. 2 Auschwitz: nome tedesco della cittadina polacca Oświęcim (a circa 60 chilometri da Cracovia), occupata dai tedeschi nel 1940, i quali convertono le caserme dell’esercito polacco in un campo di concentramento che diviene il centro principale della realizzazione della “soluzione finale”, ovvero lo sterminio sistematico degli ebrei, e conseguentemente si amplia includendo il campo di sterminio di Birkenau (Brzezinka) dove vengono costruiti sei camere a gas e quattro forni crematori, e il campo di lavoro di Monowitz (Monowice), sede dell’impianto Buna-Werke destinato alla produzione di gomma sintetica.

le nostre domande perché sa che è inutile, è un ebreo tedesco sulla cinquan tina, che porta in viso la grossa cicatrice di una ferita riportata combattendo contro gli italiani sul Piave1. È un uomo chiuso e taciturno, per il quale provo un istintivo rispetto perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi.

1 surrogato: prodotto di inferiore qualità e meno costoso che ne sostituisce un altro di difficile o costoso reperimento, nel caso del caffè solitamente orzo o cicoria.

3 rinfrancato: rincuorato. 4 attigua: adiacente. 5 lividi: smorti, indefiniti tra il violaceo e il verdastro.

Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbia mo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi5, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera.

2 attoniti e sconcertati: stupiti e disorientati.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fon do. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capi rebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri

R AccONTI284 prare tabacco e sapone. Dice che veramente l’acqua non è potabile, e che in vece ogni giorno si distribuisce un surrogato1 di caffè, ma generalmente nes suno lo beve, perché la zuppa stessa è acquosa quanto basta per soddisfare la sete. Noi lo preghiamo di procurarci qualcosa da bere, ma lui dice che non può, che è venuto a vederci di nascosto, contro il divieto delle SS, perché noi siamo ancora da disinfettare, e deve andarsene subito; è venuto perché gli sono simpatici gli italiani, e perché, dice, «ha un po’ di cuore». Noi gli chie diamo ancora se ci sono altri italiani in campo, e lui dice che ce n’è qualcu no, pochi, non sa quanti, e subito cambia discorso. In quel mentre ha suona to una campana, e lui è subito fuggito, e ci ha lasciati attoniti e sconcertati2. Qualcuno si sente rinfrancato3, io no, io continuo a pensare che anche questo dentista, questo individuo incomprensibile, ha voluto divertirsi a nostre spe se, e non voglio credere una parola di quanto ha detto. Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi. Improvvisamente l’ac qua è scaturita bollente dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cac ciano con urla e spintoni nella camera attigua4, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un’altra baracca, a un cen tinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci.

5 fanfara: complesso, non molto numeroso, di strumenti a fiato (per lo più della famiglia delle trombe) e di strumenti di percussione (tamburi) che di solito accompagna sfilate, parate militari, cerimonie ufficiali.

1 discernimento: capacità di giudizio.

PRIMO lE v I 285 che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mon do, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che so no nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimen tico di dignità e discernimento1, poiché accade facilmente, a chi ha perso tut to, di perdere sé stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità2 umana; nel caso più for tunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo. Dopo aver subito l’operazione di tatuaggio del numero che contraddistingue ogni Häftling3 al posto del proprio nome, i nuovi arrivati vengono chiusi in una baracca angusta piena di cuccette che è assolutamente proibito toccare, ancora senza avere la possibilità di bere. Al tramonto i prigionieri vengono fatti uscire e disposti meticolo samente in quadrati nel vasto piazzale al centro del campo dove, dopo un’ora, arriva no i drappelli dei detenuti 4 precedentemente internati al ritmo delle marce suonate da una fanfara5 . Dopo il conteggio di controllo che dura più di un’ora, finalmente viene dato l’ordine di sciogliere le righe e tutte le squadre si disfano in modo confuso.

3 numero … Häftling: a ogni detenuto, Häftling in tedesco, viene tatuato un numero sul braccio sinistro, che diventa il segno di riconoscimento da esibire per ricevere la propria razione quotidiana di cibo. A Primo Levi viene tatuato il numero 174 517.

4 drappelli dei detenuti: Primo Levi si riferisce ai detenuti che tornano dal loro turno di lavoro, inquadrati secondo un ordine minuzioso.

2 affinità: somiglianza.

Anche noi nuovi arrivati ci aggiriamo tra la folla, alla ricerca di una voce, di un viso amico, di una guida. Contro la parete di legno di una baracca stanno seduti a terra due ragazzi: sembrano giovanissimi, sui sedici anni al mas simo, tutti e due hanno il viso e le mani sporche di fuliggine. Uno dei due, mentre passiamo, mi chiama, e mi pone in tedesco alcune domande che non capisco; poi mi chiede da dove veniamo. «Italien,» rispondo; vorrei doman dargli molte cose, ma il mio frasario tedesco è limitatissimo. «Sei ebreo?» gli chiedo. «Sì, ebreo polacco.» «Da quanto sei in Lager?»

R AccONTI286

3 «Ich Schlome. Du?»: «Io Schlome. Tu?», in tedesco.

4 fame cronica: fame incolmabile per la misera razione quotidiana di cibo data ai detenuti.

«Tre anni,» e leva tre dita. Deve essere entrato bambino, penso con orrore; d’altronde, questo significa che almeno qualcuno qui può vivere.

«Ich Chemiker,»1 dichiaro io; e lui accenna gravemente col capo, «Chemiker gut»2. Ma tutto questo riguarda il futuro lontano: ciò che mi tormenta, in que sto momento, è la sete.

1 «Ich Chemiker»: «Io chimico», in tedesco.

«Schlosser,» risponde. Non capisco: «Eisen; Feuer,» (ferro, fuoco) insiste lui, e fa cenno colle mani come di chi batta col martello su di un’incudine. È un fabbro, dunque.

2 «Chemiker gut»: «Chimico buono», in tedesco.

«Qual è il tuo lavoro?»

Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica4 sconosciuta agli uomini libe ri, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho

«Bere, acqua. Noi niente acqua,» gli dico. Lui mi guarda con un viso serio, quasi severo, e scandisce: «Non bere acqua, compagno,» e poi altre parole che non capisco. «Warum?» «Geschwollen,» risponde lui telegraficamente: io crollo il capo, non ho capi to. «Gonfio,» mi fa capire, enfiando le gote e abbozzando colle mani una mo struosa tumescenza del viso e del ventre. «Warten bis heute abend». «Aspettare fino oggi sera», traduco io parola per parola. Poi mi dice: «Ich Schlome. Du?»3. Gli dico il mio nome, e lui mi chiede: «Dove tua madre?» «In Italia». Schlome si stupisce: «Ebrea in Italia?» «Sì,» spiego io del mio meglio, «nascosta, nessuno conosce, scappare, non parlare, nessuno vedere». Ha capito; ora si alza, mi si avvicina e mi abbraccia timidamente. L’avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia. Non ho più rivisto Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della casa dei morti. Successivamente Primo Levi scopre che i detenuti sono stipati in 50 baracche di le gno, chiamate Blocks, circa in duecento-duecentocinquanta per ognuna, che oltre agli ebrei vi sono anche detenuti politici e criminali e che in particolare questi ulti mi comandano sugli altri, eseguendo gli ordini delle poche SS tedesche presenti che generalmente stanno fuori dal campo. Infine scopre che i detenuti sono inquadrati in circa duecento squadre chiamate kommandos, composte da quindici a centocin quanta uomini agli ordini di un kapo, che lavorano in tutte le ore di luce in qualsiasi condizione climatica con differenti mansioni sia per l’impianto della Buna che per la manutenzione del Lager.

imparato a non lasciarmi derubare1, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide2 che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido3 al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.

Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un ango lo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era così fatico so fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.

1 già … derubare: fin da subito Primo Levi scopre che a fronte della terribile situazione d’indigenza vissuta dai detenuti, occorre controllare a vista i propri beni (la scodella, il cucchiaio, gli abiti e le scarpe) per evitare di farseli derubare. 2 piaghe torpide: piaghe intorpidite, causate dagli zoccoli di legno consegnati ai detenuti, spesso non della misura adeguata. 3 tumido: gonfio.

PRIMO lE v I 287

7. In quale situazione si trova Primo Levi dopo sole due settimane dall’ingresso nel Lager?

6. Con chi riesce a parlare Primo Levi fra i detenuti ritornati dal turno di lavoro? Per quale motivo gli rimane impresso nella memoria?

R AccONTI1.288Cosa

9. Sopra la porta del Lager vi è la scritta «Il lavoro rende liberi»: perché, secondo te, il suo ricordo percuote Primo Levi nei sogni anche dopo il ritorno a casa?

4. Cosa succede al suono della campana del Lager?

accade agli ebrei giudicati abili al lavoro all’arrivo nel Lager? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo gli avvenimenti raccontati dall’autore.

2. Chi è Flesh? Cosa è costretto a fare? Cosa si capisce dalle sue espressioni?

8. Cosa avevano deciso di fare gli italiani? Come è andata a finire? Per quali motivi?

3. Chi arriva dopo l’uscita del maresciallo tedesco dalla sala delle docce? Cosa spiega al gruppo di ebrei presenti? Perché?

5. Di cosa si accorgono gli ebrei guardandosi nella baracca in cui finalmente gli è stato concesso di vestirsi? In cosa consiste la «demolizione» di cui sono stati fatti oggetto? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le riflessioni dell’autore in merito.

Dopo aver riflettuto su che cosa intenda Primo Levi per «inferno», spiega qual è il significato della sua affermazione ed esponi quali sono, secondo te, le caratteristiche di una situazione infernale, facendone un esempio concreto.

11. «Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile». Dopo aver contestualizzato tale affermazione di Primo Levi, spiegane il significato facendo emergere i tratti distintivi dell’operazione di demolizione degli ebrei attuata dai nazisti nei campi di concentramento.

PRIMO lE v I 289

10. «Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti».

1 Vorarbeiter: caposquadra.

4 Kommando: squadra di lavoro formata da prigionieri.

6 «Also, Pikolo, was gibt es Neues?»: «Allora, Pikolo, che novità ci sono?», in tedesco.

2 alsaziano: dell’Alsazia, regione della Francia nord-orientale confinante con Germania e Svizzera. 3 Häftling: detenuto.

R AccONTI290

PRIMO LEVI Il canto di Ulisse Eravamo sei a raschiare e pulire l’interno di una cisterna interrata; la luce del giorno ci giungeva soltanto attraverso il piccolo portello d’ingresso. Era un lavoro di lusso, perché nessuno ci controllava; però faceva freddo e umido. La polvere di ruggine ci bruciava sotto le palpebre e ci impastava la gola e la bocca con un sapore quasi di sangue. Oscillò la scaletta di corda che pendeva dal portello: qualcuno veniva. Deutsch spense la sigaretta, Goldner svegliò Sivadjan; tutti ci rimettemmo a raschiare vigorosamente la parete sonora di lamiera. Non era il Vorarbeiter1, era solo Jean, il Pikolo del nostro Kommando. Jean era uno studente alsaziano2; benché avesse già ventiquattr’anni, era il più giovane Häftling3 del Kommando4 Chimico. Era perciò toccata a lui la carica di Pikolo, vale a dire di fattorino-scritturale, addetto alla pulizia della barac ca, alle consegne degli attrezzi, alla lavatura delle gamelle5, alla contabilità delle ore di lavoro del Kommando. Jean parlava correntemente francese e tedesco: appena si riconobbero le sue scarpe sul gradino più alto della scaletta, tutti smisero di raschiare: «Also, Pikolo, was gibt es Neues?»6 «Qu’est-ce qu’il y a comme soupe aujourd’hui?»7 … di che umore era il Kapo? E la faccenda delle venticinque frustate a Stern? Che tempo faceva fuori? Aveva letto il giornale? Che odore c’era alla cucina civile? Che ora era? Jean era molto benvoluto al Kommando. Bisogna sapere che la carica di Pikolo costituisce un gradino già assai elevato nella gerarchia delle Promi nenze: il Pikolo (che di solito non ha più di diciassette anni) non lavora ma nualmente, ha mano libera sui fondi della marmitta del rancio e può stare tutto il giorno vicino alla stufa: «perciò» ha diritto a mezza razione supple mentare, ed ha buone probabilità di divenire amico e confidente del Kapo, dal quale riceve ufficialmente gli abiti e le scarpe smesse. Ora, Jean era un Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro

7 «Qu’est-ce qu’il y a comme soupe aujourd’hui?»: «Che c’è oggi come zuppa?», in francese.

5 gamella: scodella. Dal latino camella, vaso di legno per liquidi usato nei sacrifici.

Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, sen za destare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri! Anche sua madre lo rimproverava di non saper mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l’era cavata, che giorno per giorno se la cavava.

PRIMO lE v I 291

Tu es fou de marcher si vite. On a le temps, tu sais»3. Il rancio si ritirava a un chilometro di distanza; bisognava poi ritornare con la marmitta di cinquanta chili infilata nelle stanghe. Era un lavoro abbastanza faticoso, però compor tava una gradevole marcia di andata senza carico, e l’occasione sempre desi derabile di avvicinarsi alle cucine.

il campo e contro la morte, non trascurava di mantenere rapporti umani coi compagni meno privilegiati; d’altra parte, era stato tanto abile e perseverante da affermarsi nella fiducia di Alex, il Kapo.

Per[…] quanto Jean non abusasse della sua posizione, già avevamo potuto constatare che una sua parola, detta nel tono giusto e al momento giusto, aveva grande potere; già più volte era valsa a salvare qualcuno di noi dalla frusta o dalla denunzia alle SS. Da una settimana eravamo amici: ci eravamo scoperti nella eccezionale occasione di un allarme aereo, ma poi, presi dal ritmo feroce del Lager, non avevamo potuto che salutarci di sfuggita, alle la trine, al lavatoio. Appeso con una mano alla scala oscillante, mi indicò: «Aujourd’hui c’est Primo qui viendra avec moi chercher la soupe»1. Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano strabico; ora questi era caduto in disgrazia per non so che storia di scope rubate in magazzino, e Pikolo era riuscito ad appoggiare la mia candidatura come aiuto nell’«Es senholen»2, nella corvée quotidiana del rancio. Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ciglia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe, e ci incamminam mo sotto un chiaro cielo di giugno.

1 «Aujourd’hui … soupe»: «Oggi è Primo che verrà con me a prendere la zuppa», in francese.

2 «Essenholen»: «portare il cibo», in tedesco. 3 «Tu … sais»: «Tu sei matto a camminare così in fretta. C’è tempo, lo sai», in francese.

Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedeva no i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero.«

Passò una SS in bicicletta. È Rudi, il Blockführer1. Alt, sull’attenti, togliersi il berretto. «Sale brute, celui-là. Ein ganz gemeiner Hund»2. Per lui è indifferente parlare francese o tedesco? È indifferente, può pensare in entrambe le lin gue. È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano.

R AccONTI292

Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. An che subito, una cosa vale l’altra, l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora. Passa Limentani, il romano, strascicando i piedi, con una gamella nasco sta sotto la giacca. Pikolo sta attento, coglie qualche parola del nostro dialogo e la ripete ridendo: «Zup-pa, cam-po, ac-qua». Passa Frenkel, la spia. Accelerare il passo, non si sa mai, quello fa il male per il male. … Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non ab biamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligen te capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. … Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di no vità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Bea trice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando come fosse la lingua che parlasse mise fuori la voce, e disse: Quando… Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero fran cese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra si militudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica».Edopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «… la piéta del vecchio padre, né ’l debito amore che doveva Penelope far lie ta…» sarà poi esatto? … ma misi me per l’alto mare aperto. 1 Blockführer: capobaracca, incaricato della sorveglianza di un singolo reparto della fabbrica in cui lavorano i detenuti. 2 «Sale … Hund»: «Uno sporco bruto, quello là. Un cane malvagio». La prima frase in francese, la seconda in tedesco.

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sen tito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

Li miei compagni fec’io sì acuti… … e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acu ti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «… Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima? … Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine. 1 Kraftwerk: centrale elettrica.

PRIMO lE v I 293

Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più auda ce, è un vincolo infranto, è scagliare sé stessi al di là di una barriera, noi cono sciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su sé stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk1, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare. «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella com pagna picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: … acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espres sione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.

1 «Ça … même»: «Non importa, va’ avanti lo stesso», in francese.

2 «Kraut und Rüben?»: «Crauti e rape?», in tedesco.

Ça ne fait rien, vas-y tout de même»1. … quando mi apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto che mai veduta non ne avevo alcuna. Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le mon tagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si di cono. Pikolo attende e mi guarda.

3 «Choux et navets». «Káposzta és répak»: «Crauti e rape?», in francese e ungherese.

Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento…» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arri vati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, alla quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, come altrui piacque… Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, doma ni lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegar gli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacroni smo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro es sere oggi qui… Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindella ta dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. «Kraut und Rüben? »2 «Kraut und Rüben ». Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: « Choux et navets ». «Káposzta és répak »3 infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso.

R AccONTI294

«

5. Di cosa parlano Pikolo e Primo Levi durante il tragitto? Di quale somiglianza si accorge l’autore?

9. Primo Levi si stupisce di aver capito delle espressioni del canto di Ulisse solo in Lager: secondo te cosa ha reso possibile questa maggiore comprensione dei versi danteschi in questo luogo? Cosa fa capire quest’esperienza del valore di un testo letterario “classico”? Discutine in classe con compagni e insegnante di italiano.

11. Dopo l’arrivo a destinazione di Pikolo e Primo Levi, il racconto si conclude con il verso dantesco «Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso»: secondo te per quale motivo? Rispondi dopo aver riflettuto sul legame fra il significato di questo verso e la definizione di Primo Levi dell’esperienza vissuta nel Lager incontrata nei brani precedenti.

1. Cosa sta facendo Primo Levi nell’incipit del racconto?

3. Che mansione riesce a far ottenere Pikolo a Primo Levi? Che aspetti positivi presenta?

4. Quale strada prende Pikolo per raggiungere il luogo di consegna del rancio? Perché?

6. L’alsaziano Pikolo parla sia francese sia tedesco e vorrebbe imparare l’italiano, dal momento che gli piace l’Italia: come mai per Primo Levi è importante insegnarglielo subito? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le affermazioni dell’autore che giustificano la tua ipotesi.

2. A un certo punto arriva Jean: chi è? Cosa è riuscito a fare? Grazie a quali sue doti?

7. Quale testo viene in mente a Primo Levi per insegnare l’italiano a Pikolo? Secondo te perché? Cosa gli spiega a riguardo?

8. Di cosa parla il canto di Ulisse che Primo Levi cerca di declamare e tradurre a Pikolo? Quali somiglianze egli coglie fra i versi danteschi e la loro esperienza nel Lager? Rispondi dopo aver contestualizzato e parafrasato i versi danteschi e aver dialogato in classe con i compagni e l’insegnante di italiano sulle caratteristiche dell’esperienza di Primo Levi nel Lager da lui descritte nei precedenti brani.

PRIMO lE v I 295

10. Perché a un certo punto Primo Levi prega Pikolo di non lasciarlo pensare alle sue montagne? Cosa gliele ha fatte venire in mente?

R AccONTI12.296«Ecco,

14. «Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui e io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…». Esponi le tue considerazioni sull’intuizione di Primo Levi e sulle motivazioni del suo struggimento nei confronti della comprensione dell’amico. Cosa è necessario per Primo Levi che comprenda? Perché è così urgente?

13. «Darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale»: alla luce della riflessione svolta in classe, prova a spiegare il valore del testo dantesco per Primo Levi in un contesto così disumano come il Lager, la coscienza del quale lo porta ad affermare di preferirne la memoria alla razione di cibo quotidiana. Poi esponi il tuo punto di vista su tale affermazione facendo precisi riferimenti alla tua esperienza personale: ti è mai capitato di cogliere un messaggio fondamentale per la tua vita nella lettura di un testo letterario? Se non ti è mai capitato, ritieni convincente la testimonianza di Primo Levi?

attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle». A fronte del dialogo svolto in classe sul rapporto riconosciuto da Primo Levi fra i versi danteschi citati e la sua esperienza nel Lager, spiega il significato di tali affermazioni.

Nel suo Diario clandestino , pubblicato nel 1949, Guareschi racconta quanto scritto e condiviso con i compagni di prigionia durante la permanenza come prigioniero di guerra in diversi campi di concentramento tedeschi in Polonia e in Germania tra il 1943 e il L’intento1945.comunicativo e la peculiarità di tale diario vengono da lui personalmen te spiegati nella prefazione «Istruzioni per l’uso».

297

In verità io avevo in mente di scrivere un vero diario e, per due anni, an notai diligentissimamente tutto quello che facevo o non facevo, tutto quello che vedevo e pensavo. Anzi fui ancora più accorto: e annotai anche quello che avrei dovuto pensare, e così mi portai a casa tre librettini con dentro tanta di quella roba, da scrivere un volume di duemila pagine. E appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina da scrivere e cominciai a decifrare e svilup pare i miei appunti, e dei due anni di cui intendevo fare la storia non dimen ticai un solo giorno.

Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carrie ra di scrittore: tanto è vero che essa è l’unica di cui non mi sono mai pentito.

E – direte voi – le pagine di questo libro, di dove sono saltate fuori? Accadde dunque che io, […] come milioni e milioni di persone come me, mi gliori di me e peggiori di me, mi ritrovai invischiato in questa guerra in quali tà di italiano alleato dei tedeschi, all’inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la ca sa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola.

Questo “Diario clandestino” è talmente clandestino che non è neppure un dia rio.E ciò sia detto a parziale rettifica del titolo e a conforto di chi, leggendo la parola “diario”, drizza sospettoso le orecchie.

GIOVANNINO GUARESCHI Istruzioni per l’uso

Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine, avevo il diario comple to. Allora lo rilessi attentamente, lo limai, mi sforzai di dargli un ritmo piace vole, indi lo feci ribattere a macchina in duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa: originale e copia.

Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di noc ciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza me

Non è un diario, uno dei soliti diari dove si può leggere che il tal giorno il protagonista ha fatto la tal cosa, il tal giorno ha pensato la talaltra e via di scorrendo; uno dei soliti diari nei quali l’autore si mette al centro dell’univer so come se egli ne costituisse il perno.

Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cu po dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un pas sato e un avvenire.

E non Probabilmentemorii. non morii perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii.Rimasi vivo anche nella parte interna e continuai a lavorare. E, oltre agli appunti del diario da sviluppare poi a casa, scrissi un sacco di roba per l’uso immediato.Ecosìtrascorsi buona parte del mio tempo passando da baracca a baracca dove leggevo la roba appunto di cui questo libriccino vi dà un campionario. La roba che, nelle mie intenzioni d’allora, doveva essere scritta e servire esclusi vamente per il Lager e che io non avrei mai dovuto pubblicare fuori del Lager. E invece, trascorsi alcuni anni, fu proprio questa l’unica roba che mi è parsa ancora valida. E, disperse al vento le ceneri del Gran Diario, ho scelto nel pacchetto di cartaccia unta e bisunta qualche foglietto, ed ecco il “Diario clandestino”.Ilqualediario, come dicevamo, è tanto clandestino che non è neppure un diario, ma secondo me potrà servire, sotto certi aspetti, più di un diario vero e proprio a dare un’idea di quei giorni, di quei pensieri e di quelle sofferenze.

L’unica cosa interessante, ai fini della nostra storia, è che io, anche in pri gionia, conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: “Non muoio neanche se mi ammazzano!”.

Dopo di che uno capisce come io, scritto il diario, dovessi bruciarlo: nomi, fatti, responsabilità, considerazioni di carattere storico e politico, tutto è sta to bruciato e doveva bruciare assieme alle cartelle del diario.

298 daglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passa re attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso.

R AccONTI

Per venire alla mia storia, dirò che io assieme a un sacco d’altri ufficiali come me, mi ritrovai un giorno del settembre 1943 in un campo di concen tramento in Polonia, poi cambiai altri campi, ma dappertutto la faccenda era la stessa dei campi di prigionia, ed è inutile insistervi perché chi non è stato in prigionia in questa guerra, ci è stato nell’altra o ci andrà nella prossima. E se non ci è stato o non ci andrà lui, ci saran stati suo figlio, o ci andranno suo figlio, o suo padre, o suo fratello, o qualche suo amico.

Perché è l’unica roba valida, sicuramente valida che possa oggi essere pubblicata.Èl’unico materiale autorizzato, in quanto io non solo l’ho pensato e l’ho scritto dentro il Lager: ma l’ho pure letto dentro il Lager. L’ho letto pubblica mente una, due, venti volte, e tutti lo hanno approvato. […]

Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bru ti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. Sorsero i giornali parlati, le conferenze, la chiesa, l’università, il teatro, i concerti, le mostre d’arte, lo sport, l’artigianato, le assemblee regionali, i ser vizi, la borsa, gli annunci economici, la biblioteca, il centro radio, il commer cio,Ognunol’industria.sitrovò

improvvisamente nudo; tutto fu lasciato fuori del retico lato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si ritrovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effet tivaEpovertà.ognuno

GIOvANNINO GUAREschI 299 […]

diede quello che aveva dentro e che poteva dare, e così nacque un mondo dove ognuno era stimato per quello che valeva e dove ognuno con tava per uno. Non[…] ho aggiunto niente: ho bruciato il famoso diario perché non avevo il diritto di dire sul nostro Lager cose che non fossero state approvate dai miei compagni di Lager. Io sono ancora il democratico d’allora. Senza più cimici e pidocchi e pulci; senza più topi che mi camminano sulla faccia, senza più fame, anzi, senza appetito addirittura, e con tanto tabacco, ma sono ancora il democratico di allora, e sul nostro Lager non direi parola che non fosse approvata da quelli del Lager. Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia. Agli altri, a coloro che non hanno vissuto la nostra umile avventura, non so che effetto faranno queste paginette. Forse li annoieranno. D’altra parte anche io mi sono annoiato tante volte laggiù. Magari li potrà interessare il volumetto in sé: vale a dire la prigionia vista da un umorista. Comunque il libro è qui. Se la vedano i miei ventitré lettori. Se non va be ne, vuol dire che la prossima prigionia farò meglio. L’Autore Dicembre 1949

7. Cosa intende Guareschi dicendo di essere rimasto «vivo anche nella parte interna»?

8. Da quale punto di vista Guareschi descrive la prigionia nel suo «volumetto»?

2. Quale decisione prende l’autore una volta tornato a casa? Per quale motivo?

inizia a scrivere il suo diario Guareschi? Con quale scopo?

5. Che peso ritiene di aver avuto in questa guerra?

4. Cosa fa capire Guareschi della Seconda guerra mondiale?

9. «Comunque il libro è qui. Se la vedano i miei ventitré lettori. Se non va bene, vuol dire che la prossima prigionia farò meglio». Nella sua conclusione, dichiarando di avere ventitré lettori, Guareschi cita palesemente il grande scrittore ottocentesco Alessandro Manzoni che nella sua celebre opera I promessi sposi si rivolge ai suoi «venticinque lettori». Secondo te qual è lo scopo di questa citazione?

R AccONTI1.300Quando

3. Perché Guareschi definisce «clandestino» il suo diario?

6. Per quale motivo si ritiene «vittorioso» pur senza aver ricevuto alcun riconoscimento?

10. «L’unica cosa interessante, ai fini della nostra storia, è che io, anche in prigionia, conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: “Non muoio neanche se mi ammazzano!”». Prova a spiegare questa affermazione di Guareschi, facendo precisi riferimenti alle osservazioni da lui fatte nel testo.

GIOvANNINO GUAREschI 301

11. «Ognuno si trovò improvvisamente nudo; tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si ritrovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare, e così nacque un mondo dove ognuno era stimato per quello che valeva e dove ognuno contava per uno». Prova a spiegare questa osservazione di Guareschi alla luce dell’intero racconto.

12. «Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire». Queste dichiarazioni di Guareschi richiamano chiaramente i versi della Divina Commedia di Dante citati anche da Primo Levi nel racconto Il canto di Ulisse. Confronta le esperienze di Guareschi e Levi in merito, descrivile ed esponi le tue considerazioni a riguardo.

Posso però assicurarti che, a qualunque nazionalità appartenga, costui si darà da fare con ogni cura per collocarti una pallottola fra le scapole se tente rai di uscire dal recinto. E questo ti deve bastare. E per questo io ritengo utile cosa spiegarti, sulla base delle mie esperienze, come si possa andare a finire in un campo circondato da un filo spinato.*** I[…]colonnelli sognano?

Per la qual cosa anche tu, postero mio diletto, un bel giorno troverai nella casella della posta una cartolina che t’inviterà a presentarti immediatamen te a una determinata caserma, dove ti forniranno di utensili atti a danneggia re il prossimo tuo come te stesso. E, in seguito, per un determinato susseguir si di vicende, forse ti troverai — come ora si trova il tuo sciagurato padre — in un campo di concentramento.

Con «Lettere al postero» inizia la prima parte del diario relativa al 1943. Postero1 mio diletto, dopo una tremenda esperienza come l’attuale2, l’umanità è ben decisa a non lasciarsi trascinare in avventure belliche, e questa — come tutti sanno benissimo — sarà l’ultimissima guerra che affliggerà l’orbe terracqueo3.

Lettere al postero

R AccONTI302 GIOVANNINO GUARESCHI

Io non sono in grado di precisare se l’uomo che ti farà la guardia dall’alto d’una torretta sarà inglese, o russo, o francese, o tedesco, o italiano.

Sì: i colonnelli sognano come i comuni mortali di complemento4. E sogna no tutto quanto può sognare un comune mortale di complemento.

Non esiste nel regolamento restrizione alcuna al riguardo dei sogni, e non è raro perciò il caso di colonnelli in Servizio Permanente Effettivo i quali so gnano addirittura angeli. Angeli dai capelli d’oro e dalle ali azzurre, angeli che scendono dal cielo planando dolcemente come gli angeli sognati dai poe ti e dai fanciulli, ma che, atterrando davanti ai colonnelli, si mettono sull’at tenti con uno schiocco di tacchi secco e preciso.

Takk! 1 Postero: discendente, Guareschi si rivolge a suo figlio Alberto. 2 dopo una tremenda esperienza come l’attuale: Guareschi si riferisce all’esperienza della Seconda guerra mondiale. 3 l’orbe terracqueo: il mondo. 4 di complemento: soldati non professionisti. In tempo di guerra sono chiamati così i civili reclutati per aumentare il numero dei combattenti.

Cambiai tre paia di stivaloni e sei paia di speroni; feci blindare i tacchi, richiesi il parere autorevole d’un pedicure e di un maniscalco, presi ripeti zioni private da un ex-maresciallo di cavalleria, studiai lungamente davanti allo specchio, feci un calco in gesso dei miei piedi per meglio comprenderne l’impostazione, mi allenai, studiai con amore, ma, all’applicazione pratica, era come se i miei tacchi fossero di gelatina di pollo e i miei speroni di burro: Ploff E ogni ploff accendeva nel nobile viso del signor colonnello una smorfia di dolore.Laprova più tremenda — e si ripeteva due volte ogni giorno — era quella della mensa. Allora non soltanto il signor colonnello era spettatore della mia miseria, ma un intero consesso di brillanti ufficiali.

E lo schiocco fu appunto la mia maggiore preoccupazione d’allora, tanto più in quanto ben sapevo che, solamente con una adeguata serie di buoni schioc chi, avrei potuto sfatare la leggenda della mia «scarsa attitudine militare». Ma il destino mi fu sempre avverso.

Entravo nella sala e, appena mi avvistavano, si faceva silenzio di tomba e gli occhi erano tutti sopra di me, e le orecchie erano tutte tese. Salutavo col braccino graziosamente levato, come era prescritto allora, e battevo i tacchi con disperata forza. Come se un pezzo di burro cadesse in un mucchio di farina: Ploff… Il signor colonnello scuoteva il capo sospirando e tutti riprendevano a mangiare mentre io vedevo accendersi sopra la testa d’ognuno dei presenti una di quelle nuvolette famose dei giornali per bambini e, dentro ogni nuvo letta, era scritto a caratteri fiammeggianti: «Scarsa attitudine militare». Mi misi d’accordo con un sottotenente effettivo abilissimo negli schiocchi, il quale sedeva al posto più vicino alla porta.

Io sarei entrato e, mentre salutavo, lui avrebbe schioccati i tacchi di sot to il tavolo. Ricorsi cioè al doppiaggio, ma, dopo due sole prove, abbandonai l’impresa: la prima volta lo schiocco avvenne un buon minuto dopo del mio scatto; la seconda lo schiocco avvenne mentre io stavo ancora camminando. E così continuai i miei ploff, e il signor colonnello ne soffriva come se, ogni volta, gli conficcassi uno spillone nel cuore.

Orbene, postero mio diletto, sapendo quale importanza i colonnelli annet tano allo schiocco, tuo padre, anima gentile, trovandosi in quotidiano contat to con un vecchio colonnello, poteva trascurare il particolare dello schiocco?

GIOvANNINO GUAREschI 303

Se esistono, nel nostro o nell’altro mondo, creature mortali o immortali che (per ragioni tecniche e artistiche) debbono camminare scalze, queste so no proprio gli angeli. Ma è tale e tanto, nei colonnelli, l’amore per lo schiocco, che gli angeli stessi (quando intervengono nei sogni di qualche colonnello) non trascurano mai d’infilarsi un buon paio di stivali corredati — nel caso specifico di angeli di cavalleria e d’artiglieria — di robusti e tintinnanti spero ni. E si presentano sempre così, con un formidabile schiocco di tacchi.

1. A quale «postero» si rivolge Guareschi? Cosa desidera spiegargli? Perché?

3. Come cerca di risolvere il suo «problema»? Che risultati ottiene?

Ma una mattina d’autunno, mentre io ero «nei ranghi» in mezzo al cor tile d’una caserma, squillò l’attenti e — come dicevo al principio della mia storia — accadde qualcosa di meraviglioso. I miei tacchi cozzarono e si udì uno schiocco formidabile: Takk! «Finalmente!», esclamai trionfante. Poi guardai i miei piedi e tutto fu chiaro, e io mi sentii meno trionfan te: non calzavo più i soliti stivali, ma due zoccoli con suole di legno alte sei centimetri.Eroprigioniero.

2. Qual è la preoccupazione di Guareschi durante la permanenza nella caserma in cui è stato richiamato come tenente di artiglieria durante la Seconda guerra mondiale? Per quale motivo?

4. Cosa accade inaspettatamente «una mattina d’autunno»? Cosa rende evidente tale avvenimento? Dove si trova Guareschi?

R AccONTI304

Ploff! Ploff! Quante volte udii il dannato, vergognoso ploff ?

5. Rileggi l’introduzione al racconto di Guareschi destinata al figlio e prova a spiegare le affermazioni ironiche dell’autore: di cosa è certo? In forza di cosa? 1 la Carlottina: la figlia di Guareschi, sorella minore di Alberto. 2 6865: numero assegnato a Guareschi in lager.

* * * Fu così, postero mio, proprio così. E la prossima volta ti racconterò come ci arrivai, nel cortile di quella grande caserma polacca. Nel frattempo saluta la mamma, la nonna e la Carlottina1, e fa il bravo a scuola, e impara a contare fino al numero 68652. Che poi sono io, tuo padre. (Lettura al giornale parlato “La Campana” Lager XB – Sandbostel – 1944)

2. In quale posizione si trova la toppa del cappotto consegnato a Guareschi? Cosa vi entra? Cosa provoca nell’autore? Perché?

GIOVANNINO GUARESCHI La porticina della morte 31 ottobre

1. Quale caratteristica hanno «molti dei cappotti russi distribuiti ai meno abbienti»? Da cosa è stata causata?

3. L’autore utilizza un’immagine metaforica: rintracciala nel testo e spiegala.

Molti dei cappotti russi distribuiti ai meno abbienti hanno una piccola toppa sul petto o sulla schiena. Una piccola toppa rotonda che chiude il buco attra verso il quale entrò una pallottola e uscì un’anima. Il mio cappotto ha una piccola toppa proprio in corrispondenza del cuore. Ed è ben cucita, e di panno spesso, ma — dal forellino che essa copre — entra un sottile soffio d’aria gelida anche quando non c’è vento e il sole è tiepido. E il cuore duole, trafitto da quello spillone di ghiaccio.

305

I brani successivi sono contenuti nella seconda e più ampia parte del diario, relativa al 201944.gennaio Racconti di guerra: Russia, Croazia, Albania, Montenegro, Africa, cielo, mare. Qui si vivono mille vite, la guerra si moltiplica in mille episodi, e non è più una parola, ma un concetto di spaventosa, terrificante, infernale evidenza. Anche per chi non l’ha vissuta. Ma domani la storia diventerà letteratura, e si faranno recensioni ai libri, non alla guerra. E si dirà — come per Remarque —: «Che bel libro!». E nessuno dirà: «Che orrore di guerra!».

1. Guareschi cita diverse località: a quali fronti di guerra si riferisce?

R AccONTI306 GIOVANNINO GUARESCHI Eterno pericolo

2. Cosa è evidente a tutti della guerra?

3. Qual è l’«eterno pericolo» contro cui Guareschi vuole mettere in guardia?

4. «Ma domani la storia diventerà letteratura, e si faranno recensioni ai libri, non alla guerra. E si dirà — come per Remarque —: “Che bel libro!”. E nessuno dirà: “Che orrore di guerra!”». Prova a spiegare cosa intende l’autore con questa osservazione. Poi confronta la tua risposta in classe con quella dei compagni.

E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia ca sa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c’è anche una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina.

Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall’ira farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s’è visto s’è visto. L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania.(Dallaconversazione

“Baracca 18” Lager di Beniaminovo – 1944)

2. Cosa desidera dimostrare Guareschi? Con quali argomenti avvalora la sua tesi?

Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io nonÈesca.inutile

3. Rispondi dopo aver sottolineato nel testo con due colori differenti la tesi e gli argomenti della sua argomentazione.

307

1. A chi si rivolge Guareschi? Con quale figura retorica?

GIOVANNINO GUARESCHI Signora Germania

4. L’autore utilizza delle immagini metaforiche: rintracciale nel testo e spiegale.

5. Dopo aver esposto la tesi e gli argomenti dell’argomentazione di Guareschi, presenta le tue considerazioni personali su di essa.

signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi.

Giunto a questo punto del racconto, sarà bene fare un passo indietro, in modo da riportarci cioè al momento in cui la signora 3432 virgola 5 (io sono infatti il numero 68651 ed essa è la mia metà), al momento, dicevo, in cui la dolce signora che mi conobbe libero e signorino si compiace seco stessa d’es sere riuscita finalmente a spedire un pacco di cibarie al padre del suo nume roso Albertino e della sua molteplice Carlotta.

“Forse è meglio bleu-marin” rettifica3 mentalmente l’esimia signora. “Gli dona di più.”

R AccONTI308 GIOVANNINO GUARESCHI

“Attenzione: pacco del signor Giovannino! Agganciate un vagone speciale al direttissimo 334. Già partito? Fate immediatamente un bis dalla stazione di Bologna. Come?… Partita anche la stazione di Bologna?… Beh, insomma, arrangiatevi!”Ilpaccoèin viaggio, ormai: solo, in uno scompartimento di prima classe, molleggiato su un cuscino di seta azzurra. La gente che aspetta sotto la pen silina delle varie stazioni, si scopre rispettosamente quando transita il con voglio speciale. “Giù il cappello!” esclama indignato un solenne vegliardo4, 1 6865: il numero col quale è stato registrato al campo. 2 l’esimia: l’illustre, la celebre (ironico). 3 rettifica: corregge. 4 vegliardo: anziano.

Il direttore impartisce le sue disposizioni, e il pacco lascia gli uffici posta li. Ma non nel furgone, assieme agli altri, bensì solo e recato a braccia da un incaricato di fiducia sopra un cuscino di velluto amaranto.

“Il pacco del signor Giovannino? Provvedo immediatamente!” esclama il capostazione attaccandosi al telefono.

“Ecco” pensa la eccellente personaggia. “Adesso il pacco è in procinto di mettersi in viaggio. Il ministero delle Comunicazioni telefona al direttore del le Poste: ‘Voi’ dice il ministero (voi, perché l’esimia2 signora appartiene al bel paese là dove il voi suona ancora) ‘voi fate attenzione al pacco del signor Gio vannino: che sia trattato come si deve.’

Il pacco rotto Oggi ho ricevuto un pacco.

E subito avviene la sostituzione del cuscino. “C’è il pacco del signor Giovannino!” avverte l’incaricato di fiducia appena arriva alla stazione.

‘Figuratevi!’ risponde il direttore. ‘Ho già licenziato l’impiegato che l’aveva timbrato senza prima chiedergli scusa. State tranquillo.’

5 «Das Paket des Herrn Giovanninen!»: «C’è il pacco del signor Giovannino!», in tedesco.

6 Sandbostel: cittadina tedesca della Bassa Sassonia, sede dal 1939 di un Lager volto alla detenzione dei prigionieri politici, in cui sono stati detenuti più di 300.000 prigionieri di guerra, civili e militari di più di 55 Paesi, fra cui i militari italiani catturati come Guareschi dopo l’8 settembre 1943. La maggior parte furono condannati ai lavori forzati, per cui moltissimi morirono di stenti, malattie o giustiziati.

GIOvANNINO GUAREschI 309

reduce dal quadrato di Villafranca1, a un giovinastro corrotto dai film ame ricani e dalla musica sincopata2. “Giù il cappello, quando passano i pacchi della(LaPatria!”signora si eccita alla scena: una lezione al giovinastro non gli starebbe male. E immediatamente un robusto facchino3 si avvicina al giovinastro e lo prende a calci. Bene! Così impara a rispettare i pacchi.)

4 Bremervörde: cittadina tedesca della Bassa Sassonia.

Il viaggio prosegue nel più felice dei modi. Siamo ormai alla stazione di Bremervörde4.“DasPaketdes

3 facchino: portatore di bagagli.

2 musica sincopata: musica nella quale gli accenti forti sono spostati rispetto alla produzione di base. L’effetto è quello di rendere ancora più ritmico il risultato. Già presenti negli spiritual, le sincopi si trovano poi in tutto il blues e la musica leggera che ne deriva, a cui l’autore fa riferimento.

1 quadrato di Villafranca: il sistema fortificato del Quadrilatero che assunse importanza vitale per la sicurezza asburgica in Italia, all’imbocco della Val Lagarina lungo il fiume Adige. Vi si ritirò l’esercito comandato da Radetzky durante la prima guerra d’indipendenza nel lontanissimo 1848.

Herrn Giovanninen!”5 telefonano al campo. E chiedono se debbono inviarlo per via ordinaria, con l’autocarro. “Ma neanche per sogno!”

Un tassì parte da Bremervörde recando a bordo il pacco di riguardo, e ar riva al campo dove il pacco viene consegnato al destinatario con breve ma vibrante cerimonia. Giovannino è servito!*** Questo dev’essere, senza dubbio, il concetto che la eccellente signora ha sul la faccenda dei pacchi. Altrimenti non ci si spiegherebbe come – dovendo inviare cibarie da Parma a Sandbostel6 – la detta signora si sia servita, co me imballaggio, di una cassettina costituita da sei tavolette dello spessore di millimetri uno, tenute assieme, più che da otto chiodini, da una disperata volontà di conservare – anche contro i decreti di Dio – la loro unità nazionale. Occorre riconoscere onestamente che – qualora la sua marcia di trasferi mento si fosse svolta secondo i desideri della signora di cui sopra – la casset ta sarebbe giunta incolume al suo destino. Sempre che – si capisce – il coper chio avesse resistito al peso del modulo regolamentare applicatovi sopra. Ma, dato che le cose dovettero svolgersi un po’ diversamente dai piani prestabiliti

4 torba: il combustibile a scarso potere calorico, ricavato dai residui delle piante 5paludose. distinta: elenco dei prodotti contenuti nel pacco.

2 inurbani: scortesi, rozzi.

1 i resti … del mondo: allusione alla frase conclusiva del Bollettino della vittoria, col quale il generale Armando Diaz, capo di stato maggiore dell’esercito italiano, comunicava il 4 novembre 1918 alla sua nazione l’esito della decisiva battaglia di Vittorio Veneto: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza».

R AccONTI

3 tristanzuolo: da tristanza, tristezza. Letteralmente: piuttosto cattivo e meschino.

6 polvere “razzia”: insetticida in polvere a base di piretro, chiamata “di razzia” per analogia con le devastazioni e le stragi indicate da questo nome.

310 dalla esimia mittente, io oggi – approfittando della giornata festiva – ho rice vuto, più che un pacco, un sacchetto in fondo al quale si addensavano i resti di quello che fu uno dei più potenti pacchi del mondo1. Come ben si vede, se io avessi detto semplicemente che oggi ho ricevuto un pacco rotto, mi sarei trovato allo stesso identico punto di partenza in cui mi trovo ora, risparmiando però di dire alcune migliaia di parole inutili. Ma cosa ci posso fare? La letteratura si fa così. Come la politica, del resto. * * * Oggi dunque ho ricevuto un pacco rotto e (scusate se salto a piè pari nel pas sato remoto, ma la vicenda è così incresciosa che cerco di allontanarla il più possibile) mi portai subito allo stanzino di Talotti, dove giunto rovesciai il contenuto della mia coperta sul tavolo. Non c’era nessuno, ma poco dopo en trò Talotti, il quale si trasse la pipa di bocca e scosse il capo, e disse con voce accorata:«Nonti puoi allontanare un minuto che subito ti fanno i soliti scherzi inur bani2. Chi può essere il tristanzuolo3 che m’ha rovesciato l’immondizia sulla tavola?».«Mache immondizia!» borbottò Schenardi che sopraggiungeva assieme a Coppola. «Non vedi che è la nostra spettanza di torba4?» «Torba?» esclamò Coppola. «Quelle sono fettuccine di rape. Le danno alla mano, adesso?» «È il mio pacco» spiegai io con dignità. «Quelle che sembrano fettuccine di rape sono i trucioli dell’imballaggio trattati con burro e cacao. Il quale ca cao sparso sui sacchetti, sulle scatolette di cartone schiacciate e sui frantumi della cassetta, dà pure l’idea della torba e della spazzatura». Seguirono dieci minuti di silenzio profondo e di immobilità assoluta, quin di io mi appressai al tavolo e trassi dalle macerie qualcosa che biancheggiava. Era la distinta5 dell’ex-contenuto, e io la lessi ad alta voce: «Marmellata, burro, miele, cacao, riso, farina bianca, tabacco, zucchero, polvere “razzia”6, formaggio grana, sapone».

«C’e quasi tutto» spiegò. «Mancano soltanto il miele e la polvere di razzia.» Riso, cacao, farina e zucchero, erano finiti tutti assieme: però con un se taccetto di fortuna si era potuto isolare e recuperare completamente il riso. Farina, cacao e zucchero, gettati preventivamente in acqua in modo che, ve nendo a galla, polvere e frammenti potessero venire eliminati, attendevano soltanto un po’ di latte condensato e una bollitura per trasformarsi in eccel lente budino alla cioccolata.

La sera banchettammo. Mentre l’acqua del riso realizzava una lunga serie di vittorie difensive contro il fumo della torba che tentava di portarla all’ebol lizione, si stabilì di anticipare l’attacco alla marmellata, e il primo a scattare fu Coppola, l’insigne musicista. Spalmò di marmellata una buona fetta di pa ne, l’addentò, masticò rapidamente, inghiottì, quindi si alzò di scatto e partì come una fuga di Bach1. Seguì un determinato periodo di disorientamento, quindi Schenardi – che intanto aveva studiato attentamente il panino – comunicò:«Trovatoanche miele e polvere razzia. Questo, più che un vasetto di mar mellata, è un vasetto di miele insetticida. La razzia s’è mescolata infatti al miele dandogli il colore caratteristico della conserva d’albicocche». «E la marmellata propriamente detta?» notò pacatamente Talotti. «Che fi ne ha L’Artigliofatto?»iniziò le sue ricerche nei cascami2 del pacco ammucchiati in un 1 come … Bach: intendi ‘velocemente’. 2 cascami: residui, scarti.

ore dopo: Coppola stava eseguendo dell’ottima sua musica sulla fisarmonica. Talotti – garbatamente sistemato nella cuccetta – fumava gravemente la pipa, mentre Schenardi, gocciolante di sudore e inzaccherato fino agli occhi, dava gli ultimi tocchi al suo infernale lavoro di recupero.

«Io faccio un salto alla baracca 31 dove mi aspettano per l’adunata dei na poletani» disse Coppola uscendo. «Poi vengo a darvi una mano.»

«Ottimo pacco!» disse Talotti con la sua voce pacata di vecchio gentiluomo veneto.«Vediamo invece cosa manca!» disse Schenardi pratico e sbrigativo come sono appunto gli uomini della terra ligure.

«Se resto qui prendo tutta quella porcheria e la sbatto nella stufa» dissi io. E me ne Ritornaiandai.tre

Lo Schenardi venne assai lodato e complimentato, e io e Talotti decidem mo di chiamarlo “Artiglio”, quale riconoscimento delle sue eccezionali doti di recuperatore di tesori naufragati. Coppola continuò a chiamarlo “Maria” in omaggio alle sue provate doti di cuoca e massaia, ma giunse – tanto era l’en tusiasmo – persino a lodare la sua famosa camicia. Una camicia di flanella scozzese da cowboy, che era arrivata all’ottimo Schenardi al campo in Polo nia, accompagnata da un significativo biglietto della fidanzata: «Ti servirà per sciare. Debbo mandarti anche gli sci, o ve li passa la dire zione dell’albergo?».

GIOvANNINO GUAREschI 311

«E il sapone, allora?» chiese Coppola che rientrava proprio mentre stava mo buttando nella immondizia il sedicente sapone. Rimandammo le ricer che a più tardi. Il riso infatti era cotto, e noi avevamo bisogno davvero di un po’ di conforto, dopo tante amarezze. Come al solito, Coppola fu il primo a portare il cucchiaio colmo di riso alla bocca. Inghiottì, poi fece una smorfia. «Puzza maledettamente di tabacco!» protestò. «Una puntina insignificante» dissi io. «Due buone cucchiaiate di formag gio grattugiato metteranno a posto tutto.» Formaggiammo abbondantemente il riso. Ma stavolta il musicista fu mol to cauto e, prima d’infilare il cucchiaio in bocca, attese che cominciassero gli altri. E intanto agitava col cucchiaio la minestra per distribuire meglio il for maggio. A poco a poco – spettacolo invero suggestivo – una candida schiuma si formava sopra il brodo.

R AccONTI312 angolo; ma non trovò niente, e uscì per andare a lavarsi le mani alla pompa. Quando poco dopo ritornò, aveva le mani più impiastricciate di prima, ma era particolarmente soddisfatto.

«Trovata anche la marmellata» disse. «Questo cubetto non è il sapone del pacco, come stimammo in un primo tempo; è marmellata solida che si è sec cata. Il burro le ha dato quella patina lucida e un po’ untuosa che ci ha indotti appunto a scambiarla per sapone.»

«Trovato anche il sapone» annunciò soddisfatto l’Artiglio dopo aver ana lizzato il cartoccio del parmigiano. Il formaggio infatti era stato tratto sbricio lato dalle macerie del pacco: ma mentre parte delle briciole erano formaggio propriamente detto, parte invece erano frammenti di un pezzo d’ottimo sa pone bianco tipo “Marsiglia”.

Rimanevano ancora gli ingredienti per la fabbricazione del budino. Ma l’Artiglio – molto prudentemente – stava già compilando un cartello: «Cedo ottimo budino alla cioccolata per due sigarette». * * * Oggi dunque ho ricevuto un pacco rotto, e sono tanto contento anche se alla fine m’è rimasto di esso soltanto un cartoncino orribilmente sudicio. Perché io ho lavato con estrema cura quel cartoncino e ad un tratto – come la luna

«Bene!» disse Coppola alzandosi e uscendo disgustato. «Bene! Allora c’era proprioTalotti,tutto.»con la sua grazia sommessa, dissipò l’atmosfera di imbarazzo che incombeva sui tre rimasti nella stanzetta. «Facciamoci sopra una buona fumata, e non se ne parli più.» Riempimmo le pipe e demmo fuoco aspirando gagliardamente. Così un minuto dopo la cameretta sembrava una friggitoria di pesce, e Talotti gettava fuori della finestra la pipa e cominciava a sputare pronunciando espressioni di indubbia volgarità. Non stupitevi per questo modo d’agire da parte di un irreprensibile gentiluomo quale è effettivamente il mio ottimo amico. Avete mai provato a fumare tabacco al burro?

1. Come Guareschi definisce la moglie? Perché? Cosa denota del suo stile di scrittura? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo gli appellativi dati alla moglie dall’autore.

2. In quali condizioni arriva il pacco inviato a Guareschi dalla moglie? Secondo l’autore perché? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni dell’autore a riguardo.

Qual è la parte che Guareschi afferma che avrebbe potuto saltare? Perché? Qual è quindi, secondo Guareschi, la caratteristica fondamentale della letteratura? Perché, secondo te, la paragona alla politica? Rispondi dopo averne dialogato in classe con compagni e insegnante di italiano.

4. Cosa accade una volta che Guareschi porta il suo pacco rotto nello stanzino di Talotti? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo gli avvenimenti narrati dall’autore in merito.

6. Tutto il racconto è caratterizzato dall’umorismo tipico di Guareschi: sottolinea le espressioni più esplicitamente umoristiche.

GIOvANNINO GUAREschI 313

3. Come giustifica l’autore il passaggio improvviso dai tempi del presente ai tempi del passato? Cosa fa emergere con questa osservazione?

5. Cosa rimane a Guareschi di tutto il contenuto del pacco? Quale sentimento provoca in lui?

quando buca il velo delle nuvole – è apparso un faccino tondo e paffuto. La prima fotografia di Carlotta. Quindi io stasera sono felice, perché secondo me oggi ho ricevuto il pacco più straordinario dell’universo. Il che è bello e istruttivo. (Da “Bertoldo parlato” – Sandbostel – 1944)

7. «Come ben si vede, se io avessi detto semplicemente che oggi ho ricevuto un pacco rotto, mi sarei trovato allo stesso identico punto di partenza in cui mi trovo ora, risparmiando però di dire alcune migliaia di parole inutili. Ma cosa ci posso fare? La letteratura si fa così. Come la politica, del resto».

conclude il suo racconto dicendo: «Oggi dunque ho ricevuto un pacco rotto, e sono tanto contento anche se alla fine m’è rimasto di esso soltanto un cartoncino orribilmente sudicio. […] io stasera sono felice, perché secondo me oggi ho ricevuto il pacco più straordinario dell’universo. Il che è bello e istruttivo». Spiega cosa rende il pacco rotto ricevuto dall’autore il «più straordinario dell’universo» e cosa rende quindi possibile la felicità anche in un luogo disumano come un Lager nazista, tenendo presente tutti i brani letti di Guareschi. 9. Guareschi afferma che: «l’umorismo – termine che può essere preso come riassuntivo della facoltà di scoprire il lato comico nelle cose e (usando della satira, della parodia, della ironia e della caricatura) di metterlo in evidenza sì da indurre al riso o al pianto – in sostanza (pur se apparentemente sembra un’arma di offesa) è una potente e benefica arma di difesa. […] L’umorismo è l’acido col quale si prova se il metallo che vi presentano come oro è veramente oro. L’umorismo non distrugge. L’umorismo rivela ciò che deve essere distrutto perché cattivo. L’umorismo distrugge soltanto l’equivoco. Rafforza ciò che è sostanzialmente buono»1.

Prova a spiegare il significato delle affermazioni di Guareschi, facendo precisi riferimenti ai testi letti, ed esponi le tue considerazioni in merito.

10. Sia Primo Levi sia Guareschi raccontano l’esperienza vissuta nei lager nazisti: dialoga con compagni e insegnante su quali elementi accomunano e distinguono i loro racconti, poi esponi le tue considerazioni in merito.

1 Giovannino Guareschi, Umorismo, Guareschi: «Una potente arma di difesa», Avvenire.it, 30 luglio 2012, <www.avvenire.it/agora/pagine/guareschi-un-potente-arma-di-difesa>.

R AccONTI8.314Guareschi

2 In base all’articolo 58 del Codice penale, in vigore fino al 1959, si punivano i reati «controrivoluzionari», e cioè tutte le forme di attacco agli interessi e alla sicurezza dello Stato. Gli «articoli cinquantotto» erano perciò i detenuti politici.

315 VARLAM ŠALAMOV Sulla parola

3 alla buriata: i buriati sono la più grande minoranza etnica della Siberia. L’espressione indica una particolare postura tipica dei buriati.

Sulle coperte c’era un lurido cuscino di piume, e gli avversari erano seduti uno da una parte, uno dall’altra del cuscino, le gambe ripiegate alla buriata3: la classica posa dei combattimenti a carte nelle prigioni. Sul cuscino c’era un mazzo nuovo. Si trattava di carte comuni: erano carte da galera, fatte a ma no, fabbricate con straordinaria rapidità dai maestri in quest’arte. Per farle ci vuole un po’ di carta (qualsiasi libro), di pane (da masticare e passare attra verso un cencio per farne uscire l’amido che servirà per incollare i fogli), un mozzicone di matita copiativa (che sostituisce l’inchiostro tipografico) e un coltello (per ritagliare le sagome dei semi e le carte stesse).

Le carte di oggi erano appena state tagliate da un volumetto di Victor Hugo

1 cavallante: guardiano di cavalli.

Nei suoi Racconti della Kolyma , pubblicati nel 1978, Šalamov narra la vita dei de tenuti nei lager sovietici in Siberia, da lui sperimentata personalmente tra il 1937 e il 1953 a causa della sua opposizione a Stalin, svelando all’Occidente il vero volto del regime comunista sovietico che ha provocato la morte di decine di milioni di uomini condannati ai lavori forzati. Si giocava a carte dal cavallante1 Naumov. I sorveglianti di turno non an davano mai a ficcare il naso nella baracca dei cavallanti, ritenendo giusta mente che il proprio compito principale consistesse nella sorveglianza dei condannati in base all’articolo cinquantotto2 . Di regola, d’altronde, i cavalli non li affidavano ai controrivoluzionari. A dire il vero i più pratici tra i capi sotto sotto borbottavano: in quel modo li si privava dei lavoratori migliori, dei più diligenti, ma le istruzioni a questo proposito erano severe e precise. Per farla breva, lì dai cavallanti era il posto più sicuro, e ogni notte ci si riunivano quelli della malavita per i loro duelli a carte. Nell’angolo della baracca, c’erano, sui tavolacci inferiori, variopinte co perte imbottite. Al pilastro d’angolo era fissata con una corda una «kolymka», cioè una lampada artigianale che funzionava col vapore di benzina. Nel co perchio di un barattolo di latta venivano saldati tre o quattro cannelli di rame con le estremità aperte – ecco tutto il congegno. Per accendere la lampada bastava mettere sul coperchio della brace ardente, la benzina si riscaldava, il vapore saliva su per i cannelli e il gas di benzina cominciava a bruciare al contatto di un fiammifero acceso.

R AccONTI

Nessuno dei maestri si sarebbe abbassato a prendere parte a giochi di gruppo come očki. Né avevano paura di sedersi a giocare con un bravo esecu tore – così come agli scacchi il vero combattente cerca sempre un avversario forte.

316 che qualcuno aveva dimenticato in ufficio il giorno prima. Era una carta spes sa, compatta: non c’era stato bisogno di incollare tra loro le pagine come si fa quando il foglio di carta è sottile. Nel lager, a ogni perquisizione, le matite copiative venivano regolarmente requisite. Le requisivano anche al controllo dei pacchi in arrivo. Lo si faceva non soltanto per «reprimere» la possibilità di preparare documenti e bolli falsi (c’erano molti artisti anche di questo ge nere), ma per eliminare tutto ciò che può fare concorrenza al monopolio di Stato sulla carta. Con la matita copiativa si preparava l’inchiostro e con l’in chiostro, attraverso una sagoma di carta approntata allo scopo, si disegnava no le carte – dame, fanti, famiglie di tutti i semi… I semi non avevano colori diversi – e i giocatori non avevano nemmeno bisogno di quella distinzione. Per raffigurare il fante di picche, per esempio, bastavano due picche agli an goli opposti della carta. Disposizione e forma dei disegni erano le stesse da secoli: la capacità di fabbricare carte da gioco con le proprie mani faceva par te del programma di addestramento «cavalleresco» del giovane malavitoso. Sul cuscino c’era il mazzo di carte nuovo, e uno dei giocatori ci tamburel lava sopra con la mano sporca dalle dita sottili e bianche di non-lavorato re. L’unghia del mignolo era di una lunghezza smisurata: un’altra sciccheria dei malavitosi, così come le «corone», le capsule d’oro, o più esattamente di bronzo, applicate su denti assolutamente sani. C’erano persino dei maestri in quest’arte, falsari di protesi dentarie che guadagnavano non pochi extra fabbricando queste capsule che trovavano sempre un acquirente. Quanto al le unghie, l’abitudine di colorarle sarebbe sicuramente entrata nei costumi del «mondo criminale» se nelle prigioni fosse stato possibile procurarsi della lacca. Un’unghia gialla, ben curata, riluceva come una pietra preziosa. Il pro prietario dell’unghia si passava la mano sinistra tra i capelli biondi, sporchi e appiccicosi, tagliati accuratamente a spazzola. La fronte bassa, senza una sola ruga, i gialli cespuglietti delle sopracciglia, una piccola bocca da galli na – tutto questo conferiva al suo viso una qualità importante per l’aspetto esteriore di un ladro: la banalità. Era una faccia impossibile da ricordare. La guardavi e te l’eri già dimenticata, ti eri scordato tutti i lineamenti, e riveden dolo non l’avresti riconosciuto. Si trattava di Sëvočka, grande intenditore di terc, stos e bura, tre giochi classici, esegeta ispirato di migliaia di regole che devono essere rigidamente osservate durante un vero scontro. Di Sëvočka si diceva che fosse un «esecutore eccezionale», e cioè che avesse la scien za e la destrezza del baro. Ed era un baro, certo – per i ladri un gioco leale è esattamente un gioco fondato sull’inganno: sta a te controllare l’avversario e coglierlo in flagrante, barare è permesso, e devi saperlo fare tu stesso, saper «strappare sul campo» il frutto della dubbia vittoria. Si giocava sempre in due: uno contro un altro.

L’avversario di Sëvočka era Naumov in persona, caposquadra dei caval

vARl AM ŠAl AMOv 317 lanti. Era più anziano del rivale (d’altronde quanti anni poteva avere Sëvočka: venti? trenta? quaranta?), aveva i capelli neri e nei suoi occhi neri, profon damente infossati, c’era una tale espressione di sofferenza che se non aves si saputo che Naumov era un ladro originario del Kuban’1, specializzato in furti sui treni, l’avrei preso per un pellegrino – un monaco, un membro del la famosa setta «Dio solo sa», una setta che già da alcuni decenni si poteva incontrare nei nostri lager. Quest’impressione si rafforzava quando vedevi il cordino con la crocetta di stagno appeso al collo di Naumov, che teneva sbottonato il colletto della camicia. Quella piccola croce non era affatto uno scherzo blasfemo, un capriccio o un’improvvisazione. A quel tempo tutti i malavitosi portavano al collo crocette di alluminio: era un segno di riconosci mento dell’ordine cui appartenevano, una sorta di tatuaggio. Negli anni Venti quelli della malavita portavano berretti da tecnici, e pri ma ancora «alla capitana». Negli anni Quaranta, d’inverno, usavano invece le kubanki2, si rimboccavano gli stivali di feltro e al collo portavano la croce. Di solito la croce era liscia, ma se capitavano degli artisti, li costringevano a incidere sulla croce con un ago i loro temi preferiti: un cuore, una carta da gioco, una croce, una donna nuda… La croce di Naumov era liscia. Penzolava sul suo scuro petto nudo impedendo di leggere la «puntura» blu – e cioè il ta tuaggio di una citazione da Esenin3, l’unico poeta riconosciuto e canonizzato dal «mondo dei criminali»: Così poca la strada percorsa, così tanti gli errori commessi. «Che ti giochi?» sibilò tra i denti Sëvočka con infinito disprezzo: anche questo era ritenuto bon ton per cominciare una partita. «Questi stracci qui. Il vestito…» e Naumov si diede un colpo sulle spalle. «Cinquecento» fu la valutazione dell’abito fatta da Sëvočka. In risposta echeggiò una sonora ed elaborata bestemmia destinata a convincere l’avversario che l’oggetto valeva molto di più. Gli spettatori rac colti attorno ai due giocatori attendevano pazientemente la conclusione dell’ouverture di rito. Sëvočka non restò in debito e bestemmiò in modo an cora più violento abbassando il prezzo. Che alla fine fu fissato a mille rubli. Da parte sua Sëvočka si giocò alcuni maglioni lisi. Dopo che i maglioni furono valutati e subito gettati sulla coperta, Sëvočka mischiò le carte. Io e Garkunov, un ex ingegnere tessile, segavamo la legna per la baracca di Naumov. Era un lavoro notturno: dopo la nostra giornata di lavoro agli scavi dovevamo segare e spaccare la legna sufficiente per ventiquattr’ore. Andava

1 Kuban’: zona geografica del sud della Russia.

2 kubanki: altro tipo di cappello, fatto di pelliccia naturale.

3 Esenin: Sergej Aleksandrovič Esenin (1895-1925) è stato un poeta russo. Autentico prodigio letterario, condusse una vita piuttosto movimentata prima di morire giovanissimo, appena trentenne.

318 mo dai cavallanti subito dopo cena, lì faceva più caldo che nella nostra barac ca. Una volta terminato il lavoro, il piantone di Naumov ci versava nelle ga melle un po’ di «broda» fredda: i resti dell’unico piatto, sempre lo stesso, che nel menu della mensa veniva chiamato gnocchi all’ucraina, e ci dava un pez zo di pane a testa. Ci sedevamo per terra in un angolo qualunque e ingollava mo rapidi quello che ci eravamo guadagnati. Mangiavamo nel buio più tota le – le lampade a benzina della baracca illuminavano il campo da gioco; ma, come hanno giustamente osservato i veterani della galera, «col cucchiaio dif ficilmente sbagli mira». E adesso guardavamo la partita tra Sëvočka e Nau mov. Naumov aveva perso i suoi «stracci». Giacca e pantaloni stavano sulla coperta accanto a Sëvočka. Ora si stavano giocando il cuscino. L’unghia di Sëvočka tracciava nell’aria complessi arabeschi. Tra le sue mani le carte ora scomparivano, ora riappa rivano. Naumov era in canottiera: la kosovorotka1 di satin aveva fatto la stessa fine dei calzoni. Mani premurose gli avevano gettato sulle spalle un giacco ne imbottito, ma con un brusco movimento Naumov lo fece cadere per terra. All’improvviso calò il silenzio. Senza fretta Sëvočka grattava il cuscino con l’unghia.«Migioco la coperta» disse rauco Naumov. «Duecento» rispose Sëvočka con voce indifferente. «Mille, figlio di puttana» gridò Naumov. «Mille per cosa? Non vale un cavolo! È uno schifo, merda» disse Sëvočka spiccicando le parole. «Solo perché sei tu la gioco a trecento». La battaglia continuava. Secondo le regole non può essere conclusa finché l’avversario è ancora «all’altezza». «Mi gioco gli stivali!» «No, gli stivali no» fece Sëvočka con fermezza. «Non gioco con la roba del lo Stato».Contro un valore di pochi rubli Naumov perse un asciugamano ucraino coi galletti e un portasigarette con il profilo di Gogol’2: tutto finì nelle tasche di Sëvočka. Sotto la pelle scura le guance di Naumov si fecero di fiamma. «Sulla parola» disse in tono servile. «Quello che ci mancava!» replicò Sëvočka vivacemente, e tese dietro di sé la mano: gli misero immediatamente tra le dita una sigaretta di machorka3 ac cesa. Sëvočka aspirò profondamente e cominciò a tossire. «Che me ne faccio della tua parola? Non ci sono nuovi convogli, dov’è che vai a trovare qualcosa? Da quelli della scorta?». Accettare di giocare sulla parola, cioè a credito, era secondo la «legge» un favore facoltativo, ma Sëvočka non voleva offendere Naumov, privarlo della sua ultima possibilità di rivincita.

1 kosovorotka: tipo di camicia.

2 Gogol’: Nicolaj Vasil’evič Gogol’ (1809-1852), poeta e drammaturgo, è stato uno dei più grandi letterati russi.

R AccONTI

3 machorka: tipo di tabacco russo.

Sëvočka faceva accenni d’approvazione col dito: le cose di lana erano mol to apprezzate. Una volta lavato e spidocchiato col vapore, il pullover poteva portarlo anche lui, il disegno era bello.

«Non me lo levo» disse Garkunov con voce rauca. «Me lo dovrete strappare insieme alla pelle…».

vARl AM ŠAl AMOv 319 «D’accordo per cento» disse lentamente. «Ti do un’ora per rispettare la parola».«Dammi una carta». Naumov si aggiustò la crocetta e tornò a sedersi. Re cuperò coperta, cuscino e pantaloni, e poi perse tutto di nuovo. «Ci vorrebbe un po’ di čifir’» disse Sëvočka riponendo gli oggetti vinti in una grossa valigia di cartone. «Io aspetto». «Preparatelo, ragazzi» ordinò Naumov. Si trattava di una sorprendente bevanda del Nord, un infuso molto forte ottenuto facendo bollire una cin quantina di grammi in più di tè per ogni piccolo gotto1. Una bevanda estre mamente amara, la si manda giù a piccole sorsate con del pesce salato. Toglie il sonno, e per questo gode della stima dei malavitosi e di tutti gli autisti del Nord che partono per viaggi lontani. Il čifir’ dovrebbe avere effetti disastrosi per il cuore, ma io ho conosciuto persone che lo bevevano da parecchi anni e lo tolleravano praticamente sen za problemi. Sëvočka bevve una sorsata dal gotto che gli avevano dato. Lo sguardo nero e pesante di Naumov passava in rassegna i presenti. Ave va i capelli scompigliati. Lo sguardo arrivò fino a me e si fermò. Nel cervello di Naumov era balenata chissà quale idea. «Forza, vieni fuori». Mi portai vicino la luce. «Levati il giaccone». Era ormai chiaro cosa avesse in mente, e tutti seguivano con interesse il tentativo di Naumov. Sotto il giaccone portavo soltanto la biancheria passata dallo Stato, la giubba me l’avevano data un paio d’anni prima e s’era da tempo ridotta in polvere. Mi «Adessorivestii.vieni fuori tu» disse Naumov indicando Garkunov. Garkunov si levò il giaccone. La faccia gli si era fatta bianca. Sotto una lurida maglietta in terna aveva un pullover di lana: l’ultima cosa ricevuta dalla moglie prima di partire per il suo lungo viaggio, e io sapevo quanto Garkunov ci tenesse, lo la vava ai bagni, se l’asciugava addosso, non lo lasciava mai: i compagni l’avreb bero immediatamente rubato. «Dai, levatelo» disse Naumov.

Gli si buttarono addosso, lo fecero cadere. «Morde» gridò qualcuno. Garkunov si sollevò lentamente da terra asciugandosi con la manica il sangue che colava dal viso. E immediatamente Šaska, il piantone di Naumov, quello stesso Šaska che un’ora prima ci aveva versato un po’ di zuppa in cam 1 gotto: boccale.

R AccONTI

4. Cosa succede a un certo punto a Naumov? Cosa gli concede Sëvočka?

9. In certe condizioni l’uomo dimentica di essere uomo. Argomenta questa affermazione facendo precisi riferimenti a questo testo e a eventuali testi presenti in questa sezione.

1. Chi sono i personaggi del racconto?

8. Il racconto si conclude con questa affermazione dell’autore: «Adesso dovevo cercarmi un altro compagno per segare la legna». Spiega cosa ti colpisce della reazione dell’autore a quanto accaduto davanti ai suoi occhi, motivando le tue affermazioni.

7. Descrivi Sëvočka e Naumov, dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni dell’autore in merito.

320 bio della legna che avevamo tagliato, si piegò leggermente sulle gambe e ti rò fuori qualcosa da dietro il gambale dello stivale. Poi tese la mano verso Garkunov, e quest’ultimo emise un singulto e cominciò ad accasciarsi su un fianco. «Non potevate farne a meno?» gridò Sëvočka. Alla luce tremolante della lampada a benzina si vedeva il volto di Garku nov diventare cereo. Šaska distese le braccia dell’uomo ucciso, strappò la maglietta, gli sfilò il pullover dalla testa. Era rosso, e le macchie di sangue si vedevano appe na. Stando bene attento a non imbrattarsi le dita, Sëvočka ripose il maglione nella valigia di cartone. La partita a carte era finita e io potevo tornarmene a casa.Adesso dovevo cercarmi un altro compagno per segare la legna.

2. Dove si trovano? Perché?

6. Come reagisce Garkunov? Perché? Cosa gli succede allora?

5. Cosa ordina Naumov a Garkunov?

3. Cosa stanno facendo Sëvočka e Naumov? A quali condizioni?

Nel romanzo Una giornata di Ivàn Denìsovič , pubblicato nel 1962, Solženicyn racconta una giornata tipo dei detenuti di un lager sovietico, svelando una realtà fino a quel momento praticamente sconosciuta all’Occidente. Dall’alto della centrale1 si vedeva lontano: tutta la zona dei lavori innevata e deserta (i detenuti si erano messi al riparo e si scaldavano prima della si rena), le torrette nere e i pali appuntiti del recinto. Con il sole alle spalle si vedeva anche il filo spinato, ma contro sole no. Era così accecante la luce, che non si potevano tenere gli occhi aperti. Poco lontano si vedeva anche il treno del gruppo elettrogeno2. Fumava da annerire il cielo! Poi cominciò ad ansimare pesantemente. Sempre, prima del fischio, emetteva questo rantolo. Poi fischiò. Non avevano lavorato poi tanto più del dovuto. «Ehi, stacanovista3! Muoviti con quel filo a piombo!», Kil’gas4 incalzava. «Ma guarda quanto ghiaccio c’è sul tuo muro. Finisci stasera di toglier lo? Potevi fare a meno di portarti di sopra la cazzuola» lo schernì a sua volta Šùchov.Voleva mettersi al lavoro nello stesso posto della mattina ma il caposqua dra, da sotto, gridò: «Ehi, ragazzi! Lavoriamo in coppie, per non far gelare la calcina. Šùchov! Tu prenditi Klèvšin5 e io vado con Kil’gas. Intanto Gopčik6 ripulisce il muro al postoŠùchovmio».e Kil’gas si scambiarono un’occhiata. Giusto. Così si faceva prima. E presero le scuri. E Šùchov non vide più né la vasta distesa scintillante di sole né i detenu ti che uscivano dai loro rifugi e si sparpagliavano per il cantiere, chi a finire le buche incominciate la mattina, chi a rinforzare le armature, chi ad alzare 1 centrale: centrale termoelettrica, la cui costruzione era stata precedentemente abbandonata e che è stata attualmente affidata ai detenuti del Lager in cui è prigioniero il protagonista Ivàn Denìsovič Šùchov.

4 Kil’gas: appartenente alla squadra centoquattro, di cui fa parte il protagonista Šùchov.

3 stacanovista: chi svolge con grande zelo e dedizione il suo lavoro. Dal nome dell’operaio sovietico Aleksej Grigor’evič Stachanov, diventato l’emblema dell’efficienza del sistema lavorativo sovietico per aver ideato un sistema di miglioramento della produttività nell’estrazione del carbone dalle miniere russe. In realtà suggerì al potere sovietico un ulteriore modo per sfruttare il popolo russo.

6 Gopčik: altro appartenente alla squadra centoquattro.

5 Klèvšin: altro appartenente alla squadra centoquattro.

2 gruppo elettrogeno: macchina costituita da un motore termico accoppiato a un generatore elettrico.

321 ALEKSANDR ISAEVIČ SOLŽENICYN Il muro

Portaronopotevano.due barelle insieme, una per il muro di Kil’gas e una per quello di Šùchov. Con quel freddo, la calcina fumava, formava una nuvola di vapore denso, ma calore ne conteneva poco, però. Se dopo averla messa sul muro, si esitava appena, ecco che si rapprendeva e allora, per spezzarla, ci vole va la piccola scure, la cazzuola non bastava più. E anche se si metteva male un blocco, si congelava così, storto. E bisognava usare il capo della scure per smuoverlo e per scrostare la calcina. Ma Šùchov non sbagliava. Gli schlakenblock non sono tutti uguali. Uno ha un angolo smussato, un altro un lato schiacciato e gonfio, e Šùchov se ne accorgeva subito e vedeva quale lato volesse stare sotto e quale punto del muro lo aspettasse. Šùchov attingeva con la cazzuola la calcina fumante e spalmava, tenendo a mente il punto in cui c’era la giuntura di sotto (su quella giuntura si doveva

1 Sén’ka: Klèvšin. 2 schlakenblock: blocchi di scoria pressata, usati in Unione Sovietica per l’edilizia.

R AccONTI

322 capriate nelle officine. Šùchov vedeva solo il suo muro dall’estremità di sini stra, dove terminava in una gradinata più alta della cintola, fino all’angolo, a destra, dove si univa al muro di Kil’gas. Mostrò a Sén’ka1 la superficie che bisognava ripulire dal ghiaccio e si mise lui stesso a romperlo, ora con il ca po ora con il taglio della scure, sì che le schegge volavano da tutte le parti e lo colpivano anche in faccia. Faceva bene il suo lavoro, ma senza rifletterci. Con il pensiero e con gli occhi studiava il muro che emergeva dal ghiaccio, la facciata della centrale, due file di  schlakenblock2. Fino a lì il muro era stato alzato da un muratore che lui non conosceva, ma che o non era capace, o lo aveva fatto alla meno peggio. Adesso Šùchov si assuefaceva al muro, come se fosse stato suo. Qui c’era una depressione: non si poteva livellarla con un so lo strato di mattoni, ce ne sarebbero voluti tre, aggiungendo ogni volta un po’ più di calcina. Là invece, il muro sporgeva: per raddrizzarlo, occorrevano un paio di Mentrestrati.tendeva la corda parallela al primo strato, spiegò a Sèn’ka, un po’ a gesti, un po’ a parole, come doveva fare. Il sordo capì. Mordendosi le labbra e storcendo gli occhi, indicò con un cenno del capo il tratto di muro del ca posquadra, come per dire: gli daremo del filo da torcere, eh? Non rimarremo indietro. E rise. Intanto gli portavano la calcina su per la passerella. Erano otto a fare quel lavoro, due a due. Il caposquadra aveva deciso di non mettere accanto ai mu ratori i secchi per la calcina: perché la malta si sarebbe gelata nel travaso. Co sì si lasciava la barella vicino a loro e di lì direttamente la prendevano i mura tori per metterla sul muro. Intanto quelli che l’avevano portata, per non stare al freddo senza far niente, potevano passare gli schlakenblock dal soppalco al piano di sopra. Non appena vuotata la loro barella, scendevano e salivano altri due con un’altra barella, senza un momento di sosta. Già mettevano il cassone della calcina sulla stufa a sgelare, e intanto anche loro si scaldavano quanto

ALEKSANDR ISAEVIČ SOLŽENICYN 323 poi far combaciare il centro del blocco di sopra). Ci metteva esattamente tan ta calcina quanta ne occorreva per un blocco. Poi, dal mucchio, ne prendeva uno (ma con molta attenzione, per non strappare il guanto, ché i blocchi sono molti ruvidi). Con la cazzuola lisciava ancora un po’ la calcina e via! Metteva giù il blocco! Ne aggiustava subito la posizione dandogli, se occorreva, qual che colpetto con la cazzuola: perché la parte esterna del muro fosse a piombo e i mattoni in spessore perfettamente orizzontali, come quelli in chiave. Ed ecco che il gelo fissava il blocco. Se un po’ di calcina usciva di sotto o ai lati, doveva subito toglierla, col ta glio della cazzuola, scrostarla via dal muro (d’estate si può usare per i mat toni successivi, ma in inverno non c’è nemmeno da pensarci), dare un’oc chiata alle giunture di sotto, perché alle volte non c’è un mattone intero, ma vari pezzi, e stendere altra calcina, badando che lo strato di malta fosse più spesso a sinistra e mettere poi un altro  schlakenblock, ma non così come vie ne, bensì facendolo scivolare da destra a sinistra, così da far spremere fuori l’eccesso di calcina contro il mattone appena posto a sinistra. Un occhio al fi lo. Un’occhiata di piatto. Fatto! Via, un altro! Il lavoro si era avviato. Messi due strati e corretti i vecchi difetti, tutto sareb be scivolato via, liscio come l’olio. Ora però bisognava tenere gli occhi aperti!

Faceva avanzare a tutta velocità lo strato esterno incontro a Sèn’ka, che allontanatosi dal caposquadra all’angolo veniva verso di lui.

Šùchov ammiccò ai manovali: calcina, calcina, sbrigatevi, portatela qui! Il lavoro ferveva al punto che non c’era tempo neppure per soffiarsi il naso.

Šùchov e gli altri muratori non sentivano più il gelo. La rapidità di quel lavoro, che li assorbiva completamente, provocò in loro una prima ondata di caldo, quello che inumidisce il corpo sotto il giaccone, la giubba e la camicia. Ma non si fermarono neppure per un istante, e continuarono a far salire il muro. Un’ora dopo, una nuova ondata di caldo li colse, quel caldo che asciuga il sudore. Il gelo non mordeva loro neppure i piedi, questo era importante, il resto non è nulla, neppure il vento leggero e pungente poteva stornare i loro pensieri dal lavoro. Soltanto Klèvšin batteva i piedi, uno contro l’altro: calza va quarantasei, l’infelice, e gli stivali glieli avevano dati spaiati e un po’ stretti.

Il caposquadra, di tanto in tanto, gridava: «Cal-cina!» e Šùchov pure: «Calcina!». Chi tira, quando si lavora, diventa una specie di capo nei confronti dei compagni. Šùchov non voleva restare indietro rispetto agli altri due e per ciò in quel momento avrebbe fatto trottare anche suo fratello su e giù per la passerella.Attaccarono il quinto strato. Il primo l’avevano messo giù chinandosi, adesso già erano all’altezza del petto! E come non spicciarsi, se i due muri ad angolo erano ciechi, senza porte né finestre, e blocchi ce n’erano a volontà. La corda solo bisognava alzare, ma era tardi. «La squadra ottantadue è andata a restituire gli arnesi», riferì Gopčik. Il caposquadra si limitò a gettargli un’occhiataccia. «Tu, fatti i fatti tuoi, moccioso! Porta i mattoni!» Šùchov si voltò. Sì, il sole era al tramonto. Era rossastro, ma si vedeva co

Il sole si nascose nella terra, completamente. Adesso si poteva vedere, an che senza gli avvertimenti di Gopčik, che non solo tutte le squadre avevano restituito gli arnesi, ma che già gli uomini si riversavano verso l’uscita.

«Ehi», gridò. «Che ci importa di questa merda! Manovali, andate a vuotare

324 me attraverso una nebbia grigiastra. E loro lavoravano che meglio non si po teva. Adesso avevano già cominciato il quinto strato e dovevano finirlo. E li vellare per bene. Il freddo si faceva sempre più intenso. Le braccia lavoravano, ma le dita, attraverso i guanti leggeri, sentivano il freddo pungente. E anche lo stivale sinistro lasciava penetrare il freddo. E Šùchov ogni tanto lo batteva in terra.

Si udì chiaramente in tutto il cantiere e anche alla centrale il suono della rotaia percossa. Fine del lavoro. Proprio adesso che c’era la calcina! Eh, avevano esagerato!… «Calcina, calcina, dài!», gridava il caposquadra. E giù avevano appena finito di farne un intero cassone; se non l’avessero vuotato, l’indomani la calcina sarebbe stata dura come pietra e non ci sareb be stato mezzo di cavarla fuori, neppure con il piccone. «Su, fratelli, forza!», gridò Šùchov. Kil’gas si arrabbiò. Non gli piaceva, a lui, lavorare a quel modo. Ma doveva darci sotto per forza! Da giù venne Pavlo1 di corsa, attaccandosi a una barella e con la cazzuola in mano. Per lavorare anche lui al muro. Erano cinque cazzuole, ora. Adesso bisognava fare bene attenzione alle giunture, con quella fretta. Šùchov misurava a occhio le dimensioni del mattone che gli occorreva per la giuntura, passava il martello ad Aljòška2: «Squadrami questo, tie’!». Presto e bene raro avviene. Adesso che tutti si erano messi a correre Šùchov rallentò ed esaminò la parete. Spinse Sèn’ka a sinistra e lui si mise a correre a destra, verso l’angolo. Se ora il muro si imbarcava o veniva un incavo nell’an golo, era un disastro. Domani ci sarebbe voluta mezza giornata di lavoro, per rimettere ogni cosa a posto. «Alt!», spinse Pavlo da un lato per aggiustare il mattone che quello aveva messo male. E di lì, dall’angolo, diede un’occhiata a Sèn’ka e vide che il suo muro cominciava a incurvarsi un po’. Si lanciò da quella parte e raddrizzò il muro con due mattoni.

3 Tjùrin: è il caposquadra. Nel romanzo Šùchov afferma: «nei campi il caposquadra è tutto: se è bravo, ti fa campare, se no, ti fa crepare».

1 Pavlo: altro appartenente alla squadra centoquattro.

2 Aljòška: altro appartenente alla squadra centoquattro.

Ora non doveva più curvarsi sul muro, solo ogni volta che doveva prendere uno schlakenblock o un po’ di calcina si rompeva la schiena. «Ragazzi! Ragaz zi!», insisté Šùchov. «Mettete i blocchi sopra il muro! Metteteli addirittura su!»

Anche Tjùrin3 tornò in sé, sapeva di essere in ritardo. Quello del deposito arnesi gli stava certamente mandando mille maledizioni.

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«Al diavolo la calcina!», il caposquadra agitò una mano. «Buttala giù dal muro!»«Vai, caposquadra! Vai, che lì sei più utile!» (Šùchov lo chiamava sempre Andrèj Prokof’evič, ma adesso con il suo lavoro si era messo alla pari con il caposquadra. Non che pensasse proprio così: “Ecco, sono alla pari con lui”, ma sentiva che era così). E gli lanciò dietro uno scherzo, mentre quello scen deva a larghi passi, giù per la passerella: «Che schifezza, una giornata lavorativa così corta! Appena ci prendi il gu sto, già è Rimasefinita!».solocon il sordo. Con lui non c’era molto da parlare, e del resto non ce n’era bisogno: era più intelligente di tutti gli altri, capiva anche senza pa role.Su la calcina! Su un blocco! Schiaccia. Controlla. Calcina. Blocco. Calcina. Blocco… Anche il caposquadra aveva detto di non preoccuparsi della calcina, di buttarla via e andarsene. Ma Šùchov era fatto proprio in quel modo stupido e neppure in otto anni di lager erano riusciti a cambiarlo: si preoccupava di ogni cosa e di ogni lavoro, che non andassero perduti, sprecati inutilmente.

ALEKSANDR ISAEVIČ SOLŽENICYN 325 il cassone. Quello che tirate fuori, buttatelo in quella buca laggiù, e copritela con la neve, ché non si veda. Tu, Pavlo, prendi due uomini, raccogli gli arnesi e vai a restituirli, poi ti mando Gopčik con le tre cazzuole. Noi finiamo queste dueSibarelle».gettarono su Šùchov per prendergli il martello e sciolsero la corda. I manovali corsero giù nel locale della calcina, lì non avevano più nulla da fare. Di sopra restarono i tre muratori, Kil’gas, Šùchov e Klèvšin. Il caposquadra camminava guardando quello che avevano fatto: era contento. «L’abbiamo fatto bene, eh? In mezza giornata. Senza montacarichi!» Šùchov vide che nella cofana di Kil’gas era rimasta poca calcina. Gli dispia ceva che al deposito arnesi insolentissero il caposquadra per via delle caz zuole. «Sentite ragazzi», risolse, «portate le cazzuole a Gopčik. La mia non l’han no contata e non bisogna restituirla. Finisco io qui». Il caposquadra rise: «Come si fa a lasciarti uscire, a te? La prigione soffrirebbe». Anche Šùchov rise e continuò. Kil’gas portò via le cazzuole. Sèn’ka porgeva a Šùchov gli  schlakenblock, la calcina di Kil’gas l’avevano versata nel secchio di Šùchov. Gopčik corse, attraverso il campo, per raggiungere Pavlo al deposito arne si. Il caposquadra è una potenza, ma la scorta lo è di più. Prendevano nota dei ritardatari, e li sbattevano in cella. Vicino alla guardiola, la folla era minacciosamente fitta. Si erano radunati tutti. Già erano uscite le guardie di scorta e contavano i detenuti. (All’uscita li contavano due volte: una volta davanti alla porta chiusa; e una seconda volta, mentre li facevano passare attraverso la porta già aperta. E se gli pareva di aver sbagliato il conto, anche fuori dalla porta, li ricontavano).

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Calcina! Blocco! Calcina! Blocco! «Abbiamo finito, miseria!», gridò Sèn’ka. «Via!» Afferrò la barella e giù per la passerella. Ma Šùchov, anche se la scorta gli avesse aizzato contro i cani, in quel mo mento non avrebbe rinunciato a fare qualche passo indietro per dare un’oc chiata al lavoro. Non c’era male. Poi corse verso il muro, si sporse in fuori e guardò la parte esterna, a destra e a sinistra. Aveva un occhio che era meglio di una livella. Perfetto. Il braccio ancora non era invecchiato.

7. A cosa non può rinunciare Šùchov al termine del lavoro? Perché?

ALEKSANDR ISAEVIČ SOLŽENICYN 327

4. Come compie il suo lavoro Šùchov? Cosa lo differenzia dagli altri? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni del narratore in merito.

1. Quale lavoro devono eseguire gli uomini della squadra guidata dal caposquadra Tjùrin? Che decisione prende? A quale scopo?

2. Da quanti detenuti è formata la squadra di Tjùrin? Quali mansioni hanno?

10. Šùchov e il caposquadra Tjùrin mostrano una gran soddisfazione nei confronti del lavoro svolto, nonostante gli sia stato imposto dai loro carcerieri e gli sia costato un’enorme fatica: secondo te cosa origina questa soddisfazione? Che occasione rappresenta per loro il lavoro? Tu hai mai fatto un’esperienza simile? Cosa pensi della fatica? È un’obiezione alla tua libertà e alla tua realizzazione? Rispondi motivando le tue affermazioni con precisi riferimenti al testo ed esemplificazioni personali.

6. Perché, nonostante il turno sia finito, Šùchov continua a lavorare? Cosa dimostra questo di lui? Rispondi dopo aver sottolineato nel testo le osservazioni del narratore a riguardo.

5. A fine giornata cosa pensa il caposquadra del lavoro svolto dalla sua squadra? Di cosa si preoccupa? Cosa suggerisce Šùchov?

9. «Presto e bene raro avviene. Adesso che tutti si erano messi a correre Šùchov rallentò ed esaminò la parete». Sei d’accordo con l’affermazione del narratore? A te è mai capitato di desiderare di impiegare più tempo per portare a termine qualcosa? Perché? Come hanno reagito gli altri? Racconta.

8. Il narratore afferma che «chi tira, quando si lavora, diventa una specie di capo nei confronti dei compagni». Argomenta il tuo giudizio su tale osservazione, facendo precisi riferimenti al testo e alla tua esperienza personale.

3. Che difficoltà incontrano nel lavoro? Perché?

diSquarci2mondo

Ma quali sono le cose che contano? L’amore, la morte, i sogni, le ambizioni, crescere, fare i conti con i propri limiti e con quelli degli altri. Tutte cose drammatiche, conflitti che si svolgono su uno sfondo più ampio di quanto possa apparire a prima vista. Raymond Carver a cura di Adele Mirabelli, Elena Quadrio, Anna Zucchetti

sQUARcI DI MONDO328

sQUARcI DI MONDO330 C’è un rischio nelle nostre giornate, quando, come riconosce l’astronauta Paolo Nespoli, «la mia visione si ferma all’orizzonte di dove mi trovo, a quello che posso vedere e toccare, al giardino ben curato con il prato appena tagliato. E tutto il resto non mi riguarda, è lontano, e semmai influenzerà il vicino, i cittadini di un’altra nazione». I testi che ti proponiamo di leggere in questa sezione vogliono portare davan ti ai tuoi occhi “squarci di mondo”: dalla Cina agli Stati Uniti, fino a esplorare i confini dell’Universo. In poche pagine ti potrai addentrare in vicende per sonali, situazioni, tempi, paesi lontani dal nostro piccolo mondo. Un modo per conoscere e condividere gli eventi che coinvolgono singoli uomini o interi popoli, ma a una condizione: dilatare le pareti della nostra casa. Oriana Fallaci, scrivendo a proposito dello sbarco sulla Luna, arriva a una riflessione sull’uomo in generale e, parafrasando il filosofo francese del Sei cento Blaise Pascal, osserva che «l’uomo non è né angelo, né bestia ma ange lo e bestia». Questo è evidente vedendolo all’opera tutti i giorni, quando, nella circostanza storica che vive, sceglie il bene oppure il male. Nel percorso di questa sezione ti proponiamo l’incontro con uomini che vivono pienamente la vita, affrontando le fatiche e le sfide che essa pone, assumendosi fino in fondo la responsabilità del proprio compito, disponibili anche al sacrificio di sé in nome di un bene più grande. Tra i testi che abbiamo raccolto ne troverai anche alcuni scritti da grandi giornalisti o da uomini che non sono scrittori di professione e tuttavia sono mossi dall’urgenza di raccontare ciò che vivono.

Gli esercizi che ti proponiamo hanno lo scopo di guidarti nella conoscen za del testo e di suggerire un lavoro di approfondimento dei temi trattati, con i quali ti chiediamo di confrontarti personalmente anche attraverso la pro duzione di testi narrativi e argomentativi.

Il mare Il giornalista, corrispondente e inviato per il quotidiano «La Stampa» in zone di guerra, specialmente in Africa e Medio Oriente, racconta nel libro Esodo diversi viaggi fatti insieme ai migranti che raggiungono il nostro continente. Il brano ri porta il primo capitolo di questa lunga e attenta cronaca, in cui l’autore descrive come oggi sia in corso la nascita di un mondo nuovo dall’incontro di diverse culture. È l’attesa l’essenza del clandestino, il suo spirito vitale. Un tempo si sarebbe detto: la sua anima. L’ho scoperto subito quando ho deciso di tentare il pas saggio in barcone dalla Tunisia a Lampedusa, era il marzo del 2011, tempo, nel mondo degli arabi, di rivoluzioni. Il clandestino è un uomo che aspetta. Non un uomo che ha paura, che prega, che sogna, che magari accumula rab bia. Attende di avere la cifra per potersi pagare il viaggio, attende il mediato re che ha il compito di organizzarlo, il passeur1 con il prezzo giusto. Attende anche la nave che, forse, non affonderà, il mare buono, il momento in cui il carico umano è completo e il viaggio rende, il capitano che ha fama di cono scere l’abbecedario2 dei venti e delle maree, il momento in cui la polizia è ancor più distratta del solito. Aspetta. Un giorno una settimana un mese. La sua è una dimensione complessa del presente, aspirato dal passato e proteso al futuro. L’attesa è la sua seconda pelle, la indossa, se ne avvolge, la usa per difendersi. Resta sospeso in un tempo dove le lancette dell’orologio antico si sono definitivamente fermate, non valgono più, ma quelle nuove sono ancora senza carica, immobili. Aspettare, senza pensare, senza fare previsioni di come andrà, tenendo a bada le speranze. Ho vissuto alcuni giorni con loro in una “casa”. Le case sono rifugi, punti di passaggio, dove ti raccolgono in attesa che dalla nave, al largo, arrivi il via libera. Non è un nascondiglio perché la polizia tunisina sa ed è indifferente. Neppure una prigione. Ormai hai pagato, indietro non puoi tornare; il tuo viaggio in realtà è già cominciato. Perché non è il momento in cui il tuo piede lascia la spiaggia e l’acqua cancella l’impronta, che conta. Conta il punto in cui non puoi più avere ripensamenti. La casa appartiene al mio “mediatore”, quello che nell’impresa del passaggio ha il compito di raccogliere i passegge ri, di riempire la nave. La mia è nella parte alta di Zarzis, uno dei tanti paesi del Mediterraneo sudditi del mare per la vita e per la morte. […] Dalla casa il mare neppure si 1 passeur: dal francese ‘traghettatore’, chi guida emigranti clandestini oltre la frontiera. 2 abbecedario: questo nome indica il libro che, tempo fa, si usava per imparare le lettere dell’alfabeto (si trova, ad esempio, in Pinocchio); qui indica la conoscenza, da parte del capitano, di ogni tipo di vento e marea.

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DOMENICO QUIRICO

2 rancia: di colore arancione. 3 partita doppia: annotazione che registra sia i soldi guadagnati sia quelli spesi.

sQUARcI DI MONDO332 vede, solo il vento che lontano fa sconquasso. Sono due cubi di intonaco bian co come quelli che disegnavano i due figli del mediatore che il pomeriggio, indifferenti, facevano i compiti alla tisica ombra1 di un alberello. È a un pas so dalla strada con l’unica, modesta riservatezza di un muro e di un cancello verde. Cinquanta in due stanze di pochi metri quadri, nessun oggetto se non luridi tappeti gettati in terra e coperte. Dalle finestre filtra una luce con poca forza, rancia2 e dorata. Nessuno, via via che passano i giorni, chiede l’ora. È un gesto senza sen so. Il tempo inizierà dal momento in cui ti dicono: la nave c’è, è per stanotte. Allora puoi contare: a Lampedusa arriverò in venti ore, dunque… Rivestirmi di questa attesa è l’unico modo in cui, almeno per una infinitesima parte, io posso diventare come loro. Prima della casa c’è il passeur, bisogna trovarlo, convincerlo, pagarlo. Credo di conoscere tutti, o quasi, quelli di Zarzis. Ci sono “i vecchi”: il viso intar siato da grinze, silenziosi, in agguato, appoggiati ai muri vicino alla spiag gia, guardano enigmatici il mare dietro di te, si avvolgono nelle buffate di scirocco. Anche loro aspettano, ti aspettano. E poi gli altri, i giovani, lupi voraci vestiti di tutto il contraffatto del mondo, in continuo movimento da un bar all’altro, che ridono sguaiati, avidi, prepotenti. Il mondo nuovo che avanza.Tutti, i vecchi e i giovani, hanno sguardi eguali, da doganiere, da agente delle tasse, che non puoi dimenticare: ti trapanano, pesano il tuo portafoglio senza nemmeno vederlo, la tua disperazione, il punto fino a cui puoi andare. Che è, immancabilmente, mille euro, la tariffa, il biglietto.

Il passeur è un imprenditore, con un’etica, i conti, la partita doppia3, ti ranneggiato dalla matematica: tanti uomini tanti viaggi tanti incassi. Tutto si regola sulla fiducia, se qualcuno la infrange – raccoglie il denaro e sparisce, utilizza una barca guasta, sbarca i passeggeri in un altro luogo – tutto crolla.

Nessuno di quelli che ho incontrato mi ha chiesto perché io, italiano, aves si mai deciso di scegliere le loro barche scalcagnate e l’illegalità per un viag gio che con centocinquanta euro potrei compiere ogni giorno, comodamente. Nessuno mi ha chiesto di più della tariffa normale. Per il passeur gli uomini sono davvero tutti eguali, contano in quanto unità, per lo spazio che occupa no sul ponte del peschereccio o del barcone. Il resto, le tue motivazioni la tua disperazione i tuoi sogni perfino la tua stupidità, per loro è irrilevante.

Moussa i miei mille euro non li ha voluti subito: «Quando sarai sulla nave, quella grande, mi pagherai, non prima». Moussa prima aveva un pescherec cio. Non era povero, anzi; la pesca rende. Poi, un giorno, si è accorto che i suoi colleghi chiudevano, che il porto era semivuoto. E ha fatto dei conti: quan ti uomini poteva portare, quasi senza rischio, invece che tonni e sardine; e 1 tisica ombra: ombra sottile di un albero poco rigoglioso.

3 Bourghiba: politico tunisino, prima leader dell’indipendenza della Tunisia dalla colonizzazione francese, poi presidente del Paese dal 1956 al 1987 quando, ormai ottantaquattrenne, fu destituito da questa carica (che si era assegnato a vita). È morto nell’aprile del 2000, all’età di 97 anni.

Il passeur non fa mai il viaggio in mare: ha i suoi capitani di fiducia, cono sce quelli che hanno fatto la traversata più volte, i prudenti e i gradassi, quelli che fiutano le tempeste nel canale di Sicilia per due, tre giorni solo annusan do le buffate di scirocco. […] I miei compagni di viaggio, tutti giovani, tutti tunisini, non sono uomini dagli impervi silenzi1. Mentre le ore si sgranano nella casa, parliamo, a lun go. Non c’è attorno a loro nessun alone di tetro dolore. Parlano, si raccontano. Stanno nell’ombra del portico con un pezzo di pane e un pugno di frutta e di scorrono rado, tra le voci del pomeriggio, l’odore grave e arso del mondo che è intorno come la cenere rimasta di un incendio. Di due cose, nei giorni bloccati dalla tempesta, è vietato fare parola. Una è il mare, questo Mediterraneo con la sua voce i suoi furori le sue leggende la sua retorica2. Come se non esistesse, come se non fosse il lievito in cui è im pastato pericolosamente il nostro viaggio. Il mare, la sua preistorica enormi tà, non bisogna evocarlo: per non avere paura.

2 retorica: nell’epoca classica e medievale, era l’arte di parlare e scrivere in modo bello ed efficace; qui il termine viene usato in modo metaforico.

DOMENIcO QUIRIcO 333 che quattrocento passeggeri volevano dire settecento, ottocentomila dinari, quattrocentomila euro. Il passeur è un imprenditore che deve mettere in con to una perdita fissa: il battello che sarà sequestrato a Lampedusa.

La seconda assenza: la polizia, i controlli, il rischio di essere bloccati. In terra e in mare. Perché non esistono. Eppure in questa città dove tutti si van tano di avere i migliori capitani per i clandestini, come se fosse la vera glo ria locale, le autorità sanno: il nome dei battelli da pesca venduti e riciclati, i mediatori, le case, le spiagge dove si allungano le file dei partenti in attesa, tra torce e chiasso di telefonini. Una è dietro gli alberghi, di sera arrivano i parenti in auto per salutare, si piange, si ride, è la festa. […] Béchir è venuto a cercarmi: è cameriere, un uomo grasso dall’aria paciosa, fuori servizio si mette in testa la papalina viola dell’età aurea di Bourghiba3. In un copricapo c’è la vecchia Tunisia povera quieta e operosa scomparsa nei gorghi tentatori della modernità. Ha saputo che voglio partire, ormai mi conoscono tutti, a Zarzis, che in fondo senza i turisti è un piccolo paese in cui 1 impervi silenzi: silenzi difficili da interpretare, che non ti permettono di entrare in rapporto, in comunicazione con l’altro (lett. l’aggettivo impervio indica un passaggio, un terreno difficile da percorrere per la sua conformazione).

Del primo che ha utilizzato parla ancora con un po’ di rimpianto; chissà che fine ha fatto laggiù in Italia. Ma poi quando hai incassato, tutto è andato bene, e ne compri un altro e riprovi e un altro ancora, be’! allora non è più la tua casa, che ti dà da vivere, dove rischi la vita ogni giorno. È solo un mezzo che puoi gettare via.

«Perché vuoi andare?» mi ha chiesto e i suoi occhi si sono fatti scuri. «Ti parlo come se fossi tuo padre. Sai cosa vuol dire il passaggio per mare? Sedici ore ti dicono, non è vero, mentono, sono ventiquattro, è quanto ha impiegato mio figlio nella burrasca e adesso non ne vuole più parlare perché ha ancora paura. Perché lo fai? Tu non hai bisogno». E mi fa promettere che comunque lo chiamerò quando sarà arrivato il momento. Béchir è stato il primo. Poi ne sono venuti altri, nei giorni dell’attesa. Qui quasi ogni famiglia ha un figlio che è partito. Quelli che hanno più figli ma schi scelgono il primogenito, come nei nostri Paesi del sud si faceva al tempo giolittiano degli emigranti: perché è quello che ha il dovere di tenere alto il nome, di farsi onore, di diventare ricco. Anche loro sono venuti a trovarmi, gentili, con l’aria umile che si assume inesorabilmente con qualcuno a cui è capitata o sta per capitare una disgra zia: vogliono capire. Sono venuti anche due padri il cui figlio non è arrivato: viaggiavano su una barca troppo piccola, «avevano fretta… non hanno saputo aspettare…» È un dramma di due anni fa, ma il loro dolore non lo è. «Mi manca tanto mi man ca tanto…» mi ripete uno di loro, e gli scendono le lacrime dolci e infantili dei vecchi.Solo uno dei ragazzi della casa mi ha chiesto: «Perché?» Ma mi ero accorto che ne parlavano tra loro a bassa voce, fittamente, protetti dall’arabo che non capisco. Hanno ragione e diritto di chiedere. Quando ci si mischia, anche solo per essere testimoni, alle tragedie umane, senza esserne parte, si ha il dovere di essere onesti. Non ho provato a rispondere. Li ho delusi. Avrei potuto spiegare che voglio narrare di loro nel momento in cui pas sano da una condizione a un’altra, durante il viaggio, quando scavalcano la Frontiera, non amministrativa e poliziesca, ma quella della propria condizio ne umana e diventano altri. Ma non avrebbero capito. Perché io sono solo un testimone. Io li guardo. Loro lo vivono. Il mare si è calmato, stasera non c’è vento, cominciamo a navigare nel buio. L’ho odiato subito, il battello senza nome, ho odiato le sue fiancate di carapa ce1 arrugginito, i suoi dieci metri sudici e scrostati, appena dieci metri, che perfino in porto sembravano troppo fragili per sfidare il mare. Forse è stato davvero un peschereccio un giorno, tanto tempo fa, forse davvero è scivolato sicuro tra le onde. Chissà. Ma le cose esistono se hanno un nome, esistono nelle sillabe che pronunciamo. Altrimenti sono niente. Invece il barcone no, chiedevi al pilota, ai passeurs che ti avevano venduto il posto, ai centododici 1 carapace: guscio, copertura dorsale delle tartarughe e dei crostacei.

sQUARcI DI MONDO334 gli imbarchi sono la notizia. E tutti si danno da fare ogni volta, per giorni, a rassicurare e avvertire: sì, i ragazzi sono arrivati… gli italiani a Lampedusa sono gentili e poi il continente e la Francia chissà… Il figlio di Béchir ha fatto il viaggio, adesso è in Belgio dove ci sono altri parenti, lavora in un locale tunisino, sì, tutto è finito bene grazie a Dio.

DOMENIcO QUIRIcO 335 tunisini che con me erano a bordo, e ti rispondevano sguardi vuoti: «Non so, un nome? Perché dovrebbe avere un nome? Una barca…» E tu, Karim, e gli altri, a ripetermi, scanzonati: «No, il battello è buono e il pilota ha già fatto la traversata, non temere, amico, arriveremo a Lampedusa in un baleno!»

È vero, Karim, noi non abbiamo fatto lo stesso viaggio. Anche se siamo partiti dallo stesso porto, se eravamo a bordo della stessa barca e il prezzo che abbiamo pagato era eguale. E abbiamo rischiato tutti e due di morire. Io non avevo apparentemente nulla più di te, non il giubbotto salvagente, non il telefono satellitare che funziona anche in mare aperto quando quei piccoli miracoli che voi continuamente palpeggiate e fate suonare restano muti. Lo avete fatto per tutto il viaggio, accaniti, senza successo, perché è bella la mo dernità quando in fondo costa poco e la si può comprare. Il tuo e quello dei tuoi compagni non è stato il mio viaggio; perché porta vate con voi qualcosa che io non avevo, qualcosa di impalpabile e prezioso, la speranza che rende leggeri e cancella la paura e qualche volta oscura anche la ragione.«Saràuna barca grandissima» dicevate. Nei giorni in cui siamo rimasti chiusi nella casa dei trafficanti di uomini in attesa che il maltempo finisse e si potesse partire, continuamente parlavamo del “grande battello” su cui avremmo navigato fino a Lampedusa. Era quello un modo per rassicurarci, la traversata la faremo con una bella barca, e ci sentivamo fieri e sicuri, non come quei disgraziati che si affidano a gusci di noce e poi capisci perché af fondano e muoiono in mare. Il nostro sarebbe stato, dunque, un battello grande; e giorno dopo giorno si era trasfigurato, lievitava, da peschereccio era diventato immenso come un transatlantico e una portaerei. E invece eccolo, un battello senza nome, dieci metri di metallo liso come una tela, il motore che ronfa a sussulti come se chiedesse a ogni passaggio aria per respirare. La morte qualche volta si attacca alle cose, te ne accorgi; e il battello sen za nome era una nave destinata a morire. Comunque sarebbe stato questo il suo ultimo viaggio, a Lampedusa era condannato al sequestro, per poi essere gettato su qualche spiaggia fuori mano ad arrugginire in pace. Il viaggio che noi clandestini avevamo pagato era la sua agonia. […] Confesso che quando ho visto il battello sono caduto in errore: pensavo fosse la barca che doveva trasferirci al largo, era troppo piccola e antica per attra versare il mare. Solo quando, tra urla e spintoni, la gente che era sul molo ha iniziato a gettarsi dentro, mi sono rassegnato: quello era il mio barcone. Ci siamo stretti sul ponte, a poppa e prora, seduti uno vicino all’altro, una parte è salita sulla piccola pensilina in metallo che copre la cabina del timoniere.

Quando il battello si è staccato dal molo, mentre gli uomini armati di ba stone picchiavano selvaggiamente alcuni ragazzi che cercavano di gettarsi ancora nella barca, si sono levate grida, «Dio è grande», e ci hanno spruzzato d’acqua, una benedizione.

In quel momento non si sentiva sul battello il minimo suono se non il ron fare del motore. E intorno a noi nulla muoveva, nulla vibrava, né un’altra nave né un uccello in aria né una nuvola in cielo. In questa pausa esanime1, sulla soglia di una lunga traversata, sembrava stessimo calcolando la nostra ido neità a una lunga e difficile impresa, compito da adempiere lontano da ogni sguardo umano; con solo cielo e mare come testimoni e giudici.

sQUARcI DI MONDO336 Era una notte leopardiana, fitta di stelle e di luna. Appena usciti dal por to, un battello dietro l’altro come una flotta, le luci accese festosamente, ho sentito il ponte coprirsi d’acqua che arrivava e si ritirava ritmicamente ba gnandoci scarpe e vestiti; fitti come eravamo, impossibile spostarsi o cercare riparo. Era il mare, che scavalcava le basse murate e se ne impadroniva pla cidamente ogni volta che la barca scalava e scendeva le onde ancora morbide di una notte perfetta. È stata la prima volta che ho avuto paura.

Il primo avviso è venuto alle sette e trenta, c’erano la luce diafana2 del giorno e qualche delfino che ci seguiva credendo fossimo un vero pescherec cio e non una nave che aveva pescato uomini. I tunisini li indicavano felici, 1 esanime: dal latino ex- anima, letteralmente ‘senz’anima, senza vita’. Qui l’aggettivo indica il silenzio del mare, appena descritto. 2 diafana: pallida, tenue.

Poi ho visto Karim che stava seduto al mio fianco e gli altri; ed eravate tutti allegri come lo sono i ragazzi quando imboccano la strada di una nuova vi ta e sono sicuri di essere immortali. Ho pensato che avevate ragione voi, che niente poteva fermare questa grande avventura di uomini che avevo deciso di esplorare così da vicino.

Le luci della città erano già lontane. A destra un gruppo di piattaforme pe trolifere, alte sul mare, come isole sospese nell’aria, che suggerivano rovine di mura di pietra, torri e fortificazioni, con le fondazioni su un mare così blu da parer solido, tanto tranquillo e stabile si stendeva ai nostri piedi. E quando ho voltato il capo per dare uno sguardo d’addio alla terra d’Africa ho visto la linea diritta della piatta costa saldata a quel solido mare, in un piano livellato sotto l’immensa cupola del cielo.

Attraversare il mare con cento clandestini è come ritornare indietro in noi stessi. Oggi abbiamo paura di cose impalpabili, le malattie non ancora vinte, la nube nucleare, la povertà che ci agguanta. Qui invece si torna alle angosce elementari, primigenie, si ha terrore del mare del vento delle onde, numi ira condi ma che pensiamo di aver addomesticato.

Ci siamo scambiati durante il viaggio cose semplici, l’acqua e il pane, la comunione eterna degli umili, dei poveri, dei naviganti antichi. Non è il ri schio di morire o l’essere scampato che mi ha affratellato a questi centodo dici esseri umani, e che ha assorbito come una spugna i miei pregiudizi su di loro, è il viaggio stesso, la visione per ventidue ore della sofferenza a cui si sottopongono, che pagano. Non è una grande cosa, la mia evoluzione, in fon do, il vero miracolo sarebbe di compierla, questa sacrosanta pulizia dei pre giudizi, senza dover rischiare la vita per accorgersene.

Nella barca assaltata dai flutti e dal vento qualcuno, tra i ragazzi, singhioz zava. Il pilota, irrequieto, scrutava il mare schiumoso sotto il maestrale, e im poneva silenzio, come se potesse giovare. Voleva sentire il motore che scric chiolava a ogni giro di elica.

È stato allora che, di colpo, il motore si è fermato, getti d’acqua bollente hanno iniziato a schizzare sul ponte.

Il mare, anche su una barca così misera, quando il motore funziona e ag guanta le onde una dopo l’altra, lo senti meno cattivo, quasi sicuro. Ma quan do il battello si arresta, senza forza, allora le onde cominciano a giocare per fidamente, sembra ti circondino e siano diventate padrone.

Il pilota era un uomo massiccio, dai baffi già bianchi di nonno, si faceva largo tra la gente assiepata, indifferente, come se camminasse nell’erba, sen za badare a braccia gambe piedi. È sceso nel pozzetto impugnando un cac ciavite, solo un cacciavite, solennemente, come se fosse la spada di Orlando1. Ha svitato, riavvitato, avvinto con corde pezzi del motore, sistemato tra gli stantuffi bottiglie di plastica zeppe di grasso, tra sbuffi di fumo e gemiti si nistri. Tutti guardavano, adesso con angoscia, il suo traffichio, non c’era più gioia sul battello. Mi hanno spiegato che il motore alimenta anche la pompa di aspirazione dell’acqua che entra nella stiva. Se si ferma è inevitabile affondare. In mare aperto, senza radio, senza telefoni satellitari, impossibile chia mare soccorso e sperare. È così per ogni viaggio, i clandestini di Lampedusa sono dei condannati a morte cui talvolta la pena è abbuonata. Il pilota è usci to dal pozzetto lercio d’acqua e di grasso e il motore ha ripreso a guaire nor malmente. Due volte ancora è accaduto durante il viaggio, mentre sfilavano le ore e il giorno si disfaceva di nuovo, con noi sempre in alto mare. Ancora due volte il cacciavite ha funzionato, miracolosamente. Il mare ora era inquieto, torbido e si gonfiava di punto in punto sotto l’in combente minaccia del cielo gravido di enormi nuvole nere. I marosi, intu midendo2 , cominciavano a cozzare gli uni contro gli altri. Una breve spuma rabbiosa ferveva a un tratto, a strisce, su per le creste irte, qua e là.

DOMENIcO QUIRIcO 337 non c’era alcuna paura a bordo, anche se erano gente dell’interno del Paese, della zona delle miniere e del deserto, terragni che da mille anni scavano e sudano e il mare l’avevano assaggiato e visto per la prima volta ora che viag giavano verso il destino.

1 Orlando: leggendario paladino di Carlo Magno, protagonista di diversi poemi durante il Medioevo e il Rinascimento. È la Chanson de Roland che consacra eroe cristiano questo cavaliere: a Roncisvalle i Saraceni tendono un agguato alla retroguardia dell’esercito francese che sta rientrando in patria e Orlando, accortosi del tradimento, avverte il suo re suonando energicamente il suo corno Olifante e dà inizio, brandendo l’indistruttibile spada Durlindana, a una strenua resistenza. I Saraceni superstiti vengono messi in fuga dall’arrivo dell’esercito cristiano, ma la retroguardia è annientata: Orlando, morente ma vincitore, offre il suo guanto di cavaliere all’arcangelo Gabriele. 2 intumidendo: gonfiandosi; il verbo deriva dall'aggettivo ‘tumido’.

questo pudore: forse i problemi sono altri, ma si ha il diritto di esigere la verità da qualcuno che rischia di morire? Su una barca di clandestini, te ne accorgi dopo qualche ora, c’è una gerarchia feroce: ci sono quelli forti, che comandano, che sono amici del pilota e stanno seduti comodi nella parte dove l’acqua non arriva e il vento non ti piega in due. E poi ci sono gli altri, quelli che stanno in fondo a prora, immersi nell’ac qua, dove le baguette e le bottiglie di acqua arrivano rare. E che fanno il viag gio, ventidue ore, immersi in quella abulia2 spessa che sostituisce il sonno. Sono quelli che non hanno mai il coraggio di chiedere quando finirà la loro sofferenza, se ci sono pericoli, e che cosa li attende. Ho fatto il Viaggio per l’arrogante volontà di capire perché un popolo di ragaz zi rischia la vita per sbarcare da noi, per afferrare l’Europa. Non dovremmo usare più, per loro, la parola clandestini: inganna, svia, dovremmo restaura re l’antica cara nostra parola di migranti. Perché non è soltanto e soprattutto la miseria che li muove. Certo l’hanno mangiata da sempre, ma in Tunisia non c’è la fame. È altro che li spinge, una forza che sempre ha mosso i giova 1 sahafi: parola araba che significa ‘giornalista’. 2 abulia: mancanza di volontà, in questo caso apatia, inerzia.

A sinistra avevo Nurad. Forse non si pronuncia così, ma il rumore del mo tore e del vento era forte e bisognava quasi gridare. Lui il lavoro ce l’ha perché è meccanico, anche in Tunisia se vuole. Non andrà in Francia come quasi tut ti sulla barca, arriverà a La Spezia perché lì ci sono la sua fidanzata italiana e il suo bimbo che ha un anno e mezzo. E se gli chiedi perché non la sposa e così diventa italiano senza problemi, gli occhi gli si fanno incerti: «Sai, pro blemi di Megliovisto…»nonviolare

Lo ha detto con un po’ di vergogna: in realtà lui “non sa fare niente”, ha so lo le braccia e la buona volontà. In Tunisia non servono a niente ma in Europa chissà… «Cosa ne dici tu che sei sahafi1 e italiano? Faccio bene?»

Avevo immaginato che durante la traversata avrei parlato con i miei com pagni di viaggio, avrei scoperto perché partono e accettano così semplice mente il rischio della vita. Invece una barca di dieci metri con centotredici passeggeri era muta. Così accucciati, potevo vedere soltanto i due che mi sta vano accanto, gli altri erano come un mistico quadro barocco, una massa dai volti cinerei di cui avvertivo soltanto il fremito e l’odore. È per questo che ho voluto bene a Karim che era alla mia destra, perché stava male e aveva grandi occhi buoni e mi ha detto che voleva andare a Parigi do po aver lasciato Lampedusa, «è una città piena di tunisini, di parenti e amici con cui sono in contatto e che possono trovarmi un lavoro».

sQUARcI DI MONDO338 Le ore passavano. La piccola luce nella cabina del pilota oscillava, e poi… un clamore tumultuoso e alto, formato dall’impeto del vento e dagli scrosci del mare che ora coprivano il ponte. Una protratta e profonda vibrazione nell’aria che, come un remoto gigantesco tamburo, annunciava la tempesta.

DOMENIcO QUIRIcO 339 ni a muoversi a cambiare a sognare, cercano un’altra vita e basta, vogliono sognare e provare. Sanno che l’Europa sarà altro, fatica disperazione umiliazioni povertà, che se la buona fortuna arriverà sarà per pochi. Ma partono lo stesso perché siamo noi lo spazio vuoto che vogliono attraversare. «Io amo come vivete, i Paesi arabi sono immobili, forse ora cambieranno ma ci vorranno anni» mi ha detto Karim, «per questo parto, poi chissà». È la forza che ha creato nuovi Paesi o ne ha rinsanguato altri esanimi. Non li fer meremo mai con i nostri muri fatti di cocci d’uovo, con le nostre avarizie di popoli sazi e stanchi. Quando per la quarta volta il motore si è rotto, senza rimedio, era notte fonda e lontanissime si intravedevano le luci di Lampedusa. La barca ha comincia to ad affondare. Siamo stati salvati, tutti, con efficiente dedizione, dalle unità della Guardia Costiera. Sono addestrati, e si vede, dall’esperienza e non solo dai manuali. Anche noi eravamo l’ennesimo intervento in una giornata fitta di arrivi e di barche egualmente moribonde. La barca senza nome l’abbiamo guardata affondare lentamente nel buio senza rimpianti. Siamo sbarcati a Lampedusa con le sue case orientali, cor rosa e sezionata dal mare con contorni netti che parevano bucare il cielo. A Lampedusa sono andato al campo di accoglienza dove hanno ospitati i miei compagni di viaggio in attesa di farli partire. Li ho visti da lontano, ri devano forte, felici. Ho rinunciato a entrare. Il loro viaggio è solo all’inizio, il mio era finito.

il testo in sequenze e dai un titolo a ognuna di esse.

sQUARcI DI MONDO3401.Dividi

7. In un passaggio della sua cronaca, l’autore dice: «il viaggio […] ha assorbito come una spugna i miei pregiudizi su di loro». Racconta di quando, condividendo con una persona una particolare circostanza, ti sei accorto di aver perso i tuoi pregiudizi su di lei.

5. Perché, verso la fine del brano, l’autore dice che non dovremmo più chiamare «clandestini» le persone che compiono il viaggio ma «migranti»?

2. In che modo l’autore, giornalista europeo, viene accolto e trattato dalle persone che incontra? Nella tua risposta fai riferimento a qualche episodio raccontato nel testo.

3. Finalmente in viaggio: in che condizioni si svolge la traversata del Mediterraneo? Quali difficoltà devono affrontare gli uomini?

6. Quirico inizia il suo racconto parlando dell’attesa; racconta di quella volta in cui anche tu hai vissuto l’attesa di qualcosa o di qualcuno.

8. Da anni stiamo assistendo a una forte migrazione dal continente africano all’Europa; all’inizio del Novecento, invece, questo fenomeno è avvenuto tra Europa e America (Stati Uniti e alcuni paesi dell’America meridionale come l’Argentina o il Brasile). Documentati sulla migrazione degli italiani: quali motivi li spingevano a partire? Quali erano le destinazioni principali? Come venivano accolte e considerate queste persone nei Paesi del “nuovo mondo”? Quali tracce possiamo vedere, oggi, di questo evento passato?

4. Perché l’autore ha voluto compiere il viaggio insieme ai migranti e nelle loro stesse condizioni? Cosa voleva documentare?

341 MARIO CALABRESI

l’Esploratore è una delle più incredibili che abbia mai incontrato. Me l’ha regalata Paolo Rumiz, inviato di «Repubblica» in luoghi di guerra, di pace o dimenticati. Un giorno da Trieste mi ha mandato una mail a New York che diceva soltanto: «Dovresti andare a cercare Jawad Joya, sta per laurearsi in Indiana, se lo trovi avrai tra le mani una storia meravigliosa».

Come non stupirsi di fronte alla realizzazione di ciò che si pensa impossibile? Eppure nella vita delle persone accadono cose che non sono spiegabili solo con la forza di vo lontà, la tenacia, l’orgoglio: vi è come una strada indicata in cui la libertà del singolo può trovare lo spazio per realizzare, compiere la propria vita, in modo imprevedibi le. Questa storia testimonia cosa accade quando in questa strada cammina l’uomo certo della positività della vita. «La gente pensa che il destino sia segnato, che il tuo ruolo nel mondo sia già scritto e che tu debba rassegnarti a vivere la vita che ti è toccata in sorte. Così molti stanno fermi, non si muovono, accettano quello che accade e aspettano. Il giorno in cui sono stato capace di leggere ho avuto la fortuna di incontrare Aspettando Godot di Samuel Beckett1 e mi è stato chiaro cosa non volevo essere».

La storia che finalmente ho trovato a Washington, dopo mesi di appunta menti mancati, narra di un bambino poliomielitico, incapace di stare in pie di, completamente analfabeta fino a 13 anni, che per amore di una cartella e di una scatola di matite colorate riesce a convincere un medico a farlo studia re e a farlo camminare. Racconta di come il ragazzino abbia bruciato le tappe a una velocità mai vista, tanto da riuscire in meno di dieci anni a imparare quattro lingue, a essere capace di programmare un computer, a superare le 1 Samuel Beckett: scrittore, drammaturgo e poeta irlandese del Novecento. 2 Kabul: capitale e città più grande dell’Afghanistan.

«Nelle mie fantasie e nei miei sogni avevo scelto l’America perché qui la gente crede che si possa cambiare il proprio percorso, che una mattina ci si possa alzare e ricominciare con un nuovo piano. Ho avuto la possibilità di andare a Oxford con una borsa di studio, ma ho scelto gli Stati Uniti perché ho pensato che fosse possibile integrarsi meglio e che non sarei stato trat tato come un diverso. Però non mi sarei aspettato di vedere un presidente afroamericano».LastoriadiJawad

Jawad sta per compiere 24 anni, ha avuto soltanto questo nome, che si gnifica «ragazzo generoso», fino a dieci anni fa, quando i suoi insegnanti a Kabul2 decisero che era ora di avere anche un cognome. Scelsero «Joya», che significa «esploratore» o anche «persona curiosa». «Così io, che prima ero so lo Jawad il figlio di Mohamed o Jawad di Kalaii Khater, il mio quartiere, sono diventato Jawad l’Esploratore».

Una scatola di matite

«Sono nato il 23 maggio 1985 a Kabul, da una famiglia di musulmani sciiti di etnia turca. Quando avevo un anno mi sono ammalato di poliomielite1, i miei genitori erano settimane che discutevano se vaccinarmi o no: allora l’Af ghanistan era la frontiera più avanzata della Guerra Fredda, i mujaheddin2 predicavano di non farlo perché i russi attraverso il vaccino mettevano nella testa dei neonati idee sovietiche. La verità è che nel mio quartiere due bam bini erano stati molto male dopo l’iniezione, i miei si erano spaventati e sta vano andando in giro a chiedere consiglio quando mi sono ammalato e sono entrato in coma». Mi parla seduto su una sedia a rotelle rossa, supertecnologica, che guida con un joystick e ogni sera ricarica «insieme al cellulare». Mentre racconta muove molto le mani, ha occhi nerissimi e due lunghe basette. Veste con una cura un po’ italiana: ha una camicia Brooks Brothers e un giubbotto di pelle scamosciata.«Nessuno pensava che sarei sopravvissuto e invece dopo un mese sono uscito dal coma perché ero un bambino robusto, ma non ero più in grado di stare seduto e nemmeno di mangiare con le mani. Ho vissuto circondato di cuscini e mi hanno imboccato per molto tempo, non c’era stato nessun dan no cerebrale ma si rassegnarono al fatto che non sarei mai riuscito a stare in piedi. Quando avevo 12 anni mia madre mi portò all’ospedale ortopedico della Croce Rossa Internazionale diretto da Alberto Cairo, voleva chiedere se avevano una carrozzina».

«Me lo ricordo benissimo» racconta il medico italiano al telefono quando a Kabul è l’alba «la madre lo portava sulle spalle, sembrava avere dieci anni, ma qui a nessuno sai davvero dare l’età, ed era completamente ripiegato su sé stesso. Non riusciva nemmeno a distendere le gambe tanto era contrat to da anni di immobilità. Noi però ci occupavamo solo di feriti di guerra e le dissi che non potevamo fare nulla per suo figlio. Ma la madre restava lì, mi 1 poliomielite: infiammazione della sostanza grigia del midollo spinale; è una malattia infettiva di origine virale, che colpisce soprattutto i bambini e comporta paralisi e deformità permanenti. È oggi praticamente scomparsa nelle nazioni più progredite in seguito a estese campagne di vaccinazione preventiva. 2 mujaheddin: alla fine del XX secolo, il termine mujaheddin è divenuto popolare sui mass media per descrivere i diversi guerriglieri armati che si ispirano alla cultura religiosa islamica.

sQUARcI DI MONDO342 scuole elementari, le medie, il liceo, ad approdare con un aereo militare in un college europeo e poi a laurearsi in un’università americana. Tutto questo me lo racconta lui stesso in un ristorante libanese di Washington, mentre al telefono lo chiama un senatore degli Stati Uniti, che gli chiede conto di una relazione sull’Afghanistan che sta preparando per il presidente Barack Oba ma. Sarebbe da non crederci se non fosse tutto documentato, testimoniato e se l’energia potente che può nascere dalle difficoltà non mi inondasse men tre mi abbandono agli antipasti che continuano a mettere sul tavolo e al co sciotto di agnello.

«Avevo imparato a camminare, forse avrei potuto imparare anche a legge re e scrivere. Mio padre mi aveva portato a scuola solo due volte, ma non mi avevano accettato con queste parole: “Ci piacerebbe averlo perché è sveglio, ma non abbiamo una sedia o un tavolo per lui e se arrivasse un missile o una bomba, gli altri bambini potrebbero scappare ma lui rimarrebbe intrappola to”. Così fino ai 13 anni non mi vollero a scuola». Ormai la cosa lo fa sorride re, il fatto che per oltre sette anni sia stato rifiutato dalla scuola con pretesti e scuse, che non venisse considerato meritevole di un’educazione, non lo indi gna più, anzi, sembra rendere la seconda parte della storia ancora più eroica e speciale. Quando parla e ricorda è talmente concentrato a non dimenticare alcun dettaglio che non mangia nulla. Si ferma soltanto per bere, e per farsi portare un altro succo di mango. «A quel punto ho pensato che non era più tempo di “aspettare Godot”, era tempo di agire. Così ho deciso che avrei imparato a leggere e scrivere il per siano. Quello che ti dico forse ti farà ridere, ma per me è stato un percorso incredibile: prima ho scoperto che c’era un alfabeto e un numero limitato di lettere: erano 36 e non milioni, si potevano imparare e poi le potevo combi nare per fare le parole. Mi è venuta una curiosità pazzesca, non pensavo ad altro e in due mesi ho cominciato a leggere. Allora ho pensato che si poteva fare con altre lingue, che era un gioco che potevo ripetere e ho cominciato con l’inglese: memorizzavo parole, poi frasi e ho convinto mio padre a com prare le batterie e a farmi ascoltare la Bbc sulla radio a onde corte. Da ormai due anni c’erano al potere i talebani1 ed era vietato, se mi avessero scoperto avrebbero distrutto la radio e messo in galera mio padre. E poi l’atmosfera era pesantissima, studiare era considerato un gesto provocatorio e una cosa inutile: “Perdi tempo e cervello,” mi ripeteva chi sapeva che stavo cercando di imparare “non vedi i ragazzi laureati agli angoli delle strade che vendono patate e Siamocarote?”».inunristorante

spazioso che si chiama Taverna Libanese: è il suo preferito perché il proprietario è scappato dalla guerra civile negli anni Set tanta e ha fatto fortuna in America, e perché l’atmosfera è mediorientale, si può stare seduti per ore a parlare senza che i camerieri ti facciano fretta o ti chiedano di liberare il tavolo. Così dopo quasi un’ora ci portano gli antipasti, che non avrà tempo di toccare, e solo quando arriva l’agnello mi racconta l’in contro capace di cambiare una vita: con una scatola di matite colorate. 1 talebani: studenti delle scuole coraniche in cui si studiano i testi sacri islamici. Sono diventati famosi sugli organi di comunicazione di massa, che usa questo termine per indicare la popolazione fondamentalista presente in Afghanistan e nel confinante Pakistan.

MARIO cAl ABREsI 343 fissava negli occhi e diceva che non si possono fare differenze tra malati. Era così forte e tranquilla che ci convinse a cambiare la nostra politica». Così lo operarono due volte, poi gli misero dei sostegni per le gambe e gli fecero fare sei mesi di gessi, fisioterapia ed esercizi, alla fine imparò a stare in piedi e a camminare con i supporti di metallo alle ginocchia e le stampelle.

sQUARcI DI MONDO344 «Alla Croce Rossa incoraggiavano i genitori a far studiare i bambini e c’e rano dei bellissimi zainetti pieni di matite, penne, colori, quaderni. Io ho chiesto se era possibile averne uno: “Per chi sono?”. “Solo per chi va a scuo la.” Sono tornato a casa e ho cominciato a fare pressioni fortissime su mia madre perché mi accompagnasse a scuola un’altra volta, anche se avevo 13 anni. La tormentai con le mie richieste finché una mattina cedette, mi cari cò sulle spalle e facemmo il giro di tutte le classi e gli insegnanti, ma subito cominciò il solito balletto: “Non abbiamo una sedia adatta, un banco per lui, se succede qualcosa non è in grado di scappare…” Mi dissero di nuovo di no. Ero tristissimo e davvero arrabbiato: volevo lo zainetto e quelle matite e mi sfogai con il mio fisioterapista, poi tornai all’attacco da mia madre. Lei allora si presentò di nuovo da Cairo.» «Ricordo questa donna dalla faccia tonda,» mi ha raccontato il medico italiano «che con un tono tranquillo ma assai in sistente mi disse: “Le gambe di mio figlio sono guaste ma non il suo cervello. Lo hanno rifiutato ancora a scuola ma lui deve studiare, deve studiare, deve studiare”. Io ero molto scettico, ma i miei collaboratori mi convinsero e con dei soldi privati ci mettemmo a cercare un maestro che andasse a domicilio.»

Quando parla di Cairo gli occhi di Jawad si illuminano, ha una gratitudine immensa per il fisioterapista italiano che gli ha dato la possibilità di riscatta re una vita e ha sempre trovato i modi, le soluzioni e le parole giuste per farlo: «Trovò un insegnante privato che cominciò a venire a casa. Per prima cosa mi fece un test per vedere cosa sapevo e scoprì che, grazie a quello che avevo imparato da solo, potevo partire dalla terza elementare».

Comincia un percorso incredibile: il maestro fa lezione a Jawad per tutta la mattina sei giorni alla settimana e in sei mesi finiscono le elementari. Con l’inizio delle medie le cose si complicano: ci sono chimica e algebra e allora Alberto trova un professore di scienze e uno di matematica da affiancare al maestro. «Andava così veloce» racconta Cairo «che dovevamo cambiare gli insegnanti perché non riuscivano a stargli dietro». «Volevo recuperare tutto il tempo perduto, avevo solo quello in testa e allora il maestro, ogni pomerig gio, aggiunse anche l’inglese. Avanzavo un po’ più lento, recuperavo un anno ogni quattro mesi, ma a metà del 1998 ho finito anche le medie. A quel punto Alberto mi manda a un corso di computer.». Mentre lo racconta scoppia a ri dere e finalmente si ferma ad assaggiare il cosciotto d’agnello che è in tavola da mezz’ora e che stavo mangiando da solo: «Non puoi nemmeno immagi nare come fossero i computer al tempo dei talebani: completamente censu rati, senza foto e senza immagini. Ho imparato presto a usare i programmi e a scrivere un semplice software e mi ero messo in testa di diventare un programmatore. Finché una sera Alberto, mentre mi stava dando un passag gio in macchina, si fermò di colpo e mi disse: “Bacha, ragazzo, sto cercando un operatore di computer per l’ospedale, vuoi venire tu a lavorare per me?”. “Sììì!” “Allora presentati domani mattina per un colloquio”». Così nel 1999, a soli 14 anni, Jawad venne assunto con un contratto part time e diventò il più giovane dipendente della Croce Rossa Internazionale. «Lavoravo ogni matti na, ma continuai a studiare al pomeriggio. Pochi mesi dopo se ne andò il pro

MARIO cAl ABREsI 345 grammatore che lavorava da noi, così mi promossero a responsabile di tutto il sistema informatico della Croce Rossa in Afghanistan». Il ragazzo poliomie litico, che fino a due anni prima era analfabeta, con il suo stipendio riesce a mantenere l’intera famiglia: i genitori, tre fratelli più piccoli e una sorella. È l’unico a lavorare e ora la loro vita dipende da lui. Ma la situazione si fa sem pre più pericolosa: «Studiavo geografia, inglese, computer, ma non i libri di religione che ci venivano imposti e lavoravo al sistema informatico di un’as sociazione straniera: se i talebani lo avessero saputo mi avrebbero accusato di cooperare con gli infedeli e saremmo finiti tutti in prigione. Ma valeva la pena correre questo rischio, e poi non volevo che la paura potesse decidere che tipo di vita dovevo vivere». Quando i talebani scapparono da Kabul, nel quartiere di Jawad si fece festa: «Erano tutti felici e io più di loro: potevo finalmente imparare tutto quello che volevo senza avere paura, e senza nascondermi, e cercare di far riconoscere i miei studi». Poi una mattina, nello stesso isolato dove abita la famiglia di Ja wad, arrivò un missile americano in cerca di talebani o uomini di Al Qaeda1: «Distrusse completamente tre case, uccise tredici persone, due erano ragaz zine e due erano bambini, lontani parenti di mio padre. Una cosa orribile che sconvolse tutti, la gente ripeteva: “Ma allora siamo tutti nemici, meritiamo di morire solo perché abbiamo la colpa di dormire accanto a un talebano”». Il ragazzino sulla sedia a rotelle registrò tutto nella sua testa, i pianti, la rabbia, l’inutilità del gesto: tra i cadaveri estratti dalle macerie non si trovò nessun talebano. Memorizzò tutto, si fece la sua idea, aspettò con pazienza e un gior no di sette anni e cinque mesi dopo trovò la persona giusta a cui spiegare perché l’America non riesce a conquistare i cuori e le menti del popolo af ghano: l’ammiraglio Mike Mullen, l’ufficiale più alto in grado tra i militari a stelle e strisce. «Dovete trovare un modo» gli disse con molta franchezza «per smettere di ferire e uccidere la popolazione civile. Non ci si può giustificare con gli errori umani e ripararsi dietro la buona fede, non perché è sbagliato, ma perché così non avrete mai il popolo dalla vostra parte». «Nella Kabul dei missili ma anche della rinascita riuscii ad andare a parla re con il ministro dell’Educazione del governo provvisorio: raccontai la mia storia e chiesi di poter essere ammesso agli esami per ottenere il diploma perché volevo iscrivermi all’università. Mi rispose che non si poteva: “Nes suno lo ha mai fatto nella storia di questo Paese, non ci sono precedenti”. Non lo accettai: “Ma come, prima mi avete impedito di andare a scuola e adesso mi volete fermare un’altra volta?”. La discussione si accese finché decisero di chiedere a un liceo di Kabul di preparare una sessione speciale in cui avrei 1 Al Qaeda: è il nome di un movimento paramilitare e terroristico, fautore di ideali riconducibili al fondamentalismo islamico e impegnato in modo militante nell’organizzazione e nell’esecuzione di azioni sia nei confronti dei vari regimi islamici filo-occidentali, sia nel mondo occidentale tout court.

«Tutti dovevamo aspettare» riprende Jawad «e allora ci mettiamo a parla re, con tale intensità che Paolo nemmeno si accorge che l’uomo delle chiavi è tornato: gli racconto la mia storia e parliamo della guerra per più di tre ore e poi mi chiede di presentargli Alberto Cairo». Paolo resta a Kabul per un mese, si vedono spesso, quando Jawad viene a sapere che sta per ripartire va a sa lutarlo: «Mi ricordo che era pieno inverno» racconta Rumiz «e lui mi aspetta va in un angolo del cortile, nell’unico punto in cui c’era il sole: aveva soltanto la camicia addosso, faceva un freddo terribile ma sorrideva come sempre».

«Aveva questo desiderio di un’educazione anglosassone» alza la voce Pao lo «ho provato a cercargli un college in Inghilterra e negli Stati Uniti, poi mi sono reso conto che aveva l’età giusta per il Collegio del Mondo Unito dell’A driatico e mi sono fiondato a Duino, poco fuori Trieste, a parlare con il diret tore, dicendogli che era una bella sfida anche per loro quella di avere uno studente afghano, subito dopo l’11 settembre e per di più con un handicap

Chiamo Paolo Rumiz a Trieste per chiedergli come la ricorda lui: «Volevo capire chi era questo ragazzo afghano su una sedia a rotelle che aveva uno straordinario sorriso leale, una dolcezza di approccio e un inglese fluente che erano stupefacenti in quel mondo».

sQUARcI DI MONDO346 sostenuto gli esami dalla prima elementare fino all’ultimo anno della scuo la superiore: dal punto in cui mi fossi fermato avrei dovuto ricominciare a studiare, ma questa volta in una scuola vera. Gli esami si tennero nel marzo 2002 all’istituto Amani, in quella che un tempo era stata la culla delle élite della città. Superai undici anni di scuola in due settimane di interrogazioni e alla fine mi chiesero di frequentare solo l’ultimo anno».

Dopo tre mesi di liceo, un altro incontro che gli cambia la vita, con il gior nalista italiano Paolo Rumiz. «Un pomeriggio, mentre ero nella hall di un al bergo ad aspettare una corrispondente di guerra a cui davo le lettere che ave vo il vizio di scrivere alle organizzazioni culturali europee per avere contatti e fare amicizie, mi trovo in mezzo alla lite tra il portiere e uno straniero che ha in testa il pakol, il cappello di lana di agnello infeltrita che usava il coman dante Massud. Non si capiscono, uno parla solo persiano, l’altro inglese, mi intrometto. “Ma cosa vuole quest’uomo?” dice il portiere. “La chiave, solo la chiave della stanza, devo scrivere il pezzo per il giornale e questo non capi sce.” Allora il portiere mi spiega che l’uomo che tiene le chiavi è uscito ed è andato a fare la spesa, che bisogna aspettare che torni. Il giornalista si arrab bia ancora di più, è appena arrivato da Jalalabad, poi però si incuriosisce e si mette a parlare con me.»

«L’ho salutato» ricorda il giovane afghano «e mi ha detto: “Addio Jawad, torno in Italia, ma prima voglio sapere qual è il sogno della tua vita, dimen tica i problemi e dimmelo”. Gli rispondo che mi piace la filosofia e voglio an dare all’università, ma quella di Kabul è distrutta e i libri della biblioteca, du rante il regime dei talebani, sono stati usati per fare il fuoco con cui si bolliva l’acqua per il tè. E poi sarebbe impossibile entrarci con la sedia a rotelle. Mi piacerebbe andare in un college americano ma non so proprio come fare. Lui mi promette che ci penserà».

MARIO cAl ABREsI 347 grave. Accettano con coraggio ma a quel punto, se devo dire la verità, ero io a essere veramente preoccupato per il trasferimento e per lo choc culturale che poteva avere nel passare dalla Kabul dei burka1 alle ragazze mezze nude delle spiagge adriatiche».

Tre mesi dopo, Alberto aspetta Jawad all’ingresso della Croce Rossa con una lettera in mano: «Bacha, ho buone notizie per te, Paolo scrive che ha trovato il posto giusto: a Trieste, avresti anche la borsa di studio. Dice che è un’ottima scuola, che è molto difficile essere ammessi ma tu devi provare». «Ero felice anche se fino ad allora ero stato solo per pochi mesi a scuola e non avevo idea di cosa volesse dire.»

Il Collegio, che è una scuola di specializzazione preuniversitaria, mette in piedi una commissione che lo interroga a Kabul e lo accetta dopo tre mesi: «I miei genitori erano talmente orgogliosi che non stavano più nella pelle, avevo solo 17 anni, non ero mai uscito da Kabul ma adesso sarei andato a studiare in Italia». Ma come andare a Trieste se sembrava impossibile anche soltanto arrivare in Pakistan? La soluzione gliela trova Cairo insieme all’ambasciato re italiano alla Farnesina. Parlano con il contingente italiano della missione Isaf 2, chiedono di poter mettere Jawad su un aereo militare quando portano a casa i soldati. Lo accettano, ma l’ambasciata a Kabul non è in grado di dargli il visto e Jawad dovrà prenderlo al primo scalo che è Abu Dhabi. «La mattina che dovevo partire è venuta sotto casa a prendermi la Toyota Land Cruiser della Croce Rossa, una vettura simbolo per la gente di Kabul. Tutto il quartiere era corso a vedere, venivano a salutarmi: “Jawad ce l’ha fatta, Jawad parte” gridavano dalle finestre. Non avevo mai visto mio fratello piangere, non avevo mai visto tanta gente intorno a me». Mentre racconta, suona il cellulare: è il fratello da Kabul, parlano per pochi secondi, poi gli dice «Ti richiamo stanotte», come abitassero a pochi isolati di distanza. «Poi so no arrivato alla Croce Rossa e lì c’era un’altra folla ad aspettarmi e la jeep dei militari pronta per caricarmi. È stata un’emozione fortissima, mi sono alzato sulle stampelle per salutarli, mentre un cameraman della Rai riprendeva tut to. Io avevo paura dell’aereo, non avevo mai volato, e la prima volta sarebbe stato su un Hercules C130, l’aereo più rumoroso che esista. Alberto cercava di scherzare per distrarmi: “Bacha, non è che hai riempito la valigia d’oppio, visto che voli con i soldati e non avrai controlli?”. Avevo soltanto due borse con i miei libri e pochi vestiti. All’aeroporto due militari mi presero in conse gna: “Devi stare con noi fino a Brescia, dove troverai quelli del tuo collegio”. Sull’aereo c’erano sessanta soldati italiani con la mimetica, io ero l’unico in abiti civili e senza visto. Ad Abu Dhabi riesco ad avere il visto e posso salire su 1 burka: capo d’abbigliamento tradizionale delle donne di alcuni Paesi di religione islamica, principalmente l’Afghanistan. Indica sia il velo che copre il volto, eccezion fatta per una finestrella che permette la visione, sia l’intero abito. 2 missione Isaf: forza di intervento internazionale denominata “International Security Assistance Force” nata con il compito di garantire un ambiente sicuro a tutela dell’Autorità provvisoria afghana insediatasi a Kabul nel 2001.

«Le mie preoccupazioni» chiosa Paolo Rumiz «erano state inutili: Jawad si ambientò perfettamente, viveva in una piccola dépendance proprio sotto il castello dove Rilke scrisse quasi cent’anni fa le Elegie duinesi, e aveva una capacità enorme di fare amicizie. Il suo handicap non era qualcosa che usa va per trovare comprensione, ma la fonte di una forza smisurata che veniva dall’orgoglio per le sue conquiste». Jawad viene adottato dalla triestina Sonia Dukcevich, che produce pro sciutto a San Daniele e che lui considera quasi come una madre: «Mi si è av vicinata e mi ha detto: “Non sei solo in Italia, la mia famiglia sarà la tua”. È stata di Jawadparola».rimane a Trieste per due anni, poi fa domanda di iscrizione in sette college e gli rispondono di sì in sei. «Ho scelto di non restare in Italia perché le università non erano abbastanza accessibili per una persona che si muove con la sedia a rotelle. Qui invece è diverso, mi posso muovere in modo sem plice e indipendente». Mi accorgerò alla fine del nostro incontro di quanto questo sia vero e determinante.

sQUARcI DI MONDO348 un volo dell’Air One che arriva a Brescia alle due e mezzo di notte: c’erano tre persone con le magliette del college ad aspettarmi. Arriviamo a Trieste che c’è già il sole, mi portano in camera e crollo addormentato, sfinito dalla stan chezza, dalla tensione e dalle emozioni. A un certo punto sento casino», que sto lo dice in italiano «allora apro gli occhi e la stanza è piena di gente curiosa di vedere questo nuovo arrivato dall’Afghanistan. Io allora sapevo dire solo “ciao” e non capivo come fosse possibile avere una sola parola per “hallo” e “byebye”, per il momento in cui ci si incontra e quello in cui ci si lascia».

Così attraversa l’Atlantico e sceglie l’Earlham College, una piccola univer sità fondata dai quaccheri1 a metà dell’Ottocento a Richmond, Indiana, dove studia sociologia, antropologia ed economia, tutto con una borsa di studio americana. «Un luogo magico, una comunità aperta che mi ha accolto subi to, dove tutto è accessibile e la gente crede nel valore di imparare insieme». Rumiz mi aveva raccontato della capacità incredibile e del metodo con cui Jawad raccoglie contatti, crea rapporti e tiene in piedi un’agenda impres sionante. La sua biografia degli ultimi anni ne è la dimostrazione. Nel 2007 lavora per tre mesi al Congresso con Evan Bayh, senatore democratico del l’Indiana, si scambia mail con il senatore dell’Illinois Barack Obama; poi la vora con la banca Ubs America a Philadelphia e ora collabora a un progetto di ricerca sul futuro dell’Afghanistan insieme a Lee Hamilton, ex deputato dell’Indiana, già presidente della Commissione d’inchiesta sull’11 settembre e del Wilson Center for International Scholars. Il lavoro di Jawad si concentra sulla necessità di un forte programma economico che accompagni l’aumen 1 quaccheri: termine che indica i membri di una setta protestante nata in Inghilterra intorno al 1650 con la predicazione di George Fox. Affermatisi soprattutto nelle colonie inglesi d’America, i quaccheri si oppongono a ogni violenza, alle guerre e al servizio militare, sono animati da forte egualitarismo e grande rigorismo morale.

Jawad lavora per questa organizzazione non profit per mezza giornata: «Trovare un lavoro a tempo pieno in questo periodo negli Stati Uniti è come cercare il pesciolino Nemo». La battuta gli piace e la sottolinea con la sua ri sata aperta e contagiosa, una risata fragorosa che riempie il ristorante. Gli chiedo cosa voglia fare da grande: «La mia filosofia è quella del fixer, il riparatore: se c’è qualcosa che non funziona bisogna trovare cos’è, cosa man ca e risolvere il problema. Ecco, vorrei fare questo nella vita, magari nel mio Paese, lì le cose che non funzionano non mancano certo… Avrai capito che la mia attitudine non è di lamentarmi o aspettare l’intervento di Dio o dello Stato. Certo, puoi anche passare la vita a piangerti addosso, ma non vai da nessuna parte». Ha parlato per tre ore, abbiamo perso il senso del tempo, il ristorante è de serto, ma nessuno è venuto a sollecitarci allungando il conto. Si mette una sciarpa a scacchi gialla e azzurra e dobbiamo discutere su chi debba pagare, alla fine mi lascia fare solo perché gli dimostro che ho mangiato quasi tutto io, ma non è convinto: «Hai ascoltato la mia storia per tutto questo tempo e adesso vuoi anche pagare?». Mentre ci alziamo mi chiedo come faccia adesso ad andare a casa, sono pronto ad aiutarlo e invece mi troverò a inseguirlo per strada mentre corre sulla sua carrozzella rossa. Camminando con lui vedo Washington con altri occhi e mi rendo esattamente conto di cosa intendeva dire quando parlava di vivibilità: il marciapiede è largo, a ogni angolo ci sono le discesine, alla stazione della metropolitana c’è l’ascensore che ti porta al mezzanino per timbrare il biglietto, poi un altro ascensore scende ai binari, le porte dei treni sono larghe e a bordo c’è lo spazio per sistemarsi, gli auto bus che lo porteranno a casa a Leesburg in Virginia hanno tutti la pedana elettrica per sollevare le carrozzine. Si muove senza problemi, in modo natu rale. «Ho scelto l’America perché qui se una cosa non va c’è la speranza che

MARIO cAl ABREsI 349 to delle truppe voluto da Obama: «Altrimenti mandare più soldati non serve a nulla. Se non parte e non funziona un piano di aiuti economici ci sarà un altro 1979, con la fuga finale dei sovietici. Ma bisogna tener presente che il 68 percento della popolazione afghana ha meno di 26 anni: sono 25 milioni di persone, per quasi metà uomini, che possono essere un esercito per il be ne o per il male. Se la situazione precipita, questo diventa un serbatoio per i fondamentalisti, i talebani e Al Qaeda». La sua relazione è arrivata alla Casa Bianca, Jawad non sa se sia finita in qualche modo in quella pila di documen ti che per quasi tre ore Obama legge ogni mattina tra le sette e le dieci. Gli ha ritelefonato però l’ammiraglio Mullen, che lo ha ringraziato e ha detto di aver fatto leggere il documento a tutti i suoi analisti, anche se le critiche erano aspre, anche se il ragazzo pensa che «l’operazione Afghanistan è stata porta ta avanti in un modo orribile: senza un piano per la ricostruzione, ignorando i bisogni della popolazione, con un atteggiamento irritante e inaccettabile». «Oggi l’unica cosa che può e deve fare l’America» il suo tono adesso è secco e formale «è aiutare la gente normale a vivere una vita normale, a tirarsi fuori, ma devono ascoltarla, mettersi dalla sua parte».

sQUARcI DI MONDO350 cambi: i neri cinquant’anni fa non votavano, oggi uno di loro abita nella casa più importante di Washington. Questo Paese evolve, permette il cambiamen to e ha esempi grandiosi: il mio preferito è Franklin Delano Roosevelt, ha aiutato la gente normale a fare cose straordinarie».

Saliamo sulla metropolitana e mi dice che si aspetta di ricevere una telefo nata dalla Casa Bianca, qualcuno che gli dica che ha letto la sua analisi sull’Af ghanistan. Io sorrido e faccio la faccia di chi suggerisce di non farne una ma lattia, che la cosa quasi certamente non si realizzerà. Lui fa segno di no con la testa: «Ma perché non devo osare, ma perché non devo sperare, ho fatto cose che i ragazzi del mio quartiere nemmeno si permettevano di immaginare, le ho fatte passo dopo passo, perché devo mettere un limite adesso?».

Provo un misto di vergogna per aver dubitato e soddisfazione per la sua fede contagiosa nella vita. Lui parla ancora ma non lo sento, sono troppo con centrato a guardarlo e a pensare che il ragazzo che sta correndo con me nella pancia della capitale d’America, che scrive i suoi appuntamenti sul BlackBer ry, che frequenta gli analisti più potenti di Washington, solo dieci anni fa non sapeva nemmeno leggere e non era mai uscito dal suo quartiere.

Quando riprendo ad ascoltarlo, mi dimostra che non è per niente naif e che il suo idealismo è solido: «Troppi ragazzi pensano che Obama sia un pro feta, la soluzione di tutti i problemi. Ma sono in errore, perché lo guardano e vedono la cosa sbagliata, non capiscono che è solo un uomo e non potrà fa re miracoli. La forza di Obama, invece, è l’esempio: ci ha dimostrato che non esistono cose impossibili».

Si potrebbe dire che Jawad è stato fortunato nei suoi incontri, ma è pen sando a lui che mi è sembrata perfetta quella frase che tanti hanno attribuito a Seneca: «Non esiste la fortuna, esiste il momento il cui il talento incontra l’occasione».

7. L’«incontro» con la scatola di matite ha cambiato la vita di Jawad, infatti tutto parte da lì. Racconta come una semplice circostanza accaduta nella tua vita si è rivelata di particolare importanza per una scelta intrapresa o per il fiorire di un rapporto.

MARIO cAl ABREsI 351

6. Quali incontri sono stati decisivi per il percorso di Jawad? In che modo lo hanno guidato e accompagnato nel suo cammino?

8. «Aiutati che Dio ti aiuta» dice un motto della cultura popolare. Cosa significa? Condividi l’insegnamento di questo proverbio? Rispondi portando esempi dalla storia di Jawad e dalla tua esperienza personale.

3. Per quali ragioni a Jawad non è consentito frequentare la scuola?

1. Come ha vissuto Jawad fino all’età di dodici anni?

4. Ricostruisci le tappe del percorso di studi di Jawad.

2. Perché la Croce Rossa Internazionale decide di prendersi cura di Jawad anche se non era un ferito di guerra?

5. Sottolinea nel testo tutti i passaggi in cui emerge la tenacia di Jawad nel soddisfare il proprio desiderio di conoscenza e di affermazione di sé.

sQUARcI DI MONDO352 IBRAHIM ALSABAGH

In questi giorni1 l’elettricità arriva per mezz’ora al giorno. Settimana scorsa siamo rimasti senz’acqua per nove giorni di seguito. Dal quarto giorno co minciamo ad accendere il generatore elettrico grande, a estrarre l’acqua dal nostro pozzo e ad aprire le porte alla gente, che viene subito ad attingerla con i secchi per portarla alle case. Essere senz’acqua significa non averne neppure per mangiare. È impressionante vedere gli anziani che non hanno nessuno, e qualche volta i bambini, portare secchi e contenitori pesanti, spesso insieme alle donne giovani e agli uomini: tutti in fila solo per qualche litro d’acqua.

Padre Ibrahim, frate francescano e parroco ad Aleppo, seconda città della Siria, racconta la vita quotidiana della sua parrocchia e della comunità cristiana in un Paese sconvolto da una terribile guerra civile iniziata nel 2012. I brani riportati sono pagine dei suoi diari e trascrizioni di alcuni incontri a cui è stato invitato a parlare: nonostante le numerose difficoltà quotidiane la comunità francescana de cide di non abbandonare i luoghi a lei affidati.

La cosa peggiore di tutte sono però le bombe che cadono sulle abitazio ni. Siamo a una distanza di centocinquanta metri da alcune milizie armate, e queste per vendetta, per odio, lanciano bombole di gas e missili sulle case della popolazione innocente, disarmata, e anche sulle chiese. Intorno alla no stra chiesa sono cadute tante bombe, quasi come se fosse presa di mira, ed è veramente così. Oltre a quanti abitano nelle case, uccidono giovani, bambini, persone di passaggio per strada.

C’è un’onda di sofferenza, disperazione e amarezza a causa di tutta que sta morte. Per reazione, per un po’ di tempo la gente scappa, cercando di evitare tutta questa zona; va in altre chiese, in zone diverse, anche se non sono sempre sicure, fino a quando l’onda di tristezza passa. Poi, lentamen te, torna alla vita normale. È ciò che è successo di recente quando è caduta una bombola molto vicino alla nostra chiesa: una bombola di gas che ha rot to tutti i vetri superiori dell’edificio, i quali sono caduti sui fedeli durante la messa vespertina. Sono morti una giovane e un uomo, entrambi cristiani, che si trovavano in un negozio vicino per degli acquisti. C’è stato il dolore dei funerali, il pianto di tante persone, la presenza di tutto il clero di Aleppo, ma poi, con il passare dei giorni, la paura si attenua e la popolazione cerca di vivere Diversinormalmente.parrocchiani ci rivolgono domande esistenziali: «Fino a quando, padre, saremo messi a morte, uno a uno? Per quanto tempo ancora restere mo qui? Non potete mandarci tutti via? Non potete fare qualcosa per noi, più di quanto state già facendo?». 1 Il brano è parte di un incontro tenuto in collegamento video da Aleppo il 14 marzo 2015.

Il dramma del quotidiano

Poi ci sono le malattie: assistiamo diversi casi di malattie particolari, ad esempio del fegato, causate dall’aria satura di microbi e virus. Quest’anno an che l’influenza si è molto diffusa e ha colpito tutti noi: non è passata se non dopo un mese di tosse assai forte. Il fisico della popolazione si indebolisce anche per l’assenza di medicinali; in città vengono prodotti in modo artigia nale dei preparati per aiutare i tanti malati.

IBRAhIM AlsABAGh 353 C’è il carovita, dovuto al crollo della lira siriana rispetto al dollaro e all’eu ro1, l’aumento drammatico della povertà e coloro che approfittano di questa situazione. Tutti allora si rivolgono alla nostra associazione di beneficenza. Coloro che in passato erano molto ricchi, dopo aver perso officine, industrie, negozi e case, sono rimasti quasi senza nulla. In quattro anni di guerra han no consumato tutti i beni che possedevano, e da ricchi sono divenuti poveri. Sorprende vedere le persone benestanti, che si vestivano in modo lussuoso, venire con gli stessi abiti a bussare alla porta dei poveri, per chiedere un aiu to: possiedono i mobili, la casa, ma non hanno il cibo, nulla di cui poter vive re. Anche nei momenti difficili di questi giorni senz’acqua, è stato toccante accorgersi del cattivo odore della gente: persone ben educate, raffinate, arri vavano tutte maleodoranti, perché per nove giorni non erano riuscite a fare la doccia. Ora sono circa trecento le famiglie cui diamo aiuto, e il loro numero è in continuo aumento.

Ultimamente abbiamo scoperto anche decine di case semidistrutte nelle quali gli abitanti continuano a vivere. Intere famiglie con bambini, non aven do un posto dove rifugiarsi, restano sotto il tiro dei missili e delle bombe in case senza vetri, porte, finestre, o con il tetto forato, addirittura senza una pa rete. Cerchiamo dunque, pur con il minimo delle risorse, di alleviare la loro sofferenza e quella dei malati: ci sono quelli con malattie croniche, i malati terminali di tumore che non hanno nessuno, e in questi casi noi dobbiamo essere vicini, quasi fossimo i genitori o i familiari di queste persone. Seguia mo tali casi interamente, in ogni fase. La pace del cuore2 Poco tempo fa, è venuto da me un musulmano che ha sempre lavorato con noi e mi ha sussurrato: «Padre, io che ho girato tutta Aleppo e visto cosa succede altrove ai pozzi, mi meraviglio a vedere come la gente viene ad attingere ac qua da voi. Lo fa con il sorriso, una grande pace nel cuore, senza litigi, senza 1 carovita: rialzo generale dei prezzi, in particolare dei beni di più largo consumo. All’inizio della guerra un euro si scambia con 85 lire siriane, nei primi mesi del 2015 per avere un euro forse non bastano 400 lire siriane e a metà del 2016 ne occorrono tra 500 e 600: la svalutazione della moneta è una delle cattive conseguenze della guerra. Contemporaneamente l’inflazione porta alle stelle il prezzo degli alimenti di prima necessità. 2 Testimonianza tenuta a Rimini il 23 agosto 2015.

12 novembre 2015 Nei giorni prima di quella drammatica domenica dello scorso 25 ottobre, i bombardamenti dei jihadisti – i quali non si fanno alcuno scrupolo di bom bardare poveri civili disarmati e pacifici, che vivono nelle zone controllate dall’esercito regolare – hanno colpito incessantemente i quartieri di Aleppo da varie direzioni. Le truppe jihadiste si sentivano infatti minacciate dall’a vanzata da sud dell’esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi2 1 Padre Ibrahim scrive le seguenti righe qualche ora dopo un attacco contro la sua chiesa.

2 Si stima che questi scontri abbiano causato la fuga di almeno 70.000 civili.

25 ottobre 20151 Dopo vari tentativi falliti di danneggiare la nostra cattedrale latina di San Francesco, oggi pomeriggio, durante la messa delle 17, alcuni gruppi jiha disti sono riusciti a colpirne la cupola. È accaduto mentre mi apprestavo a distribuire la comunione. Dobbiamo ringraziare il Signore perché la cupo la ha retto il colpo, esploso all’esterno: l’esplosione non è quindi penetrata nell’edificio. Ci sono stati alcuni istanti di vero panico, in cui la terra tremava senza sosta e attorno non si vedevano che polvere, travi e calcinacci che ci cadevano addosso. Fortunatamente, però, ci sono state solo sette persone fe rite leggermente e una in modo più grave, ora sottoposta ad accertamenti più approfonditi. Non cessiamo di lodare il Signore che ha impedito ci fossero deiIlmorti.tentativo di distruggere la cupola durante la messa della domenica sera, quando la chiesa era affollata di fedeli, non è stato casuale, né il fatto che tutti noi ci siamo salvati: eravamo infatti protetti da Maria, madre di Gesù e madre nostra. Speriamo che questo caos abbia fine e di riuscire presto a parlare di tali episodi come eventi del passato, senza la paura che possano ripetersi in qualsiasi momento.

sQUARcI DI MONDO354 alzare la voce. Voi siete diversi, pieni di gioia; riuscite a condividere con gli altri, anche i musulmani, e a farlo in pace». Stare ad Aleppo da cristiani ha un profondo valore; non ci arrendiamo: amiamo, perdoniamo e testimoniamo di più. La vita cristiana è sempre un cammino per una via stretta: molte difficoltà, ma numerose vittorie. Viviamo il dolore e la morte, ma non la paura, perché abbiamo la forza della risurre zione. Sappiamo che le nostre sofferenze hanno un significato redentore per noi e per quelli che ci uccidono, anzi per tutto il mondo. Abbiamo tanta ragio ne per agire da veri cristiani ed essere radicali nel vivere la nostra fede con gioia e pace.

In quel momento avevo in mano il Santissimo e stavo distribuendo la co munione ai fedeli, raccolti in fila al centro della chiesa. Ho avuto il tempo di farlo solo per cinque o sei persone, poi abbiamo sentito un rumore lontano, non molto forte, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto. Non erano trascorsi dieci secondi, che tutta la chiesa ha cominciato a trema re per circa quaranta indimenticabili secondi. Una pioggia di sassi, calcinac ci e pezzi di vetro cadeva su di noi e quasi non si vedeva più nulla. Immerso nella polvere, mentre, assai preoccupato, mi domandavo che cosa stesse ac cadendo, ho sentito le mie “pecorelle” che, spaventate, urlavano, disperden dosi e nascondendosi ai lati e negli angoli della chiesa; intanto il pavimento continuava a alcuni fedeli erano rimasti tra i banchi al centro della chiesa gridando di dolore, ho fatto alcuni passi verso l’altare per appoggiarvi il Santissimo; poi sono tornato indietro per prestare soccorso. Volevo fare il più in fretta possibile, perché i jihadisti sono soliti lanciare un secondo mis sile sullo stesso luogo immediatamente dopo il primo; fortunatamente ciò non è successo. Non ci sono stati morti, ma solo alcuni feriti in modo leggero, che, presto, abbiamo scoperto essere più di venti. I fedeli, ancora terrorizzati, non sapevano come comportarsi. Quindi – do po essermi assicurato che non ci fossero stati dei morti – ho invitato con dei cenni quanti erano rimasti in chiesa a uscire nel giardino dalle porte laterali; lì ho continuato a distribuire la comunione. Abbiamo recitato anche un Pa dre nostro, un’Ave Maria e il Gloria, come ringraziamento a Gesù e a Maria, e concluso la celebrazione con la benedizione solenne. […] La partecipazione dei fedeli Nel dramma che abbiamo vissuto, una profonda consolazione è stata in contrare diversi uomini e, soprattutto, giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi offrendo aiuto. Li ho invitati a rimuovere i detriti e pulire il pavimento, preparando al meglio la chiesa per la messa

Secondi interminabili

Nell’accorgermitremare.che

La bombola di gas ha colpito la cupola ma, non essendo esplosa, l’ha solo danneggiata. Quindi, rotolando, è caduta sul tetto, composto di tegole d’argil la sostenute da grandi travi di legno e cemento: lì è esplosa fragorosamente.

IBRAhIM AlsABAGh 355 Così, quella domenica la chiesa di San Francesco è stata colpita e la sua cupola solo per miracolo non è crollata sui fedeli, provocando una strage. È evidente che i jihadisti hanno lanciato la bombola di gas da una base di lan cio per missili e che hanno scelto luogo e momento con cura, per provocare il maggior danno possibile a una struttura cristiana. L’obiettivo, non a caso, è stata la cupola, ossia la parte più fragile della struttura: se fosse crollata, sarebbe caduta gran parte del tetto. Anche la tempistica è stata studiata con precisione, individuando come obiettivo la messa vespertina della domeni ca, che è la celebrazione principale della parrocchia, la più affollata, e proprio l’ultima parte, in cui si ha la distribuzione della comunione: erano le 17.45.

sQUARcI DI MONDO356 dell’indomani. La mattina successiva, alle 7.30 ho fatto suonare le campane grandi, che non si usavano da tempo per mancanza di elettricità, chiaman do la gente a partecipare alla messa proprio lì, nella chiesa bombardata. Al termine, abbiamo invitato i presenti nel salotto del convento per un caffè. In sieme, abbiamo condiviso quanto accaduto, ringraziando nuovamente il Si gnore per averci salvati. La giornata è proseguita con l’arrivo di più di trenta donne decise a pulire tutto con cura. La capacità di reazione dei nostri fedeli a un trauma così terribile è stata davvero ammirabile.

Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano l’odio e noi offriamo in cambio l’amore, attraverso quella carità che si manifesta nel per dono e nella preghiera per la loro conversione.

Come uno strumento di morte diventa un simbolo di pace e perdono Alla messa dei bambini del 1 novembre, un grosso frammento della bombola di gas esplosa – ritrovato sul tetto della chiesa – è stato addobbato, ricoperto di fiori e trasformato in una delle offerte da portare all’altare. Il simbolo di odio e morte è stato “battezzato” ed è divenuto un segno dell’amore che per dona e dà vita.

Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di al tri attentati alla nostra chiesa non è affatto escluso, ma questo non deve spa ventarci. Ai cristiani della mia parrocchia continuo a ripetere che non biso gna avere paura di venire in chiesa e assistere alla messa. Beati noi, infatti, se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che soli e in preda alla paura nelle nostre abitazioni. La mattina del 25 ottobre, il giorno della bomba sulla chiesa, abbiamo te nuto la lezione di catechismo a centosessantasei bambini. La domenica se guente, 1 novembre, festa di tutti i santi, con la catechista ci chiedevamo se i bambini avrebbero avuto il coraggio di venire: sono arrivati in centosessanta. In più, il numero delle persone che ora partecipano alla messa aumenta di giorno in giorno. […] Canto al Signore che ci ha salvati Il male pianificato contro di noi è stato enorme. Se la bombola di gas aves se forato la cupola e fosse entrata nella chiesa, ci sarebbero state decine di morti. Se il voluminoso lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso tutti coloro che erano raccolti lì sotto per ricevere la comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, lo ha ridimensionato, indirizzandolo alle sole pietre, mentre tutti noi siamo stati salvati. Egli si è glorificato attraverso il male dandoci un altro segno del suo amore; di conseguenza, invece dei lamenti e delle grida di spavento e terrore, abbiamo innalzato a lui un inno di ringraziamento colmo d’amore.

1. Elenca quali disagi provoca la guerra nella vita quotidiana delle persone.

4. Perché i frati continuano a rimanere in una zona tanto pericolosa? Quale novità fa nascere la loro presenza in quel piccolo quartiere di Aleppo? Riporta qualche esempio dal racconto.

IBRAhIM AlsABAGh 357

3. Padre Ibrahim nei confronti degli attacchi che la sua parrocchia ha subìto offre una chiave di lettura: descrivila riportando alcune frasi del testo che sostengano le tue affermazioni.

2. Quali conseguenze portano gli attacchi armati sull’animo della popolazione?

5. Racconta di una volta in cui hai affrontato una situazione difficile: cosa o chi ti ha aiutato a vivere quel momento? Come è andata?

6. Conosci la storia di altri uomini che hanno deciso di non fuggire dalla circostanza drammatica in cui si sono trovati? Narrane la vicenda.

Iran, 1979: una rivoluzione porta al potere l’ayatollah Khomeini, leader religioso che rompe ogni legame con il mondo occidentale e promuove in tutto il Medio Orien te il risveglio della religione islamica. Oriana Fallaci è la prima donna che riesce a intervistare il «gran condottiero dell’Islam», come lei stessa lo definisce. Teheran, settembre 1979 Il suo ritratto è ovunque, come una volta il ritratto dello Scià1. Ti insegue nel le strade, nei negozi, negli alberghi, negli uffici, nei cortei, alla televisione, al bazaar2: da qualsiasi parte tu cerchi riparo non sfuggi all’incubo di quel volto severo ed iroso, quei terribili occhi che vegliano ghiacci sull’osservanza di leggi copiate o ispirate da un libro di millequattrocento anni fa. E l’effetto è indiscutibile, ovvio. Niente bevande alcoliche, per incominciare. Che tu sia straniero o iraniano, non esiste un ristorante che ceda alla richiesta di un bicchiere di birra o di vino; la risposta è che a infrangere il comandamento si buscano trenta frustate e del resto ogni bottiglia di alcool venne distrutta ap pena lui lo ordinò. Whisky, vodka e champagne per milioni di dollari. Niente musica che ecciti o intenerisca, per continuare. Alle undici di sera la città tace, deserta, e non rimane aperto neanche un caffè; ballare è proibito, visto che per ballare bisogna più o meno abbracciarsi. È proibito anche nuotare, visto che per nuotare bisogna più o meno spogliarsi. E così le piscine son vuote, sono vuote le spiagge dove le coppie devono star separate e le donne possono bagnarsi soltanto vestite dalla testa ai piedi. Se sei donna infatti è peccato mostrare il collo e i capelli perché (chi lo avrebbe mai detto?) il collo e i capelli sono gli attributi femminili da cui un uomo si sente maggiormente adescato. Per coprire quelle vergogne è doveroso portare un foulard a mo’ di soggolo monacale3, però meglio il chador cioè il funereo lenzuolo che na sconde l’intero corpo. * * *

3 soggolo monacale: elemento caratteristico dell’abito monacale; consiste in una striscia di velo che fascia il collo e, circondando il viso, si ricongiunge alla sommità della testa.

2 bazaar: mercato caratteristico dei Paesi dell’Oriente musulmano.

1 Scià: adattamento del persiano shāh, “re”; titolo dato nel passato ai sovrani dell’Iran. In particolare qui si fa riferimento a Mohammad Reza Pahlavi, che ha governato in modo autoritario l’Iran fino al 1979, anno in cui è scoppiata la rivoluzione che lo ha costretto a lasciare il Paese.

sQUARcI DI MONDO358 ORIANA FALLACI Intervista a Khomeini

ORIANA fAll AcI 359 […] Il suo nome è sulla bocca di tutti, ossessivamente, sia che venga pronun ciato con amore sia che venga sibilato con odio: è ormai ciò che in Vietnam era il nome di Ho Chi Minh, in Cina il nome di Mao Tse-tung, e nei comizi scatena un tale fanatismo che ieri il primo ministro Bazargan ha perso le staffe. «Se dico Maometto applaudite una volta, se dico Khomeini applaudite tre volte. Al posto del profeta io me ne offenderei.» Non dimentichiamo che a decine di migliaia son morti per ubbidirgli, viene il vomito a guardare il cimitero in cui li hanno sepolti, magari in fosse comuni, e in sostanza non è cambiato nulla dai giorni in cui con quel nome sulle labbra si gettavano inermi contro i carri armati per esser falciati dalle mitragliatrici. Se lui lo esigesse, rifarebbero altrettanto. Il 18 agosto, quando si autoproclamò Capo Supremo delle Forze Armate e invitò il paese a punire i curdi ribelli (questi poveri curdi traditi da tutti, massacrati da tutti), una valanga di militari a riposo raggiunse con mezzi improvvisati i centri di Kermanshah, Sanandaj, Mahabad: per combattere. «Indietro» urlavano gli ufficiali dell’esercito rego lare. «Indietro, imbecilli, chi vi ha mandato, tornate a casa, provocate disor dine!» E loro fermi, a ripetere che avevan risposto a un ordine di Khomeini, non c’è generale che possa annullare un ordine di Khomeini. «A me sem bra fanatismo del genere più pericoloso, Imam. E cioè quello fascista. Infatti non sono pochi coloro che oggi vedono in Iran una minaccia fascista.» E lui: «No, il fanatismo non c’entra, il fascismo non c’entra. Gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, cioè per applicare i comandamenti dell’Islam». Chi lo contesta o lo critica o lo maledice viene considerato un nemico del la Rivoluzione, un traditore dell’Islam, una spia degli americani, un provo catore sionista, un agente della Savak1, ed ha solo due scelte: arrendersi o fuggire all’estero. Al mattino centinaia di iraniani gremiscono l’aeroporto di Teheran per mendicare un posto sui voli strapieni, non importa dove siano diretti; altri se ne vanno via terra passando dalla Turchia, oppure via mare passando dal Golfo Persico. E sebbene non sia facile ottenere il visto d’usci ta, l’esodo ha assunto tali proporzioni da rischiare di svilupparsi come quel lo dei vietnamiti. Vi concorrono troppi elementi: l’inflazione che galoppa al cinquanta per cento, la mancanza di un potere giuridico e di un tessuto am ministrativo cioè di un apparato statale che la repentinità della vittoria ha disfatto; la polizia è inesistente, l’esercito è disperso, la scuola non funziona, ciascuno fa cosa vuole e nessuno obbedisce al governo che implora tornateal-lavoro. Dei quindici giorni che ho trascorso a Teheran almeno dieci sono stati paralizzati dalle cerimonie commemorative, dai comizi, dai cortei, dai funerali dell’ayatollah Talegani morto di fatica e di crepacuore. Locali pub blici chiusi, telefoni muti, fabbriche a spasso. L’Italia, al paragone, diventa un paese Eppurestakanovista.ètroppopresto per dire che si tratta di una rivoluzione fallita, 1 Savak: polizia segreta al servizio della dinastia Pahlavi fino al 1979, anno della rivoluzione iraniana.

Il settanta per cento della popolazione iraniana è analfabeta. Vegeta nella miseria materiale e culturale in cui l’ha mantenuta un monarca avido e pazzo che si riteneva l’erede di Serse e sprecava miliardi per incoronarsi a Perse poli. E crede in Dio, nel Corano, nel chador. Non ha mai avuto rispetto per gli intellettuali e i politici che hanno sposato le nostre idee, non ne ha mai segui to gli insegnamenti, forse non ha mai nemmeno saputo che lottavano per un mondo migliore e venivano trucidati dalla Savak. * * * […] È un pomeriggio assolato a Qom, la città santa dove Khomeini ha scelto di abitare, e le strade scoppiano di pellegrini giunti da ogni parte del paese per vederlo un attimo da lontano, esserne benedetti. Hanno viaggiato gior ni e giorni con quella speranza, a piedi oppure in carovane di automobili, autobus. Stanotte non troveranno un letto, una branda su cui riposarsi: gli alberghi son colmi. E le locande, le bettole che affittano i materassi. Ma non se ne curano. Insensibili alla stanchezza, alla fame, alla sete, allo spettacolo di chi sviene, vanno a ingrossare la folla che circonda il quartiere dov’è la sua casa e un boato scuote l’aria: «Zendeh bad, Imam! Payandeh bad! Che tu viva, Imam, che tu sia eterno!». Imam significa santo, guida, duce. Si può solcare quel magma di corpi solo con l’aiuto dei militari che controllano il vicolo per cui si accede alla casa, e prima di arrivare alla casa ci sono tre posti di blocco, 1 libertaria: che riguarda la libertà. 2 obnubilati: letteralmente significa ‘essere coperto da nuvole’ e quindi, in questo contesto, avere la mente annebbiata, offuscata.

sQUARcI DI MONDO360 esplosa per sostituire un despota con un altro despota. Ed è addirittura az zardato concludere che non si tratta di una rivoluzione bensì di una involu zione, quindi tante creature son crepate per nulla, al-tempo-dello-Scià-erameglio. I grandi capovolgimenti conducono sempre ad eccessi, estremismi fanatici, interregni caotici: la Francia non ci dette forse il Terrore? E una ri voluzione è avvenuta: religiosa, non libertaria1. Per questo non la riconoscia mo, e ce ne inorridiamo. Per questo ne siamo delusi. Bisogna tentar di capire. Bisogna ascoltare chi risponde con le lacrime in gola che sì, al tempo dello Scià si poteva bere il vino e la birra e la vodka e lo whisky, però si torturavano gli arrestati con sevizie da Medioevo; si poteva ballare e nuotare in costume da bagno e lavarsi i capelli dal parrucchiere, però dagli elicotteri si gettavano i prigionieri politici nel lago Salato; non si fucilavano gli omosessuali, le pro stitute, le adultere, però si massacrava la gente nelle piazze e si viveva solo per vendere il petrolio agli europei. Soprattutto bisogna prestare orecchio a chi ci ricorda che esistono realtà diverse dalle nostre, e vie diverse dalle no stre per correggere quelle realtà. «Voi occidentali non ve ne rendete conto perché siete obnubilati2 dagli schemi ideologici e morali delle vostre scelte, dal culto del raziocinio, della libertà individuale, del laicismo», mi dice l’ami co persiano che mi accompagnerà da Khomeini.

ORIANA fAll AcI 361 dopo l’ultimo posto di blocco le guardie stanno anche sui tetti: pupille inquie te, mitra pronto a sparare. È dunque tanto il timore che egli venga ucciso? La porta è sbarrata da un catenaccio. Si schiude con sospetto, lentissimamente, e l’attesa si svolge in un’anticamera gonfia di silenzioso imbarazzo, tra uomini che bevono il tè. Mi hanno riconosciuto. Sono la straniera che nel 1973 intervistò lo Scià e senza timidezze gli chiese conto dei suoi misfatti: a tal punto che egli replicò: «Lei non sarà mica sulla lista nera?». Durante la Rivoluzione ciò che avevo scritto contro di lui divenne un libretto clandestino da agitare come un manifesto, per questo Khomeini ora mi riceve. Gli uomini imbarazzati lo sanno ma que sta donna seduta per terra coi maschi gli sembra ugualmente una presenza sacrilega. Mi esaminano: eppure il mio abbigliamento è in regola: più che a un essere umano assomiglio a un fagotto. Sui pantaloni neri e la camicetta nera indosso un mantello nero, il collo e i capelli sono ben nascosti da un foulard nero annodato al mento, e sopra tutto questo ho il chador. Nero, s’in tende. Bagher Nassir Salamì, l’amico persiano che mi accompagna insieme al fotografo e che mi farà da interprete con Abolhassan Bani Sadr del Comi tato Rivoluzionario, me l’ha aggiunto per sicurezza: il mantello rivelava un po’ di forme e il foulard scopriva un po’ la fronte. Mi ha fatto anche togliere lo smalto dalle unghie delle mani e dei piedi, e il rossetto dalle labbra, mi ha consentito soltanto un lieve colpo di matita marrone alle palpebre. Ma ora si sente morso dal dubbio: non sarò troppo audace, non mi giudicherà troppo truccata, l’Imam? Bagher è molto emozionato. Suda. Anche Bani Sadr, incre dibile a dirsi, è molto emozionato. Suda. Hanno entrambi vissuto e studiato per anni in Europa, il primo a Firenze, il secondo a Parigi, non sono due uo mini qualsiasi, conoscono bene l’Imam, e tuttavia sono emozionati. Quando ci introducono scalzi nella stanza dove avverrà l’intervista (quattro pareti, una moquette per accovacciarsi e nient’altro) li vedo accartocciarsi come sa cerdoti dinanzi al Santissimo. E quando lui entra, col suo turbante e il suo ca micione, si chinano a baciargli la mano. È un vecchio molto vecchio. Da vicino non incute affatto la paura che di stribuisce dalle fotografie. Forse perché appare così stanco e una misteriosa tristezza gli torce i lineamenti. O un misterioso scontento? Quasi con simpa tia puoi indugiare a osservargli la candida barba lanosa, le labbra umide e sensuali, da uomo che soffre a reprimere le tentazioni della carne, e il gran naso imperioso, i terribili occhi nei quali condensa la sua fede priva di dub bi, la forza spietata di chi manda la gente a morire senza piangerci su. Oc chi che non si degnano mai di posarsi su di me. Li terrà sempre abbassati a fissarsi le bellissime dita e non li alzerà che una volta: quando gli rinfaccerò che non si può nuotare con il chador e mi darà una risposta inaspettatamen te cattiva. Lui che ha tollerato senza battere ciglio le mie accuse di dittatura, despotismo, fascismo. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Per ché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.» (Allora, indignata, getterò via il chador e aprirò il mantello e sposterò il foulard chiedendogli se

sQUARcI DI MONDO362 una donna che ha sempre vissuto senza quei cenci da medioevo gli sembra una vecchiaccia poco perbene. E lui mi avvolgerà in un lungo sguardo inda gatore da cui mi sentirò spogliata.) Lo ringrazio d’avermi ricevuto. Lo avverto che le mie domande non gli piaceranno e dovrà rispondermi con molta pa zienza: sono qui per capire. Mi risponde distaccato e benevolo, centellinan do una voce1 così bassa da suonare un sussurro. E ciò dura per quasi due ore, cioè finché scoppia l’incidente che ho detto. L’indomani, tenendo un di scorso sulle calunnie dell’Occidente, parlerà del nostro incontro e mi defini rà «quella donna». Dal «Corriere della Sera», 26 settembre 1979 1 centellinando una voce: facendo uscire molto lentamente la voce.

2. L’autrice riflette sul fatto che, spesso, dopo una rivoluzione segue un «interregno caotico»: cosa, infatti, ha potuto constatare durante i quindici giorni trascorsi a Teheran?

7. Oriana Fallaci si è esposta personalmente per comunicare a tutti la verità di quel mondo. Racconta l’occasione in cui anche tu hai avuto il coraggio di rischiare dicendo la verità.

4. Sottolinea nel testo i passaggi da cui puoi capire che l’Imam viene onorato come se fosse una divinità.

8. Dopo aver lavorato sui brani tratti dal libro Cigni selvatici di Jung Chang, scrivi un testo in cui metti a confronto la figura di Mao in Cina e quella di Khomeini in Iran.

ORIANA fAll AcI 363

6. Come si conclude l’incontro tra Khomeini e Oriana Fallaci?

1. La Repubblica Islamica di Khomeini è un paese molto diverso da quello che esisteva fino al 1979. Quali esempi di questa trasformazione puoi ritrovare nel testo?

3. Quali comportamenti degli iraniani fanno pensare a una devozione fanatica verso Khomeini?

5. Perché Khomeini ha accettato di incontrare Oriana Fallaci concedendole un’intervista?

Tra il 2011 e il 2013 il Medio Oriente e il Nord Africa sono stati attraversati da grandi rivolte popolari, le “primavere arabe”, che chiedevano una maggio re partecipazione alla vita politica da parte del popolo. Queste proteste porta rono alla caduta dei governi dittatoriali, ma in molti casi sfociarono in violen te guerre civili generando situazioni di grande instabilità politica.

Uno dei casi più drammatici è quello della Siria dove, approfittando della guerra civile, nel 2014 una nuova spietata organizzazione terroristica isla mista ha conquistato un vasto territorio tra Siria e Iraq, chiamandolo Stato Islamico di Iraq e Siria (noto come Isis o Daesh, dalle iniziali inglesi o arabe del suo nome) con l’obiettivo di creare un califfato islamico radicale. I suoi terroristi hanno realizzato sanguinosi attentati contro i civili in vari Paesi eu ropei, a Parigi (novembre 2015), Nizza (luglio 2016), Berlino (dicembre 2016)

La crescente presenza americana in questo mosaico etnico e religioso, di alto valore strategico e ricca di petrolio, fu percepita da una parte della popo lazione musulmana come un’ingerenza negli affari della regione e provocò un sentimento di intolleranza e rifiuto verso l’Occidente.

Una delle aree in cui gli Stati Uniti intervennero più attivamente fu il Me dio Oriente, una regione ponte tra Europa e Asia, culla di antiche e influenti civiltà, abitata da un crogiuolo di popoli ed etnie (in maggioranza arabi) e ca ratterizzata da una variegata presenza di vivaci comunità religiose (in preva lenza musulmani sunniti e sciiti).

Alcuni gruppi terroristici dell’islamismo radicale sfruttarono questo sen timento di ostilità per guadagnare consensi e imporsi come “liberatori” del mondo musulmano dalla sottomissione all’Occidente. Particolarmente vio lenta e pericolosa fu l’organizzazione terroristica di Al Qaida, una rete inter nazionale che aveva la sua base in Afghanistan e che era guidata dal miliar dario saudita Osama bin Laden. L’azione più grave di Al Qaida fu compiuta l’11 settembre 2001, quando tre aerei passeggeri americani furono dirotta ti da terroristi suicidi schiantandosi uno sul Pentagono, sede del comando dell’esercito americano, e due sulle Torri Gemelle di New York, simbolo della ricchezza e del potere degli Stati Uniti e causando la morte di circa 3.000 in nocenti civili che vi lavoravano.

sQUARcI DI MONDO364 Medio Oriente: una regione senza pace Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1991, gli Stati Uniti erano rimasti l’unica superpotenza mondiale. Approfittando della propria superiorità eco nomica e militare intervennero più volte nelle situazioni di crisi internazio nale sia per difendere i propri interessi, sia per promuovere i valori di cui da sempre si erano fatti portatori: la democrazia, il rispetto dei diritti umani, la libertà degli scambi economici.

Gli Stati Uniti reagirono iniziando la loro guerra al terrorismo islamista: nell’ottobre 2001 invasero l’Afghanistan e rovesciarono il regime dei taleba ni, accusato di proteggere Osama bin Laden e i suoi seguaci; nel 2003 inter vennero in Iraq per abbattere il regime di Saddam Hussein, leader assoluto del suo paese.

365MEDIO ORIENTE: UNA REGIONE sENZA PAcE e Barcellona (agosto 2017). Solo quando diversi Stati presenti nella regione hanno unito le loro forze l’Isis è stato sconfitto (autunno del 2017), anche se non si è ancora trovato come garantire la pacifica convivenza delle diverse comunità politiche e religiose.

Un’altra conseguenza in Europa dei conflitti in Medio Oriente è stato l’af flusso di profughi: il loro arrivo in massa costituisce un fenomeno che vari paesi faticano a fronteggiare, infatti non è semplice trovare la soluzione ot timale per consentire un’adeguata accoglienza e integrazione di queste mi gliaia di persone.

sQUARcI DI MONDO366 JUNG CHANG Cigni selvatici

«Fra sofferenza, rovina e morte, avevo conosciuto soprattutto l’amore e l’indistrutti bile capacità umana di sopravvivere e perseguire la felicità». Così l’autrice, a conclu sione del libro autobiografico Cigni selvatici , pone il suo giudizio sulla sua umanità e su quella del popolo cinese. È più forte la vita della morte, è più tenace il desiderio di felicità e bellezza che neanche tutte le brutture di cui l’uomo è capace.

1 Kuomintang: Partito Nazionalista Cinese, fondato nel 1912 da Sun Yat-sen per realizzare l’indipendenza nazionale, la democrazia e la rivoluzione sociale contro il dominio della dinastia Manciù. Scoppiata la guerra civile nel 1927, il Kuomintang si trovò in lotta con il Partito Comunista Cinese (PCC). Dopo un periodo di apparente accordo con le forze comuniste, per combattere le forze di invasione giapponesi, il Kuomintang fu sconfitto dalle forze popolari del PCC e costretto a ritirarsi a Taiwan. Qui ha governato ininterrottamente per oltre quarant’anni, risultando vincitore alle prime elezioni multipartitiche, svoltesi a Taiwan nel dicembre 1991.

«Il padre ti è vicino, la madre ti è vicina, ma nessuno ti è vicino come il presidente Mao» Il culto di Mao (1964-1965) […] Il culto di Mao andava di pari passo con la manipolazione dei ricordi più tristi del passato: i nemici di classe venivano dipinti come criminali malva gi che volevano riportare la Cina ai tempi del Kuomintang1, il che significa va che noi bambini avremmo perso la scuola, le scarpe invernali e il cibo. Ecco perché dovevamo schiacciare quei nemici, ripetevano. Si mormorava che Chiang Kai-shek 2 avesse lanciato ripetuti assalti contro il territorio con tinentale, tentando di organizzare una riscossa nel 1962, durante il “periodo difficile”, che era poi l’eufemismo3 usato dal regime per indicare la carestia. Nonostante tutti quei discorsi e quelle dimostrazioni, comunque, i nemi ci di classe4 restavano per me, e per la maggior parte della mia generazione, ombre astratte e irreali. Erano una cosa del passato, troppo lontana, e Mao non era riuscito a dare loro una forma reale e quotidiana. Paradossalmente, una delle ragioni risiedeva nella distruzione sistematica che aveva operato nei confronti del passato; comunque, era stato gettato in noi il germe dell’at tesa di un nemico.

2 Chiang Kai-shek: militare e politico cinese. Dopo Sun Yat-sen, dal 1925, fu alla guida del Kuomintang.

3 eufemismo: letteralmente “parlar bene”, indica l’uso di una parola o di una perifrasi per attenuare l’impatto sul destinatario di ciò che realmente si intende dire.

4 nemici di classe: così erano indicati gli oppositori del comunismo, che venivano fatti passare per nemici della classe proletaria.

1 deificazione: divinizzazione. 2 Regno di Mezzo: periodo dell’impero, precedente il contatto con il mondo occidentale.

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Per duemila anni la Cina aveva avuto una figura imperiale che incarnava nello stesso tempo il potere temporale e l’autorità spirituale. I sentimenti re ligiosi che in altri Paesi del mondo la gente nutre nei confronti di un dio, in Cina erano sempre stati rivolti verso l’imperatore; i miei genitori, come cen tinaia di milioni di cinesi, erano influenzati da quella tradizione.

Mao, dal canto suo, accentuava quell’aspetto divino circondandosi di mi stero. Appariva sempre lontano, al di là di ogni contatto umano. Rifuggiva dalla radio, e la televisione non esisteva. Poche persone, a parte il suo seguito cortigiano, avevano contatti con lui; persino i colleghi e i collaboratori al ver tice lo incontravano soltanto in una sorta di udienza formale. Mio padre lo aveva visto solo un paio di volte, e anche in quelle occasioni solo nel corso di grandi riunioni collettive. Mia madre lo aveva visto una sola volta, quando era venuto a Chengdu nel 1958 e aveva convocato tutti i funzionari al di sopra del grado diciottesimo per una foto di gruppo insieme con lui. Mao imperatore, oltretutto, rientrava in uno dei canoni della storia cinese: il capo di una rivolta contadina di portata nazionale che, dopo avere spazzato via una dinastia corrotta, era diventato il nuovo imperatore illuminato, eser citando un potere assoluto. E in un certo senso si poteva dire che Mao si fosse guadagnato quel ruolo di imperatore-dio: era riuscito a porre fine alla guerra civile e a instaurare la pace e la stabilità, a cui i cinesi avevano sempre aspira to, al punto che un detto popolare suona: «È meglio essere un cane in tempo di pace che un uomo in tempo di guerra». Fu sotto Mao che la Cina divenne una potenza di cui tutto il mondo doveva tenere conto e che molti cinesi smi sero di sentirsi umiliati e pieni di vergogna nell’ammettere di essere cinesi, e questo aveva per loro un significato enorme. In realtà, Mao aveva riportato la Cina ai tempi del Regno di Mezzo2 e, con l’aiuto degli Stati Uniti, all’isola mento dal resto del mondo. Era riuscito a far sentire i cinesi di nuovo gran di e superiori, proprio rendendoli ciechi al mondo esterno. Ciò nonostante, l’orgoglio nazionale era tanto importante per i cinesi che gran parte della po polazione era sinceramente grata a Mao, e non trovò offensivo il culto della sua personalità, almeno all’inizio. La quasi totale assenza di accesso alle in formazioni e la sistematica opera di disinformazione fecero sì che la maggior

Nello stesso tempo, Mao gettava le basi della propria deificazione1 e io, insieme con i miei contemporanei, fui sommersa da quell’indottrinamento rozzo ma efficace. Se ebbe successo, fu in parte perché Mao prese abilmente possesso del terreno più elevato della morale: allo stesso modo in cui la du rezza nei confronti dei nemici di classe era presentata come lealtà verso il popolo, la totale sottomissione a lui era camuffata sotto un ingannevole ap pello a essere altruisti. Era molto difficile distinguere qualcosa al di là del la retorica, soprattutto perché la popolazione adulta non proponeva nessun punto di vista alternativo: gli adulti, infatti, collaboravano attivamente a con solidare il culto di Mao.

sQUARcI DI MONDO368 parte dei cinesi non avesse modo di distinguere fra i successi di Mao e i suoi fallimenti, o di riconoscere il ruolo effettivo di Mao rispetto a quello degli altri leader nelle conquiste operate dai comunisti.

Tuttavia l’indottrinamento politico s’insinuava sempre più nella vita sco lastica. Pian piano, l’assemblea del mattino fu dedicata agli insegnamenti di Mao, e furono istituite sedute speciali in cui leggevamo documenti del Par tito. Ora il libro di testo di lingua cinese conteneva più propaganda e meno letteratura classica, e nel corso di studi fu inserita la politica, che consisteva per lo più nello studio delle opere di Mao. Quasi tutte le attività divennero politicizzate. Un giorno, all’assemblea del mattino, il preside ci disse che dovevamo fare esercizi per gli occhi: disse che il presidente Mao aveva osservato che c’erano troppi studenti con gli occhia li, segno che si erano rovinati la vista studiando troppo, e aveva ordinato di fare qualcosa per rimediare. Restammo tutti profondamente commossi dalla sua sollecitudine, e alcuni di noi piansero di riconoscenza. Così ogni matti na cominciammo a fare quindici minuti di esercizi per gli occhi, una serie di movimenti studiati dai medici ed eseguiti a suon di musica. Dopo aver sfre gato alcuni punti sul contorno dell’orbita, fissavamo tutti intensamente le file di pioppi e salici fuori della finestra: si riteneva che il verde fosse un colore riposante. Mentre mi godevo il sollievo che mi apportavano gli esercizi e le foglie, pensavo a Mao e rinnovavo il mio impegno di lealtà nei suoi confronti.

All’edificazione del culto di Mao non fu estranea la paura. Molti erano stati ridotti in condizioni tali che non osavano neanche pensare, nel timore che i pensieri potessero tradirsi involontariamente. Anche se nutrivano idee non ortodosse, ben pochi le rivelavano ai loro stessi figli, perché questi avrebbero potuto farsele sfuggire con altri bambini, il che avrebbe portato alla rovina loro e dei genitori. […] Amai quella scuola fin dalla prima volta che vi entrai: aveva un ingresso im ponente, con un grande tetto di tegole azzurre e i cornicioni scolpiti. C’era una scalinata che conduceva al portone e il portico era sorretto da sei co lonne di legno rosso: file simmetriche di cipressi verde cupo sottolineavano l’atmosfera solenne conducendo verso l’interno. La scuola era stata aperta nel 141 avanti Cristo, ed era stata la prima scuo la in Cina fondata da un governo locale. […] I miei ricordi più vivi sono legati agli insegnanti, che erano i migliori nel loro campo; molti erano di primo grado, o di grado speciale. Le loro lezioni erano per me una gioia pura, e non mi stancavo mai di ascoltarli.

[…] Un giorno, nel 1965, ci ordinarono improvvisamente di uscire e di co minciare a estirpare l’erba dai prati. Mao aveva dato istruzioni che erba, fiori e animali domestici fossero eliminati, in quanto abitudini borghesi. L’erba nei prati della nostra scuola era di una specie che non ho mai visto al di fuori della Cina: il suo nome in cinese significa «legata al suolo». Cresce sulla su perficie del terreno e forma migliaia di radici che affondano nel suolo come artigli d’acciaio; sottoterra, poi, queste radici si allargano e producono ulte

I fiori erano molto più semplici da affrontare, ma la loro eliminazione pro cedeva con difficoltà ancora maggiori, perché nessuno voleva estirparli. Mao aveva già attaccato più volte in passato fiori ed erba, dicendo che dovevano essere sostituiti da cavoli e cotone, ma soltanto allora era riuscito a esercitare una pressione tale da ottenere l’obbedienza, e solo fino a un certo punto. La gente amava le piante, e alcune aiuole sopravvissero alla campagna di Mao.

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Mi sentivo molto triste nel vedere scomparire quelle belle piante, ma non me la prendevo con Mao: al contrario, detestavo me stessa per la mia infeli cità. Ormai avevo assunto l’abitudine all’«autocritica» e mi sentivo automa ticamente in colpa per tutti gli istinti che contrastavano con le istruzioni di Mao. Anzi, certe reazioni mi spaventavano. Parlarne con qualcuno era fuori discussione; cercavo invece di reprimerle per acquisire il modo corretto di pensare. Vivevo in uno stato di costante autoaccusa. Quel genere di autoesame e di autocritica erano un aspetto tipico della Ci na di Mao. Diventerai una persona nuova e migliore, ci assicuravano; ma in realtà tutta quell’introspezione non serviva ad altro che a creare un popolo incapace di pensare con la propria testa.

2. In che modo l’indottrinamento politico viene messo in atto nella scuola frequentata dalla protagonista? Fai alcuni esempi.

4. Jung Chang ricorda di essersi sentita «molto triste nel vedere scomparire quelle belle piante». Racconta di quella volta in cui ti sei scoperto triste e amareggiato perché qualcosa è stato distrutto nella sua bellezza.

1. Quali sono le modalità attraverso cui Mao «gettava le basi della propria deificazione»? Per rispondere sottolinea nel testo le frasi in cui emerge questo processo di esaltazione della sua persona.

3. Come reagiscono i ragazzi e il popolo alle indicazioni che Mao detta a tutte le scuole cinesi? Spiegane le ragioni.

riori getti che si propagano in tutte le direzioni. In men che non si dica si for mano due reti, una sopra e una sotto la superficie del suolo, che s’intrecciano fra loro abbarbicandosi al terreno, come fili metallici annodati e inchiodati a terra. Spesso le uniche vittime erano le mie dita, che riportavano tagli lunghi e profondi; era solo quando venivano attaccati con pale e zappe che alcuni sistemi di radici cedevano, sia pure con riluttanza. Ma anche un solo fram mento dimenticato sul terreno dava luogo a una trionfante riscossa: bastava appena un lieve rialzo di temperatura o una pioggerella, e dovevamo ripren dere daccapo la battaglia.

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sQUARcI DI MONDO370 «Una splendida notizia di dimensioni più che ciclopiche»

Rivoluzione Culturale: nel 1966 Mao mobilita i giovani alla lotta per frenare l’ondata riformista che si stava affermando nel Partito Comunista e per ripristinare l’applicazione ortodossa del pensiero marxista-leninista.

Pellegrinaggio a Pechino (ottobre-novembre 1966)

[…] Il pomeriggio del 24 novembre, mentre partecipavo a una delle solite se dute di studio delle citazioni di Mao nella camera di un ragazzo (gli ufficiali e i compagni maschi non potevano entrare nelle camere delle ragazze, per correttezza), il nostro comandante di compagnia, che era piuttosto attraente, entrò con passo insolitamente leggero e ci propose di cantare tutti insieme la canzone più famosa della Rivoluzione Culturale1: «Per solcare i mari, ab biamo bisogno di un timoniere». Non aveva mai fatto niente del genere, in passato, e ne fummo tutti piacevolmente sorpresi. L’ufficiale agitava le brac cia segnando il tempo, con gli occhi lucidi e le guance accese dall’emozione. Quando smettemmo di cantare, ci annunciò con commozione malcelata che aveva una buona notizia per tutti noi, e capimmo subito di che cosa si trattava. «Domani vedremo il presidente Mao!» esclamò, e il resto si perse tra le gri da di esultanza. Dopo le acclamazioni iniziali, cominciammo a recitare slo gan: «Viva il presidente Mao!» «Seguiremo il presidente Mao per sempre!». Il comandante della compagnia ci disse che da quel momento in poi nes suno avrebbe potuto lasciare il campus, e che dovevamo controllarci a vicen da per far sì che non accadesse. Per noi era normale sentirci dire che dove vamo sorvegliarci a vicenda. E poi, si trattava di misure di sicurezza per il presidente Mao, ed eravamo felici di obbedire. Dopo cena, l’ufficiale si avvici nò alle mie cinque amiche e a me e con voce solenne, ma senza farsi sentire dagli altri, ci disse: «Vi piacerebbe fare qualcosa per la sicurezza del presi dente Mao?». «Naturalmente!» Ci fece segno di abbassare la voce e continuò bisbigliando: «Perché domani mattina, prima di uscire, non proponete di perquisirci l’un l’altro per essere sicuri che nessuno abbia addosso qualcosa che non dovrebbe? Sapete, magari i più giovani potrebbero essersi dimenti cati le regole…». In precedenza ci aveva illustrato quali erano le regole: non dovevamo portare al raduno niente di metallico, neppure le chiavi. La maggioranza di noi non riuscì a prendere sonno, quella notte, e la tra scorremmo in chiacchiere eccitate. Alle quattro del mattino ci alzammo e ci mettemmo disciplinatamente in fila per recarci in piazza Tiananmen, di stante circa un’ora e mezzo di cammino. Prima che la «compagnia» partisse, a un cenno dell’ufficiale, Polpetta si alzò per suggerire la perquisizione. Vidi che fra noi c’era chi la riteneva una perdita di tempo, ma il comandante della compagnia assecondò di buon grado la proposta. Anzi, volle essere perqui sito per primo, e incaricò un ragazzo di farlo; il ragazzo gli trovò addosso un enorme mazzo di chiavi e lui si comportò come se quella fosse stata un’au tentica dimenticanza, ma gratificò Polpetta di un sorriso trionfante. Poi ci perquisimmo a vicenda. Quel comportamento in realtà rifletteva una pratica

3 Libretti Rossi: ogni studente era obbligato a possedere e conoscere il Libretto Rosso, un’antologia di citazioni di Mao. Durante la Rivoluzione Culturale lo studio del Libretto Rosso divenne materia scolastica in tutti i gradi di istruzione.

2 Guardie Rosse: giovani rivoluzionari che partecipano alla Rivoluzione Culturale.

jUNG chANG 371 maoista: far sì che le cose sembrassero frutto della volontà popolare anziché ordini impartiti dall’alto. Ipocrisia e finzione erano date per scontate. A quell’ora antelucana1, le strade erano già tutto un fervore di attività: da ogni parte della capitale le Guardie Rosse2 confluivano su piazza Tiananmen, mentre slogan assordanti si levavano nell’aria come ondate rumoreggianti. Cantando, alzavamo le braccia, e i Libretti Rossi3 formavano una linea rossa, vivida nell’oscurità. All’alba raggiungemmo la piazza: a me venne assegnato un posto in settima fila sull’ampio marciapiede settentrionale del Viale del la Pace Eterna, sul lato orientale di piazza Tiananmen. Dietro di me c’erano molte altre file. Dopo averci ben allineati, gli ufficiali ci ordinarono di sedere a terra con le gambe incrociate. Per le mie articolazioni infiammate fu una sofferenza atroce, e ben presto cominciai a sentire aghi che mi pungevano il sedere. Ero intirizzita e insonnolita, ed esausta per la mancanza di sonno. Per tenere alto il morale, gli ufficiali ci fecero cantare senza soste, lanciando sfide tra i vari gruppi. Poco prima di mezzogiorno, dal lato orientale della piazza sentimmo un coro isterico di «Viva il presidente Mao! Viva il presidente Mao!». Io ero mez zo intontita e ci misi un po’ a capire che Mao stava per passare vicino a noi, viaggiando su un’auto scoperta. D’improvviso, tutt’intorno a me esplosero urla tonanti: «Viva il presidente Mao! Viva il presidente Mao!». I ragazzi se duti davanti a me balzarono in piedi e saltellarono, in un delirio di emozione, alzando le braccia e agitando freneticamente il Libretto Rosso. «Seduti! Se duti!» gridai, ma invano. Il nostro comandante di compagnia ci aveva detto di restare seduti sino alla fine, ma ben pochi sembravano disposti a rispettare le regole, invasi com’erano dall’ansia di vedere Mao con i propri occhi. Dopo essere stata seduta così a lungo, avevo le gambe intorpidite e per un attimo non vidi altro che un mare ribollente di teste. Quando alla fine riuscii ad alzarmi in piedi, scorsi soltanto gli ultimi veicoli della sfilata. Liu Shaoqi, il presidente, era girato nella mia direzione. […] mattina del 25 novembre 1966: in quel momento, l’unica cosa che vole vo davvero era scorgere almeno di sfuggita Mao, così distolsi subito gli occhi da Liu per guardare verso l’inizio del corteo di auto, e vidi la schiena poderosa di Mao, il suo braccio destro che salutava con un movimento lento. Un attimo, ed era già scomparso. Mi sentii stringere il cuore: era davvero tutto finito? So lo una fuggevole visione della sua schiena? Improvvisamente mi parve che il sole fosse diventato grigio, mentre tutt’intorno le Guardie Rosse facevano un baccano infernale. La ragazza accanto a me si era punta l’indice della mano destra e lo stava premendo, in modo da farne uscire il sangue per scrivere qualcosa sul fazzoletto che teneva ben piegato nell’altra mano. Sapevo esatta 1 antelucana: dal latino ante ‘avanti’ e lucem ‘luce’, significa ‘prima del sorgere del sole’.

Un attimo dopo quel pensiero era svanito. A posteriori, penso fosse un tentativo subconscio di dare la giusta misura alla delusione di vedere infran to il mio sogno, specialmente dopo tutte le fatiche e le scomodità affrontate durante il viaggio: i treni pieni fino all’inverosimile, le ginocchia infiammate, la fame, il freddo, il prurito, i gabinetti intasati, la stanchezza… il tutto senza ottenere niente in cambio. Il pellegrinaggio era terminato, e qualche giorno dopo tornammo a casa. Per quello che mi riguardava, ne avevo abbastanza di viaggi e desideravo sol tanto il calore e le comodità di casa mia oltre a un bel bagno caldo. Ma anche il pensiero di casa mia non era scevro da preoccupazioni: il viaggio e il sog giorno a Pechino erano stati scomodi e faticosi, ma non avevo mai avuto pau ra, come invece mi era accaduto nel periodo immediatamente precedente. Avevo vissuto a stretto contatto con migliaia e migliaia di Guardie Rosse per oltre un mese, ma non avevo mai visto violenza, né provato terrore. Anche quella folla gigantesca, nonostante gli isterismi, era ben disciplinata e pacifi ca, e la gente che avevo incontrato era cordiale. Poco prima di lasciare Pechino, ricevetti una lettera da mia madre: mi in formava che mio padre si era rimesso perfettamente e che a Chengdu andava tutto bene; solo alla fine della lettera accennava al fatto che entrambi erano stati accusati di essere seguaci del capitalismo. Mi si strinse il cuore. Ormai mi ero resa conto che i seguaci del capitalismo, cioè i funzionari comunisti, erano i bersagli principali della Rivoluzione Culturale. Ben presto avrei capi to anche che cosa significava questo per la mia famiglia e per me. * * * […] Il pomeriggio del 9 settembre 1976 stavo seguendo una lezione di inglese: alle quattordici e quaranta ci dissero che dopo venti minuti sarebbe stato tra smesso un annuncio importante alla radio, e che dovevamo radunarci tutti nello spiazzo esterno per ascoltarlo. Non era la prima volta che accadeva una cosa del genere, e mi alzai controvoglia, piena di rabbia. Era una tipica gior nata di autunno e lungo le pareti sentivo il frusciare delle foglie di bambù. Poco prima delle tre, mentre gli altoparlanti gracchiavano alla ricerca della frequenza giusta, il segretario di Partito del nostro dipartimento prese posi zione proprio di fronte all’assemblea. Ci guardò con aria triste e poi, con voce bassa ed esitante, pronunciò queste parole: «Il nostro grande, venerabile e reverendissimo [ta-lao-ren-jia] capo, il presidente Mao, è…». All’improvviso capii che Mao era morto. 1 ad nauseam: fino alla nausea (espressione latina).

sQUARcI DI MONDO372 mente che cosa avrebbe scritto. Lo avevo già visto fare da altre Guardie Rosse, e inoltre la cosa veniva pubblicizzata ad nauseam1: «Oggi sono la persona più felice del mondo. Ho visto il nostro grande capo, il presidente Mao!». Guar dandola, mi sentii prendere dalla disperazione e la vita mi parve senza sco po. Un pensiero mi attraversò rapido la mente: forse avrei dovuto suicidarmi?

1. Come mai l’autrice usa la parola «pellegrinaggio» per descrivere il viaggio che i giovani intraprendono per incontrare Mao a Pechino?

2. Individua all’interno del paragrafo tutte le frasi che mettono in luce un atteggiamento di idolatria (= ammirazione fanatica, senza limiti, di un idolo).

4. C’è nella tua esperienza un personaggio famoso che puoi riconoscere come il tuo idolo? Descrivilo e spiega le ragioni della tua passione per questa persona.

5. Spesso usiamo la parola «idolo» per identificare un modello positivo. Quando la passione per un idolo può diventare fanatismo? Rispondi portando esempi dalla tua esperienza.

jUNG chANG 373

6. Racconta la volta in cui hai affrontato innumerevoli sacrifici per raggiungere uno scopo a te particolarmente caro. Spiega le ragioni per cui sei rimasto deluso oppure soddisfatto nonostante le fatiche sostenute. Lottando per prendere il volo (1976-1978)

3. Jung Chang accoglie con entusiasmo la notizia del pellegrinaggio a Pechino e non vede l’ora di vedere il presidente Mao, tuttavia descrive come deludente l’esperienza vissuta. Perché?

La notizia mi riempì di un’euforia tale che per un attimo rimasi stordita. Su bito dopo entrò in azione l’autocensura che ormai era connaturata in me: mi resi conto che ero circondata da un’orgia di pianti e dovevo offrire una pre stazione consona all’atmosfera. Mi sembrò che l’unico luogo dove nasconde re l’assoluta mancanza di emozioni corrette fosse la spalla della donna che era davanti a me, una dei funzionari-studenti, che appariva distrutta dal do lore. Mi affrettai ad affondare la testa nella sua spalla e a sollevare ritmica mente la schiena, come se fossi scossa dai singhiozzi. Come accade spesso in Cina, bastò un gesto rituale per ottenere l’effetto voluto. Tirando su col naso, la donna fece un movimento come per girarsi e abbracciarmi: allora mi ap poggiai alle sue spalle con tutto il mio peso, per impedirle di voltarsi e farla restare al suo posto, sperando di dare l’impressione di essere in preda a un dolore inconsolabile. Nei giorni successivi alla morte di Mao, riflettei a lungo: sapevo che era ritenuto un filosofo, e tentai di individuare quale fosse stata in realtà la sua filosofia. Mi sembrava che il principio fondamentale fosse il bisogno – o il de siderio? – di un perpetuo conflitto. Il nucleo centrale del suo pensiero pare

Forse, però, le teorie di Mao non erano state altro che un’estensione della sua personalità. In realtà Mao era, a mio parere, un instancabile fomentatore di conflitti per sua stessa natura, e in quello era un maestro. Aveva compre so i peggiori istinti umani, come l’invidia e il risentimento, e li aveva saputi sfruttare per i suoi scopi. Aveva governato mettendo le persone l’una contro l’altra ed era riuscito a far svolgere alla gente comune molti dei compiti che in altre dittature erano affidati a élite professionali. Mao era riuscito a trasfor mare il popolo nell’arma suprema della dittatura. Ecco perché sotto di lui in Cina non c’era mai stato un vero equivalente del KGB1: non ce n’era bisogno. Mettendo allo scoperto e coltivando con cura il lato peggiore della popolazio ne, Mao aveva creato un deserto morale e una terra di odio. Quello che non riuscivo a valutare era quanta responsabilità avesse avuto ciascuno di noi, persone comuni, in quel processo. L’altro segno distintivo del maoismo, a mio avviso, era il dominio dell’i gnoranza. Il fatto che le classi colte fossero un bersaglio facile per una po polazione ancora in gran parte analfabeta, il profondo risentimento di Mao contro l’istruzione scolastica e la gente istruita, la megalomania2 che lo por tava a disprezzare le grandi figure della cultura cinese, la sua noncuranza per quegli aspetti della civiltà cinese che in realtà non capiva, come l’archi tettura, l’arte e la musica, erano altrettanti motivi per cui Mao aveva distrutto gran parte dell’eredità culturale del Paese. Mao lasciò una nazione non solo abbruttita, ma anche squallida, in cui restava ben poco della gloria passata e della capacità di apprezzarla.

I cinesi piangevano la morte di Mao con apparente commozione, ma io mi chiedevo quante di quelle lacrime fossero sincere. Ormai la gente aveva imparato a fingere così bene da non capire più quali fossero in realtà i pro pri sentimenti: forse piangere per Mao era solo un altro atto programmato di quelle vite programmate. […] La notizia che sarei andata in Inghilterra mi arrivò dagli amici del diparti mento, tutti eccitati, prima che dalle autorità. Ne furono felici anche persone che conoscevo appena, e ricevetti molte lettere e telegrammi di congratula zioni. Furono organizzate delle feste, e versammo molte lacrime di gioia: an dare in Occidente era un evento memorabile. La Cina era rimasta chiusa per decenni e ci sentivamo tutti soffocare. Dal 1949, ero la prima persona della 1 KGB: sigla del Comitato per la sicurezza dello Stato, servizio segreto e polizia segreta dell’Unione Sovietica (1954-1991). 2 megalomania: dal greco megas ‘grande’ e mania ‘ossessione’, desiderio ossessivo di fama, potere, ricchezza.

sQUARcI DI MONDO374 va indicare che la forza trainante della storia era costituita dalle lotte umane e che, per costruire la storia, fosse necessario creare di continuo nemici di classe en masse. Mi chiesi se fosse mai esistito un altro filosofo le cui teorie avevano portato alla sofferenza e alla morte di tante persone, e pensai al ter rore e alla tristezza cui la popolazione cinese era stata soggetta. A che scopo?

jUNG chANG 375 mia università e, per quel che ne sapevo, la prima persona di tutto il Sichuan (che allora contava una popolazione di circa novanta milioni di abitanti) ad avere l’autorizzazione di studiare in Occidente, e me l’ero guadagnata per merito professionale, dato che non ero neppure iscritta al Partito. Si trattava di un altro segno dei macroscopici cambiamenti che investivano il Paese: la gente vedeva la speranza e lo schiudersi di nuove opportunità. Eppure non ero del tutto sopraffatta dall’emozione. Avevo ottenuto qual cosa che era desiderabile e irraggiungibile per tutti gli altri intorno a me, e questo mi faceva sentire in colpa verso gli amici. Fare salti di gioia mi sem brava imbarazzante e forse anche crudele nei loro riguardi, ma nascondere l’emozione mi sarebbe sembrato disonesto: così adottai inconsciamente un atteggiamento controllato. Fra l’altro, provavo tristezza al pensiero di quanto fosse rigida e monolitica la Cina: quante persone non avevano avuto la pos sibilità di dimostrare ciò che valevano e di mettere a frutto le proprie doti! Sapevo che la mia fortuna era quella di venire da una famiglia privilegiata, anche se avevamo sofferto a lungo. Ora che in Cina si respirava un’aria più pura e più giusta, non vedevo l’ora di assistere alla trasformazione dell’intera società.Immersa in quei pensieri, affrontai le inevitabili pastoie1 burocratiche cui dovevano sottoporsi coloro che lasciavano la Cina. Per prima cosa dovetti re carmi a Pechino per un corso speciale riservato a chi andava all’estero: un mese di sedute di indottrinamento, seguito da un mese di viaggi in tutta la Cina. Lo scopo era quello di impressionarci con la bellezza della madrepatria in modo che a nessuno venisse in mente di tradirla. Poi ci furono i prepara tivi veri e propri, ivi compreso l’acquisto di vestiti nuovi: dovevamo apparire eleganti agli occhi degli stranieri. Il Fiume d’Argento scorreva vicino al campus, e spesso durante le ultime se rate che trascorsi in Cina mi ritrovai a passeggiare lungo le sue rive. La su perficie dell’acqua scintillava alla luce della luna e nella foschia della notte estiva. Ripensavo ai miei ventisei anni: avevo sperimentato il privilegio e la denuncia, il coraggio e la paura, e avevo visto la bontà e la lealtà così come gli abissi della bruttura umana. Fra sofferenza, rovina e morte, avevo cono sciuto soprattutto l’amore e l’indistruttibile capacità umana di sopravvivere e perseguire la felicità. Nel mio animo si avvicendavano emozioni di ogni sorta, specie quando ripensavo a mio padre, a mia nonna e alla zia Jun-ying. Fino a quel momento avevo cercato di soffocarne il ricordo, perché la loro morte non aveva smesso di essere un punto dolente nel mio cuore. Ora immaginavo la gioia e l’orgo glio che avrebbero provato per me. Raggiunsi Pechino in aereo e dovetti viaggiare con altri tredici professori universitari, uno dei quali era il supervisore politico. Il nostro aereo partiva alle otto di sera del 12 settembre 1978, e per poco non lo persi, perché erano 1 pastoie: difficoltà, impedimenti.

1. Nella prima parte del brano vengono trattate alcune tematiche: la finzione, la divisione e i conflitti tra gli uomini, il dominio dell’ignoranza. Sottolinea con colori diversi i passaggi più significativi in cui questi temi vengono trattati.

2. Dopo la morte di Mao l’autrice cerca di spiegare qual era la filosofia che egli ha portato avanti: guidato da un lavoro in classe, anche con l’aiuto del docente di storia, elenca i contenuti fondamentali del pensiero di Mao.

sQUARcI DI MONDO376 venuti a salutarmi alcuni amici e io avevo dimenticato di tenere d’occhio l’o rologio. Quando finalmente mi lasciai cadere al mio posto, mi resi conto che non avevo neppure abbracciato mia madre: era venuta a salutarmi all’aero porto di Chengdu con un’aria quasi indifferente, senza traccia di lacrime, co me se la mia partenza verso l’altro emisfero fosse soltanto un altro episodio delle nostre vite tanto movimentate. Quando la Cina cominciò a restare indietro, sempre più indietro, guardai fuori del finestrino e sotto l’ala argentea dell’aeroplano vidi un grande uni verso. Diedi un ultimo sguardo alla mia vita passata, poi mi rivolsi al futuro: non vedevo l’ora di abbracciare il mondo.

3. La storia di Jung Chang si conclude con il suo viaggio in Inghilterra. I pensieri dell’autrice, mentre è in aereo, sono rivolti al futuro, tanto che lei dice: «Non vedevo l’ora di abbracciare il mondo». Racconta un’esperienza in cui hai riconosciuto in te lo stesso desiderio di conoscere e scoprire una cosa nuova.

4. Scrivi un testo espositivo in cui illustri i caratteri comuni che puoi riscontrare nella dittatura di Mao e negli altri regimi totalitari che hai studiato

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La Cina, dalle remote origini della sua storia (dal 2100 a.C. in poi), è stata go vernata da svariate dinastie di re/imperatori che si sono susseguite fino alla caduta della dinastia Manciù (1911), rovesciata da Sun Yat Sen, un borghese della Cina meridionale che diede anche inizio alla rivoluzione contro le varie potenze occidentali le quali avevano ingenti interessi economici e politici in Cina.Mao

Per sfuggire alle truppe di Ghiang, Mao guidò l’Armata Rossa nella «Lunga Marcia» verso il nord. Infine, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, il 25 marzo 1949 entrò vittorioso a Pechino e proclamò la Repubblica Popolare Cinese. Inizia così un lungo periodo in cui il Comunismo viene imposto con la vio lenza. Tutti devono inquadrarsi nel nuovo sistema, tutte le religioni vengono perseguitate, abolita qualsiasi proprietà privata, vengono create le «Comuni Popolari» che organizzano e controllano in modo capillare la vita di ogni per sona… milioni sono le vittime di questa politica.

Zedong (1893-1976) era un giovane seguace di Sun Yat-sen. Fu tra i fondatori del Partito Comunista Cinese; nel 1931 divenne presidente della Repubblica Sovietica Cinese e combatté alla testa dell’Armata Rossa (compo sta in maggioranza da contadini organizzati in bande armate) contro il gover no antagonista guidato dal nazionalista Chiang Kai-shek.

La Cina di Mao Zedong

Nel 1956 Mao inaugura la cosiddetta politica «dei Cento Fiori», cioè una iniziale apertura a una società moderatamente pluralista. Emergono così posizioni contrarie alla politica del dittatore che reagisce con nuove depor tazioni e stragi di massa che portano alla «Rivoluzione Culturale» (1966) con ulteriori violenze e restrizioni di qualsiasi libertà personale, di pensiero, di religione.Èquesto il periodo in cui viene formulata una nuova Costituzione per lo stato e viene diffuso il famoso «Libretto Rosso», una specie di bibbia in pillole del perfetto rivoluzionario maoista. Alla morte di Mao (1976), la sua Costituzione, il Libretto Rosso e tutto il suo operato vengono rimessi in discussione e criticati dai nuovi governanti, anche se ancora oggi in Cina non sono rispettati i diritti umani fondamen tali e la dignità della persona umana viene sempre sacrificata alle esigenze economiche, politiche, strategiche dei capi del Partito Comunista ancora al governo.Nonostante questa situazione numerosi sono i giovani e gli intellettuali che si interrogano sul futuro della Cina e lottano in modi pacifici per una società che rispetti l’uomo e tutte le sue esigenze.

La mattina del 17 maggio 1972 due colpi di pistola uccidono il commissario della Polizia di Stato Luigi Calabresi. L’omicidio si colloca in un periodo della storia ita liana segnato dalla violenza e dalla paura, raccontate in questo testo attraverso la storia privata di una famiglia ferita dal terrorismo. Non era una giornata «normale» quando venne ucciso, nel senso che non era inaspettata. Da molto tempo nessun giorno era più normale: i presagi peggio ri, le paure improvvise, le angosce e perfino i pianti erano diventati compa gni di strada dei miei genitori. Nessuno potrebbe più dire da quando. O forse sì, dalla sera in cui mio padre rincasò sconvolto: «Gemma, Pinelli è morto1». E poi, dal momento in cui le prime scritte apparvero sui muri della cit tà, indicandolo come il commissario ‘assassino’. Dalla mattina in cui comin ciò quella feroce campagna di stampa, carica di violenza e sarcasmo, fatta di minacce, promesse, sfide e anche vignette. Non molto tempo dopo la mia nascita il quotidiano «Lotta Continua» ritraeva mio padre con me in braccio intento a insegnarmi a decapitare, con una piccola ghigliottina giocattolo, un bambolotto che rappresentava un anarchico.

Da mia madre. A piccolissime dosi. La sofferenza si riaccende in fretta e permette incursioni brevi, veloci; non si può restare troppo a lungo in quel territorio dei primi anni Settanta, si rischia di farle troppo male, e allora è meglio mettere un freno alla curiosità.

Ma sono i particolari, che negli anni ho raccolto e istintivamente cataloga to nella memoria, a fare di una giornata qualsiasi una giornata annunciata. Prevista. Quasi attesa.

sQUARcI DI MONDO378 MARIO CALABRESI Il presagio

Da mia nonna materna, Maria Tessa Capra. Con lei si può parlare a lungo, ha navigato tutto il Secolo Breve2, essendo nata all’alba della Prima guerra mon

2 Secolo breve: viene chiamato così il Novecento, secondo la teoria dello storico Hobsbawm che ne identifica l’inizio con il 1914, anno in cui scoppia la Prima guerra mondiale, e la fine nel 1991 con il crollo dell'Unione Sovietica.

I miei genitori si preparavano da tempo all’esplosione della tragedia. Cer to, lo facevano quasi senza saperlo, sempre con una quota di irrazionalità, ma oggi, a ripercorrere quei momenti, quei loro attimi di lucidità o di dispe razione improvvisa, non riesco a respirare, non riesco a capire come abbiano fatto a sopravvivere. Insieme prima. Mia madre da sola, dopo. Oggi scrivo, ma sono anni, praticamente da sempre, che archivio ricordi, di scorsi e confidenze.

1 Giuseppe Pinelli: anarchico arrestato pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano, morto precipitando dal quarto piano della Questura di Milano.

MARIO cAl ABREsI 379 diale e due anni prima della Rivoluzione russa. Ha visto due guerre, la sua casa bombardata, un marito prigioniero in Germania, è rimasta vedova e ha perso uno dei suoi sette figli, ma non ha mai smesso di combattere. Con lei si può solo parlare a lungo: inutile sedersi sul suo divano o su una sedia della cucina e farle una domanda antica se non si hanno almeno due ore di tempo. Le piace ricor dare, ama farlo, anche se ciò può dare dolore. Mi ha insegnato le virtù taumatur giche1 e curative della parola e l’importanza della condivisione della memoria. Dagli amici di mio padre, che negli anni, con cautela, sono andato a inter rogare. La cautela è figlia di una mia prudenza, che mi ha sempre spinto a non aprire d’improvviso certe stanze che potevano essere troppo piene per essereCosì,affrontabili.conilpassare del tempo, ho messo in fila sei ricordi, sei immagini che sono simboliche del loro calvario, del loro strazio. Il nonno. Mio nonno materno, Mario Capra, produceva e commerciava tessuti. Nei giorni più pesanti della campagna di stampa, una domenica, dopo pranzo, prese mio padre da parte e sottovoce gli disse: «Luigi, è tutto ormai troppo pe ricoloso, lascia la polizia, ho io un posto per te. Lavorerai a Roma, ti lascerai alle spalle questa città e i suoi demoni, ti prometto che guadagnerai anche di più…». Mio padre, così racconta la nonna, lo interruppe, proprio mentre il nonno cerca va di conquistarlo ironizzando sugli stipendi statali, e fu laconicamente2 chia ro: «Grazie, sei molto affettuoso, ma non posso. Non potrei mai. Sarebbe una fuga. Significherebbe scappare. Di più: significherebbe ammettere che sono colpevole. Resterò fino in fondo, guardando tutti negli occhi». Mio nonno quella notte non riuscì a dormire e parlò a lungo nel letto della grande casa di fronte all’ippodromo di San Siro: «Ha scelto il suo destino e non riusciremo a salvarlo». La posta. Per mia madre tutto fu angosciosamente chiaro quando la casella del le lettere cominciò a essere sempre vuota. D’improvviso non c’era più posta. Il portinaio, interrogato, rispose: «Io continuo a metterla, chieda a suo marito». Lei chiese, e lui negò, disse che c’era semplicemente meno posta, fece qualche battuta che si è persa nel tempo e poi cambiò discorso. Mia madre cominciò a fare attenzione. Una mattina trovò una scusa per uscire per prima, guardò nella buca e vide una lettera con l’indirizzo scritto a pennarello, ma non la prese. La lasciò lì e aspettò. Quando riuscì più tardi, con il passeggino, la casella era vuo ta. Aspettò sera, gli andò incontro: «C’era posta questa mattina?». Quando lui disse di no, lei capì, e si sentì morire dentro. Erano lettere di insulti, di minacce, lui gliele nascondeva per non aumentare la paura. Negli anni avrebbe scoperto l’amore di quel gesto che forse permise loro di avere ancora un po’ di normalità. L’appunto. Ci sono i racconti degli amici, ripetuti negli anni, delle sue con fidenze, delle lettere in cui segnalava la sua paura, dei presentimenti, ma 1 taumaturgiche: che fanno miracoli. 2 laconicamente: usando poche parole e asciutte.

Il presagio. Una mattina, in corso Vercelli, esattamente una settimana prima dell’omicidio, mentre teneva con una mano me e con l’altra spingeva la car rozzina con Paolo dentro, mamma si guardò riflessa nella vetrina di una far macia e pensò: «Sono vedova». Prima tentò di scacciare il pensiero, poi non riuscì a resistere e scoppiò in singhiozzi in mezzo alla strada. La pistola . Mio padre aveva la pistola d’ordinanza, come naturale. Era una rivoltella piccola. La teneva smontata in un armadio, nascosta tra i golf. Una mattina mia madre, riordinando, non la trovò più. Quando gli chiese spiega zioni, lui le rispose che l’aveva riportata in questura e che lì sarebbe rimasta. Alle sue insistenze, concluse: «Gemma, lasciamo perdere, non la voglio tene re qui e non la voglio portare con me, e poi» questo è un concetto che ripeté anche agli amici che si stupivano per il fatto che non girasse armato «non mi servirebbe a niente: se mi spareranno, lo faranno alle spalle. Non avranno mai il coraggio di colpirmi guardandomi negli occhi. E se anche avessi il tem po di accorgermi, non vorrei mai sparare a qualcuno». La promessa . Quattro o cinque giorni prima di morire, probabilmente venerdì 12 o sabato 13 maggio 1972, mio padre mi portò a casa dei nonni. Mi avreb bero lasciato lì anche a dormire per uscire a cena quella sera. Mia nonna, sulla porta, prima che lui se ne andasse, raccolse questa richiesta: «Mam ma» la chiamava così da quando aveva preso confidenza, anche se era sua suocera «promettimi che se mi succede qualcosa…». Lei cercò di interrom perlo, tentò perfino di mettergli una mano davanti alla bocca, ma lui le disse trafelato: «Ti prego, Maria, promettimi che vi prenderete cura di Gemma e dei bambini». Lei non poté fare altro che annuire, con il magone, mentre lui se ne andava velocemente. Si potrebbe pensare che questa fosse l’angoscia di una famiglia, sei foto grammi di un film privato, inaccessibile. Per anni, per capire, mi sono preso la briga di andare a vedere tutta la pellicola e purtroppo ho scoperto che la violenza e il livello della minaccia erano sotto gli occhi di tutti. Ma quasi nes suno sembrò prevedere gli sviluppi tragici di quella campagna d’odio. La curiosità di capire, di scoprire cosa si diceva e si scriveva di mio pa dre, esplose quando avevo quattordici anni. In quarta ginnasio cominciai a saltare la scuola per andare a leggere i giornali dell’epoca nell’emeroteca1

1 emeroteca: raccolta ordinata di giornali e periodici per consultazione e lettura; di solito è annessa a una grande biblioteca.

sQUARcI DI MONDO380 soprattutto c’è un foglietto che mi ha sempre fatto tenerezza, simbolo dell’i nadeguatezza delle sue difese, perfino di una certa ingenuità. Era un appunto che trovò mia madre nel suo portafoglio, preso su un angolo di giornale: c’era la targa di un’auto e la scritta «3.11.71. mi pedinano, due giovani a bordo, rilevato targa mia vettura».

Ancoraallucinante.oggiquando

della biblioteca Sormani, a poche centinaia di metri dal palazzo di Giustizia. Continuai a farlo per molto tempo, a volte con pause di mesi, almeno fino al la fine della prima liceo. Arrivavo presto la mattina, in anticipo sull’apertura del portone, per essere tra i primi a entrare. Mi fiondavo a fare la richiesta dei microfilm e, per evitare code e attese, spesso mi preparavo il foglietto giallo della domanda in anticipo. Prima affrontai il «Corriere della Sera». Partii dalla strage di piazza Fontana per arrivare al giorno dell’omicidio. Era un lavoro solitario e metodico, che cavava gli occhi, ma che mi rapì. Mi immergevo in un’altra epoca, perdevo il senso del tempo e del presente. Di menticavo completamente i problemi scolastici, le interrogazioni, il greco, i compagni di classe. Era un’esperienza totalizzante. Alcune volte ero preso da una curiosità da spettatore, distante, come se la vicenda non mi appartenes se, altre invece l’angoscia mi toglieva la saliva, mi tagliava le gambe. Allora mi alzavo, riavvolgevo il microfilm e mi spostavo di poche decine di metri, nella sala cineteca. Un luogo meraviglioso, pieno di fascino, con una colle zione di titoli che mi sembrava eccezionale. Sceglievi un film, poi aspettavi alla tua postazione di fronte al video che lo caricassero nel videoregistratore. La consideravo una cosa straordinaria, un servizio pubblico da privilegiati, degno di una grande città all’avanguardia come era Milano. Per restare in te ma, o forse prigioniero di quegli anni, chiedevo pellicole degli anni Settanta: Fellini, Truffaut, Kubrick. Sempre da solo, sempre in silenzio. Per tornare al presente, alla fine di ogni mattina, andavo dietro piazza del Duomo, al pani ficio Luini. I panzerotti con la mozzarella e il pomodoro sono stati per anni la mia ancora di salvezza, l’interruttore per riaccendere la vita. Ne prendevo due e li mangiavo camminando verso il Castello. Con il tempo passai a guardare i settimanali, «L’Espresso» in testa, e so lo alla fine affrontai la collezione di «Lotta Continua». Inutile dire che fu una lettura leggo cosa scrivevano, anche contestualizzando ogni cosa, anche di fronte a uno Stato opaco e «nemico», non mi capacito di frasi come questa del 6 giugno 1970: «Questo marine dalla finestra facile dovrà ri spondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito». O una pagina come quella uscita il 1 ottobre 1970, una settimana prima dell’inizio del processo per diffamazione contro “Lotta Con tinua”, che presto si trasformò in un processo a mio padre: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di Ps Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo, però, si è dovuto sco prire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». Il Paese delirava e quella giovane coppia – all’inizio del 1970 mia madre ave va ventitré anni e mio padre trentadue – rimase sempre più sola. Una sera

MARIO cAl ABREsI 381

4. Perché Luigi Calabresi rifiuta la proposta di lavoro che gli offre il padre? Come giudichi questa scelta?

5. Perché, secondo te, Luigi Calabresi riceve solo quattro necrologi «spontanei e non dovuti»? Cosa ti fa capire questo fatto?

6. Mario Calabresi ricorda suo padre non come un eroe, ma come una persona normale. Spiega, infatti, che gli eroi «erano persone comuni, ma con la caratteristica di avere passione infinita per le cose che facevano, che amavano il loro lavoro e lo facevano con scrupolo». Pensando alla tua esperienza, alla tua famiglia, ai tuoi amici… racconta dove vedi e riconosci una dedizione nelle cose da fare tale da poter dire: «Questo è un eroe!».

3. Come cambiano le abitudini quotidiane di Luigi e Gemma Calabresi in seguito al clima di paura e violenza che vivono?

2. Elenca gli avvenimenti da cui puoi capire che la morte di Calabresi era già stata «annunciata».

1. Quali accuse muove a Luigi Calabresi la campagna stampa organizzata contro di lui?

sQUARcI DI MONDO382 lei gli disse, in uno slancio d’entusiasmo: «Ma perché non ce ne andiamo a Brera o sui Navigli che c’è vita?»; lui rispose con una battuta amara: «A Bre ra io ci andrei volentieri, ma avrei bisogno della scorta…». Quando usciva in tempo dalla questura e mia zia Graziella correva a farmi da baby-sitter, prenotavano tavoli appartati in ristoranti fuori mano o andavano al cinema, la loro grande passione, con l’accortezza di entrare a spettacolo iniziato per evitare di essere riconosciuti. «Erano una coppia straordinaria, che visse in un crescente isolamento dalla città» mi ha raccontato Antonio Lanfranchi, un imprenditore milanese che li conobbe in quegli anni, l’autore di uno dei pochi necrologi1 apparsi sul «Corriere della Sera» che non fosse ufficiale o della famiglia. Il 18 maggio 1972 scrisse: «Antonio Lanfranchi piange l’amico Luigi Calabresi». Arnaldo Giuliani, l’allora capocronista di via Solferino, lo andò a cercare e lo intervistò, tanto la cosa risultò eclatante. Quando mi ha raccontato questo episodio, un pomeriggio di settembre del 2005, mi è sem brato poco credibile o perlomeno esagerato. Allora sono andato a controllare e purtroppo le cose andarono così: Luigi Calabresi, padre di due bambini con un terzo in arrivo, ucciso con due colpi sparati alle spalle, vittima di un pub blico linciaggio furioso, ebbe solo quattro necrologi spontanei e non dovuti.

1 necrologi: brevi articoli di giornale in commemorazione della vita e delle opere di un defunto.

La storia italiana dalla Repubblica agli “anni di piombo”

L’Italia scelse la Democrazia Cristiana e il governo che ne seguì, detto “Centrismo”, venne formato oltre che dalla DC, anche da liberali, repubblica ni e socialdemocratici, escludendo la partecipazione delle sinistre. La contrapposizione tra i due schieramenti rimase come caratteristica co stante nella storia politica italiana. Nei decenni seguenti il Paese progredì ad ogni livello con il famoso “Mira colo economico”. Nonostante ciò il centrismo entrò in crisi a causa della forte opposizione di sinistra, fino a che nel 1963 venne formato il primo governo di centrosinistra, con la partecipazione dei socialisti. Nel 1968 scoppiò la contestazione giovanile che mise in discussione tutto l’assetto politico, sociale e culturale (Chiesa, partiti politici, leggi morali, con formismo nei costumi e alleanza con gli Stati Uniti).

Accanto alla contestazione democratica e non violenta si diffusero una se rie di gruppi detti extraparlamentari i cui appartenenti cominciarono a dif fondere la convinzione che fosse necessario rovesciare lo Stato considerato borghese e proclamare la rivoluzione proletaria. Dalla convinzione e dalla propaganda si passò in breve ad azioni sempre più violente contro singoli cittadini, considerati rappresentativi del sistema, e via via contro sedi di par tito, giornali, industrie, gruppi di persone inerti nelle piazze o nei loro posti di lavoro.Numerose furono le vittime di questa strategia del terrore che vide le Bri gate Rosse tra i gruppi più attivi. Tutto il decennio dal 1969 al 1980 fu deno minato “anni di piombo”. Nel 1978 venne rapito e quindi assassinato l’onore vole Aldo Moro, uno tra i più importanti uomini politici italiani. L’omicidio del commissario Luigi Calabresi si colloca in questo clima di violenza ideologica estrema: morì assassinato il 17 maggio 1972 a Milano. Vennero condannati nel 1997 per l’esecuzione del delitto Ovidio Bompressi e Leonardo Marino e come mandanti Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, fondatori di Lotta Continua, un altro dei più attivi gruppi extraparlamentari.

La Seconda guerra mondiale terminò nell’agosto del 1945 e l’Italia, con il re ferendum del 2 giugno 1946, abbandonò la monarchia e diventò una repub blica.Il1 gennaio 1948 entrò in vigore la nuova Costituzione Repubblicana. Il 18 aprile 1948 si svolsero le elezioni politiche, in un clima acceso che vide contrapposti due blocchi: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e il Fronte Popolare formato da Socialisti e Comunisti guidati rispettivamente da Pietro Nenni e Palmiro Togliatti.

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sQUARcI DI MONDO384 FRANCESCO DELIZIOSI

Era stonato, ma non rinunciava a cantare. Dava appuntamenti e arrivava puntualmente in ritardo. Soffriva di gastrite e mangiava lo stesso scatolette, pur di sbrigarsi. Diceva «la benzina è il mio pane», perché preferiva riempire il serbatoio della sua auto (usata) piuttosto che il frigorifero, per poter accorre re dovunque, anche di notte. Poi, preso dalla fretta e da mille pensieri, per deva le chiavi, era sbadato, guidava da far paura, agli incroci dimenticava le precedenze. Si alzava all’alba per pregare e, alla fine della giornata, esausto, si addormentava sulla poltrona mentre leggeva.

Era un prete senza conto in banca, con le tasche vuote e la casa (popola re) piena di libri di filosofia e psicologia. Donava tutto il suo tempo agli altri e aveva lo scaldabagno rotto e i rubinetti che schizzavano acqua dappertut to. Gli proposero gli incarichi più gravosi, scartati da tutti, e lui li accettò. Infatti arrivò a Brancaccio nel 1990 dopo che sei confratelli avevano detto di no.Alcontrario, quando gli offrirono chiese ricche, posti di prestigio, lui li ri fiutò: «Non sono all’altezza, rimango qui tra i poveri», rispondeva. Andava alle riunioni ecclesiali e si sedeva in ultima fila. Era un intellettuale raffinato, ma 1 apatia: dal greco a-pathos ‘senza passione’. Stato di indifferenza nei confronti della realtà esterna.

Un calvario di periferia

Il 15 settembre 1993 don Pino Puglisi viene assassinato da due sicari della mafia. Siamo a Palermo, nel quartiere di Brancaccio, dilaniato dalla guerra tra le cosche mafiose. Qui il prete ha cercato di strappare alla strada molti ragazzi, sottraendoli alla criminalità. E così la malavita lo ha ucciso, pensando di sconfiggerlo. Aveva grandi orecchie, grandi mani, grandi piedi. E sapeva essere allegro e scherzare anche su sé stesso. Padre Pino Puglisi spiegava ai suoi giovani che le orecchie grandi gli servivano per ascoltare meglio, le mani grandi per ac carezzare con più tenerezza, i piedi grandi per camminare più velocemente e soddisfare subito le richieste di aiuto. «E quella testa pelata?» domandavamo, impertinenti, noi ragazzi del ginnasio. E lui concludeva, passandosi una ma no sulla calvizie: «Per riflettere meglio la luce divina…». La prima volta che entrò nella baraonda della classe del liceo Vittorio Ema nuele II di Palermo (correva l’anno 1978) aveva uno scatolone vuoto sotto il braccio. In silenzio, lo posò per terra. E mentre noi, azzittiti e stupiti, lo guar davamo, lo pestò con un piede. «Avete capito chi sono io?», domandò. «Un rompi scatole», concluse sorridendo tra le nostre risate. Ma il peggio doveva ancora venire: le scatole le rompeva davvero. Con le sue lezioni veniva a strapparci dall’apatia1, dall’indifferenza, dalla superficialità. E ci poneva di fronte a do mande sconvolgenti: «Dove vogliamo che vada la nostra vita?».

fRANcEscO DEl IZIOsI 385 non lo faceva capire a nessuno. Invece di esibirsi in dotte citazioni ai conve gni, parlava in dialetto con gli operai. L’ho conosciuto tra i banchi all’ora di religione. Entrava in classe infreddo lito nel suo immutabile, logoro giubbotto blu e in quindici anni credo di non averlo mai visto con un cappotto. Bassino, esile, orecchie a sventola, cammi nava a piccoli passi con le scarpe enormi. Si faceva chiamare 3P, un simpati co nomignolo formato dalle iniziali di padre Pino Puglisi. Prima di lui arriva va il suo sorriso. Parlava piano, cercando con difficoltà le parole giuste. Ma, quando ti ascoltava, per lui nell’universo esistevi solo tu. Sotto le sue ali siamo cresciuti io e Maria, la compagna di classe che è di ventata mia moglie. Lui ci ha seguiti dalla cresima al matrimonio; quando diventò parroco noi lo seguimmo fino a Brancaccio, per dargli una mano e forse anche un segno di conforto con una presenza amica tra tanti volti sco nosciuti. Ci annunciò il suo nuovo incarico con una battuta: «Sono diventato il parroco del Papa». Perché la casa di Michele Greco, detto il Papa della mafia, faceva parte della sua parrocchia. Nacque il nostro primo figlio, Emanuele, e 3P ripeteva: «Dobbiamo battezzarlo subito, dobbiamo battezzarlo subito». Lo disse anche l’ultima domenica prima del delitto, l’ultima volta che l’abbiamo visto vivo. Noi non capivamo il motivo di tanta fretta, lui ormai sapeva che non gli restava molto tempo, appena una manciata di giorni in quel caldo settembre del 1993. * * * «Me l’aspettavo», disse padre Puglisi ai killer. E fu per loro il suo ultimo sorriso. Se l’aspettava, con la consapevolezza di un condannato a morte che ha trasci nato la sua croce fin sulla cima del monte. Gli ultimi mesi di 3P a Brancaccio furono segnati da una “escalation” di minacce e avvertimenti contro di lui e i suoi collaboratori. Ripercorrere quei giorni serve anche a ricordare le sue risposte, quello stile di fermezza interiore e sconfinata pazienza, l’umiltà co raggiosa e l’intolleranza verso ogni ombra di ambiguità e compromesso. Per prepararsi al primo anniversario della strage di Capaci, in cui fu uc ciso Giovanni Falcone, padre Pino organizzò una marcia nel quartiere. Tutti avevano ancora nelle orecchie l’eco delle parole pronunciate pochi giorni pri ma, il 9 maggio, da Giovanni Paolo II ad Agrigento, l’anatema1 contro la mafia: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qual siasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo talmente attac cato alla vita… non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contra ria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!». Meditando su quell’intervento, raccontano alcuni testimoni, Puglisi «si sentì interpella 1 anatema: scomunica.

sQUARcI DI MONDO386 to dalle parole del Papa in prima persona e come invitato a continuare il cam mino a Brancaccio con un nuovo impulso e con pieno fervore». Ma la marcia per Giovanni Falcone scatenò la reazione dei boss del quar tiere. Il giorno dopo la manifestazione, il 22 maggio, arrivarono a San Gaeta no1 alcuni giovani su moto di grossa cilindrata. Lanciarono bombe molotov. Le fiamme distrussero il furgone della ditta che stava restaurando la chiesa (era crollato il soffitto) e un alberello davanti al portone. Il 23 maggio 3P portò ugualmente la sua gente alle commemorazioni ufficiali del giudice.

Per il 25 luglio, domenica, padre Pino organizzò un’altra manifestazione, stavolta per ricordare Borsellino. Di mattina, dall’altare, pronunciò l’omelia più dura: «La Chiesa ha già colpito con la scomunica chi si è macchiato di atroci de litti come i cosiddetti uomini d’onore. Io posso soltanto aggiungere che gli assassini, coloro che vivono e si nutrono di violenza, hanno perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si degradano da soli, per le loro scelte, al rango di animali».

L’incendio delle porte venne denunciato alla polizia, ma nessuno prese provvedimenti concreti a tutela della comunità. 3P, prima a maggio e poi ad agosto, ebbe contatti col prefetto ma rifiutò la scorta (una legge assurda allora lo consentiva), per evitare di esporre al rischio altri innocenti.

La manifestazione del pomeriggio si risolse in una grande festa, alla quale partecipò pure Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso in via D’Amelio. Ma alcuni dei componenti del servizio d’ordine vennero minacciati da gio vani in moto. E il giorno dopo Tony Lipari, uno dei ragazzi della parrocchia, riuscì a sfuggire per un soffio a un pestaggio. Gli urlarono: «Dicci ’o parrinu chinn’havi a fari travagghiari in paci» («Digli al prete che ci deve lasciare la vorare in pace»). 3P prese il giovane sotto braccio e fece con lui una lunga passeggiata per via Brancaccio, in modo da farsi vedere da tutti. Poi gli confi dò di aver ricevuto minacce anche lui, attraverso lettere anonime e per telefono. Pro prio per questo decidemmo di regalargli una segreteria telefonica per il suo compleanno. Ma non poté mai usarla. Negli ultimi mesi padre Pino vietò a noi amici di andarlo a trovare a casa, soprattutto nelle ore serali: «Potrebbe venire qualcuno a disturbarci» spiegava in maniera sibillina. Un giorno scoprì i pneumatici dell’auto bucati con un pun

Nella notte tra il 29 e il 30 giugno vennero incendiate le porte di casa di tre volontari (Giuseppe Martinez, Mario Romano e Giuseppe Guida) dell’Inter condominio, l’associazione apartitica che combatteva con 3P le battaglie per i diritti civili di Brancaccio, in primo luogo la scuola media. Un’altra delle ri chieste ricorrenti rivolte al Comune e alla prefettura riguardava gli scantinati di via Hazon 18 (uno dei palazzi che ospitava gli sfrattati), utilizzati dai clan per fruttuosi traffici illeciti e combattimenti di cani. Non solo: si saprà anni dopo che proprio in quei magazzini la cosca2 nascose per un certo tempo l’e splosivo destinato a Paolo Borsellino.

1 San Gaetano: parrocchia del quartiere di Brancaccio, nella periferia di Palermo. 2 cosca: gruppo di mafiosi di Sicilia che svolge la sua attività criminosa agli ordini di un capo.

fRANcEscO DEl IZIOsI 387 teruolo, un altro si presentò in parrocchia con un labbro spaccato e un occhio pesto. A coloro che, preoccupatissimi, gli chiedevano spiegazioni, risponde va: «Sarà colpa di un herpes…». Con altri sosteneva di essersi ferito cadendo dalle scale. Ma non sapeva dire le bugie e tutti capirono. E all’improvviso, lui così umile, si mise in prima fila alle manifestazioni. Cercò di fare da “parafulmine” per proteggere i collaboratori, ai quali dis se: «Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?». A suor Carolina che lo invitava alla prudenza spiegò: «Non ho paura di morire se quello che dico è la veritàCosì». era 3P: agiva senza tenere in considerazione la presenza opprimen te della mafia, semplicemente non ne riconosceva il potere. Intraprendeva iniziative alla luce del sole, non seguendo le regole degli uomini d’onore. E invitava la gente a riappropriarsi, allo stesso modo, della libertà. Alla manie ra di Gesù poteva dire: «La verità vi farà liberi». Questa era la sua convinzione: «È difficilissimo morire per un amico, ma morire per dei nemici è ancora più difficile. Cristo però è morto per noi quando noi eravamo ancora suoi nemici. Dio ci rimane sempre accanto, è la costanza dell’amore fino all’estremo limite, anzi senza limiti. Ec co il motivo della nostra gioia».

4. Quali minacce e avvertimenti riceve don Pino Puglisi nei mesi che precedono la sua morte? Elencali.

7. C’è nella tua vita una persona che potresti definire, come don Pino Puglisi, «un rompiscatole»? Presentala e racconta uno o più episodi che facciano capire la ragione della tua scelta.

8. Nel testo sono nominati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due uomini che hanno dato la vita per la lotta contro la mafia. Cerca informazioni su di loro e sintetizza in un testo la storia dei due magistrati. Puoi anche fare riferimento al discorso pronunciato da Borsellino in memoria di Falcone (vedi la sezione «Discorsi celebri»).

5. L’autore dice che don Pino Puglisi «agiva senza tenere in considerazione la presenza opprimente della mafia, semplicemente non ne riconosceva il potere». Quali fatti raccontati nel testo danno ragione di questa affermazione?

2. Perché don Pino Puglisi è «un rompiscatole»?

6. Scrivi una lettera a un amico in cui racconti il tuo incontro con don Pino Puglisi: descrivilo e metti in luce ciò che ti ha colpito di quest’uomo.

sQUARcI DI MONDO3881.Don Pino Puglisi «aveva grandi orecchie, grandi mani, grandi piedi». Quale spiegazione dà il prete a queste sue caratteristiche? Quale tratto del suo carattere viene subito messo in luce?

3. Completa la tabella facendo precisi riferimenti al testo, come nell’esempio: Padre Pino Puglisi era un uomo … Infatti … allegro «Era stonato, ma non rinunciava a cantare» generosocoraggiosoumilesbadato

Semi nelle tenebre

Padre Pino Puglisi è parroco di San Gaetano, una parrocchia di Brancaccio, nella periferia di Palermo. È un quartiere difficile, in cui la mafia è padrona e i ragazzi sono preda dell’unica possibilità offerta dalla criminalità. Ma proprio qui il «parri no» inizia a diffondere una cultura della legalità e dell’onestà. Parte dai più piccoli, perché anche in un luogo infernale è possibile riconoscere «ciò che inferno non è»1 .

D’AVENIA

Don Pino sa che l’inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bam bini. Bisogna difendere la loro anima prima che qualcuno gliela sfratti. Cu stodire ciò che hanno di più sacro.

«Che fai?» «Che te ne fotte?» «Quella è la macchina di un mio amico.» «Peggio per lui.» «Lascia stare la radio.»

ALESSANDRO

«Sennò che fai, chiami gli sbirri? Parrino2 amico degli sbirri. E sbirro pu re tu.» 1 Ciò che inferno non è: questo, infatti, è il titolo del romanzo di A. D’Avenia da cui è tratto il brano. 2 Parrino: prete, in dialetto siciliano.

Sa che solo i bambini entrano in cielo, o chi torna a essere come loro. Ma non perché siano buoni. Nemmeno lui era buono da piccolo. A messa non ci voleva andare e preferiva giocare, picchiare gli altri maschi e tirare le trecce alle femmine. Anche lui tormentava le lucertole e rubava le mele al fruttiven dolo. Il cielo appartiene a loro perché dipendono. Sanno solo ricevere. Chi sa ricevere amore come un bambino dai suoi genitori abita il cielo, e ha sempre un posto in cui scappare, dentro. Dove quell’amore va a stanziarsi, senza po ter più essere cacciato.

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Don Pino sa che deve proteggere quel posto dentro ogni bambino, quel pezzo di bene che esplode come un seme, quel pezzo di anima che, se rimane intatto, può salvare. Prima è piccolo, piccolissimo, poi diventa radici, stelo, fusto, foglia, fiore, frutto. A Brancaccio troppi bambini sono come semi nelle tenebre. Semi al rove scio. Non c’è spazio per un sogno, per la bellezza, per l’immaginazione. Trop pi sono condannati a morire da vivi, troppi sono interrotti prima ancora di allungarsi verso la felicità. Uno di questi è Giuseppe. Don Pino ricorda tutto di quel ragazzino di tredici o quattordici anni, che aveva sorpreso a scassinare un’auto parcheggiata vicino alla sua.

«Io non lo voglio fare il cazzolario.» «Calzolaio, non cazzolario.» «Io non voglio lavorare.» «E che vuoi fare?» «Quello che mi dice mio padre.»

«Non mi conviene. Ci vuole molto più tempo…» «Ma non fai del male a nessuno.»

«Te li do io i soldi per mangiare. Quanto tempo ci metti ad aprire una mac china e prendere l’autoradio?»

«Vieni«Che?»e vedi?» «E quanto mi paghi?» «Quanto ti danno per l’autoradio.»

«Ma non mi avevi mandato a quel paese?»

«E glielo dici tu a mio padre? Vieni tu a farti dare le cinghiate?»

«Saresti un bravissimo operaio, con le mani così veloci. Mio padre era un calzolaio e io lo aiutavo a riparare le scarpe. Tu saresti bravissimo.»

«Sono venuto a vedere.»

«Lasciala stare. Che te ne fai?»

«Era per scherzo.»

«M’ammazza. Non ci devo parlare con gli sbirri. Mai.»

«Che ci fai qui?»

Il proprietario della macchina era arrivato e il ragazzino era corso via, senza autoradio, scagliando una bestemmia contro Dio e un insulto a don Pino che gli aveva urlato la sua, di sfida: «Ti aspetto per il presepe! Vediamo se te la fidi1.» Giuseppe si era presentato, attentissimo a non farsi vedere da persone che potessero riferirlo a suo padre.

«Di questa niente, però se la vendo mangio.» «Lasciala stare.»

«Allora«Giuseppe.»prima di fare il presepe bisogna chiedere scusa.» 1 Vediamo se te la fidi: nel gergo siciliano significa ‘vediamo se te la cavi’.

«Cinque minuti.»

«E se ci vengo io da tuo padre?»

sQUARcI DI MONDO390

«Peggio per chi se l’è comprata, vuol dire che i soldi ce l’ha e se ne può ac cattare un’altra.»

«Su certe cose non si scherza. Come ti chiami?»

«Perché non mi vieni a dare una mano a fare il presepe? Serve uno con le mani«Nonbuone.»civengo in chiesa.» «Non devi venire in chiesa, devi venire a fare il presepe. A costruire le case con il legno, il polistirolo, il saldatore…»

«Gesù, quello del presepe che hai costruito. Il figlio di Dio.»

AlEssANDRO D’AvENIA 391

«No, ma tu gli hai detto quella malaparola. E gli devi chiedere scusa.»

«Appunto, le mie sono al servizio di Dio, per questo sono belle grandi. Lui fa così, chiede alle persone di prestargli orecchie, occhi, mani…»

Giuseppe si era guardato le mani e gli erano sembrate quelle di sempre, ma ci aveva provato. E il presepe del Natale 1992 era stato il più bello mai fatto a San Gaetano. Il ragazzino si era persino lasciato scappare che da grande avrebbe fatto quello che costruisce le cose di legno: il falegname.

«E tu che ne sai? Guarda qui», don Pino aveva indicato le sue orecchie. «Ma quelle sono le tue.»

«Anche Gesù faceva il falegname. Era stato suo padre a insegnarglielo, e si chiamava Giuseppe, come a te.» «Ma Gesù quale?»

«A chi? A te?» «No, a «Perché,Dio.»tu sei Dio?»

«Sempre sbirro sei, anche se fai lo sbirro di Dio.»

«Ma perché, Dio ci sente? E come fa? Mica c’ha le orecchie.»

«Per esempio, tu vuoi usare le mani per fare il presepe? Se lo fai, le tue ma ni diventano quelle di Dio.»

«Seee, vabbè…» «Devi provare, e vedrai di cosa sei capace. Quando Dio usa una parte di noi, facciamo cose divine. Siamo come i pennelli nelle mani di un gran pittore.» «Ma chi? Quello che dipinge le pareti? No, io non voglio essere un morto di fame.»«Guardati le mani. Con quelle tu puoi far scendere Dio sulla terra.»

Gli occhi di Giuseppe si erano accesi. A don Pino era sembrato uno di quei fili d’erba che appaiono tra le fessure del cemento. Così sono tutti i bambini di Brancaccio: vengono iniziati all’in ferno organizzando duelli alla morte tra cani da guerra o da impiccare. Poi ci sono lo spaccio, i furti, le botte, la prostituzione… La luce si oscura e viene so stituita dalla rabbia di chi distrugge e non sa neanche il perché, di chi impara a dominare prima di amare, di chi non sa che amare aggiunge qualche cosa alla vita e invece odiare lo toglie, ma odiare è più facile e immediato. È una sorta di anestesia che non fa sentire la vita e la luce. Molti di loro poi subi scono violenza sessuale dai ragazzi più grandi, così si abituano a essere sot tomessi. E chi è dominato non sa più come si fa ad amare, perché non sa più come si fa a essere amati. Erano stati dei bambini a gridare: «Viva la mafia, la mafia vince!» quando Falcone era stato ammazzato.

«Miii, ma se era Gesù che bisogno aveva di lavorare?» «Per te l’ha fatto.» «Per me?» «Per farti capire che il falegname è un lavoro che a Dio piace.»

Don Pino aveva cominciato a preparare Giuseppe per la prima comunio

5. Don Pino è capace di vedere in Giuseppe «ciò che inferno non è»: quale dote riconosce nel ragazzo? Che proposta gli fa?

3. In quale occasione si incontrano don Pino e Giuseppe?

1. Cosa vuol dire che «l’inferno opera più efficacemente sulla carne tenera: i bambini»? Con quale significato è usata la parola «inferno»?

sQUARcI DI MONDO392 ne, ma quando gli aveva spiegato i dieci comandamenti, lui aveva pensato che non poteva. Il settimo non lo poteva rispettare: non rubare. «Perché«Perché?»se torno a casa senza niente mio padre mi prende a cinghiate.» Giuseppe era sparito, non l’aveva più visto. Era ritornato nel cemento. Sì, in quello blindato del carcere minorile di Palermo: il Malaspina.

6. Secondo te, perché Giuseppe decide di presentarsi da don Pino? Perché, invece, successivamente sparisce?

2. Perché secondo don Pino Puglisi «solo i bambini entrano in cielo»?

8. Don Pino sapeva di non poter trasformare il quartiere di Brancaccio, questa sarebbe stata un’illusione; tuttavia era solito affermare: «Se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto». Racconta una situazione, vissuta da te o da altri, in cui queste parole si sono rivelate vere.

7. Scrivi un breve testo in cui spieghi il significato della metafora del titolo: «Semi nelle tenebre». Fai riferimento alla storia di Giuseppe.

4. Quali ragioni spingono Giuseppe a rubare l’autoradio?

Quel giorno sulla Luna

393 ORIANA FALLACI

Redazione de «L’Europeo». A Milano sono le dieci e mezzo di mercoledì 16 luglio. Mancano cinque ore e due minuti alla partenza dell’Apollo 11 che porterà tre uomi ni sulla Luna. A Cape Kennedy, ora, sono le quattro e mezzo di notte. Una notte non certo fatta per dormire. Chiamiamo al telefono Oriana Fallaci. Questa è la registra zione del racconto diretto della nostra inviata a Cape Kennedy.Cape Kennedy, luglio ’69 «Pronto, pronto, mi sentite bene? Io no, comunque l’importante è che mi sen tiate voi… Non è facile avere una buona linea stanotte, perfino con New York si parla male… Siamo oltre tremila giornalisti, e gran parte di noi col telefono in mano. Sì… qui è ancora buio… Sono nella tribuna stampa che è la più vicina alla pista di lancio: due chilometri circa. Il razzo, da qui, si vede benissimo, ce l’ho proprio davanti, Dio com’è bello! Uno degli spettacoli più belli che abbia mai visto perché l’hanno illuminato con una trentina di riflettori, sai, allo stesso modo in cui noi in Europa illuminiamo i monumenti… È anche lui un monumento. Un monumento alto come un grattacielo di trentasei piani, tutto in metallo, ma il metallo non si vede: si vede solo la luce. È come un unico fascio di luce, un immenso gioiello che brilla nel buio, lanciando bagliori, e… guarda, è commovente. Sì, credo che commovente sia la parola giusta. Com movente come una stella. Sai, verso le due del mattino, quando sono arrivata, m’ha preso come un nodo alla gola. Visto da lontano sembrava proprio una stella caduta sulla Terra: è difficile restare freddi dinanzi a cose del genere. Come sarà difficile restare freddi al momento in cui il razzo partirà. Io, sai, ho abbastanza ridimensionato in me stessa questa conquista della Luna… da tempo la giudico con maggiore distacco di quanto la giudicassi anni fa, e a volte anche con criticismo. Ma ora l’emozione prende anche me. È da quando l’uomo apparve sulla Terra e alzò gli occhi al cielo e vide il pianeta che chia miamo Luna, è da allora che l’uomo sogna di andarci… E tra poche ore ci va. Con tutti i suoi difetti, le sue colpe…» Oriana, tu hai visto tanti lanci, conosci bene gli uomini che stanno per andare sulla Luna… dicci: in cosa è diversa l’atmosfera intorno a questo lancio? C’è, come di re, c’è una atmosfera religiosa? «Bè, proprio religiosa non direi… Direi piuttosto che v’è un’atmosfera as sai tesa. Non so, ecco: come in una clinica di maternità quando una donna sta per partorire e tutti si affannano intorno a lei preparando le cose, e chi non fa nulla cammina su e giù per calmare il nervosismo… il marito, i parenti… C’è un nervosismo represso, la gente lo sente che sta per accadere una spe cie di miracolo… un lieto evento che però è pieno di pericoli, incognite, come la nascita di un bambino. Nessuno scherza, sai, tutti sono seri, ed io crede

sQUARcI DI MONDO394 vo che ci sarebbe stata una gran confusione, invece no. Tutti sono composti come si deve dinanzi all’attesa di una cosa che fino a qualche anno fa non credevamo possibile: sbarcare sulla Luna, camminarci… Nessuno è andato a dormire stanotte. Alle due del mattino, quando ho lasciato Cocoa Beach per Cape Kennedy, tutti erano svegli come a mezzogiorno e la strada, per chilo metri e chilometri, era due file ininterrotte di automobili parcheggiate. Molti sono venuti con la roulotte, altri con le tende: ovunque è un attendamento. E la cosa straordinaria è che è successo tutto all’improvviso, stanotte. Ieri po meriggio la strada era quasi deserta. Solo nei centri abitati si notava la solita carnevalata dei ricordini, delle bandierine…» C’è anche un lato volgare, vuoi dire. «Ma certo. È inevitabile, no? Certo che è volgare ciò che sta accadendo nei negozi dei ricordini: come è volgare ciò che accade a Lourdes nei nego zi dove vendono i santini e le statuine. L’uomo, dice Pascal, non è né angelo né bestia ma angelo e bestia: e questo viaggio sta per essere compiuto da gli uomini, non dagli angeli. Gli uomini sono quello che sono: vogliono far soldi anche su Lourdes e sulla Luna. Non sono buoni, o non spesso. Ma se aspettassimo di diventare buoni per fare le cose, non faremmo mai nulla: sì o no? Tu parli di volgarità, io parlerei piuttosto di bene e di male: lo sai che anniversario è oggi? Lo scoppio della prima bomba atomica ad Alamogordo. Quando Fermi ed Oppenheimer e gli altri provarono l’ordigno terribile che fu usato poi a Hiroshima. Gli uomini sono così: inventano la bomba atomi ca, uccidono con essa centinaia di migliaia di creature, e poi vanno sulla Lu na. Né angeli né bestie ma angeli e bestie. Io non me ne dimentico neppure quando mi lascio commuovere dall’immensa stella che chiamiamo razzo Sa turno. E penso che in questo momento centinaia di creature stanno moren do in Vietnam, e che, nel momento in cui il razzo si staccherà dalla Terra e tutti grideranno al miracolo, almeno una creatura o dieci creature moriran no uccise da una pallottola, da un colpo di mortaio… Meno quattro, meno tre, meno due, meno uno, e il razzo si prepara a partire, un uomo si prepara a morire… È atroce. Eppure sulla Luna bisogna andarci lo stesso. E chissà che non serva a migliorare un poco gli uomini, a farli essere un poco più angeli e un po’ meno bestie…» […] E gli astronauti, Oriana? «Sono andati a dormire alle nove di ieri sera e si son svegliati alle quattro. Dieci minuti fa il dottor Berry insieme con altri medici li ha visitati. Tra po co, alle cinque e trentacinque, faranno colazione: bistecca, uova, caffè, succo d’arancia, e alle sei e ventisei saranno pronti per entrare nella pista di lancio. Ieri abbiamo parlato con il dottor Berry e gli abbiamo chiesto se gli astro nauti sono stati preparati psicologicamente all’impresa, e lui ha risposto no: nessuna preparazione psicologica. La mia impressione è che abbiano cerca to di sdrammatizzare l’impresa agli occhi degli astronauti. Questa è la vera ragione, secondo me, per cui il dottor Berry ha evitato che ieri sera si svol gesse la cena alla quale gli astronauti avevano invitato Nixon. Si è parlato di raffreddore di Nixon; si è ironizzato sui “germi presidenziali”, ma la sostanza

ORIANA fAll AcI 395 era un’altra: era che il dottor Berry temeva un’eccessiva carica emotiva degli astronauti. Non voleva che si montassero la testa, ecco tutto.» Cos’hanno detto gli astronauti prima del lancio? «Ieri sera abbiamo parlato per l’ultima volta con loro prima della conquista della Luna. Loro stavano a Merritt Island, noi all’auditorio di Cape Kennedy. Parlavamo per mezzo della televisione. Noi, dico, cioè i tremilacinquecento giornalisti convenuti a Cape Kennedy. Quattro di noi, americani, erano stati incaricati di portare le domande: le loro risposte sono state di una freddez za, credete, straordinaria anche, devo dire, di una banalità sconcertante. Non hanno fatto proprio niente, durante la conferenza stampa, per rendersi un tantino più simpatici, poveretti… e simpatici non lo sono davvero, questi tre… Questa gloria li ha come intirizziti ancora di più. Se ne stavano lì cercando di combattere la loro timidezza, perché sono anche molto timidi… Un paio di volte Armstrong e Collins hanno tentato qualcosa che voleva essere un sor riso, Aldrin non ha tentato neanche quello: era come allucinato, sembrava di ghiaccio, immobile… C’era soltanto una cosa che lo umanizzava: aveva due occhi febbricitanti: non erano gli occhi di un essere indifferente, pareva quasi che avesse preso una droga. Quegli occhi mi hanno spinto a fare una doman da: la domanda se avessero paura. Ho scritto questo su un biglietto e l’ho pas sato a Walter Cronkite, della CBS1, il quale l’ha detta agli astronauti. È stato l’u nico momento divertente della conferenza stampa, perché Cronkite ha detto: “Ho qui per voi una domanda della giornalista dell’‘Europeo’ Oriana Fallaci, che voi conoscete…”. Armstrong e Collins hanno avuto un lieve scossone, un soprassalto, e tutti nell’auditorio si sono messi a ridere. Letta la domanda sulla paura, loro sono rimasti in silenzio. Loro, che avevano sempre risposto con di sinvoltura e sicurezza, sono rimasti così, zitti, per tanto tempo, in un silenzio imbarazzante. Si guardavano l’un l’altro, hanno cominciato a confabulare tra loro… Finalmente Armstrong ha risposto: “Non direi che la paura sia un’emo zione sconosciuta per noi. Anzi, la paura è tipica di quando si sa che potrebbe succedere qualcosa cui non si era pensato. Qualcosa cui potremmo non esse re capaci di reagire. Tuttavia” ha continuato Armstrong “credo di poter dire che nessuno di noi guarda con paura a questo volo perché tutto l’allenamento che abbiamo alle spalle ci ha preparato a ogni eventualità e siamo pronti”.»

Quindi non hanno paura, Oriana? «Bè, a mio parere, la loro brava paura ce l’hanno. Ieri sera poi, tardi, ho in contrato Deke Slayton, il capo degli astronauti, e gli ho detto: “Deke, i tuoi uo mini non colgono mai l’occasione di umanizzarsi un pochino”. E lui: “Bè, sai, dovevano pure dare una risposta che contentasse tutti…”. Ma dal modo in cui scoteva la testa ho capito che mi dava ragione sul fatto che un po’ di paura ce l’avevano. C’è stato un altro momento curioso durante la conferenza stampa con gli astronauti: è stato quando un giornalista ha chiesto ad Armstrong se se la sentiva di dormire sulla Luna (sapete, vero?, che c’è un ordine tassativo 1. CBS: acronimo di Columbia Broadcasting System, uno dei più grandi network televisivi presenti negli Stati Uniti.

Chissà cosa diranno appena messo piede sulla Luna?

«Hanno risposto di non saperlo, di non averci mai pensato. Von Braun in vece ha definito questa impresa con una immagine bellissima. “È qualcosa di simile” ha detto “a quando le prime creature acquatiche uscirono dal mare per tentare di arrampicarsi sulla spiaggia”. Ma Wernher von Braun è un uma nista, un europeo.» […] Come ha presentato Von Braun le difficoltà di questo volo?

sQUARcI DI MONDO396 in proposito: dormire appena arrivati e prima di mettere piede sul suolo lu nare). Armstrong ha tentennato un po’ e ha detto: “Mi sorprenderebbe molto se fossi capace di dormire sulla Luna”. Ecco, è stato un accenno di umanità.»

«Giornalisti francesi da una parte, dall’altra alcuni giornalisti e telecro nisti tedeschi, e davanti ho una grossa équipe giapponese. Ho l’impressione che i più numerosi degli stranieri siano i giapponesi. Senza dubbio i giappo nesi sono quelli che si vedono di più, qui in giro. Dopo i giapponesi, gli italia ni, poi gli inglesi. Non ci sono giornalisti sovietici perché non sono ammessi a Cape Kennedy. Credo per ragioni di reciprocità, perché i giornalisti ameri cani non sono ammessi al cosmodromo di Baikonur nell’Urss. È un po’ dif ficile immaginare come siamo sistemati: ma sì, è proprio la tribuna di uno stadio di calcio.» […]

«[…] il pericolo vero incomincia a quindici chilometri di distanza dalla Lu na, cioè quando il LM nella sua discesa verso il suolo lunare raggiunge l’altez za di quindici chilometri. Quell’altezza è chiamata il punto di “no-return”, del non ritorno. Perché a quel punto il LM non può più tornare indietro e la cap sula madre, l’Apollo, non può più intervenire per corrergli in aiuto. Poi vi sono naturalmente i problemi dell’atterraggio: la zona prescelta sembra che abbia un suolo solido ma, come ha detto Von Braun, “chi ce lo assicura?”. E poi…» […] Cos’è questo rombo, Oriana, questo rumore? «È l’altoparlante che dal Centro Controllo ci dà le notizie sul conto alla ro vescia. Tutto procede bene.» Ma tu dove ti trovi, Oriana, mentre telefoni? «Nella tribuna stampa, dove vuoi che mi trovi?» D’accordo, ma com’è? Puoi descrivercela? «Bè, pensate alla tribuna stampa di uno stadio di calcio. Più o meno è così. Ci sono scalinate e tavoli che girano lungo le scalinate e sedie per stare sedu ti. Tutto qui. Ogni posto è stato rigorosamente assegnato, come gli apparec chi telefonici, ma non tutti hanno un apparecchio telefonico: per conquistar lo io ci ho messo tre giorni. Sicché me lo tengo stretto, non posso neanche alzarmi per andare a bere un caffè, Dio sa se ne avrei bisogno. Se mi allonta no, rischio di trovare qualcuno seduto al mio posto, capisci. E a proposito del telefono: fra poco sarà opportuno chiudere la comunicazione così vi richia mo più tardi e vi do notizie più fresche. Ma dovrò richiamarvi con un certo anticipo perché avere la linea è difficile e, una volta che l’avremo ottenuta, dovremo tenerla fino al momento del lancio: d’accordo?» D’accordo. Ora dacci qualche altra notizia di margine: chi c’è lì vicino a te, nella tribuna stampa?

ORIANA fAll AcI 397 Pronto, ci senti, pronto? «Non sento nulla, questa comunicazione diventa sempre peggio! Voi con tinuate a sentirmi?» Noi sì, abbastanza bene.

«Allora senti, ti dico un’ultima cosa e poi chiudo: O.K.? Ho la gola secca e nessun’altra notizia da darti per il momento. Solo una osservazione da fare e che mi sembra più che doverosa. Nessuno, proprio nessuno, ha ricordato Jules Verne, il suo libro Dalla Terra alla Luna. Armstrong, è vero, ha chiamato Columbia la capsula madre: Columbia è il nome dell’astronave descritta da Jules Verne. Ma nessuno ha rilevato questo particolare. La società Amici di Jules Verne, mi pare che si chiami così, sta raccogliendo soldi per costruire un monumento a Verne qui a Cape Kennedy: ma è una società composta di inglesi, danesi, francesi, insomma europei. Nemmeno un americano. E allo ra ricordiamocelo noi che Verne descrisse il viaggio alla Luna oltre un secolo fa e ce lo descrisse più o meno come sta avvenendo questo giorno di luglio 1969. La sua astronave partiva proprio qui, dalla Florida: non è straordina rio? E mi sembra che partisse proprio un giorno di luglio, senza dubbio d’e state. Con tre uomini a bordo. E il razzo era fatto proprio come razzo Saturno, in larghezza ed altezza, e il tempo per arrivare alla Luna era quello che im piegherà l’Apollo 11, con lo scarto di due o tre minuti. Non è straordinario? La fantasia umana, la fantasia di Jules Verne, aveva già previsto tutto un secolo fa. A me pare che l’Apollo 11 avrebbe dovuto chiamarsi Jules Verne.» Certo, sarebbe stato un bel gesto. Allora adesso facciamo stop. Ci risentiamo al momento del lancio, d’accordo? «D’accordo, ciao, a dopo. Mettete a posto quello che ho detto perché sono molto stanca e non so più che cosa ho detto.» * * * A Milano sono le quindici e qualche minuto, a Cape Kennedy sono passate da poco le nove. L’Apollo 11 partirà alle quindici e trentadue minuti, ora italiana. La televi sione trasmette panoramiche sulla pista di lancio e le tribune. Sui teleschermi della nostra redazione appare l’immagine di Oriana Fallaci che, col telefono all’orecchio, s’è rimessa in comunicazione con noi. La comunicazione durerà finchè l’Apollo non sarà scomparso nel cielo. […] Ormai il lancio è sicuro, vero? «Sarà sicuro quando mancheranno quindici minuti esatti. Stanno per scadere…»

Tu come controlli il tempo?

«Ho davanti una colonna con uno schermo sul quale compaiono i secon di che scattano. Ogni quarto d’ora la voce di uno speaker ci ha dato notizie. Spero, al momento del lancio, di farvi sentire per telefono il rombo del razzo e l’applauso della folla. Sospendiamo per qualche minuto…»

sQUARcI DI MONDO398 * * * Pronto? «Sì, pronto, sono qui. Stavo prendendo fiato… Mancano solo cinque mi nuti. Lo senti l’altoparlante che dice: “Minus five minutes”? Stanno tutti in cominciando ad apparire nervosi. Ma la conta a rovescio procede bene e co munque, anche volendo, ora non la si potrebbe fermare più. Almeno quindici minuti, entrano in azione alcuni dispositivi che non si possono fermare… Lo sai che sono nervosa anch’io?» Dopo il lancio andrete tutti a Houston, no? «Ovvio, il volo viene controllato di lì. A Cape Kennedy non avviene che il lancio vero e proprio. Il Centro Controllo è a Houston. Non sarà facile uscire di qui per correre all’aeroporto… Con questa folla… Meno tre minuti… Oddio, ci siamo! Solo tre minuti. Lo vedi il razzo?» L’abbiamo inquadrato sullo schermo. È bello. «Oh, la televisione non può dare neppure una vaga idea di quanto sia bello. Alla televisione è alto dieci centimetri e non ci sono colori e non c’è… non c’è Cape Kennedy. Meno un minuto. Senti la voce che dice: “Minus one minute”. Ci siamo, ci siamo davvero, davvero! Ora indirizzo il ricevitore verso gli alto parlanti, così senti la conta a rovescio degli ultimi secondi. Io sto tremando.» (Si ode la voce in inglese: la conta a rovescio è ora a meno di trenta secondi. La vo ce apparentemente emozionata scandisce: «Thirty, twenty nine, twenty eight, twenty seven, twenty six, twenty five». Si sovrappone quella della Fallaci: «Terrò il ricevitore dalla parte del razzo! Così sentirai l’esplosione e poi il rombo!». «Twenty, nineteen, eighteen, seventeen, sixteen, fifteen…» E al meno dieci la Fallaci ci trasmette di pro pria voce la conta ma è così emozionata che sbaglia i numeri ed ha la voce incrinata dal pianto).

«Eccolo, eccoci… meno otto, nove, sei, cinque, sette, quattro, tre, due, uno, fuoco! Dio, Dio, Dio!» (Alla televisione si vede un gran fumo bianco uscire dal razzo poi il fumo si scurisce e si allarga in corolla).

«Lo vedete? Non s’è ancora alzato, ecco, si alza, sale, guarda come sale, bello diritto, che lancio! Mai visto un lancio così! Perfetto! Lo senti il rumo re? Qui c’è stato uno spostamento d’aria che ci ha quasi buttato per terra… Guarda come sale… come sale! Dio, ci vorrebbe Omero per descrivervi quello che vedo! Dio, a volte gli uomini sono così belli! Sentilo, il rombo! Sembra un bombardamento, ma non ammazza nessuno, mioddio! Oh, che cosa stupen da… si alza così lentamente, sai, lentamente… va sulla Luna… la Luna… Vorrei che oggi nessuno morisse.»

ORIANA fAll AcI 399

Sono ai piedi della scaletta A Houston, quella sera, non si vedeva la Luna. Era coperta da nubi fitte, nuo vamente gonfie di pioggia. E in quel cielo senza Luna, nuovamente gonfio di pioggia, arrivarono le otto e mezzo che divennero presto le nove: alle otto e mezzo Armstrong e Aldrin non erano ancora pronti ad uscire. Le nove diven nero presto le nove e mezzo: neanche alle nove erano ancora pronti ad uscire. Alle nove e mezzo il Centro Controllo annunciò che erano pronti e mancava circa un quarto d’ora all’apertura dello sportello. Allora nell’auditorium ci mettemmo a fissare l’enorme schermo dove si avvicendavano, allineate, le informazioni dei cervelli elettronici. L’informazione che ci interessava era al penultimo rigo, dove stava scritto PLSS. Significa: Post Landing Survival System, ed è in sostanza il contenitore di ossigeno che gli astronauti si attac cano dietro le spalle e poi mettono in funzione al momento in cui la cabina del LM viene depressurizzata e lo sportello si apre. Accanto alla parola PLSS leggevi, fino alle nove e quarantacinque di sera, sei zeri: 00: 00,00. Ma alle nove e quarantacinque l’ultimo zero divenne un uno e poi un due e poi un tre e i secondi divennero con velocità pazza minuti e sapemmo che la cabina era stata completamente depressurizzata, lo sportello aperto. In principio ci furono solo le voci. Infatti la macchina da presa della tele visione era chiusa in un settore del LM che poteva essere azionato solo dall’e sterno e, per azionarlo, Armstrong doveva uscire, poi scendere fino a me tà scaletta. Le voci giungevano a noi molto nitide e non erano le solite voci di pietra, erano voci molto preoccupate, molto incerte. Soprattutto quella di Armstrong che finalmente tremava come deve tremare la voce di un uomo che la prima volta mette piede sopra la Luna. Tremavamo anche noi, però. Dio, come tremavamo. […] … in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e vedemmo ciò che vedeste anche voi, ciò che vide tutto il mondo, vedemmo la zampa del LM, la parte inferiore del LM, e l’orizzonte della Luna. E poi vedemmo quel piede, quel grande piede che scendeva a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stesso tempo così deciso. E dal Centro Controllo Bruce McCandless gridò: «Man! Riceviamo una immagine sulla TV! Oh, man!». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella immagine, eh?», e Bruce Mc Candless aggiunse: «Neil, Neil! Ti vediamo scendere per la scala a pioli!». Erano le nove e cinquantasei, ora di Houston. E nell’auditorium tutti ripe tevano con Bruce McCandless: «Man! Oh, man». Che vuol dire uomo. Uomo, non Dio. E mentre invocavano l’uomo invece di Dio Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò costava fatica, ma non gli costava nessuna fatica e riprese a scendere cauto, deciso. E presto lo vedemmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo piolo dove ebbe un momento di esi tazione perché l’ultimo piolo è assai alto, per scendere sopra il piattello della zampa del LM bisogna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il saltino, il coraggio di uscire dall’acqua, lasciare l’ultima

sQUARcI DI MONDO400 onda e gettarsi sopra la riva. Ma poi il coraggio gli venne, e si buttò giù e fu dentro il piattello. E le sue prime parole sulla Luna furono queste: «Sono ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder… i piedi del LM sono affon dati nella superficie per circa uno, due pollici… la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvicini. È come polvere. Fine, molto fine. Ora esco dal piattello del LM».

È questo che disse. La frase su cui fecero i titoli sui giornali la disse dopo. La frase che tutti avevano tentato di indovinare, cosa dirà Neil al momento di fare il primo passo sopra la Luna, dirà fantastico, dirà perbacco ragazzi, e lo avevano tormentato tanto, povero Armstrong, lo avevano esasperato al punto che per non deludere l’attesa lui ci aveva pensato, alla frase, e l’aveva trovata, e l’aveva confidata a una sola persona: sua madre. L’ha raccontato lei stessa; «Venne a domandarmi cosa ne pensavo, sembrava così preoccupato, e io gli dissi che mi sembrava un bel discorso. Allora mi fece giurare che non l’avrei detto a nessuno». Non era un gran bel discorso, ammettiamolo. Era una fra se retorica, e suonava un pochino falsa, un pochino buffa, dentro il suo gergo tecnico da pilota. E, quasi ne fosse cosciente, Armstrong la pronunciò molto in fretta, in un sussurro carico di imbarazzo: «That’s one small step for man, one giant leap for mankind. Questo è un piccolo passo per l’uomo, è un salto gigantesco per l’umanità». Ce l’abbiamo fatta L’alba si levò con l’angoscia, quel lunedì 21 luglio. A mezzogiorno e cinquan tacinque il LM avrebbe acceso i motori e il destino dei primi due uomini giun ti alla Luna si sarebbe deciso, insieme alla loro leggenda. Vie di mezzo non ne esistevano: o il LM si alzava o non si alzava. Se non si alzava, o si alzava male, non c’era nulla da fare fuorché sperare che morissero bene e senza troppe sofferenze. Uno dei timori era dato dal fatto che il LM fosse allunato, anziché su un piano perfetto, con una inclinazione di quattro gradi e mezzo: sulla Terra, durante i collaudi, s’era infatti accertato che la condizione prima per un perfetto decollo era data da un’assoluta mancanza di inclinazione. A Houston si riempirono di nuovo le chiese, due astronauti cattolici furono visti entrare, quasi di nascosto, nella chiesa di Nassau Bay, andar dritti all’altare dove il prete celebrava la Messa e comunicarsi. Uno era Richard Gordon, cioè colui che nell’Apollo 12 prenderà il posto di Mike Collins. Aveva sempre detto di nutrire nel LM la più totale fiducia, ma come gli altri sapeva che se teori camente non c’era ragione per cui il LM non si alzasse, praticamente ciò era possibile: il LM non era mai stato collaudato sulla Luna, cioè in condizioni totalmente diverse come la mancanza di atmosfera e la diversa gravità. E poi c’era il problema di quei quattro gradi e mezzo di inclinazione con cui era allunato. […] … il dramma di quella mattina non ebbe nulla di spettacolare: anziché rac contare tutto, come aveva fatto finora, la NASA nascose molta parte del dia

Buzz Aldrin: «Roger. Inserito modulo automatico».

Armstrong: «Tutti i segnali di navigazione sono sul go. Chiudo».

Ron Evans: «Tranquillità, vi mancano dieci minuti e tutto va bene. Potete inserire il modulo automatico».

ORIANA fAll AcI 401 logo fino a cercar di sopprimerlo. In tutte le ore che precedettero il decollo e fino a meno di cinquanta secondi si cercò di esibire un certo ottimismo, una esagerata fiducia che tutto sarebbe andato benissimo. Non si capisce bene perché. Certo non per le famiglie degli astronauti: le loro mogli erano più allegre di sempre, pettinate truccate e incoscienti. Certo non per scaramanzia: nessuno lì è superstizioso. Sicché è ragionevole con cludere che fu per ragioni politiche: il successo dell’Apollo 11 era stato co sì assoluto, così clamoroso, che turbarlo con una aggiunta di problemi non avrebbe giovato. Bisognava dimostrare che il grande paese sapeva stravince re. Poco prima che avvenisse il decollo del LM, sir Bernard Lovell rivelò ciò che la NASA sapeva già da molto tempo: nel tentativo di atterrare, il Luna 15 era andato a fracassarsi a qualche centinaio di chilometri dal LM E l’ora difficile, la più difficile, giunse. L’ora in cui due tonnellate e mezzo di carburante avrebbero incominciato a bruciare nel motore d’ascesa del LM e a spingerlo verticalmente a una velocità di 6.068 piedi al secondo, fino a portarlo a 60 mila piedi dalla superficie lunare, metterlo in orbita, farlo ag ganciare all’astronave di Collins, iniziare il lungo viaggio di ritorno alla Terra. Ora tutti potevano udire, i misteri erano finiti. E le voci erano limpide mentre i numeri della conta a rovescio si vedevano veloci sul monitor.

Aldrin: «Controllate la direzione di guida sull’AGS. Chiudo».

Armstrong: «Sissignore, non potrebbe andar meglio».

Evans: «Qui Houston. Tranquillità: meno cinquanta secondi. Pronti per l’accensione.

Armstrong:Chiudo».«Pronti per l’accensione».

Armstrong: «Mille piedi. Duemila. Duemiladuecento. Tremila. Ce l’abbia moEvans:fatta!».«Dio ti ringrazio. Il mondo intero, ragazzi, vi stava tirando su. Dio, ti ringrazio».

Evans: «Neil, ti leggo sul VHF (Very-High-Frequency, cioè frequenza altis sima) e hai l’aria di sentirti a posto».

Evans: «Tranquillità. Qui Houston. Meno due minuti e tutto va bene».

Aldrin: «Avanti. Otto. Sette. Sei. Cinque. Quattro. Motore di ascesa inserito. Tre. Due. Uno. Accendo. Su! Andiamo su! Eccolo là il nostro cratere».

Neil Armstrong: «Ambedue le batterie ED (Explosive Device, cioè conge gno esplosivo, per l’accensione) sono sul go. Chiudo».

sQUARcI DI MONDO402 Il ritorno sulla Terra

Houston: «Avanti con le cose che avete da dire. Tocca a Mike».

Aldrin: «Buonasera. A me lasciate dire gli aspetti simbolici di questo volo perché siamo arrivati alla conclusione che questo è qualcosa di più del viag

Armstrong: «Siamo contenti di saperlo».

Houston: «Intanto vi potrebbe interessare che Janet Armstrong e i bambi ni e Pat Collins e i bambini e Joan Aldrin sono qui a guardare».

Collins: «Questo nostro viaggio alla Luna a voi può essere sembrato sem plice e facile, ma io vi dico che non è stato davvero un gioco. Tanto per comin ciare, quel razzo Saturno 5 messo in orbita è una macchina incredibilmen te complicata anche se ha lavorato straordinariamente bene. Ma tutto qui è complicato. Questo computer dietro la mia testa ha un vocabolario di tren tottomila parole. Ciascuna parola è stata scelta accuratamente con uno spe ciale significato per noi dell’equipaggio. E questa valvola che ora ho in mano è composta a sua volta di altre 300 valvole. E oltre a questo vi sono miriadi, semplicemente miriadi di fili, sottofili, nastri, sottonastri e altri aggeggi di controllo. Il motore SPS (Service Propulsion System, cioè sistema di propul sione di servizio), il motore più grande che abbiamo sul modulo di comando, ha funzionato benissimo in orbita lunare e deve funzionare bene anche in orbita terrestre, altrimenti…, i paracadute che sono qui sopra alla mia testa e che domani, sono certo, funzioneranno egregiamente sono anch’essi me no semplici di quel che sembra. Però noi abbiamo sempre avuto una grande fiducia che tutto questo “equipment” avrebbe funzionato bene e questo, la sciatecelo dire ora che stiamo tornando a casa, è stato possibile solo attraver so il sangue e il sudore e le lacrime di un mucchio di gente. Prima di tutto gli operai americani che hanno messo insieme i pezzi di questa macchina nel le fabbriche. E poi il lavoro di tutta quella gente che ha messo insieme i vari pezzi, e poi il lavoro di tutta quella gente che, giù alla NASA , ha preparato gli strumenti, la missione del volo: quelli che sono rimasti al controllo del volo e quelli che hanno allenato noi dell’equipaggio».

Armstrong: «Houston, buonasera. Questo è il comandante dell’Apollo 11. Cento anni fa Jules Verne scrisse un libro sul viaggio dalla Terra alla Luna. La sua astronave, Columbia, partì proprio dalla Florida per ammarare nell’Oce ano Pacifico dopo aver completato un viaggio fino alla Luna. Ci sembra giu sto oggi dividere con voi a Terra alcune delle riflessioni che l’equipaggio della moderna Columbia ha fatto oggi nel momento di entrare nel corridoio terre stre e prima di entrare nell’Oceano Pacifico. Do la parola a Mike Collins».

Questo è il dialogo registrato l’ultimo giorno di viaggio di ritorno alla Terra. La missione dell’Apollo 11 sta per concludersi, dura ormai da 177 ore e mez zo. Fra 17 ore e 48 minuti la capsula ammarerà nelle acque del Pacifico a 24 miglia dalla portaerei Hornet. I tre cosmonauti sentono il desiderio di fare alcune considerazioni sul volo e sugli aspetti simbolici della conquista della Luna, sull’esplorazione dello spazio.

ORIANA fAll AcI 403 gio di tre uomini fino alla Luna. È qualcosa di più dello sforzo di un governo e di un’industria, è qualcosa di più dello sforzo di una nazione. A me sembra che questo sia il simbolo dell’insaziabile curiosità umana che vuole esplorare l’ignoto. La dichiarazione che ha fatto Neil l’altro giorno, “è un piccolo passo per l’uomo ma un grande salto per l’umanità”, a me sembra proprio giusta. A me sembra che sintetizzi tutto ciò che sentiamo noi tre in questo momento. Noi abbiamo accettato la sfida di andare alla Luna. Questa sfida era inevitabi le. È stato relativamente facile, in fondo, completare questa azione. Io penso che oggi noi siamo assolutamente capaci di sviluppare l’esplorazione dello spazio. E questa Aquila dovrebbe andare un po’ più lontano della Luna. Per sonalmente, quando io rifletto sugli avvenimenti degli ultimi giorni, penso al verso dei Salmi ed è questo: “Quando io guardo i cieli, il lavoro delle tue di ta, la Luna e le stelle che tu hai ordinato, mi chiedo, o Signore, come tu abbia tempo per occuparti anche di noi”». Armstrong: «Qui Armstrong. Io voglio dire soltanto che la responsabilità di questo volo spetta anzitutto alla storia. Ai giganti della scienza che hanno preceduto il nostro sforzo. Poi direi al popolo americano che ha insistito nel desiderio di andare alla Luna e poi ai governi e al Congresso degli Stati Uniti che hanno approvato il progetto, poi alle industrie che hanno costruito le no stre astronavi. Ed è a loro che io vorrei inviare prima di rientrare sulla Terra il nostro ringraziamento. A tutta la gente che stanotte ci ascolta e ci guarda: che Dio vi benedica. Buonanotte dall’Apollo 11 e arrivederci a tra poco». Questo è il dialogo registrato nell’ultima parte del volo di ritorno. Mancano esattamente tre minuti e quarantacinque secondi allo splash down.

3. Perché la partenza dell’Apollo 11 è paragonata alla nascita di un bambino?

8. «Gli uomini sono così: inventano la bomba atomica, uccidono con essa centinaia di migliaia di creature, e poi vanno sulla Luna. Né angeli né bestie ma angeli e bestie». Ripensando alle tue conoscenze storiche, a testi letti, incontri fatti o film visti, spiega il significato di questa affermazione di Oriana Fallaci ed esprimi un tuo commento personale.

7. Dopo che è stata conquistata, può la Luna essere ancora un’attrazione per l’uomo? Argomenta la tua risposta attraverso riferimenti alla tua esperienza, a letture, film…

sQUARcI DI MONDO4041.A

6. Sottolinea nel testo le frasi degli astronauti e della giornalista Fallaci in cui emerge la consapevolezza della straordinarietà dell’evento che stanno vivendo.

cosa viene paragonato il razzo per mettere in risalto la sua bellezza?

2. Che atmosfera si respira a Cape Kennedy e nella tribuna stampa?

4. Quali comportamenti rendono gli astronauti poco umani agli occhi della giornalista? Quando traspare, invece, la loro umanità?

5. Quali straordinarie analogie si possono riconoscere tra il viaggio dalla Terra alla Luna immaginato da Jules Verne e quello realmente compiuto dall’Apollo 11?

9. Durante il viaggio di ritorno alla Terra, Aldrin commenta la conquista della Luna dicendo: «A me sembra che questo sia il simbolo dell’insaziabile curiosità umana che vuole esplorare l’ignoto». Quando la curiosità è stata il motore che ti ha mosso in un percorso di conoscenza? Racconta come e cosa hai scoperto.

…Cinq, quatre, trois, deux, un… décollage! Cumuli di fumo bianchissimo intor no all’Ariane, poi l’enorme veicolo si alza lentamente, quasi con leggerezza. Ecco le fiamme incandescenti dei motori. Sembra una scena al rallentatore.

Fin dai suoi primi passi sulla terra l’uomo, affascinato dalle stelle, ha studiato il cie lo con ogni mezzo a sua disposizione. Nei secoli la visione della forma dell’universo è cambiata più volte radicalmente, ma mai l’attrattiva del cielo è venuta meno: da questo brano dell’astrofisico Bersanelli possiamo avere un’idea di quali siano, oggi, le sfide per l’appassionata ricerca di tanti studiosi. Piove a dirotto e tira vento mentre il furgone ci trasporta al luogo dal quale dovremmo assistere all’evento. È la mattina del 14 maggio 2009 e siamo a Kourou, in Guyana francese, nella base di lancio dell’ESA1. La finestra utile è di soli 55 minuti. «Con questo maltempo mi sa che si rimanda tutto a do mani», faccio ad Anna, che mi risponde: «Mah, vediamo… qui all’equatore il tempo cambia in un attimo». E io: «Ma figurati… guarda che diluvio!» Quan do arriviamo, dieci minuti dopo, splende il sole. L’Ariane 5 è là, pronto sulla rampa di lancio, a 4 chilometri di distanza, come richiesto dalle norme di sicurezza. In cima all’enorme lanciatore, alto 52 metri, un prezioso carico attende di essere spinto a un milione e mezzo di chilometri, lontano da qua lunque disturbo terrestre. Diciassette anni di lavoro di centinaia di perso ne sono appoggiati su 780 tonnellate di carburante che stanno per prendere fuoco. Mancano due ore, non rimane che attendere, ma è dura. Mi trovo lì con Daniele, Anna, George, Jean-Michel, François, mentre Reno, Chris, JeanLoup, Jan, Charles seguono gli eventi da un altro sito, poco distante; molti al tri del team, sparsi in mezzo mondo, seguono da remoto2; ma siamo tutti lì, è un’unica grande trepidazione. Proviamo a scherzare ma i sorrisi sono tesi, le conversazioni si inceppano. Solo George, che quella tensione l’ha già vissuta vent’anni fa con il suo COBE, cerca di tenere alto il morale. Planck è uno dei satelliti più sofisticati mai realizzati. Il suo telescopio di 1,5 metri illumina due strumenti ad altissima sensibilità fortemente inte grati sul piano focale3. Per ottenere le prestazioni necessarie, una volta nello spazio i rivelatori saranno raffreddati a temperature estreme, fino a un deci mo di grado sopra lo zero assoluto, qualcosa che non è mai stato fatto prima.

1 ESA: è l’Agenzia Spaziale Europea, che vede la collaborazione dei diversi Paesi per realizzare progetti riguardanti l’esplorazione e lo studio dello spazio, tra cui quelli a cui il brano fa riferimento con il lancio del telescopio spaziale Planck.

I confini del cosmo, i confini della scienza

405 MARCO BERSANELLI

2 da remoto: cioè collegati, via internet, da altri Paesi e continenti.

3 piano focale: è il piano su cui si forma l’immagine; i sensori dei due strumenti, quindi, si trovano su questo piano.

sQUARcI DI MONDO406 La prima manciata di secondi scorre nel silenzio assoluto, poi arriva il fron te del suono: è un colpo allo stomaco, un tuono che non finisce mai, anche a quella distanza ci fa vibrare le budella, non si sa se per la pressione acustica o per l’emozione violenta. L’Ariane sale verticale, continua a salire… È a quel punto che mi rendo conto che, veramente, si tratta di un viaggio di sola an data. Lo strumento intorno al quale abbiamo lavorato, sofferto, sperato per anni, senza risparmiarci, che ha visto crescere decine di giovani di grande talento, per il quale abbiamo chiesto sacrifici non solo a noi stessi ma anche alle nostre famiglie, sta lasciando il nostro pianeta per non ritornare mai più. Sono paralizzato dalla tensione. «Vai, vai, vai…» è tutto quello che riesco a bi sbigliare. Mi giro verso Daniele, lì vicino, e vedo che è anche più emozionato di me. Non riusciamo a dire niente, solo qualche verso. Dopo 2 minuti e 30 secondi, in perfetto orario, i boosters1 si staccano. È una piccola esplosione che per un momento ci fa sobbalzare. Tutto bene. Ma manca ancora l’operazione più delicata: la separazione di Planck e del suo compagno di viaggio, un telescopio infrarosso chiamato Herschel, in onore del grande William2. Quando, 28 minuti dopo il lancio, la sala di controllo co munica che anche quel distacco è avvenuto regolarmente, finalmente uscia mo dall’apnea, ricominciamo a respirare. Abbracci, occhi lucidi, brindisi. In fondo, però, sappiamo di essere solo all’inizio di una nuova, lunga e difficile fase dell’impresa. A quel giorno sono seguiti due mesi di viaggio verso l’orbita finale, cinque settimane di calibrazioni in-flight 3 , quattro anni di osservazioni ininterrotte, altri tre anni di delicatissima analisi dati… ed ecco, finalmente, davanti a noi l’immagine più accurata mai ottenuta dell’universo bambino. È un mondo informe, incandescente, primordiale. […] È una sorta di ecografia prenatale dell’universo. […] L’accordo tra i dati sperimentali e la curva teorica ha dell’incredibile! I dettagli del modello dipendono da soli 6 parametri liberi4, che incorporano le caratteristiche fisiche essenziali dell’universo. Il perfetto accordo fra i dati e la teoria significa che quella manciata di numeri, inseriti nel quadro della 1 boosters: motori che danno al razzo una potenza aggiuntiva nella prima fase di decollo.

2 William Herschel (1738-1822), astronomo, fisico e musicista di origine tedesco ma naturalizzato britannico. Cominciò da autodidatta lo studio dell’astronomia, costruendosi telescopi di diverso tipo con cui, osservando il cielo, scoprì accidentalmente il pianeta Urano, credendolo una cometa. Nei suoi studi decise anche di contare, con un procedimento statistico, il numero delle stelle, arrivando a descrivere la struttura tridimensionale della Via Lattea. Scoprì, infine, per via sperimentale, i raggi infrarossi.

4 parametri liberi: si tratta delle caratteristiche con cui si descrive l’universo, indipendenti l’una dall’altra.

3 calibrazioni in-flight: regolazioni in volo degli strumenti a bordo di Planck, per rendere più precisi i dati raccolti.

MARcO BERsANEll I 407 relatività generale1, sono davvero sufficienti a descrivere fedelmente i tratti essenziali dell’universo. Il cosmo iniziale era di una semplicità disarmante. E le misure di Planck permettono di estrarre il valore di quei parametri con grande precisione. Per un pugno di numeri […] E forse è proprio qui che incontriamo la più sorprendente caratteristica dell’universo del XXI secolo: tutta la materia e l’energia che conosciamo – quel la di cui siamo fatti noi e sono fatte le stelle, i pianeti e tutte le cose a noi note – è soltanto il 5% della materia dell’universo. Il restante 95% è «terra incognita». Il sospetto che l’universo contenesse grandi riserve nascoste di materia era emerso già negli anni Cinquanta, e si era via via rafforzato. Le misure di rotazione delle galassie2 davano risultati incompatibili sia con la gravitazio ne di Newton sia con quella di Einstein, a meno di non ammettere che alla periferia delle galassie vi fosse molta più massa di quella rivelata dalla luce delle stelle. Come per la scoperta di Nettuno, anche qui un’anomalia gravi tazionale segnalava la presenza di una massa ignota. È stata chiamata «ma teria oscura», ma la si dovrebbe dire «cristallina»: infatti è perfettamente trasparente alla luce. I dati sul fondo cosmico confermano e precisano lo sce nario: per ogni grammo di materia ordinaria – protoni, neutroni, elettroni –ce ne sono 5,3 di materia oscura; e l’analisi dimostra che questa deve neces sariamente essere fatta di particelle di qualche altro tipo. Non sappiamo di che si tratta, ma una cosa è certa: è stata proprio la materia oscura che, con la sua gravità, ha guidato la formazione delle strutture cosmiche, sia nel pla sma primordiale sia nei miliardi di anni successivi. Per quanto possa appa rirci estranea, quella componente silenziosa e sfuggente dell’universo è un elemento cruciale per la sua fecondità. Se la materia ordinaria fa il 5% e la materia oscura il 25% del totale, allora all’appello manca ancora qualcosa come il 70% della sostanza dell’universo. E qui entriamo in un mistero ancora più fitto. […] 1 relatività generale: teoria dello spaziotempo elaborata a partire dalla teoria della relatività di Einstein, in cui questi due concetti non sono più intesi separatamente ma insieme. Ne deriva, perciò, una struttura dell’universo a quattro dimensioni: lo spazio tridimensionale e il tempo. 2 misure di rotazione delle galassie: viene misurata, a seconda della distanza dal centro galattico, la velocità di rotazione delle stelle rispetto al centro stesso.

sQUARcI DI MONDO408 Un romanzo che non finisce Si rimane impressionati dall’accuratezza con cui le nostre leggi fisiche, espresse nel linguaggio matematico, arrivano a descrivere processi che ac cadevano in un tempo, uno spazio e una condizione radicalmente diversi da quelli attuali. C’è qualcosa di prodigioso in tutto questo. Al tempo stesso, il pensiero che il 95% dell’universo è fatto di sostanze a noi ignote ci costrin ge a un serio atto di umiltà. Paradossalmente, abbiamo un’ottima compren sione di un cosmo del quale ignoriamo gran parte del contenuto. La ricerca dell’identità delle particelle che costituiscono la materia oscura è una delle più grandi sfide aperte della fisica attuale. Il futuro upgrade dell’acceleratore LHC del CERN1 – dopo la scoperta del bosone di Higgs – è la nostra prossima chance per un passo avanti. Se la soluzione dell’enigma della materia oscura è ardua, ben più lontana appare un’adeguata comprensione della natura fisi ca dell’energia oscura. Siamo in alto mare. In compenso oggi si è aperta una nuova straordinaria finestra sull’univer so. La recente scoperta delle onde gravitazionali, cento anni dopo la previ sione di Einstein, conferma che la gravità si esprime anche in forma ondula toria. È come una «seconda luce» che ci rivela fenomeni finora inaccessibili, come collisioni fra buchi neri o stelle di neutroni. I futuri telescopi di onde gravitazionali, da terra e dallo spazio, ci mostreranno un nuovo volto dell’u niverso. È una prima assoluta. Quando in passato ci siamo trovati in situazio ni simili, l’universo ci ha sempre riservato grandi sorprese. I fronti aperti sono molti. Anche lo scenario del Big Bang è incompleto e pone nuove domande. […] Il grande spettacolo del cielo L’aria è tersa questa sera, e allora usciamo all’aperto e inoltriamoci in una valle isolata per osservare il cielo con i nostri occhi disincantati di uomini del XXI secolo. Che cosa vediamo? Uno spettacolo che ci toglie il fiato. Oggi, come migliaia di anni fa, la volta stellata ci emoziona e ci turba, ci sussurra la nostra piccolezza di fronte alla vastità di ciò che esiste. È fredda, questa notte invernale. Le stelle di Orione, la luce di Aldebaran, i riflessi cristallini delle Pleiadi2 ci uniscono a ogni generazione umana del passato. La scena non è cambiata. L’intera storia dell’uomo è come un battito di ciglia nella scala di 1 CERN: è il centro di ricerca europeo, con sede a Ginevra, che si occupa della ricerca nucleare. Gli acceleratori servono a far accelerare le particelle fino a farle scontrare, per poterne poi studiare gli effetti. 2 Orione, Aldebaran, Pleiadi: sono nomi di stelle o costellazioni. Orione (o “il cacciatore”) è una costellazione visibile da gran parte del nostro pianeta; Aldebaran è la stella più luminosa della costellazione del Toro; le Pleiadi sono un ammasso di stelle sempre nella costellazione del Toro, visibili anche a occhio nudo. Interessante notare che questi nomi indicano alcuni protagonisti di miti greco-latini o derivano dalla tradizione islamica.

MARcO BERsANEll I 409 tempo del firmamento. Una generazione dopo l’altra, gli esseri umani hanno visto le stesse stelle brillare della medesima luce. Il cielo di questa notte è identico a quello che Herschel aveva scandagliato, che il cannocchiale di Ga lileo aveva violato, che la poesia di Dante aveva cantato, che Anassimandro1 aveva immaginato e che le sentinelle di Lascaux2 sentivano come un amico fedele.Stanotte il buio è particolarmente intenso. Siamo intimiditi dal numero di stelle che ora vediamo, anche il silenzio è insolito. La nostra stella fra quel la moltitudine, il Sole, è tramontata da molte ore, ma la sua luce ci raggiun ge ancora riflettendosi sul disco di Giove e di Marte, che splendono alti nel cielo. Quanto ingegno e quanta tenacia ci sono voluti, da Aristarco a Keple ro a Newton, per svelare il segreto dei movimenti ribelli dei pianeti. Viene da chiedersi che ne sarebbe stato della nostra possibilità di comprendere le leggi dell’universo senza la loro continua sfida alle nostre teorie e ai nostri pregiudizi.Lestelle non sono soltanto belle a vedersi, sono essenziali per la nostra vita. È commovente pensare che la sostanza di cui sono fatti i nostri occhi, i nostri nervi e le nostre ossa è stata generata in stelle come quelle che ora stiamo ammirando. La fusione nucleare al loro interno è per noi doppiamen te vitale: fornisce l’energia al Sole, dal quale come oggi sempre dipendiamo totalmente, e ha prodotto gli elementi essenziali per il cammino della com plessità. Fino alla vita. La quale ha trovato casa sul nostro piccolo pianeta. Altrove, non sappiamo. La luce delicata della Via Lattea ci incanta. Essa ci ricorda che tutte le stel le che distinguiamo nel cielo non sono che un’infima frazione, un centomi lionesimo, delle stelle che formano la grande spirale della nostra galassia. Ma anche tutte quelle stelle prese insieme non sono che la punta di un iceberg: noi non vediamo, né con gli occhi né con i nostri più sofisticati strumenti, la gran parte del corpo colossale della Via Lattea, fatto di una sconosciuta forma di materia perfettamente trasparente alla luce. Nell’aria limpida di questa notte la galassia di Andromeda è ben visibile, verso ovest. Sembra una goccia di Via Lattea che per sbaglio è finita fuori po sto. Ma sappiamo che in realtà si trova ben oltre i confini del nostro sistema stellare. La sua luce timida ci rammenta che anche la maestosa Via Lattea è soltanto un batuffolo di luce fra miliardi di galassie sparse nelle profondità

2 sentinelle di Lascaux: nelle grotte di Lascaux, in Francia, sono stati ritrovati dipinti rupestri risalenti a circa 20.000 anni fa che raffigurano scene di caccia e animali preistorici. Ma accanto o sul dorso di alcuni animali, compare talvolta anche una serie di punti, interpretata come il disegno di una costellazione (ad esempio le Pleiadi) o un calendario lunare. L’autore racconta, nel primo capitolo del libro, del fascino suscitato già nell’uomo preistorico (che non aveva tutti gli attuali strumenti di studio e osservazione dell’universo) dall’immensità e dallo splendore del cielo e il desiderio di conoscerlo che nasce da tale stupore.

1 Anassimandro: filosofo della Grecia antica, si interessò dello studio dell’universo fino a formulare il primo modello, nella storia umana, della struttura dell’universo.

7. Se nel percorso di questi tre anni hai incontrato figure di scienziati che, nel loro ambito, hanno aiutato la conoscenza a compiere un passo avanti, racconta la storia di uno di loro, facendo emergere in particolare quale novità ha portato.

8. Racconta quella volta in cui la sorpresa e lo stupore per ciò che avevi davanti ti hanno fatto mettere al lavoro. Spiega come ti sei mosso e se hai raggiunto o meno il tuo obiettivo.

5. Rileggi il paragrafo «Il grande spettacolo del cielo»: quali pensieri, quali riflessioni suscita, secondo l’autore, l’osservazione del cielo negli uomini e negli scienziati dei giorni nostri?

2. In che modo gli scienziati hanno cominciato a ipotizzare la presenza della materia oscura? Motiva la tua risposta.

sQUARcI DI MONDO410 dell’universo. La luce di Andromeda porta ai nostri occhi una realtà che risa le a 2,5 milioni di anni, un passato molto più remoto di quello che ci propon gono le stelle o la scia della Via Lattea. Il sipario del cielo non si apre solo sulla vastità dello spazio, ma anche sulla profondità del tempo. […] Ogni volta che alziamo gli occhi verso il cielo, in qualunque direzione, se il nostro sguardo si spinge abbastanza in profondità, stiamo guardando verso lo stesso punto: l’origine dell’universo.

3. Che caratteristiche ha la materia oscura? Perché viene chiamata così?

4. Il penultimo paragrafo viene intitolato «Un romanzo che non finisce». Cosa vuole comunicare l’autore con questo titolo? Sottolinea nel testo le frasi che danno ragione della tua risposta.

1. Nel racconto del lancio con cui si apre il brano, si coglie che l’autore considera questo momento come la fine ma anche come l’inizio di due diversi lavori: quali? Sottolinea nel testo le frasi che descrivono queste due diverse attività.

6. Scrivi un sommario in cui sono esposti i contenuti essenziali di ogni singolo paragrafo del brano.

La vita di quaggiù vista da lassù L’astronauta italiano Paolo Nespoli racconta l’esperienza che ha vissuto a bordo del la Stazione Spaziale Internazionale: guardando la Terra dall’alto ha potuto ammi rarne la straordinaria bellezza, ma ha anche percepito in modo più consapevole la sua fragilità. È proprio vero che a volte guardare le cose da un altro punto di vista ci aiuta a conoscerle meglio. A pochi giorni dall’arrivo sulla Stazione Spaziale Internazionale, in corri spondenza del solstizio d’inverno1, la Natura mi ha fatto subito un bel regalo: un’eclissi di Luna. Si è trattato di una spettacolare eclissi totale che dalla sta zione si vedeva benissimo, così come la si vedeva sulla Terra alle alte latitu dini. In Italia si è vista a malapena e, chi si è svegliato poco prima dell’alba, ha potuto scorgere almeno un’istantanea del fenomeno. La stazione spaziale ha degli oblò di dimensioni ridotte e quasi tutti rivol ti verso terra, per cui è difficile guardare il cielo. Abbiamo però la cupola, un vero e proprio osservatorio a 360 gradi, un posto che noi definiamo “la no stra finestra sul mondo”. Siamo molto affezionati a questo modulo perché ci consente veramente di abbracciare in un solo colpo d’occhio una vasta parte della Terra. E sebbene anche la cupola sia rivolta verso terra, consente una visione laterale abbastanza ampia per cui si riesce comunque a vedere buo na parte del cielo. Io, poi, ho anche un altro motivo per essere orgoglioso di questo gioiello ingegneristico: la cupola è stata costruita in Italia! L’eclissi totale di Luna si verifica quando la Terra si trova fra il Sole e la Lu na e blocca i raggi solari che non illuminano più il nostro satellite. In realtà la Luna non scompare mai del tutto, un po’ di luce indiretta trova il modo di ar rivare fievolmente fino alla superficie lunare. Visto dalla Terra, il colore della Luna dipende dal tipo e dalla quantità di particelle in sospensione nell’atmo sfera. Talvolta, dato che la luce di rimbalzo della Luna arriva sulla Terra fil trata dalle ceneri e dalle polveri scaraventate nell’atmosfera dall’eruzione di un vulcano, la Luna appare rossastra. Naturalmente dalla stazione spaziale vediamo la Luna au naturel, senza il filtro dell’atmosfera, e, quindi, questo fe nomeno si vede in modo molto attutito. In ogni caso, che tu sia sulla Terra o in orbita attorno a essa, lo spettacolo è garantito! E lo spettacolo che si vede dalla cupola non è confinato a pochi minuti al giorno, dura in continuazione. Infatti, da lì puoi ammirare il pianeta che con tinuamente scorre sotto di te, come un film cinemascope2 che non finisce 1 solstizio d’inverno: il 21 dicembre, quando il Sole ha la sua massima altezza nell’emisfero sud e la minima nell’emisfero nord. 2 cinemascope: sistema di cinematografia, oggi in disuso, che abbraccia un campo maggiore del normale, avvicinandosi a quello dell’occhio umano.

411 PAOLO NESPOLI

Il secondo è che questa nave è incapsulata in un guscio trasparente, l’at 1 grandangolo: obiettivo fotografico che copre un angolo di campo maggiore di quello degli obiettivi normali.

È una visione bellissima, e vorrei che tutti ne potessero godere, perché credo nel potere trasformante delle immagini e dell’esperienza.

sQUARcI DI MONDO412 mai, giorno e notte. Uno spettacolo davvero affascinante. Guardando questo pianeta blu stagliarsi contro il nero del cielo spaziale, a me è sembrato di ve dere un vascello brillante in navigazione in un oceano buio. Una nave gigan te, unica, viva, come non ce ne sono altre a perdita d’occhio nel cielo. Una na ve bellissima e ricca, ma anche fragile e delicata. Da lassù vedi come la Terra sia grande, ma anche piccola. Sfrecciando a 28.000 chilometri all’ora – quasi 8 chilometri al secondo –, nel giro di una manciata di minuti passi sopra a tutta l’Europa e, in men che non si dica, sei in Africa per poi ritrovarti qualche minuto dopo in Cina e subito dopo in Australia. E così via, senza fine.

L’Italia, la Francia, la Germania, l’Olanda, il Giappone, la Cina, l’Australia non sono più entità diverse, così come gli italiani, i francesi, i tedeschi, gli olandesi, i giapponesi, i cinesi, gli australiani non sono più popoli distinti. In realtà, siamo tutti marinai, marinai di un’unica nave chiamata “Terra”. E, vo lenti o nolenti, dobbiamo navigare. Non solo in mare, nel web, sulle onde della conoscenza, ma anche nell’ambiente in cui viviamo e nello Spazio che ci cir conda, prendendoci cura della nostra nave e di tutto quello che ci sta sopra.

Ho fatto migliaia di foto e ne ho inviate alcune sulla Terra quasi in tempo reale. Immagini di nazioni e continenti scattate con il grandangolo1: il Nord Europa, il bacino del Mediterraneo, la penisola del Sinai, lo Sri Lanka, la Nuo va Zelanda. Ma anche immagini dettagliate scattate con potenti teleobiettivi: Roma, Key West, Cancun, Brasilia, Delhi, il Gran Canyon, e tante altre note destinazioni turistiche molto familiari. Con questi scatti ho cercato di allac ciare un ponte emotivo e multimediale con il pubblico, gli utenti della rete e tutti i “terrestri”. L’Italia, poi, compare molto spesso nelle mie foto, forse un po’ per nostalgia, un po’ perché dalla stazione si vede benissimo. Ogni tanto l’attraversiamo da nord a sud come se fossimo sull’Autosole, ma senza paura del Tutor e senza dover pagare il pedaggio! Le reti sociali, coinvolte nel pro cesso di diffusione di queste immagini, sono un valido e interessante canale di comunicazione tra due dimensioni molto lontane: cielo e terra. E anche un modo per far sentire a casa chi invece vive per mesi in poco più di 350 metri cubi di volume abitabile. I viaggi spaziali, con le loro visioni d’insieme e di dettaglio, offrono la pos sibilità di vedere e percepire la Terra in un modo differente dal comune. Se, com’è successo a me, potessimo vedere la Terra come una “nave” planetaria che ci trasporta nell’Universo, sono sicuro che due fenomeni balzerebbero su bito all’occhio. Il primo è che la nave deve per forza essere in equilibrio, in quan to nulla vi entra o vi esce. Questo equilibrio deve per forza fondarsi su un eco sistema dove le risorse sono gestite attentamente, rigenerate e riutilizzate. E tutto ciò che non va in quella direzione, mina l’equilibrio dell’ecosistema stesso.

Le immagini dallo Spazio dimostrano come ogni intervento possa altera re profondamente l’ambiente e il paesaggio. Per esempio, ho scattato delle immagini molto belle del Mississippi in piena mentre straripava e allagava campi e città. Certo, ci si arrabbia quando questo succede e causa perdite di vite e danni economici ingenti ma, d’altronde, se si costruiscono argini a un fiume importante come questo, se si prosciugano aree di sfogo per costruirvi città, se lo si canalizza e lo si obbliga a sfociare nel punto più comodo a noi, non puoi pensare che prima o poi non accadano catastrofi. 1 ci prodigheremmo: dedicheremmo tutte le nostre energie.

Si tratta di percezioni che non ho quando sono sulla Terra, forse perché a terra la mia visione si ferma all’orizzonte di dove mi trovo, a quello che posso vedere e toccare, al giardino ben curato con il prato appena tagliato. E tutto il resto non mi riguarda, è lontano, e semmai influenzerà il vicino, i cittadini di un’altra nazione.

Potremo vedere da lassù la straordinaria bellezza del nostro pianeta, ma al tempo stesso ne percepiremo la fragilità. Potremo vedere, infatti, che il no stro modo di vivere ci porta a adattare il pianeta alle nostre necessità e non viceversa, anche se, di fatto, intervenendo sull’ambiente che ci circonda per renderlo più umano, stiamo causando cambiamenti apparentemente insi gnificanti, ma a lungo andare sostanziali.

PAOlO NEsPOl I 413 mosfera, che dall’orbita sembra una coperta leggerissima, pronta a evapora re o a dissolversi, e che un nonnulla può essere sufficiente a destabilizzare, o a distruggere. Una coperta che, se sparisse o solo ci scoprisse i piedi per un attimo, smetterebbe di proteggerci causando cambiamenti radicali: non po tremmo più sopravvivere e la Terra diventerebbe come la Luna o Marte.

Se tutti potessero andare nello Spazio e guardare la nostra Terra da lassù, sono convinto che ci impegneremmo più consapevolmente nella cura del no stro pianeta, adottando comportamenti maggiormente responsabili a livello ambientale, monitorando con attenzione i cambiamenti di cui siamo causa e controllando meglio l’evoluzione dei fiumi, dei laghi, dei vulcani, degli ocea ni… della Natura tutta. E ci sarebbe una consapevolezza diversa nell’utilizzo delle risorse. Ci prodigheremmo1 nella ricerca di nuove fonti di energia alter nativeSonoecosostenibili.convintoche in futuro il viaggio spaziale e le tecnologie collegate avranno un grande sviluppo. Come l’ha avuto negli ultimi cento anni il viag gio aereo, che, un tempo riservato a pochi temerari patologicamente insani e con le tasche gonfie di soldi, è oggi alla portata di tutti. Non abbiamo più neanche bisogno di andare all’agenzia di viaggi all’angolo per comprare un biglietto aereo intercontinentale, dato che possiamo farlo comodamente da casa nostra via Internet, con costi relativamente limitati. E, comunque, non sono più i costi a limitare la scelta delle mete, ma solo la nostra voglia di an darci. Immagino che sarà così anche per i viaggi spaziali attorno alla Terra, dove prevarrà la nostra voglia di essere in un posto diverso, di fare esperien ze nuove, di provare sensazioni fuori dalla norma.

Per l’astronauta di oggi e i viaggiatori di domani, lo Spazio è anche un gran de spettacolo, un intrattenimento che può migliorare la sensibilità scientifi ca, la coscienza del pianeta, e che può far sentire il mondo più unito donan doci una più forte consapevolezza di “globalità”.

Visto da lassù sembra ovvio che intervenendo pesantemente sulla natura in questo modo, cercando di condizionarla a nostra immagine e somiglianza, si finisce per cambiare sostanzialmente il sistema della circolazione dell’aria e dell’acqua, della sedimentazione dei fanghi e della conformazione delle co ste, provocando un impatto elevato sul territorio a livello geografico e orogra fico. E dovrebbe essere logico arrivare alla conclusione che i nostri interven ti forse sono la causa di turbolenze improvvise, correnti anomale, alluvioni, straripamenti.Senzacontare le migliaia di tonnellate di particolato1 che ogni giorno immettiamo nell’atmosfera. Ci sono aree della Terra che viste dallo Spazio sembrano opache, coperte perennemente da una leggera nebbiolina grigia o marrone. E lì vivono milioni di persone che filtrano questo particolato at traverso i loro polmoni. Come pensare che tutto ciò non danneggi la salute? La natura è sempre stata in equilibrio, un equilibrio che si è evoluto in milioni di anni. Un equilibrio relativamente stabile, ma con ogni probabilità fragile. È un sistema complesso e, sebbene l’uomo sia dotato di intelligenza e cognizione, è lontano dal conoscere i meccanismi intimi della natura, co sì come dal prevedere l’impatto su di essa quando in modo unilaterale ne cambiamo alcuni parametri. Non siamo ancora riusciti a scoprire come fun zionano molte attività del nostro corpo, né sappiamo esattamente come fun ziona il cervello, cos’è la coscienza, che cos’è l’anima. Il perché siamo unici. Come possiamo pensare di poter cambiare impunemente meccanismi natu rali che avvengono su scala mondiale da tempo immemorabile? Certo, que sto non vuol dire che non si debba intervenire sul nostro ambiente, ma so lo che dobbiamo farlo con maggiore attenzione, con la consapevolezza degli effetti, dei risultati, delle conseguenze secondarie delle nostre scelte e delle nostre azioni. Dovremmo muoverci con la delicatezza di un figlio che accu disce l’anziana Madre, una madre che ha milioni di anni e che ogni tanto ha bisogno di amorevoli carezze, di sorrisi e di quiete.

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1 particolato: termine usato nel linguaggio scientifico per indicare l’insieme delle fini particelle del pulviscolo atmosferico. 2 macroscopico: in grande.

Lo Spazio, la possibilità che ci dà di osservare il nostro pianeta e misurar ne l’evoluzione e i cambiamenti, ci fornisce strumenti scientifici importanti per capire meglio cosa abbiamo fatto e cosa non dovremmo fare. Ci permette di guardare la Terra in modo macroscopico2, di percepirne i cambiamenti in modo globale e, in sostanza, di usare una prospettiva privilegiata dalla quale trarre preziose indicazioni e altrettanto preziosi consigli.

6. Nespoli racconta di aver scattato «migliaia di foto» quando era sulla Stazione Spaziale Internazionale e di averle inviate in tempo reale sulla Terra. È infatti profondamente umano il bisogno di condividere con gli altri un’esperienza bella. Racconta di una volta in cui anche per te è stato importante rendere partecipe un’altra persona di quello che hai vissuto. Spiega inoltre a chi ti sei rivolto e perché.

1. Appena arrivato sulla Stazione Spaziale Internazionale Nespoli riceve il «regalo» di assistere a un’eclissi totale di Luna. Quando si verifica questo fenomeno? Ti è mai capitato di poterlo osservare di persona?

8. Nespoli afferma che dovremmo adattare il nostro modo di vivere alle necessità del pianeta e non viceversa. Confrontati con i tuoi compagni di classe sui comportamenti che puoi avere nella tua vita quotidiana per prenderti cura dell’ambiente, quindi scrivi un testo in cui esponi ciò che è emerso dal lavoro svolto in classe.

PAOlO NEsPOl I 415

2. Sottolinea nel testo tutte le parole o le espressioni usate dall’autore per comunicare lo stupore e la meraviglia che prova guardando il nostro pianeta dallo Spazio.

3. Nespoli paragona la Terra a una nave e i suoi abitanti sono i marinai. Quali caratteristiche del pianeta vuole mettere in luce attraverso questa metafora? E quale riflessione suggerisce sulla condizione di chi ci vive?

7. Immagina di essere proiettato nel futuro e di poter compiere un viaggio nello Spazio come turista. Documentati cercando foto, leggendo articoli e testimonianze di astronauti e descrivi in modo verisimile quello che vedi dalla tua cupola di osservazione.

4. Rintraccia nel testo le altre similitudini usate dall’autore quando parla della Terra e spiegane il significato.

5. Quale considerazione fa l’autore sull’evoluzione del viaggio aereo? Quale sviluppo immagina per i viaggi spaziali?

sQUARcI DI MONDO416 ALESSANDRO BARICCO

The game

L’autore va alla ricerca delle tappe fondamentali di quella che oggi consideriamo una «rivoluzione digitale»: da quali menti, da quali intuizioni e fatti è nato un nuo vo modo di comunicare e, sempre più fino ad oggi, di vivere e pensare? Il brano pro posto presenta, con ironia e precisione, alcuni dei primi più importanti cambiamen ti nell’avvento di questo nuovo mondo. Premessa inevitabile, ma molto importante. Se vogliamo riportare la galassia di eventi che chiamiamo RIVOLUZIONE DIGITALE a una spi na dorsale leggibile, a una catena montuosa che ci aiuti a capire, dob biamo forzatamente sintetizzare e rinunciare ad alcune sfumature. Ci serve registrare dei picchi, anche sacrificando il dettaglio di processi che magari sono durati decenni. In queste pagine si è scelto per lo più di rilevare gli eventi solo quando in effetti sono saliti sulla superficie del consumo collettivo, diventando scenari abitati da molti e non solo da élite particolari. […] Quel che suggerisco è che vi godiate la possibili tà di vedere tutto dall’alto, come in una fotografia aerea; ogni volta che potremo, planeremo giù a guardare da vicino. Promesso. Allora. […] Sono gli inizi degli anni ’80. 1981-1984 • Nel giro di quattro anni escono tre Personal computer che riassumono lun ghissime sperimentazioni e che riescono a sfondare sul mercato, converten do uno strumento d’élite in un oggetto che potevi immaginare di avere a casa anche se non eri un genio o un professore alla Stanford University: il pc Ibm , il Commodore 64, e il Mac della Apple. A vederli adesso sono di una mestizia desolante1, ma ai tempi dovevano sembrare perfino graziosi, e comunque passabilmente amichevoli. Dei tre, quello che ebbe meno successo commer ciale fu il Mac: era però il più geniale. Fu il primo a usare un’impostazione grafica e un’organizzazione del materiale capaci di risultare comprensibili anche a un idiota: c’era la scrivania, si aprivano delle finestre, si buttavano le cose in un cestino: gesti che la gente conosceva. Ci si muoveva sullo schermo spostando sul tavolo una strana cosa che si chiamava Topo. Si può capire che, da quel giorno, l’equazione tra intelligenza e noia iniziò a perdere colpi. 1 mestizia desolante: suscitano tristezza in chi li guarda per la loro struttura e le loro possibilità di funzionamento.

Non si capisce l’importanza di tutto ciò se non ci si concentra un attimo sulla P dell’espressione PC. Personal. Al giorno d’oggi il fatto che ognuno abbia un computer sembra scontato, ma non dovete dimenticare invece che la cosa, solo qua rant’anni fa, sarebbe suonata come una follia. I computer c’erano da anni, ma erano mostri enormi e covavano dati nei laboratori di poche istituzioni destinate per lo più a una qualche forma di do minio o supremazia. Pensare che finissero sulla vostra scrivania aveva ai tempi qualcosa di realmente visionario. Arrivo a dire che forse il vero atto geniale non fu tanto inventare i computer, quan to immaginare che potessero diventare uno strumento personale, individuale. Covava, in quell’idea, la singolare volontà di concede re a qualsiasi individuo un potere che era stato creato per essere di pochi. Incredibile. Per questo, quando uno guarda una foto di un Commodore 64, oltre a chiedersi se proprio dovevano adottare quel colore da malati1, deve capire che lì stava VERAMENTE giran do il mondo: non un minuto prima. […] 1982 • Sale in superficie, e non si può più nascondere, l’onda di digitalizzazione che sommergerà il mondo: viene commercializzato il primo CD di musica, cioè una registrazione tradotta in formato digitale e fissata in un supporto grande come un padellino. Per lanciarla sul mercato si misero insieme Phi lips e Sony: quindi Olanda e Giappone. Il primo CD commercializzato conte neva, inspiegabilmente, una musica di rara bruttezza: La Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss. […] Dicembre 1990 • Un ingegnere informatico inglese, Tim Berners-Lee, inaugura il World Wide Web, e cambia il mondo. È, ovviamente, un momento storico. Una buona metà del mondo in cui vi viamo nasce in questo istante, ed è una cosa che continuerei a dire anche se dopodomani il Web fosse spazzato via e sostituito da qualcosa di meglio [co sa che sta succedendo, peraltro]. Nell’invenzione del Web c’è un movimento mentale che in poco tempo diventerà una mossa abituale del cervello di mi liardi di umani: insieme a un paio di altre mosse stupefacenti, è ciò che fonda la nostra nuova civiltà. Dunque, concentrazione. […] Credo che sia utile partire da una notizia che non vi piacerà: Internet e Web sono due cose diverse. Lo so, è seccante, ma fatevene una ragione. Internet è nato prima del Web, molto prima. […] 1 colore da malati: il Commodore 64 era di un colore biancastro.

AlEssANDRO BARIccO 417 ZOOM

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Cosa inventò, esattamente, Berners-Lee? […] Ho imparato che le risposte possibili a questa bellissima domanda sono molte, tutte fatalmente impreci se o incomplete. Ne aggiungo una, la mia. Qualsiasi cosa sia il Web, Berners-Lee lo inventò facendo tre mosse precise.

L’autore racconta dettagliatamente la nascita di Internet: negli anni della Guerra

Fredda nasce un sistema di comunicazione (ARPANET) tra americani, senza che i comunisti potessero intercettare le informazioni. Questa tecnologia per rendere più computer in grado di comunicare tra loro viene poi perfezionata e utilizzata da al cune università americane, dentro la cerchia dei loro professori: nascono i network, delle reti di lavoro. Negli anni ’70, infine, due ingegneri informatici trovarono il mo do di far dialogare tra loro tutti i network del mondo: è la nascita di Internet, anche se all’epoca queste novità riguardavano solo i pochi che possedevano o lavoravano su un computer.

Tim Berners-Lee, un inglese che lavorava al CERN di Ginevra, inventa una cosa che chiama Web. [Per la prima volta vediamo apparire la vecchia Europa in questa storia, dove tutti gli eroi – tutti – sono americani, e spesso califor niani. Mi tocca aggiungere, per completare l’informazione, che Berners-Lee il Web lo inventò lavorando un computer americano: si chiamava NeXT e lo produceva una azienda californiana di cui è interessante annotare il nome del fondatore: Steve Jobs].

La prima nasce da una domanda: se con Internet posso mettere in comu nicazione tutti i computer del mondo, perché accontentarmi di così poco? Mi spiego. Immaginate il computer sulla scrivania del professor Berners-Lee e poi immaginatevi lo studio dove è messa quella scrivania. Bene. Adesso guar datevi intorno, vedrete certamente dei mobili, apriteli e concentratevi sui cassetti, molti cassetti, forse un centinaio di cassetti, tutti pieni di roba, pro getti, idee, appunti, foto delle vacanze, lettere d’amore, ricette mediche, CD dei Beatles, annate di fumetti Marvel, tessere del cineforum, vecchi estratti conto. E ora chiedetevi: perché non entrare direttamente in quei cassetti? Possibile che io possa solcare migliaia di chilometri (migliaia!) e poi, arriva to a due metri da quel cassetto (due metri!), non ci possa entrare perché mi fermo nel computer del professore? È stupido. Allora ne parlo col professor Berners-Lee. Lui sta ad ascoltare e poi, dato che ci sa fare, inventa un sistema per cui, modificando la struttura dei cassetti, mi permette di fare quei due metri e di andare a guardarci dentro. Non è naturalmente costretto ad aprir meli tutti, sceglie lui quali rendermi disponibili, ma quando li sceglie allora si applica a dar loro una struttura tale che io possa raggiungerli, e vederli, e gi rarci dentro, e perfino portarmi via quello che mi interessa. Come fa? Dupli ca il contenuto di quei cassetti in tante rappresentazioni digitali che colloca in un posto che chiama, con sublime semplicità, posto: o per meglio dire sito. Un sito Web. Lo immagina come un albero che si allarga coi suoi rami nello spazio: ogni foglia è una pagina, una pagina Web. Di cosa è fatto quell’albero? Rappresentazioni digitali, cioè testi, immagini, suoni che, formattati in lin

ChiWow.non vorrebbe una cosa del genere? Nessuno, e infatti eccoci qua. Nel 1991 c’era al mondo un solo sito Web: quello di Berners-Lee. L’anno dopo, gente di buona volontà ne aprì altri nove. Nel ’93 erano 130. Nel ’94, 2 mila 738. Nel ’95, 23 mila 500. Nel ’96, 257 mila 601. Oggi, mentre scrivo questa riga, sono 1 miliardo 284 mila 792.

AlEssANDRO BARIccO 419 guaggio digitale, vengono stoccati1 nel computer. Una volta lì, davanti a loro si apre l’immane rete “stradale” di Internet. È usando quella rete che i cassetti del professor Berners-Lee, duplicati in rappresentazioni digitali, si mettono in movimento: e raggiungono me. Il mio computer. Dove, alla fine del pro cesso, trovo quello che volevo: la collezione dei fumetti Marvel del professor Berners-Lee [le ricette mediche mi interessavano di meno]. Notevole, bisogna ammetterlo. Ma in fondo piuttosto prevedibile, se non fosse che il professor BernersLee piazza subito dopo una seconda mossa, questa veramente emozionante: per rendere le cose più semplici e spettacolari METTE IN COMUNICAZIONE TUTTI I CASSETTI TRA DI LORO. Voglio dire che quando io entro in uno, pos so, senza nemmeno richiuderlo, entrare in un altro, senza passare dal via. Faccio questo grazie a delle porticine che il professor Berners-Lee mette a punto e chiama link. Sono parole speciali, più che parole, iperparole, in genere compaiono in blu. Clicco sopra e finisco in un altro cassetto. Capite che la co sa inizia a farsi divertente. Se solo un’ora prima spedire un’e-mail mi poteva sembrare una cosa straordinaria, adesso che sfarfallo per tutti i cassetti del professore, limitarmi a spedire quella letterina mi sembra una afflizione2 in spiegabile, un giochetto da bambini. Molto meglio mettermi a viaggiare da un cassetto all’altro, da un sito Web all’altro. Soprattutto da quando il professor Berners-Lee ha deciso di rendere la cosa definitivamente divertente facendo la terzaInvecemossa.chetenerselo per sé o provare a venderlo, il professore (col per messo del suo datore di lavoro, il CERN di Ginevra) rende pubblico il sistema da lui inventato per aprire i suoi cassetti e dice una cosa molto semplice: se lo facciamo tutti, e attraverso i link colleghiamo tutti i nostri cassetti, ci tro veremo davanti a una formidabile ragnatela di cassetti in cui chiunque po trà liberamente viaggiare a suo piacere, guardando e prendendo quel che gli serve: otterremo un World Wide Web, una ragnatela grande come il mondo, percorribile da tutti, in cui tutti i documenti del mondo, che siano testi, foto, suoni, video, saranno a portata di mano. Poi aggiunge una cosa irresistibile: ah, dimenticavo, sarà tutto gratis.

1 vengono stoccati: vengono immagazzinati. 2 afflizione: dolore, sofferenza, limitazione.

Nasce un concetto, quello di COMPRESSIONE, che più tardi verrà applicato alle immagini fisse (generando il jpeg) e a quelle in movimento (mpeg). L’idea è che se trovi un sistema per togliere dalla versione digitale di un suono tutte quelle sequenze numeriche che non sono strettamente necessarie (ad esem pio quelle che registrano sfumature sostanzialmente inudibili dall’orecchio umano) quel che ti ritrovi in mano è un suono un po’ impoverito ma molto più leggero, quindi ancora più facile da trasportare, da spedire, da stoccare.

sQUARcI DI MONDO420 Come capite, le conseguenze di una simile slavina sono state immani. […]

Col cavolo che potreste sentire musica dal vostro cellulare senza un trucco del genere. [Inutile dire che, all’istante, il CD iniziò a sembrare il rimasuglio di una commovente civiltà passata].

[…] 1994 • Nasce a Seattle Cadabra , che non vi dirà nulla, ma dovrebbe farlo perché è il primo nome di Amazon . L’idea era quella di mettere su una libreria on line dove si potessero comprare tutti i libri del mondo. Era un’idea folle, ma l’uo mo che la ebbe riponeva evidentemente grande fiducia in un numero che è qui utile annotare, cioè l’indice di crescita annua che il numero di utenti del Web aveva fatto registrare l’anno prima: + 2300%. Oltre a cambiare il nome del sito (un anno dopo), il fondatore Jeff Bezos capì abbastanza presto che li mitarsi a vendere libri era scemo. Adesso su Amazon potete anche comprare un’automobile. O il phon. […] 1995 •[…]Nasce eBay, e lo fa, anche lui, in California. Mercato aperto a tutti, dove po ter vendere e comprare qualsiasi cosa. La prima fu un puntatore laser rotto. 1998 • Gran Finale. Due studenti ventiquattrenni della Stanford University (Sergej Brin e Larry Page) lanciano un motore di ricerca che chiamano con un nome imbecille: Google. Oggi è il sito Web più visitato al mondo. Quando lo imma

1990 • Tim Berners-Lee inaugura il World Wide Web e cambia il mondo. 1991-1992 • Niente di davvero notevole, che io sappia. Forse si dovevano rimettere dallo shock. 1993 • Un gruppo di ricercatori europei inventa l’MP3. È un sistema per rendere i file audio ancora più leggeri di prima e quindi il loro peso digitale minimo.

B. Realizzare il Personal Computer. È un gesto che viene da lontano e diventa davvero visibile a metà degli anni ’80 –con i tre PC citati – e irreversibile a metà degli anni ’90 – con l’avvento di Windows 95.

C. Mettere in contatto tutti i computer, metterli in rete. È un gesto che inizia con ARPANET nel 1969 e, passando attraverso l’invenzione del Web, arriva al traguardo nel 1998 con l’invenzione di Google. Sintetizziamo ulteriormente: quel che abbiamo fatto, nell’epoca classica, è stato ridurre allo stato liquido i dati che contenevano il mondo (A), costru ire una tubatura sconfinata in cui quel liquido potesse scorrere a velocità vertiginosa e sgorgare in tutte le case degli umani (C), e inventare rubinetti e lavabi molto raffinati che potessero fare da terminali di quell’immenso ac quedotto (B). Nel 1998 il lavoro era finito. Migliorabile, ma finito. […] Come 1 brand: marchio di fabbrica.

ginarono c’erano poco più di seicentomila siti Web: loro trovarono il modo di farti trovare, in meno di un secondo, tutti quelli che contenevano una ricetta delle lasagne, e di snocciolarteli in ordine di importanza. (Le lasagne sono solo un esempio: funzionava anche se cercavi protesi all’anca). La cosa stupe facente è che continuano a essere in grado di farlo adesso che i siti sono più di un miliardo e duecento milioni. Volendo usare una metafora cinquecentesca, se i browser ti procuravano i velieri per viaggiare nel grande mare del Web, se i portali come Yahoo! ti suggerivano rotte e pericoli, quei due trovarono in un colpo il sistema per calcolare longitudine e latitudine, e misero al servizio di qualsiasi navigatore un mappamondo in cui c’erano tutti i porti del piane ta, ordinati per importanza, confortevolezza e vocazione commerciale. Non vi stupirà sapere che attualmente il loro brand1, Google, è il più influente al mondo [qualsiasi cosa voglia dire].

Anche qui, al di là delle immani conseguenze economiche, assistiamo al l’introduzione di alcuni movimenti mentali che risulteranno decisivi nel pro filare la nuova civiltà che stava nascendo. Variazioni a qualsiasi logica cono sciuta, e posture mentali che non si erano mai viste: il nuovo assoluto. […] Per adesso fermiamoci qui e guardiamo cosa abbiamo sotto agli occhi. Screenshot finale […] La rivoluzione digitale nasce da tre gesti lunghi che tracciano un nuovo campo da gioco.

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A. Digitalizzare testi, suoni e immagini: ridurre allo stato liquido il tessuto del mondo. È un gesto che va dal CD al DVD, passando per l’MP3: dall’82 al ’95. Più o meno lo stesso arco del PC.

dire molto di diverso dei primi navigatori che apri rono le grandi rotte intercontinentali nel ’500. Strategia molto tradizionale, quindi. Un’apertura classica, si direbbe nel gioco degli scacchi. Anche nella sua mossa più nascosta, e alla fine più importante. C’era un’altra cosa che i mercanti navigatori del ’5oo portavano in giro per il mondo: dio. Missionari. Una certa way of life. Un certo modo di stare al mondo. Lo stesso fa la rivolu zione digitale: inizia a sedimentare un certo modo di stare al mondo. Delle figure mentali. Dei movimenti logici che non si conoscevano. Una differente idea di ordine, e di presa sul reale. Non proprio una religione, ma qualcosa che gli va vicino: UNA CIVILTÀ. La possiamo riconoscere se da vicino proviamo a osservare quelle prime mosse – reperti archeologici – e a studiarle: in quei gesti c’è qualcosa che ri torna costantemente, quasi dei tratti somatici comuni, alle volte dei tic che si ripetono uguali. Gli indizi di una qualche mutazione. Le orme di umani fatti in modo strano, mai visto. […]

sQUARcI DI MONDO422 situazione era completamente nuova, e adesso è particolarmente importan te – oltreché divertente – vedere quali esattamente furono i primi gesti che quell’umano fece quando si trovò in quella situazione e mise le mani su quel rubinetto.Sostanzialmente

usò l’enorme acquedotto per far circolare tre cose: delle informazioni personali (mail, ricerche), delle merci (Amazon, eBay, video giochi) e le mappe dell’acquedotto (Yahoo!, Google). Naturalmente, se tornas simo a quegli anni, in dettaglio, troveremmo una quantità quasi infinita di utilizzi di Internet: ma se adesso dobbiamo fissare la spina dorsale, e regi strare solo le formazioni geologiche che nacquero allora e che poi sarebbero effettivamente diventate montagne, quello che vediamo è semplice: mappe, merci,Nondocumenti.sisarebbepotuto

AlEssANDRO BARIccO 423

3. Raccontando la nascita del Web, Baricco dice che il professore Berners-Lee lo inventò facendo tre mosse precise: quali sono? Perché questa invenzione, secondo l’autore, ha cambiato il mondo?

7. Conosci di certo altre invenzioni che hanno cambiato il modo di vivere delle persone: scegline una, documentati e prepara una presentazione, provando a far emergere gli aspetti positivi, di novità, e allo stesso tempo i limiti dell’oggetto scelto.

4. Con quali finalità, alle soglie degli anni 2000, le persone iniziarono a usare Internet?

5. Chiudendo il brano, l’autore paragona l’epoca delle grandi scoperte geografiche, il Cinquecento, e l’epoca della rivoluzione digitale: cosa hanno in comune questi due momenti?

2. Quale rivoluzionaria idea inizia lentamente a diffondersi a partire dagli anni Ottanta con la commercializzazione dei PC?

1. Perché l’autore, parlando dei primi Personal Computer lanciati sul mercato, definisce il Mac quello più geniale?

8. Scrivi il discorso con cui vuoi convincere i tuoi genitori a comprarti lo smartphone dei tuoi sogni: mettine in luce i pregi e sminuiscine i lati potenzialmente negativi.

6. Se osservi con attenzione le pagine di questo brano puoi scoprire tre passaggi in cui cambia l'impostazione grafica del testo. A cosa serve questa modifica operata dall’autore? Motiva la tua risposta.

celebriDiscorsi3

Marco Tullio Cicerone a cura di Adele Mirabelli

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Io ho appreso che la forza e l’essenza dell’eloquenza poggia su questi cinque elementi: innanzitutto trovare quello che bisogna dire, poi distribuire e collocare i concetti trovati a seconda del loro giusto ordine, ma anche della loro importanza reale e del criterio personale dell’oratore, poi rivestirli con gli ornamenti dello stile, poi chiuderli bene nella propria memoria, infine pronunciarli con dignità e grazia.

Ma non è detto che un discorso finemente congeniato porti a un esito po sitivo; ricordiamo il discorso ben argomentato che Ulisse1 fa ad Achille per convincerlo a riprendere la guerra: il Pelìde non cede e non si fa persuadere dalle parole di Ulisse, infatti rifiuta di tornare a combattere. Invece abbiamo esempi di discorsi che hanno raggiunto il loro scopo, come ad esempio quan do il parlamento inglese ha approvato la dichiarazione di guerra fatta da Wil son, o quando Hitler è riuscito a convincere il popolo tedesco a seguirlo nel tragico conflitto, o Gandhi che ha portato avanti una rivoluzione non violenta per raggiungere la libertà dell’India.

DIscORsI cElEBRI426 Solo l’uomo parla: è una affermazione che può sembrare scontata, ma dietro a questo dato vi sono il tesoro e la forza dell’uomo stesso. Attraverso la parola, i pensieri emergono con consapevolezza, prendono corpo e così diventano possibilità di dialogo.

Quindi saper ‘parlare’ implica una capacità oratoria che si può imparare, così come Cicerone stesso ci suggerisce. Occorre riflessione, saper porre i pensieri secondo un rigoroso ordine, avere chiaro cosa vale la pena dire e so prattutto dare ragione di ciò che si afferma e, infine, usare uno stile adeguato.

In questa sezione ti proponiamo alcuni discorsi che grandi personaggi della storia hanno pronunciato in momenti particolari e significativi; potrai co gliere che gli intenti comunicativi sono diversi: convincere, sostenere, condi videre, incitare, motivare, ricordare, esaltare… questo elenco dice della forza e della potenza della parola.

Attraverso le proposte didattiche troverai suggerimenti utili affinché an che tu possa sviluppare una valida capacità oratoria. Oratoria è un aggettivo derivato dal verbo latino orare ‘parlare’ che compariva nell’espressione latina ars oratoria, l’arte del parlare in pubblico. Ti forniamo inoltre indicazioni di metodo così che tu possa sviluppare la capacità argomentativa, per imparare a dare ragione delle tue affermazioni. L’argomentazione è il discorso che po ne le sue ragioni, che giustifica ciò che afferma e per questo risulta persua sivo e Quindifondato.questa è una sezione che ti permette, attraverso modelli di discorsi celebri, di imparare ad argomentare e di affinare il tuo modo di parlare e scri vere. Così come potrai, con l’aiuto di approfondimenti storici, scoprire l’im portanza del vivere civile, della democrazia, della lotta per i diritti dell’uomo. Allo stesso tempo potrai conoscere uomini che hanno segnato, nel bene e nel male, la storia dell’umanità. 1 Ulisse: nell’Iliade, Libro IX, vv. 324-551.

427 WOODROW WILSON

La guerra sottomarina attualmente condotta dalla Germania contro il commercio è una guerra contro l’umanità, contro tutte le nazioni. […]

Il fatto che scatena la partecipazione alla guerra da parte degli USA è l’attacco e affondamento del Transatlantico americano Housatonic nelle acque mediterranee.

Consapevole della solennità e anche della tragicità del passo che sto fa cendo […] esorto il Congresso a dichiarare la recente linea d’azione del go verno imperiale tedesco come una guerra contro il governo e il popolo degli Stati Uniti, ad accettare formalmente lo status di belligerante che gli è stato pertanto imposto e a prendere immediati provvedimenti non solamente per mettere la nazione in uno stato di difesa più completo ma anche per esercita re tutti i suoi poteri e impiegare tutte le sue risorse al fine di portare il gover no tedesco a scendere a patti e porre fine alla guerra.

Discorso al Congresso per ottenere la dichiarazione di guerra, 2 aprile 1917

La sfida è rivolta a tutta l’umanità. Ciascuna nazione deve decidere auto nomamente come intende affrontarla. Per quanto ci riguarda, la scelta deve essere presa dosando avvedutezza e moderazione di giudizio, in un equili brio adeguato al nostro carattere e alle nostre motivazioni nazionali. Dob biamo mettere da parte gli entusiasmi estemporanei. La nostra motivazione non è la vendetta o la tronfia rappresentazione della potenza fisica del popo lo, ma soltanto la volontà di instaurare il diritto, il diritto dell’umanità, di cui siamo i soli difensori.

La Prima guerra mondiale è scoppiata da tre anni e gli Stati Uniti d’America si tro vano a dover prendere posizione rispetto al conflitto che si stava consumando in Europa. Il presidente americano, con questo discorso al Congresso, rompe la tradi zionale scelta politica statunitense: stare fuori dalle controversie europee.

[…] La neutralità armata è, al massimo, inefficace, ma in simili circostan ze e di fronte a tali pretese è ben peggiore perché non farà altro che generare quello che doveva evitare, ovvero trascinarci sicuramente in guerra senza i diritti o i risultati dei belligeranti. C’è una scelta che non potremo fare, che non saremo in grado di fare: non sceglieremo la strada della sottomissione né sopporteremo che i diritti più sacri della nostra nazione e del nostro po polo vengano ignorati o violati. Le ingiustizie contro cui ci schieriamo sono gravi: minano le fondamenta della vita umana.

Il presidente Wilson non solo si limita ad affermare la necessità della guerra per difendere la propria nazione dall’aggressore, ma si rivolge ai presenti appellandosi ai valori e agli ideali di libertà e democrazia, auspicando un’alleanza tra tutte quelle nazioni che fondano il loro stato di diritto su questi imprescindibili princìpi. Signori del Congresso […].

[…] Un’armonia costante per la pace potrà essere mantenuta solo con un’alleanza di nazioni democratiche. Non si può pensare che i governi au tocratici possano sostenerla od osservarne le convenzioni. Deve essere una lega basata sull’onore, un’alleanza di opinione.

[…] È un compito doloroso e gravoso, signori del Congresso, quello che ho svolto rivolgendovi questo discorso. Abbiamo davanti, forse, molti mesi di dure prove e sacrifici. È terribile guidare questo grande popolo pacifico al la guerra, alla più terrificante e disastrosa di tutte le guerre. La stessa civiltà sembra essere in gioco. Ma il diritto è più prezioso della pace e noi combatte remo per le cose che abbiamo sempre avuto a cuore, per la democrazia, per il diritto di coloro che si sottomettono all’autorità ad avere una voce nei loro governi, per i diritti e le libertà delle nazioni piccole, per un dominio univer sale del diritto tramite un consesso di popoli liberi che porti pace e sicurezza a tutte le nazioni e renda infine libero il mondo. A questo compito possiamo dedicare le nostre vite e le nostre fortune, ogni cosa che siamo e ogni cosa che abbiamo, con l’orgoglio di chi sa che è ar rivato il giorno in cui l’America ha il privilegio di donare il proprio sangue e la propria forza per i princìpi che le hanno dato la vita e la felicità e per la pace di cui ha fatto tesoro. Non può fare altro, che Dio la protegga.

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[…] Nell’intraprendere queste azioni estremamente importanti dobbiamo es sere molto chiari e fare in modo che il mondo intero sappia quali sono i nostri motivi e i nostri obiettivi […] Il nostro obiettivo […] è rivendicare i princìpi della pace e della giustizia nella vita del mondo contro poteri egoisti e autocrati, e instaurare tra i popoli veramente liberi e indipendenti quell’armonia di scopi e azioni che garantirà da quel momento in avanti il rispetto di tali princìpi.

[…] Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia. La sua pace deve essere costruita sulle salde fondamenta della libertà politica. Non abbiamo fini egoistici. Non desideriamo conquiste né domini. Non cerchiamo risarci menti personali né compensi materiali per i sacrifici che faremo volentieri. Siamo soltanto uno dei difensori dei diritti dell’umanità e saremo soddisfatti unicamente quando questi diritti saranno stati garantiti, come solo la fede e la libertà delle nazioni possono fare.

2. Cosa si intende per «neutralità armata» e come Wilson la giudica?

WOODROW W IlsON 429

6. Nel discorso si pone una certa enfasi nel sottolineare il compito a cui è chiamato il popolo americano: in cosa consiste questo compito?

1. Quali sono le motivazioni dell’entrata in guerra dell’America che il presidente Wilson presenta al Congresso?

5. Nella parte finale del discorso si afferma che «il diritto è più prezioso della pace». Spiega questa affermazione.

4. Attraverso la partecipazione al conflitto quali obiettivi Wilson si prefigge?

8. Pace, libertà, democrazia: sono alcuni degli ideali a cui l’uomo tende e che desidera realizzare. Racconta un episodio in cui tu ti sei accorto del valore di una di queste importanti parole.

3. «Consapevole della solennità e anche della tragicità del passo che sto facendo…»: elenca quali sono le azioni che il presidente Wilson propone.

7. Immagina di essere un ragazzo americano: sei nella sala di casa tua, insieme ai tuoi genitori, stai ascoltando alla radio il discorso del presidente. Quali pensieri potrebbero insorgerti? Faresti richiesta di arruolarti? Racconta.

Questo impegno sfocia nella marcia del 12 marzo 1930 che vede a seguito del Ma hatma ottantamila seguaci. La sera prima Ghandi, in un momento di preghiera, si rivolge ai suoi seguaci esprimendo il suo pensiero carico di preoccupazione, ma anche di forte speranza. Due mesi dopo Ghandi viene arrestato e nel 1948 muore assassinato da un estre mista politico. Con tutta probabilità questo è l’ultimo discorso che vi rivolgo. E anche se il governo domani mattina mi permetterà di iniziare la marcia, questo sarà l’ultimo discorso che pronuncerò sulle sacre rive del Sabarmati1. Forse que ste saranno le ultime parole della mia vita.

Ciò che dovevo dirvi ve l’ho detto già ieri. Oggi mi limiterò a esporvi quel lo che dovrete fare dopo che i miei compagni e io saremo stati arrestati. La marcia fino a Jalapur deve essere portata a termine come stabilito. Il reclu tamento dei volontari per la marcia deve essere circoscritto al territorio del Gujarat. Da quanto ho visto e sentito nelle due ultime settimane, sono pro penso a credere che il numero dei seguaci della resistenza civile continuerà ad aumentare ininterrottamente. È necessario che non si compiano atti violenti anche dopo che noi saremo stati arrestati. Noi abbiamo fermamente deciso di far ricorso a tutte le nostre risorse per portare avanti una lotta esclusivamente nonviolenta. Che nessu no devii da questa via per un attacco d’ira. Questa è la mia speranza e la mia preghiera. Vorrei che queste mie parole raggiungessero ogni angolo del Pae se. Se io e i miei compagni moriremo nella lotta, avremo portato a termine il nostro compito. Toccherà allora alla Commissione di Lavoro del Congresso indicarvi la via da seguire, e starà a voi seguire questa guida. Finché non avrò raggiunto Jalapur, non dovrà essere fatto nulla che contravvenga all’autorità 1 Sabarmati: fiume dell’India Occidentale.

Rientra in India nel 1915 e decide di abbandonare le abitudini e l’abbigliamento occidentale per sposare totalmente la trazione del suo Paese di origine. Dai connazio nali viene soprannominato Mahatma, cioè ‘grande anima’; la stima e il rispetto da parte del popolo crescono a tal punto da riconoscere in Gandhi il loro leader spiritua le e politico. Dedica la sua vita per l’indipendenza del suo popolo dal colonialismo in glese che combatte attraverso la forma rivoluzionaria della nonviolenza.

Discorso alla vigilia della Marcia del sale, 11 marzo 1930 Gandhi nasce in India nel 1869 quando il Paese è ancora colonia inglese. Laureato in giurisprudenza a Londra, si trasferisce in Sud Africa dove lavora per i diritti civili degli immigrati indiani.

DIscORsI cElEBRI430 MOHANDAS K. GANDHI

MOhANDA s k . G ANDhI 431 concessami dal Congresso. Ma se sarò arrestato, il Congresso riacquisterà la piena autorità. Nessuno di coloro che professano il credo della nonviolenza dovrà rimanere inattivo. Il mio accordo con il Congresso verrà meno non ap pena sarò arrestato.

[…] La disobbedienza civile alle leggi sul sale dovrà essere iniziata dovun que ve ne sarà la possibilità. Tali leggi possono essere violate in tre modi. È una violazione produrre sale dove vi siano strutture per farlo. È una violazio ne anche il possesso o la vendita di sale di contrabbando (che comprende an che il sale naturale e minerale). Sono ritenuti colpevoli anche i compratori di questo sale. Asportare i depositi di sale naturale che si trovano sulle rive del mare costituisce un’altra violazione delle leggi, come pure la vendita del sale così ottenuto. In breve, per violare il monopolio sul sale, si può scegliere uno qualsiasi di questi modi. Non dobbiamo tuttavia accontentarci soltanto di questo. Dovunque non vi sia un esplicito divieto del Congresso, e dovunque gli abitanti del luogo ab biano sufficiente fiducia in sé stessi, possono essere prese altre iniziative ri tenute opportune. Pongo soltanto una condizione, e cioè che venga rispettato rigorosamente il nostro impegno ad attenerci alla verità e alla nonviolenza come gli unici mezzi per il raggiungimento dello swaraj1. Per il resto, ognuno ha piena libertà. Questo tuttavia non deve significare che ognuno è libero di prendere qualsiasi iniziativa sotto la propria responsabilità individuale. Do vunque vi siano dei dirigenti locali, i singoli individui devono attenersi ai loro ordini. Dove non vi fossero dirigenti e soltanto poche persone abbiano fidu cia nel programma, queste faranno quello che possono, se hanno sufficiente fiducia in sé stesse. Esse hanno il diritto, anzi il dovere, di agire in tal modo. La storia del mondo è piena di esempi di uomini che si sono elevati al ruolo di capi grazie unicamente alla fiducia in sé stessi, al coraggio e alla tenacia. Anche noi, se aspiriamo veramente allo swaraj e siamo impazienti di rag giungerlo, dobbiamo avere una simile fiducia in noi stessi. Le nostre file si in grosseranno e i nostri cuori acquisteranno maggior forza nella stessa misura in cui aumenterà il numero dei nostri compagni fatti arrestare dal governo. Oltre a ciò possono esserne fatte molte altre. Si possono picchettare gli spacci di liquori e i negozi di tessuti stranieri. Se si possiede la forza neces saria, ci si può rifiutare di pagare le tasse. Gli avvocati possono sospendere l’esercizio della loro professione. La gente può boicottare i tribunali astenen dosi dal chiamare chiunque in giudizio per le controversie private. I dipen denti statali possono dimettersi dai loro posti. In mezzo alla disperazione che regna intorno alle persone, alcune tremano al pensiero di perdere il loro im piego. Queste persone non sono pronte per lo swaraj. Ma qual è il motivo di questa disperazione? Nel Paese il numero dei dipendenti dello stato non su pera le poche centinaia di migliaia. E i restanti? Cosa devono fare? Neppure una India libera sarà in grado di dar lavoro a un gran numero di dipendenti 1 swaraj: l’autogoverno, cioè la possibilità di ogni nazione di decidere, attraverso libere elezioni, come e da chi essere governati.

DIscORsI cElEBRI432 dello stato. Un funzionario distrettuale nell’India indipendente non avrà a di sposizione il numero di subordinati di cui oggi dispone. Dovrà fare da solo. I milioni di indiani che soffrono la fame non possono assolutamente permet tersi queste enormi spese. Dunque, se possedessero abbastanza sensibilità, i dipendenti statali dovrebbero abbandonare i propri impieghi, fossero essi giudici o semplici uscieri. Tutti coloro che in un modo o nell’altro collaborano con il governo, pagando le tasse, detenendo delle cariche, mandando i loro fi gli alle scuole statali e così via, rigettino la loro collaborazione con il governo completamente o quanto più è loro possibile. Inoltre, vi sono donne che pos sono partecipare spalla a spalla con gli uomini a questa lotta. Queste sono le mie volontà. È l’unico messaggio che desideravo lasciarvi prima di iniziare la marcia o di essere imprigionato. Mi auguro che non vi si ano interruzioni e abbandoni della guerra che comincerà domani mattina, o anche prima, se sarò arrestato prima di allora. Attenderò con ansia la notizia che per ognuno dei miei compagni arrestati dieci nuovi volontari hanno pre so il loro posto. Io credo fermamente che in India vi siano uomini in grado di portare a termine l’opera che oggi io inizio. Ho fede nella validità della nostra causa e nella purezza dei nostri mezzi. E quando i mezzi sono puri, non può mancare la benedizione di Dio. E quando si uniscono questi tre elementi, la sconfitta è impossibile. Un satyagrahi1, sia esso libero o imprigionato, riesce sempre vittorioso. Egli viene vinto soltanto quando abbandona la verità e la nonviolenza e cessa di dare ascolto alla voce interiore. La causa della sconfit ta di un satyagrahi, dunque, può risiedere soltanto nel satyagrahi stesso. Dio benedica tutti voi e sgomberi il nostro percorso da ogni ostacolo nella lotta che inizierà domani. 1 satyagrahi: seguace della causa di Gandhi, dimostrante inerme.

6. Ci sono tanti modi per affermare una verità o un proprio diritto. Racconta quella volta in cui hai vissuto un sopruso e allora hai deciso di…

MOhANDA s k . G ANDhI 433

2. «Questa è la mia speranza e preghiera»: a quale speranza Gandhi si riferisce? Quale preghiera egli innalza e a chi?

4. Elenca le diverse forme di ribellione che lo stesso Mahatma suggerisce.

5. Per l’indipendenza della propria nazione, nell’arco della storia dell’Ottocento e del Novecento, si sono messe in atto diverse forme di ribellione e sono scoppiate varie rivoluzioni: elenca e spiega brevemente quelle che ritieni essere state le più significative dal punto di vista delle motivazioni e dei risultati ottenuti.

1. L’incipit del discorso sembra essere premonitore: Gandhi cosa pensa possa accadere?

3. Gandhi per l’indipendenza dell’India dà forma a una rivoluzione particolare: spiega in cosa consiste e contro chi si ribella.

Ho tentato più volte con mezzi pacifici di proporre la revisione dell’iniquo Trattato ed è una menzogna affermare che volevamo ottenerla con la costri zione. Quindici anni prima che il Partito Nazional Socialista salisse al potere c’è stata l’opportunità di concretizzare questa revisione con accordi e intese pacifiche.Nonuna ma più volte ho assunto personalmente l’iniziativa di formula re proposte per modificare questa intollerabile situazione, ma come sapete sono state tutte rifiutate. Erano proposte di limitazione degli armamenti e se necessario, perfino di disarmo; proposte per limitare la produzione di armi e per eliminare certi metodi di guerra moderna. Voi conoscete le proposte che ho presentato per sostenere la necessità di ristabilire la sovranità della Germania sui territori tedeschi e sapete anche dei tentativi senza fine che ho intrapreso per trovare una soluzione pacifica al problema dell’Austria e più tardi a quello dei Sudeti, della Boemia e della Moravia. È stato tutto vano! Non è ammissibile chiedere di risolvere pacificamente un problema e allo stesso tempo rifiutare ogni proposta di soluzione avanzata in questo senso. Non è neanche possibile affermare che chi si assume la responsabilità di rea 1 Reichstag: sede del parlamento a Berlino. 2 diktat di Versailles: venne firmato il 28 giugno 1919 e pose fine alla Prima guerra mondiale. Nel trattato vengono stabilite e imposte alla Germania condizioni militari, politiche ed economiche.

DIscORsI cElEBRI434 ADOLF HITLER

Se non conoscessimo la storia, queste parole ci farebbero ben sperare. Sono inve ce l’annuncio della dichiarazione di guerra alla Polonia: da questo momento inizia il tragico conflitto che si concluderà solo nel 1945. In questo discorso possiamo cogliere la capacità persuasiva di Hitler e allo stesso tempo il suo linguaggio cinico e determinato. Per anni abbiamo sofferto la tortura del diktat di Versailles2 che è diventato per noi ormai intollerabile. Danzica era ed è una città tedesca. Il Corridoio di Danzica era ed è in Germania. Entrambi questi territori devono il loro svilup po culturale esclusivamente al popolo tedesco. Danzica è stata però separata dalla Germania e il Corridoio annesso alla Polonia. Come avviene in altri ter ritori tedeschi dell’Est, le minoranze tedesche che vi vivono sono maltrattate nel modo più angoscioso. Negli anni 1919 e 1920 più di un milione di persone di sangue tedesco sono state costrette a lasciare la madre patria.

Discorso al Reichstag1 di annuncio della guerra alla Polonia, 1 settembre 1939 « Sono determinato […] a trovare il modo di migliorare le relazioni tra la Germania e la Polonia per assicurare ad entrambe una coesistenza pacifica ».

ADOlf hIT lER 435 lizzare questa revisione guardando ai propri interessi, trasgredisce la legge, poiché per noi il diktat di Versailles non rappresenta affatto la legge. La fir ma su quel Trattato ci è stata estorta puntandoci una pistola alla testa e con la minaccia della fame per milioni di persone. E ora questo documento con la nostra firma estorta con la forza, viene solennemente proclamato legge! Ho anche tentato di risolvere il problema di Danzica, del Corridoio1, pro ponendo una pacifica discussione tra le parti. Che il problema dovesse esse re risolto era chiaro, ma per noi era altrettanto evidente che le potenze occi dentali non avevano alcun interesse a risolverlo rapidamente. Per noi questo problema non ha un’importanza secondaria e non la può avere per coloro che ne soffrono. Nel corso dei miei colloqui con i rappresentanti del Governo Polacco ho discusso le idee che vi ho illustrato durante il mio ultimo discorso al Rei chstag. Nessuno potrebbe affermare che questa è una inammissibile proce dura o una indebita pressione. Ho semplicemente formulato delle proposte e devo ancora una volta ripetere che non c’è nulla di più leale e ragionevole di quelle proposte. Vorrei dire questo al mondo; soltanto io sono stato in gra do di fare quelle proposte, nonostante fossi consapevole che esse avrebbero incontrato l’opposizione di milioni di tedeschi. Quelle proposte sono comun que state rifiutate! Non solo hanno risposto con la mobilitazione, ma hanno intensificato il terrore e la pressione contro i nostri compatrioti e condotto un lento strangolamento economico, politico e nelle ultime settimane anche militare, della città di Danzica.

La Polonia non era disposta né a risolvere la questione del Corridoio in modo equo, né ad ottemperare ai suoi obblighi nei confronti delle minoranze etniche. Devo qui affermare inequivocabilmente che i tedeschi hanno rispet tato questi obblighi; le minoranze che vivono in Germania non sono perse guitate. Nessun francese che vive nel territorio della Saar2 può sostenere di essere oppresso, torturato o privato dei suoi diritti. Nessuno può affermare una cosa simile!

1 Corridoio di Danzica: è una striscia di terra concessa alla Polonia che permetteva uno sbocco sul mar Baltico, che però separava la Germania Occidentale dalla regione della Prussia Orientale. 2 territorio della Saar: uno dei Länder federati della Germania. 3 Reich: in tedesco genericamente significa ‘impero, regno, Stato’.

Per quattro mesi mi sono limitato ad osservare con calma gli sviluppi del la situazione sebbene non abbia mai cessato, soprattutto negli ultimi giorni, di dare avvertimenti sui pericoli che si stavano creando. Tre settimane fa ho informato l’Ambasciatore Polacco che qualora la Polonia avesse continuato ad inviare a Danzica note in forma di ultimatum e non avesse posto fine al le inique misure doganali che stavano distruggendo l’economia della città, il Reich3 non sarebbe rimasto a guardare. Ho cercato di dissipare ogni dubbio sul fatto che la Germania di oggi non ha nulla in comune con quella del pas sato e che se qualcuno affermasse il contrario ingannerebbe sé stesso.

DIscORsI cElEBRI436 Si è tentato di giustificare la persecuzione nei confronti dei cittadini di etnia tedesca con il fatto che essi avrebbero commesso atti di provocazione. Io non so in cosa consisterebbero queste provocazioni compiute da donne e bambini, ma una cosa sicuramente so e cioè che nessuna grande Potenza può con onore assistere passivamente a questi eventi.

Ho compiuto l’ultimo sforzo accettando una proposta di mediazione pre sentata dal Governo Britannico secondo la quale Germania e Polonia si sa rebbero dovute incontrare per tornare a discutere.

Europei comprendono solo in parte la nostra posizione. Vor rei qui ringraziare soprattutto l’Italia che ci ha sempre sostenuto, ma voi comprenderete che per portare avanti questa battaglia non possiamo chie dere l’aiuto di un paese straniero. Noi la porteremo a termine autonomamen te. Gli Stati neutrali ci hanno assicurato di mantenere la loro neutralità così come noi ci siamo impegnati a rispettarla.

Quando gli uomini di stato occidentali dichiarano che ciò influisce sui lo ro interessi posso solo rammaricarmi di tale affermazione, ma essa non può farmi recedere neanche per un momento dal compiere il mio dovere. Cosa si vuole di più? Ho solennemente assicurato, e lo ripeto, che non intendiamo 1 plenipotenziario: persona investita di pieni poteri nel trattare e concludere un determinato accordo diplomatico.

Ho accettato quella proposta e ho elaborato una serie di punti da porre in discussione che peraltro vi sono noti. Per due giorni interi insieme al mio Go verno, abbiamo aspettato di sapere se fosse possibile per il Governo Polacco inviare o meno un plenipotenziario1. Ieri sera ci hanno informato, attraverso il loro Ambasciatore, che stavano ancora considerando se e in quale misura erano in grado di accettare la proposta britannica. Inoltre il Governo Polac co ci ha fatto sapere che avrebbe informato della propria decisione prima la Gran Bretagna. Se il Governo Tedesco e il suo Capo tollerassero pazientemente tale trat tamento, allora la Germania meriterebbe di scomparire dalla scena politica europea. È inoltre un grave errore interpretare il mio amore per la pace e la mia pazienza come segno di debolezza o addirittura di codardia. Ieri sera ho quindi deciso di informare il Governo Britannico che date le circostanze, non colgo nessun segno di buona volontà nel comportamento del Governo Polacco tale da dimostrare che esso desideri realmente condurre un serio negoziato.Questitentativi di mediazione sono purtroppo falliti perché nel frattempo ci è giunta come risposta l’improvvisa mobilitazione dell’esercito polacco e la recrudescenza di atrocità commesse nei confronti di cittadini tedeschi. Ciò si è ripetuto ancora ieri sera. Recentemente vi sono stati ventuno incidenti di frontiera in una notte e ieri sera ne sono avvenuti quattordici di cui tre molto gravi. Ho quindi deciso di usare con i polacchi la stessa lingua che negli ulti mi mesi essi hanno usato con noi. Questo atteggiamento da parte del Reich nonGlicambierà!altriStati

chiedere nulla a questi Stati Occidentali né mai lo chiederemo. Ho dichiarato inoltre che la frontiera tra la Francia e la Germania è definitiva. Ho ripetutamente offerto la nostra amicizia e se necessario la più comple ta cooperazione alla Gran Bretagna, ma questa disponibilità non può essere unilaterale; deve trovare un eguale riscontro dall’altra parte. La Germania non ha interessi presenti e futuri di alcun tipo in Occidente e quindi ad Ovest la frontiera del Reich è immutabile. Nel dare questa assicurazione siamo pro fondamente sinceri e finché altri manterranno la loro neutralità noi la rispet teremo

Ogni conflitto tra i due popoli si tradurrebbe in un vantaggio per altri e abbiamo perciò deciso di sottoscrivere un patto che esclude per sempre ogni ricorso alla violenza tra noi. Esso ci impone l’obbligo di consultarci preventi vamente su alcune questioni europee, rende possibile la cooperazione eco nomica e soprattutto assicura la pace tra le due Potenze. Qualsiasi tentativo da parte occidentale per modificare questo patto sarà destinato al fallimento.

Sono determinato a risolvere (1) la questione di Danzica; (2) la questione del Corridoio; e (3) trovare il modo di migliorare le relazioni tra la Germania e la Polonia per assicurare ad entrambe una coesistenza pacifica. Sono fer mamente deciso a lottare fino a quando l’attuale Governo Polacco non sarà disposto a perseguire insieme a noi questi obbiettivi o finché un altro Go verno Polacco sarà pronto a farlo. Intendo eliminare dalle frontiere tedesche questa situazione di incertezza e questa atmosfera da guerra civile. Farò in modo che al confine orientale ci sia la pace esattamente come alle altre no strePerfrontiere.ottenere ciò prenderò le necessarie misure che non siano in contrad dizione con le proposte che ho rese note dal Reichstag al resto del mondo; va le a dire che non condurrò una guerra contro donne e bambini. Ho ordinato quindi alla nostra Aviazione di limitare i propri attacchi ad obbiettivi esclusi vamente militari. Qualora il nemico pensi di avere carta bianca nel combat tere con altri metodi, riceverà una risposta che lo ammutolirà.

Sonoscrupolosamente.particolarmente

Questa notte per la prima volta, soldati dell’esercito regolare polacco han no aperto il fuoco all’interno del nostro territorio. Dalle 5.45 di questa matti na abbiamo risposto al fuoco nemico e d’ora in poi risponderemo alle bombe

felice di potervi parlare di un evento importante. Tutti voi sapete che la Russia e la Germania sono governate da due differenti dottrine politiche. Vi è solo un punto che doveva essere chiarito e lo è stato; e cioè che la Germania non ha alcuna intenzione di esportare il suo credo po litico in Russia così come la Russia non ha alcuna intenzione di esportare il proprio in Germania. Non vedo più quindi alcun motivo di conflitto fra noi poiché su questo principio siamo entrambi d’accordo.

Vorrei qui dichiarare che questa decisione politica è di grande importanza per il futuro. Russia e Germania si sono combattute durante la Grande Guerra ma ciò non avverrà una seconda volta. A Mosca questo Patto è stato salutato con entusiasmo esattamente come lo è stato da noi. Sottoscrivo parola per pa rola il discorso pronunciato da Molotov, Commissario agli Esteri Russo.

ADOlf hIT lER 437

A coloro che temono di dover affrontare tempi duri, ricordo che una volta un re prussiano, con uno stato ridicolmente piccolo, si oppose ad una forte coalizione e dopo tre guerre alla fine uscì vincitore perché quello Stato pos sedeva quel cuore indomito di cui noi oggi abbiamo bisogno. Vorrei perciò in formare il mondo che un novembre 1918 non si ripeterà mai più nella storia della Germania. Come io stesso sono pronto a sacrificare in ogni momento la mia vita per la Germania, così esigo la stessa cosa da tutti gli altri.

Come Nazional Socialista e come soldato tedesco mi accingo a combatte re questa battaglia con cuore indomito. La mia vita non è stata altro che una continua lotta per il mio popolo e per la Germania. C’è una sola parola d’or dine per questa lotta: «fede in questo popolo» e una sola parola non ho mai voluto imparare: «la resa»!

Qualunque cosa dovesse accadermi, il mio successore sarà il Camerata Göring e qualunque cosa dovesse accadere a Göring, il successore sarà il Ca merata Hess. Avete quindi il dovere di riservare ad essi la stessa lealtà e la stessa cieca obbedienza che assicurate a me. Qualora accadesse qualcosa al Camerata Hess, allora verrà convocato il Senato che sceglierà al suo interno il mio più degno e coraggioso successore.

Per sei anni ho lavorato per la ricostruzione delle forze armate di difesa della Germania e sono stati spesi per questo molti miliardi di Marchi. Ora es se sono ad un livello che non trova paragone con quello esistente nel 1914. La mia fede in esse è incrollabile. Se ora chiedo sacrifici al popolo tedesco e se necessario ogni sacrificio, ho il diritto di farlo poiché anch’io oggi sono pronto a compierli.

Non ho chiesto a nessun tedesco di fare più di quanto io stesso non sia stato pronto a fare durante questi quattro anni. Per i tedeschi non ci saran no privazioni alle quali io stesso non mi sottoporrò. La mia vita d’ora in poi apparterrà più che mai al mio popolo. Da oggi sarò il primo soldato del Reich Tedesco. Ho indossato ancora una volta quell’uniforme, la più sacra e cara per me, e non la toglierò finché la vittoria non sarà certa.

DIscORsI cElEBRI438 con le bombe! Chiunque ricorra ai gas tossici subirà lo stesso trattamento! Chiunque eluda le regole di guerra può solo aspettarsi che ci comporteremo allo stesso modo. Continuerò a lottare, non importa contro chi, fino a quando non sarà garantita la sicurezza del Reich e il rispetto dei suoi diritti.

Chiunque pensi di potersi opporre direttamente o indirettamente a que sto impegno nazionale, crollerà. Non abbiamo nulla a che fare con i traditori e siamo tutti fedeli ai nostri vecchi principi. Non è importante che noi vivia mo, ma è essenziale che il nostro popolo viva, che la Germania viva! Il sacri ficio che ci viene chiesto non è più grande di quello compiuto da molte altre generazioni. Se formeremo una comunità strettamente legata da un solenne giuramento, pronti ad affrontare qualunque avversità, risoluti a non arren derci mai, allora la nostra volontà ci permetterà di superare ogni difficoltà. Vorrei chiudere con una frase che pronunciai quando iniziai la battaglia per il potere: «Se la nostra volontà sarà tanto forte da non essere vinta dalla fatica e dalla sofferenza, allora la potenza della Germania prevarrà».

6. Nel finale del discorso si usano frasi come: «cuore indomito», «fede in questo popolo», «una sola parola non ho mai voluto imparare: “la resa!”» ecc. Sottolinea tutte le frasi o parole che hanno lo scopo di coinvolgere emotivamente e così convincere gli interlocutori della decisione presa.

1. L’incipit del discorso fa riferimento ad alcuni eventi storici pregressi: sottolineali e riportali sul quaderno spiegandoli brevemente.

3. Qual è il fattore scatenante che sembra dare ragione della dichiarazione di guerra?

7. In questo discorso si colgono la capacità oratoria, cioè l’arte del parlare, del dire in pubblico, e la capacità argomentativa. L’argomentazione è il discorso che pone le sue ragioni, che giustifica ciò che afferma e per questo risulta persuasivo e fondato. Attraverso la costruzione di una scaletta individua le ragioni e motivazioni che vengono presentate per giustificare l’invasione della Polonia.

2. Per dar ragione dell’azione militare di occupazione della Polonia, Hitler adduce diverse motivazioni: riconoscile ed elencale.

ADOlf hIT lER 439

4. Nel discorso sono descritti gli accordi e gli impegni che la Germania ha stipulato con gli stati sia dell’Est sia dell’Ovest: rintracciali e, consultando anche il libro di storia, spiegali attraverso una presentazione orale.

8. Immagina di voler convincere il tuo allenatore a farti giocare all’ultima partita di campionato, nella quale si decide la sorte della tua squadra. Scrivi un testo che abbia come interlocutori l’allenatore e i tuoi compagni di squadra.

5. Riporta nella tabella tutte le frasi che Hitler afferma con veemenza, ma che la storia dimostra essere false. Affermazioni di Hitler Fatti storici le minoranze che vivono in Germania non sono perseguitate

In questa crisi penso di dover essere scusato se oggi non mi rivolgo al Par lamento in modo esteso, e spero che i miei amici e colleghi o i precedenti colleghi che sono coinvolti nella ricostruzione politica, concederanno tutte le attenuanti per ogni carenza cerimoniale con la quale è stato necessario agire. Dico al Parlamento, come ho detto ai ministri di questo governo, che non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza.

DIscORsI cElEBRI440 WINSTON CHURCHILL

Discorso alla Camera dei Comuni, 13 maggio 1940

Churchill è il primo ministro del governo della corona inglese che si trova a guida re il Paese nel momento più drammatico della storia d’Europa: il secondo conflitto mondiale. Riconosciuto come leader politico, rieletto primo ministro nel 1951, no minato cavaliere nel 1953, è considerato dai suoi concittadini «il più grande inglese vivente ». I discorsi di Churchill sono annoverati tra i più coinvolgenti e persuasivi grazie alla sua notevole capacità oratoria e alla sua sensibilità nel rivolgersi ai suoi interlocutori. Lo scorso venerdì sera ho ricevuto da Sua Maestà l’incarico di formare un nuovo governo. C’era l’evidente volontà del Parlamento e della nazione che questo fosse concepito sulle basi più larghe possibili e che includesse tutti i partiti. Ho già completato la parte più importante di questo compito. È stato formato un gabinetto di guerra di cinque membri rappresentan te, con il Partito laburista, l’opposizione, e i Liberali, l’unità della nazione. Era necessario che questo venisse fatto in un solo giorno in considerazione dell’estrema urgenza e durezza degli eventi. Altre posizioni chiave sono state completate ieri. Sottoporrò un’ulteriore lista al re questa notte. Spero di com pletare domani l’indicazione dei ministri principali. […] Invito ora il Parlamento ad approvare una risoluzione che registri il suo consenso per i passi intrapresi e dichiari la sua fiducia nel nuovo governo. La risoluzione: «Il Parlamento approva la formazione di un governo che rappresenta l’unità e l’inflessibile determinazione della nazione di proseguire la guerra con la Germania fino ad una conclusione vittoriosa». Formare un’amministrazione di questa entità e complessità è in sé stes so un compito difficile. Ma noi siamo nella fase preliminare di una delle più grandi battaglie della storia. Siamo in azione in molti altri punti – in Norvegia e in Olanda – e dobbiamo essere pronti nel Mediterraneo. La battaglia dell’aria è in corso e molti altri preparativi devono essere predisposti qui in patria.

Voi chiedete: qual è la nostra linea politica? Io rispondo: fare la guerra per terra, mare, aria. Guerra con tutta la nostra potenza e tutta la forza che Dio ci

W INs TON chURchIll 441 ha dato, e fare la guerra contro una mostruosa tirannia insuperata nell’oscu ro e doloroso catalogo del crimine umano. Questa è la nostra linea politica. Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. È la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vitto ria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è Chesopravvivenza.siachiaro. Nessuna sopravvivenza per l’Impero britannico, nessuna sopravvivenza per tutto ciò su cui l’Impero britannico si è retto. Nessuna so pravvivenza per l’anelito, la forza motrice dei tempi, che l’umanità muova avanti verso il suo traguardo. Assumo il mio incarico con slancio e speranza. Sono sicuro che i popoli non permetteranno che la nostra causa sia sconfitta. In questo frangente, in questo momento, mi sento in diritto di chiedere l’aiuto di tutti e di dire: «ve nite dunque, andiamo avanti assieme con le nostre forze unite».

6. L’intervento si chiude con queste parole: «Assumo il mio incarico con slancio e speranza. Sono sicuro che i popoli non permetteranno che la nostra causa sia sconfitta». Su cosa poggia la speranza di questo grande politico?

4. Elenca le ragioni che Churchill espone ai parlamentari affinché questi possano approvare la sua proposta politica.

7. Estrapola dal discorso frasi e parole che ritieni essere più persuasive e spiega le ragioni della tua scelta.

8. Cosa significa offrire «sangue, fatica, lacrime e sudore» per una causa importante? Cerca tra le cronache dell’ultimo anno un fatto in cui si narra di qualcuno che ha offerto «sangue, fatica, lacrime e sudore» per un grande ideale. Racconta la sua storia.

DIscORsI cElEBRI4421.Churchill

riceve da sua maestà Giorgio VI l’incarico di formare un nuovo governo: quali condizioni deve rispettare?

5. Cosa offre Churchill come strada per la vittoria contro la Germania? Perché?

2. I tempi in cui Churchill deve agire sono brevi a causa «dell’estrema urgenza e durezza degli eventi». Scrivi un testo di dieci righe in cui spieghi in quale situazione storica si trova l’Europa nel maggio del 1940.

3. Churchill chiede al Parlamento l’approvazione della sua linea politica: in cosa consiste la sua proposta?

Questo è il discorso che Nagai rivolge a un gruppo di cattolici sopravvissuti alla bom ba atomica sganciata su Nagasaki il 9 agosto del 1945. Sono feriti, zoppi, ustionati riuniti attorno ai resti della loro cattedrale per pregare i loro morti e Nagai rivolge loro parole che li lascia attoniti.

Intervento ai cattolici superstiti raccolti nella cattedrale di Nagasaki durante la messa di suffragio, 23 novembre 1945

Egli ha vissuto e praticato la professione di medico radiologo nel periodo della Se conda guerra mondiale e anche lui, come migliaia di giapponesi, viene colpito dalle radiazioni della bomba atomica; ma nonostante la malattia lo avesse relegato a let to in una condizione di sofferenza fisica, il suo giaciglio è luogo di continue visite, in quanto i suoi concittadini trovano in lui parole di conforto e speranza.

Paul Glynn1 racconta: «Nagai scrisse centinaia di migliaia di parole per la pa ce. Quando la malattia causata dalle radiazioni lo consumò completamente, prese il pennello e scrisse le sue ultime parole: Heiwa-wo, “Sia la Pace”». La mattina del 9 agosto, ebbe luogo una riunione del Supremo Consiglio di guerra nella Residenza Imperiale a Tokyo per decidere se il Giappone doves se arrendersi o continuare a combattere. In quel momento, tutto il mondo era con il fiato sospeso. Bisognava decidere: pace, o ancora massacri e sangue. E proprio durante quella riunione, esattamente alle 11,02 scoppiò una bomba atomica sul nostro quartiere. In un solo istante ottomila cristiani fu rono chiamati davanti a Dio e in poche ore le fiamme incenerirono uno dei luoghi più sacri e venerabili di tutto l’Oriente. Quella stessa notte la nostra cattedrale s’incendiò e venne consumata dal le fiamme.Eproprio alla stessa ora l’imperatore rese nota la sua decisione irrevoca bile di porre fine alla guerra. Il 15 agosto il decreto imperiale che sanciva l’ar mistizio venne ufficialmente promulgato e il mondo vide l’aurora della pace. Il 15 agosto è la grande festa dell’Assunzione di Maria. È altamente significa tivo, credo, che la cattedrale fosse a lei dedicata. Ci chiediamo: «Il convergere di simili eventi, fine della guerra e celebra zione della festa di Maria Assunta in Cielo, è stato un puro caso o un segno provvidenziale?». Ho sentito dire che la bomba atomica era destinata a un’al tra città. Le fitte nubi resero quel bersaglio troppo difficile e i piloti puntarono sul bersaglio alternativo, Nagasaki. Ci fu anche un problema tecnico, per cui la bomba fu lanciata molto più a nord di quanto era stato stabilito e scoppiò

443 TAKASHI NAGAI

1 Paul Glynn: scrittore e missionario austrialiano nato nel 1928 e vissuto più di vent’anni in Giappone.

DIscORsI cElEBRI444 così proprio sulla cattedrale. Non fu certo l’equipaggio dell’aereo americano che scelse proprio il nostro quartiere. Io credo che fu Dio, la sua provvidenza, a scegliere Urakami e a portare la bomba esattamente sulle nostre case. Non c’è forse un profondo rapporto tra l’annientamento di Nagasaki e la fine della guerra? Non fu forse Nagasaki la vittima scelta, l’Agnello del sacrificio ucciso, per essere offerta perfetta sull’altare, dopo tutti i peccati commessi dalle na zioni nella Seconda guerra mondiale? Siamo eredi del peccato di Adamo… del peccato di Caino. Caino ha ucciso suo fratello. Sì, abbiamo dimenticato che siamo tutti figli di Dio. Ci siamo dati agli idoli, abbiamo dimenticato l’Amore. Ci siamo odiati a vicenda, ci siamo uccisi a vicenda, ci siamo uccisi con gioia feroce! Finalmente questa guerra perver sa e orribile ha avuto termine, ma il semplice pentimento non era sufficiente per riavere la pace… Dovevamo offrire un sacrificio grandioso… Molte città erano già state rase al suolo, ma non bastava ancora… Soltanto questo hansai1 consumato a Nagasaki ha colmato la misura, e, in quel preciso momento, Dio ha ispirato l’imperatore a emanare quel sacro proclama che ha messo fine alla guerra. Il gregge dei cristiani di Nagasaki è stato perseverante nella fede per tre secoli di persecuzioni. Durante l’ultima guerra non faceva che prega re perché vi fosse la pace. Ecco l’Agnello per l’offerta sull’altare… perché non si perdessero altri milioni di vite umane. Com’è stato nobile, com’è stato splendido l’olocausto della mezzanotte del 9 agosto quando la fiamma si è levata dalla cattedrale cacciando le tenebre e portando la luce della pace. Nell’abisso del nostro dolore non siamo stati del tutto incapaci di ammirarne la bellezza, la purezza e lo splendore. Beati quelli che piangono perché saranno consolati. Ora noi dobbiamo per correre il cammino della riparazione… Derisi, frustati, castigati per i nostri delitti, nel sudore e nel sangue. Ma possiamo volgere lo sguardo a Gesù che porta la croce sulla collina del Calvario. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Benedetto il nome del Signore. Proviamo a essere riconoscenti che Nagasaki sia stata scelta come sacrificio gradito a Dio! Siamone riconoscenti, perché grazie a questo sacrificio è stato posto termine alla Seconda guerra mondia le, e al Giappone è stata concessa la libertà religiosa…

1 hansai: in giapponese significa ‘olocausto’ in senso biblico, cioè ‘offerta, sacrificio’.

6. Descrivi brevemente di quale periodo storico si sta parlando e nello specifico a quale momento del conflitto fa riferimento questo episodio della vita di Nagai.

4. Nagai parla di hansai: dopo aver riletto attentamente le prime due sequenze spiega la ragione per la quale «questo hansai» acquista significato e utilità per la fine della guerra.

TAk A shI NAGAI 445

1. Quale decisione importante il Giappone deve prendere la mattina del 9 agosto?

7. Il discorso di Nagai esprime riconoscenza: per chi? per cosa? Scrivi un testo in cui spieghi cosa permette a Nagai di pronunciare quelle parole davanti ai suoi connazionali.

8. Racconta di quando ti sei trovato a usare parole di conforto e speranza rivolgendoti a un tuo amico o parente.

2. In contemporanea alla riunione del Supremo Consiglio viene sganciata una bomba: in quale città e quartiere questo accade?

3. Nagai descrive le conseguenze dello scoppio della bomba e le coincidenze degli eventi; elenca sul quaderno sia le conseguenze sia le coincidenze che Nagai rileva.

5. Il discorso si conclude con un ringraziamento: quali sono i motivi per cui essere grati?

ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite fondata nel 1945.

3 Quattro: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica.

Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di re sponsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse alme no uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l’Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell’ONU2, sotto il patrocinio dei Quattro3, tutti d’accordo nel proposito di bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza […] in ba se al «principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri», come è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente «l’integrità terri

1 Repubblica: alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 nasce la prima Repubblica 2Italiana.

Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbato re, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?

Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la re sponsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica1 che, armonizzando in sé le aspira zioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristia nesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella coopera zione fra i popoli che avete il compito di stabilire.

Discorso alla Conferenza di Pace di Parigi, 10 agosto 1946 Alla Conferenza di Parigi si sono riunite tutte le nazioni coinvolte nel secondo con flitto mondiale. In quella occasione il primo ministro italiano, uno tra i più grandi statisti e politici della storia d’Italia, si trova a parlare a nome di un Paese che è stato governato dalla dittatura fascista e che si è alleato con la Germania nazista. De Ga speri si trova quindi dalla parte di quei Paesi che dalla guerra sono usciti sconfitti. L’incipit del discorso di De Gasperi si apre con parole cariche di realismo: «Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me », ma si chiude con la cer tezza di un popolo pronto a dare il proprio contributo per la pace e la libertà. Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.

DIscORsI cElEBRI446 ALCIDE DE GASPERI

AlcIDE DE G A sPERI 447

toriale e l’indipendenza politica», tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. L’Italia avrebbe subìto delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritrove rebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale.

Ora non v’ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu pos sibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sareb be stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazio ne dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abi le azione clandestina degli uomini dell’opposizione parlamentare antifasci sta (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi rappresentanti) che spinsero al colpo di stato. Rammentate che il comunicato di Potsdam del 2 agosto 1945 proclama: «L’Italia fu la prima delle Potenze dell’Asse a rompere con la Germania, alla cui sconfitta essa diede un sostanziale contributo ed ora si è aggiunta agli Al leati nella guerra contro il Giappone». «L’Italia ha liberato sé stessa dal regime fa scista e sta facendo buoni progressi verso il ristabilimento di un Governo e istituzioni democratiche».

Il primo considerando1 riguarda la guerra di aggressione e voi lo ritrovere te tale quale in tutti i trattati coi così detti ex satelliti; ma nel secondo consi derando che riguarda la cobelligeranza voi troverete nel nostro un apprezza mento sfavorevole che cercherete invano nei progetti per gli Stati ex nemici. Esso suona: «considerando che sotto la pressione degli avvenimenti militari, il re gime fascista fu rovesciato…».

La stessa domanda può venir fatta circa la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: «delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania». Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del Corpo Italiano di Liberazione, trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e last but non least2 dei partigiani, autori soprattutto dell’insurrezione del nord.

Si può credere che sia così? Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio. […] Ma, in verità, più che il testo del trattato, ci preoccupa lo spirito: esso si ri vela subito nel preambolo.

Tale era il riconoscimento di Potsdam. Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italia no che fu protagonista? Forse che un governo designato liberamente dal po polo, attraverso l’Assemblea Costituente della Repubblica, merita meno con siderazione sul terreno democratico?

Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazio ne di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza con 1 considerando: è un’espressione che viene utilizzata in campo politico per esprimere ragioni legate a norme dichiarate (sin. valutando, tenendo presente, reputando…). 2 last but non least: espressione inglese che viene usata per significare ‘ultimo nell’elenco ma non ultimo per importanza’.

448 tare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento e i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana.

Signori Ministri, Signori Delegati, per mesi e mesi ho atteso invano di po tervi esprimere in una sintesi generale il pensiero dell’Italia sulle condizio ni della sua pace, ed oggi ancora comparendo qui nella veste di ex-nemico, veste che non fu mai quella del popolo italiano, innanzi a Voi, affaticati dal lungo travaglio o anelanti alla conclusione, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal vo ler intralciare ma intendiamo costruttivamente favorire la vostra opera, in quanto contribuisca a un assetto più giusto del mondo.

Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri appa rentemente contrastanti.

Da una parte egli deve esprimere l’ansia, il dolore, l’angosciosa preoccu pazione per le conseguenze del Trattato, dall’altra riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rin novamento del mondo operato con validi strumenti di pace.

Tale fede nutro io pure e tale fede sono venuti qui a proclamare con me i miei due autorevoli colleghi, l’uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l’evoluzione democratica dell’altro dopoguerra, il secon do Presidente dell’Assemblea Costituente Repubblicana, vittima ieri dell’esi lio e delle prigioni e animatore oggi di democrazia e di giustizia sociale: en trambi interpreti di quell’Assemblea a cui spetterà di decidere se il Trattato che uscirà dai vostri lavori sarà tale da autorizzarla ad assumerne la corre sponsabilità, senza correre il rischio di compromettere la libertà e lo svilup po democratico del popolo italiano.

È in questo quadro di una pace generale e stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavorato re di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.

Il rapido crollo del fascismo dimostrò esser vero quello che disse Churchill: «Un uomo, un uomo solo ha voluto questa guerra» e quanto fosse profetica la paro la di Stimson, allora Ministro della guerra americano: «La resa significa un atto di sfida ai tedeschi che avrebbe cagionato al popolo italiano inevitabili sofferenze». […]

DIscORsI cElEBRI

Signori Delegati, grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessu na concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nel la pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni Paese che nella guerra hanno combattuto e sofferto per una mèta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con com promessi instabili: guardate a quella mèta ideale, fate uno sforzo tenace e ge neroso per raggiungerla.

Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi in dietreggiarono lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo quello che gli aerei non avevano abbattuto.

6. Riprendi l’articolo 1 della Costituzione Italiana e paragonalo con la parte finale del discorso di De Gasperi: quali correlazioni ci sono?

4. De Gasperi parla, per quasi tutto il discorso, in prima persona, ma a un certo punto si esprime utilizzando la terza persona: individua nel testo il passaggio e spiega la ragione di questo cambiamento.

3. Cosa affermava il comunicato di Potsdam del 2 agosto 1945 e cosa disse Churchill? Qual è lo scopo per cui De Gasperi cita queste due dichiarazioni?

7. Scrivi cinque articoli utili per una buona e costruttiva convivenza all’interno della tua classe o istituto e poi presentali ai tuoi compagni. Per ogni articolo poni una adeguata argomentazione, cioè dai le ragioni che sottendono le tue proposte.

AlcIDE DE G A sPERI 449

2. Quali proposte di modifica del Trattato vengono suggerite? In forza di quali fatti De Gasperi è in grado di sostenerle?

5. Su cosa si fondano la fede e la speranza di «un mondo più giusto e più umano» che De Gasperi esprime in nome del popolo italiano?

1. Il Trattato di Pace, che è oggetto del discorso di Alcide De Gasperi, quali condizioni sfavorevoli pone nei confronti dell’Italia? Elencale sul quaderno.

1 civis Romanus sum: locuzione latina che significa ‘sono cittadino Romano’.

2 Ich bin ein Berliner: frase in tedesco che significa ‘io sono un berlinese’.

Discorso in difesa della democrazia davanti al Muro di Berlino, 26 giugno 1963

DIscORsI cElEBRI450 JOHN F. KENNEDY

Presidente degli Stati Uniti d’America nei primi anni ’60, John Fitzgerald Kennedy è ricordato ancora oggi per aver preso iniziative, per quel tempo, coraggiose. Si an noverano in particolare la scarcerazione di Martin Luther King, l’aver firmato il trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari, l’aver varato il program ma spaziale americano e l’essersi impegnato contro la povertà. In questo quadro è altrettanto significativo il discorso che pronunciò a Berlino Ovest, allora divisa da un muro che separava in due la città, non consentendo ai cittadini di transitare da una zona all’altra. Nelle parole di Kennedy emerge la volontà di identificarsi con i cittadini berlinesi e con la loro condizione di uomini separati nella loro stessa nazio ne. Come un ritornello Kennedy andrà ripetendo: «Io sono un berlinese». Fu assassinato con un colpo di fucile il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas, in oc casione di una visita ufficiale alla città. Sono orgoglioso di visitare questa città come ospite del vostro onorevole sin daco, che ha incarnato per il mondo lo spirito combattivo di Berlino Ovest. E sono orgoglioso di visitare la Repubblica Federale con il vostro onorevo le Cancelliere che governa la Germania da così tanti anni nella democrazia, nella libertà e nel progresso, e di essere venuto qui assieme al mio concit tadino americano Generale Clay che è stato in questa città nei momenti di maggiore crisi, e vi tornerà ancora, se necessario. Duemila anni fa, l’espres sione di massimo orgoglio era «civis Romanus sum »1. Oggi, nel mondo libero, è affermare «Ich bin ein Berliner »2 . […] Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo co munista. Che vengano a Berlino. Ce ne sono alcune che sostengono che il co munismo è l’onda del futuro. Che vengano a Berlino. Ve ne sono alcune che dicono, in Europa come altrove, che possiamo col laborare con i comunisti. Che vengano a Berlino. E ce ne sono anche altre che riconoscono che il comunismo è un sistema malvagio, ma favorisce progressi economici. Lass sie nach Berlin kommen3. Che vengano a Berlino. La libertà ha molte difficoltà e la democrazia non è perfetta. Ma non ab biamo mai costruito un muro per rinchiuderci la nostra gente, per impedir loro di lasciarci. Voglio dire a nome dei miei compatrioti che vivono a molte miglia da qua dall’altra parte dell’Atlantico, che sono distanti da voi, che so

3 Lass sie nach Berlin kommen: frase in tedesco che significa ‘che vengano a Berlino’.

jOhN f. kENNEDy 451 no orgogliosi di poter condividere con voi la storia degli ultimi diciotto anni. Non conosco nessun Paese, nessuna città, che è stata assediata per diciotto anni e ancora vive con vitalità e forza, e speranza e determinazione come la città di Berlino Ovest.

Anche se il muro è la più grossa dimostrazione del fallimento del sistema comunista – tutto il mondo lo può vedere – questo non ci rende felici; esso è, come il vostro sindaco ha detto, un’offesa non solo alla storia, ma all’umani tà, separando famiglie, dividendo i mariti dalle mogli, e i fratelli dalle sorelle, dividendo le persone che vorrebbero stare insieme. Ciò che è vero per questa città è vero per la Germania: una pace reale e duratura non potrà mai essere assicurata all’Europa finché a un quarto della Germania sarà negato il diritto elementare dell’uomo libero: prendere una decisione libera. In diciotto anni di pace e benessere questa generazione di tedeschi ha guadagnato il diritto a essere libera, incluso il diritto di unire le famiglie, a mantenere la propria nazione in pace, in buoni rapporti con tut ti. Voi vivete in un’isola fortificata della libertà; ma la vostra vita è parte della collettività. Consentitemi di chiedervi, per concludere, di alzare i vostri occhi oltre í pericoli di oggi, verso le speranze di domani, oltre la libertà della sola città di Berlino, o della vostra Germania, per promuovere la libertà ovunque, oltre il muro per un giorno di pace e giustizia, oltre voi stessi e noi stessi per tutta

Lal’umanità.libertàèindivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero. Quando tutti saranno liberi, allora potremo vedere quel giorno in cui questa città sarà riunita e così questo Paese e questo grande continente eu ropeo saranno in un mondo pacifico e pieno di speranza. Quando quel giorno finalmente arriverà, e arriverà, la gente di Berlino Ovest sarà orgogliosa del fatto di essere stata al fronte per quasi due decenni. Tutti gli uomini liberi, ovunque si trovino, sono cittadini di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire: Ich bin ein Berliner.

DIscORsI cElEBRI4521.La

6. A volte i muri si alzano tra le persone. Racconta di quella volta in cui ti sei accorto di aver eretto un muro tra te e…

prima parte del discorso è un giudizio forte sulla situazione politica della Germania e in particolare sulla città di Berlino. La frase che Kennedy ripete: «che vengano a Berlino» a chi si rivolge e di cosa, nel visitare Berlino, ci si dovrebbe rendere conto?

4. Spiega cosa Kennedy vuole dire affermando: «La libertà è indivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero».

7. Racconta un episodio in cui ti sei adoperato per mettere pace in una situazione di divisione: quali azioni e ragioni hai portato? Quali risultati hai ottenuto?

2. Come Kennedy descrive la libertà e la democrazia? Prova a dare ragione di questa definizione.

5. Kennedy ripete come un ritornello la frase «io sono un berlinese»: qual è il senso di questa frase? Qual è lo scopo comunicativo per cui viene ripetuta con insistenza?

3. Il muro è segno di fallimento: spiega perché Kennedy lo giudica negativamente.

Sono felice di unirmi a voi, oggi, in quella che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà della nostra nazione.

Discorso per i diritti civili al Lincoln Memorial, 28 agosto 1963

Cent’anni fa un grande americano, nella cui ombra simbolica ci troviamo oggi, ha firmato la Dichiarazione di Emancipazione. Questo importante de creto è giunto come un faro di luce e speranza per milioni di schiavi negri che sono stati marchiati a fuoco dalle fiamme di un’avvilente ingiustizia. È giunto come un’aurora gioiosa, che ha posto fine alla lunga notte della prigionia.

Invece di onorare questa sacra obbligazione, l’America ha dato ai negri un assegno scoperto, un assegno che è tornato indietro con la scritta “fondi insuf ficienti”. Ma ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia insolvente.

A poco più di trent’anni Martin Luther King diede inizio nella città di Montgomery, in Alabama, a un’azione di boicottaggio che consisteva nel non rispettare la segrega zione razziale sui mezzi di trasporto pubblici: le persone di colore dovevano sedersi solo in posti a loro destinati e non mettersi vicino agli uomini bianchi.

Ma cento anni dopo dobbiamo affrontare il tragico fatto che i neri non sono ancora liberi. Cento anni dopo la vita dei neri è ancora tristemente menomata dalle manette della segregazione e dalle catene della discriminazione. Cento anni dopo i neri vivono in un’isola deserta di povertà nel mezzo di un vasto oceano di prosperità materiale. Cento anni dopo i neri languiscono ancora agli angoli della società americana e si trovano in esilio nella loro stessa ter ra. Così siamo venuti qui oggi per rappresentare una condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti nella capitale della nostra nazione per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le parole magnifiche della nostra Costituzione e della Dichiarazione d’Indipendenza hanno firmato una cambiale della quale ogni americano era erede. Questa cambiale era una promessa che tutti gli uomini avrebbero go duto del diritto inalienabile alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. È ovvio, oggi, che l’America si è dichiarata insolvente rispetto a questa cambiale, ma soltanto nei confronti dei cittadini di colore.

Questo fu l’inizio di una lunga serie di iniziative pubbliche in cui Martin Luther King portò avanti una battaglia non violenta contro le leggi razziali, che emarginava no e segregavano le persone di colore. Significativa l’imponente Marcia su Washington del 1963 a cui parteciparono 250.000 persone. È in questa occasione che pronuncia il discorso memorabile in cui invoca la fine del razzismo e la pace tra bianchi e neri.

453

MARTIN LUTHER KING

Fu assassinato con un colpo di fucile il 4 aprile 1968 a Memphis, in Tennessee, do ve si era recato per sostenere uno sciopero organizzato da lavoratori afroamericani.

Non possiamo essere soddisfatti fino a quando i nostri bambini saranno spogliati della loro personalità e derubati della loro dignità da cartelli che di cono “per soli bianchi”. Non possiamo essere soddisfatti fino a quando un negro nel Mississipi non può votare e uno a New York è convinto di non avere nessuno per cui votare.

Non potremo mai essere soddisfatti fino a quando i nostri corpi, affaticati da un viaggio, non potranno trovare ristoro nei motel lungo le autostrade e negli hotel delle città.

E mentre avanziamo, dobbiamo impegnarci a marciare sempre in prima linea. Non possiamo tornare indietro. Ci sono coloro che chiedono ai militan ti: «quando vi riterrete soddisfatti?» […].

DIscORsI cElEBRI454 Ci rifiutiamo di credere che non ci siano fondi sufficienti nei grandi for zieri delle opportunità di questa nazione. Invece siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, su semplice richiesta, le ricchezze della libertà e di una giustizia sicura. Siamo venuti in questo luogo sacro anche per ricordare all’America l’ar dente urgenza dell’oggi. Non è questo il momento di concedersi il lusso di tergiversare o di assumere la medicina tranquillante della gradualità. Ora è il tempo di rendere reali le promesse della democrazia. Ora è il tempo di la sciare la scura e desolata valle della segregazione, per percorrere il sentiero assolato della giustizia razziale. Ora è il tempo di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili della ingiustizia razziale, portandola verso il terreno soli do della fratellanza. Ora è il tempo di rendere la giustizia una realtà per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per la nazione se non valutasse a pieno l’urgenza di questo Questamomento.estatesoffocante per il legittimo malcontento del negro non finirà fi no a quando non sarà raggiunto un tonificante autunno di libertà e uguaglianza. Il 1963 non è una fine ma un inizio. Se la nazione fa finta che niente sia accaduto e spera che i neri abbiano solo il bisogno di sfogare le proprie ten sioni, allora la nazione avrà un brutto risveglio. In America non ci sarà riposo né pace fino a quando ai neri non saranno garantiti i loro diritti di cittadini. Il turbine della ribellione continuerà a scuotere le basi della nostra nazione fino a quando non arriverà il luminoso giorno della giustizia. Ma c’è qualcosa che devo dire al mio popolo […]. Nel cammino che ci porte rà a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti o soprusi. Non cerchiamo di placare la sete di libertà bevendo alla coppa dell’o dio e del rancore. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano ele vato di dignità e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Sempre e comunque, dobbiamo innalzar ci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’armonizza con la forza dell’a nima. Il nuovo e meraviglioso clima di combattività di cui oggi è impregnata l’intera comunità nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perché molti nostri fratelli bianchi, come testimonia la loro presenza qui oggi, hanno capito che il loro destino è legato al nostro. Hanno capito che la loro libertà si lega inestricabilmente alla nostra. Non possiamo camminare da soli.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della dispe razione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasfor mare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.Conquesta fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare in carcere insieme, di difendere insieme la li bertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Questo sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio saranno in grado di cantare

No, no, non siamo soddisfatti e non lo saremo finché la giustizia non scor rerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente. Sono consapevole che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi vengono direttamente dalle anguste celle di un car cere. Alcuni di voi vengono da aree dove la nostra ricerca di libertà li ha la sciati colpiti dalla tormenta della persecuzione e barcollanti per i venti della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continua te a operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Tornate nel Mississipi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana. Tornate nei vostri quartieri e ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cam biare e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

MARTIN lUT hER kING 455

Oggi vi dico, amici miei, che, anche se ci troviamo ad affrontare le difficol tà dell’oggi e del domani, ho ancora un sogno. È un sogno che ha le sue radici profonde nel sogno americano. Ho un sogno. Che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà il vero si gnificato del suo credo: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali». Ho un sogno. Che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di quelli che una volta erano schiavi e i figli dei padroni saranno capaci di sedersi in sieme al tavolo della fratellanza. Ho un sogno. Che un giorno anche lo stato del Mississipi, uno stato soffo cante per il caldo dell’ingiustizia, soffocante per il caldo dell’oppressione, sa rà trasformato in un’oasi di libertà e giustizia. Ho un sogno. Che i miei quattro bambini vivranno un giorno in una nazione dove non verranno giudicati per il colore della loro pelle ma per il loro carattere. Ho un sogno oggi. Ho un sogno. Che un giorno in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con il loro governatore le cui labbra stillano parole di rifiuto e annientamento, un giorno – proprio lì in Alabama – bambini e bambine neri potranno tenersi per mano con bambini e bambine bianchi, come sorelle e fratelli. Ho un sogno oggi. Ho un sogno. Che un giorno ogni valle verrà colmata, e ogni collina e mon tagna verranno abbassate, e i luoghi accidentati verranno resi piani, e i terre ni contorti verranno resi dritti, e la gloria del Signore sarà rivelata e tutti gli esseri umani potranno vederla insieme. È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale mi avvio verso il Sud.

456 con un nuovo significato: «Patria mia, è di te, dolce terra di libertà, è di te che io canto. Terra dove sono morti i miei avi, terra dell’orgoglio dei pellegrini, da ogni montagna riecheggi libertà». E se l’America vuole essere una grande na zione, questo dovrà accadere. Risuoni, quindi, la libertà dalle cime prodigiose del New Hampshire. Ri suoni la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà dagli alti Allegheny della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle montagne rocciose del Colorado, bianche di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non solo. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose della Georgia. Ri suoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee. Risuoni la libertà da ogni monte e da ogni collina del Mississipi. Da ogni pendice risuoni la libertà. E quando lasceremo risuonare la libertà, quando le permetteremo di ri suonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni Stato e da ogni città, sa remo in grado di anticipare il giorno in cui tutti i figli di Dio, neri o bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti sapranno unire le loro mani e cantare le parole del vecchio spiritual: «Liberi, finalmente. Liberi, finalmente. Grazie, Signore Onnipotente, siamo liberi finalmente».

DIscORsI cElEBRI

3. Davanti al popolo da lui radunato, in che modo M.L. King sprona tutti ad affermare i diritti dell’uomo? Riporta le frasi in cui emerge come egli desidera «placare la sete di libertà… condurre la nostra lotta».

4. «Non potremo mai essere soddisfatti fino a quando…» Elenca tutto ciò che viene auspicato per raggiungere la libertà degli uomini di colore.

6. Martin Luther King inizia il suo discorso facendo riferimento a un personaggio della storia americana che firmò la Dichiarazione di Emancipazione: fai una breve ricerca per capire a quale figura si riferisce e che importanza ha avuto per gli Stati Uniti d’America.

7. «… lasceremo risuonare la libertà…» Racconta una esperienza in cui hai vissuto un momento di grande libertà.

8. L’esclusione di chi è diverso da sé è una situazione che potrebbe accadere anche tra i banchi di scuola, in palestra, in famiglia… Racconta una esperienza in cui ti sei trovato escluso o hai escluso qualcuno.

2. Lungo il discorso vi sono sequenze in cui le stesse frasi si ripetono come un ritornello. Cogli ed esponi il pensiero racchiuso nelle due sequenze.

5. Ci sono molte frasi evocative e poetiche: ricercale nel testo e sottolineale.

1. Martin Luther King, nel denunciare come ciò che era stato promesso cento anni prima sia stato disatteso, usa una metafora: cerca gli elementi di paragone e spiegane il contenuto.

MARTIN lUT hER kING 457

DIscORsI cElEBRI458 NELSON MANDELA

Discorso dopo la vittoria elettorale dell’ANC1, 10 maggio 1994 Nel 1948 in Sudafrica il governo, guidato dai bianchi, mette in atto la politica deno minata apartheid , che letteralmente significa ‘separazione’. La separazione di cui si parla è tra i bianchi e tutte le altre presenze quali neri, meticci e indiani. Man dela, come M.L. King negli USA, dedica tutta la sua vita ad abbattere l’apartheid e per questa sua tenace e combattiva opposizione trascorre 26 anni in carcere. Il suo operato viene riconosciuto da tutto il mondo, tanto che dopo la sua scarcerazione, avvenuta nel 1993, viene insignito del premio Nobel per la Pace. Quando nel suo paese di origine vengono per la prima volta svolte libere elezioni, egli viene eletto presidente del Sudafrica. Vostre Maestà, Vostre Altezze, Egregi ospiti, Compagni e amici Oggi tutti noi, con la nostra presenza qui e con le celebrazioni in altre par ti del Paese e del mondo, onoriamo con gloria e speranza la nostra neonata libertà.Dall’esperienza di un terribile disastro umano che è andato avanti trop po a lungo, deve nascere una società che sarà motivo di fierezza per tutta la nazione.Lenostre incombenze quotidiane di cittadini sudafricani devono produr re una realtà che sappia rafforzare la fiducia dell’umanità intera nella giusti zia, la sua fede nella nobiltà dell’animo umano e la sua speranza di una vita migliore.Lodobbiamo a noi stessi e a tutti i popoli del mondo, che oggi vediamo rappresentati qui. Ai miei compatrioti dico senza esitazioni che ognuno di noi è intimamen te legato al suolo di questa bellissima terra, come lo sono i famosi alberi di jacaranda di Pretoria o gli alberi di mimosa del bush. Ogni volta che uno di noi tocca questo suolo, ci sentiamo rinnovati nella nostra essenza. Lo stato d’animo della nazione muta al mutare delle stagioni.

1 ANC: African National Congress (Congresso Nazionale Africano). È il partito politico sudafricano fondato nel 1912 e ispirato alla nonviolenza ghandianalo. Ha lo scopo di difendere i diritti e le libertà della maggioranza nera della popolazione africana.

Ci coglie un senso di gioia e di esaltazione quando l’erba diventa verde e i fioriL’unitàsbocciano.spirituale e fisica con la nostra patria, che noi tutti condividiamo, spiega la profondità del dolore che ha ferito i nostri cuori nel vederla denigra ta, messa fuori legge e isolata a causa della perniciosa ideologia e prassi del razzismo e dell’oppressione razziale.

anche rendere omaggio alle nostre forze di sicurezza, di ogni ordine e grado, per il ruolo che hanno avuto nel garantire lo svolgimento si curo delle nostre prime elezioni democratiche e nella transizione alla demo crazia, proteggendoci dalle forze assetate di sangue che ancora rifiutano di vedere la luce. È giunto il momento di guarire le ferite. È giunto il momento di richiudere gli abissi che ci dividono. È giunto il momento di costruire.

Dedichiamo questo giorno a tutti gli eroi e le eroine di questo Paese e del mondo che hanno dato la vita per la nostra libertà.

Noi, il popolo sudafricano, siamo grati di essere stati accolti di nuovo in seno all’umanità; siamo grati che noi, fino a così poco tempo fa dei fuorica sta, oggi abbiamo il raro privilegio di ospitare sul suolo della nostra nazione i rappresentanti di tutti i popoli della Terra.

Ringraziamo tutti i nostri distinti ospiti internazionali per essere venuti a condividere con il popolo di questo Paese quella che è, dopotutto, una vittoria comune in nome della giustizia, della pace, della dignità umana.

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Siamo profondamente grati del lavoro svolto dal popolo, dell’azione poli tica di una massa composta da democratici, religiosi, donne, giovani, uomini d’affari, leader tradizionali e non, che ha portato a questa felice conclusione. Tra loro, voglio menzionare il mio secondo vicepresidente, l’onorevole F.W. de Klerk.Vogliamo

Infine, abbiamo ottenuto l’emancipazione politica. Ci impegniamo a libe rare tutto il popolo dalle catene della povertà, della privazione, della soffe renza e delle discriminazioni. Siamo riusciti a compiere i nostri ultimi passi verso la libertà relativamente in pace. Ci impegniamo ora a costruire una pace completa, giusta e duratura.

Crediamo e speriamo che rimarrete al nostro fianco per affrontare la sfi da della costruzione della pace, della prosperità, dell’uguaglianza sessuale e razziale, della democrazia.

Abbiamo trionfato nel nostro tentativo di instillare la speranza nei cuori di milioni di compatrioti. Abbiamo stretto un patto: costruire una società in cui tutti i sudafricani, neri e bianchi, potranno camminare a testa alta, senza paura nel cuore, certi del loro diritto inviolabile alla dignità umana – una na zione arcobaleno in pace con sé stessa e con il mondo.

Come segno del suo impegno al rinnovamento di questo Paese, il nuovo governo ad interim di unità nazionale affronterà subito, con urgenza, la que stione dell’amnistia per varie categorie di persone come noi al momento rin chiuse in carcere con varie condanne.

Il loro sogno si è avverato. La libertà è la loro ricompensa.

Mi sento onorato e umile di fronte al privilegio che voi, il popolo sudafri cano, mi avete concesso: quello di essere il primo presidente di un governo unitario, non razziale e non sessista. Nonostante questo, sappiamo bene che non esiste una via facile verso la libertà.

Sappiamo bene che nessuno di noi, da solo, può ottenere il successo che desideriamo.Dobbiamo

Che ci sia giustizia per tutti. Che ci sia pace per tutti.

3. Dopo queste vittoriose elezioni, cosa viene chiesto ai cittadini come contributo essenziale alla costruzione del Paese? Spiegane le ragioni.

2. Chi sono gli eroi di cui si parla? Perché vengono così definiti?

4. Quali sono le condizioni per una vita migliore? Sottolineale nel testo.

6. Approfondisci le figure di N. Mandela e M.L. King e per ognuna prepara una scheda in cui vi siano le informazioni essenziali dell’uno e dell’altro. A conclusione di questa prima parte di lavoro scrivi un testo in cui emergano le convergenze e le differenze tra loro.

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5. Nel testo si parla di democrazia: rintraccia gli elementi che la caratterizzano.

E che il sole non tramonti mai su questa gloriosa vittoria dell’uomo!

Mai più, mai più, mai più questa splendida terra vedrà l’oppressione di un suo abitante su un altro, mai più soffrirà l’indegnità di essere considerata la feccia del mondo. Che regni la libertà.

Che ci siano lavoro, pane, acqua e sale per tutti.

Che ognuno sappia che il suo corpo, la sua mente e la sua anima sono libe ri, ora, liberi di realizzare i propri sogni.

1. Quale fenomeno presente in Sudafrica ha fine grazie all’elezione di Mandela a presidente?

lavorare insieme, come un popolo unito, per la riconciliazione nazionale, per costruire una nazione, per far nascere un mondo nuovo.

Che Dio benedica l’Africa!

7. Attraverso la produzione di una scaletta e/o sommario presenta quali sono le caratteristiche della democrazia e spiega perché vale la pena vivere in un paese democratico.

8. Si parla di eroi, ma dal discorso di Mandela si coglie che qui gli eroi sono molto diversi da quelli che solitamente ci immaginiamo. Racconta la storia di una persona che ha reso eroico un fatto quotidiano.

Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.

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Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo peri colo che egli correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Per ché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque del la speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’a more è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli so no stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e profes sionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di 1 Cosa nostra: associazione criminale di tipo mafioso nata in Sicilia nel XIX secolo.

Giovanni Falcone pronunciato nella chiesa di Sant’Ernesto, Palermo 23 giugno 1992 Paolo Borsellino e Giovanni Falcone sono stati due magistrati palermitani che han no dedicato la loro vita alla lotta contro la mafia, cioè l’organizzazione criminale presente in Sicilia e in altre zone del mondo. Borsellino e Falcone hanno fatto parte di un organo compatto e unitario di magistrati che insieme collaborarono per ab battere Cosa nostra1 Questo nucleo di magistrati, dedito allo smantellamento della criminalità organizzata, venne chiamato Pool antimafia ; il loro indomito impegno porterà al Maxiprocesso di Palermo, così indicato per la grande quantità di uomini coinvolti. La prima fase si svolse dal febbraio del 1986 al 16 dicembre 1987 con la pre senza di 476 imputati chiamati a giudizio e 200 avvocati per la difesa. Nonostante i brutti presagi, i due magistrati hanno continuato a lavorare con pas sione e determinazione fino a perdere entrambi la vita. Falcone, insieme a sua moglie Francesca Morvillo e a tre uomini di scorta, muore il 23 maggio 1992 lungo l’auto strada Palermo-Trapani e Borsellino solo due mesi dopo, il 19 luglio 1992, muore a causa dell’esplosione di un’autobomba piazzata sotto casa sua, causando anche il de cesso di cinque uomini della scorta.

PAOLO BORSELLINO

Discorso in memoria dell’amico e compagno

Occorreaccademiche.evitareche si ritorni di nuovo indietro. Occorre dare un senso al la morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debi to verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera.

La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coin volgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità.

DIscORsI cElEBRI462 indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno.

Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta [il pentito Tommaso Buscetta, ndr] egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il no stro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa.

Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche co loro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono sve gliate debbono svegliarsi. La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio. Dal sacrificio della sua donna. Dal sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la Giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, al meno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse

Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza al le scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. […] In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Cercò di ri creare altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro. Per poter continuare a «dare». Per poter continuare ad «amare». Venne accu sato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Menzogna! Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. […]

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Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possia mo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaboran do con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi per sona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno que sta gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mon do che Falcone è vivo.

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2. Qual è la ragione per cui Falcone non è fuggito da Palermo? Cosa lo tratteneva?

4. Dopo la stagione del «tifo per noi», ne inizia una seconda. Descrivi in dieci righe in cosa consiste questa seconda fase, riportando anche le parole stesse di Borsellino.

3. Il lavoro dei magistrati, secondo il desiderio di Falcone, non doveva essere solo legato all’arresto dei mafiosi, ma essere molto di più. Cerca nel testo a quale altro compito il magistrato era chiamato.

9. Racconta di quella situazione in cui hai assistito alla reazione corraggiosa di chi si è opposto a un atteggiamento di prepotenza.

6. Dal sacrificio della morte di Falcone, della sua compagna e della scorta quali esiti positivi fioriscono?

8. Dopo aver letto anche il brano di D’Avenia e di Deliziosi (nella sezione «Squarci di mondo») prepara un testo in cui argomenti le ragioni per le quali la mafia si combatte sia non facendone parte, sia non assumendo comportamenti “mafiosi” nella vita quotidiana (bullismo, prepotenza, ecc.).

10. Attraverso interviste e documentari (RaiStoria, RaiPlay) approfondisci la storia di Falcone e Borsellino e traccia un loro identikit: presenta i magistrati ai tuoi compagni di classe.

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5. Quali sono le ragioni che Borsellino presenta per motivare questo secondo momento dell’operato di Falcone? Cosa decide di fare Falcone?

7. Ogni uomo e cittadino come può continuare l’operato del lavoro del magistrato Falcone? Sottolinea tutto ciò che Borsellino elenca come possibilità di proseguimento del lavoro dell’amico scomparso.

di Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, Borsellino usa per ognuno di loro il termine «coscienza». Rileggi attentamente le prime righe e spiega perché viene così marcatamente usata questa parola.

GEORGE W. BUSH Discorso alla nazione dopo l’attacco terroristico al World Trade Center, 11 settembre 2001 Si è appena festeggiato il nuovo millennio quando un’azione terroristica scuote tut to il mondo, introducendo sentimenti di paura e instabilità. Il presidente Bush, elet to pochi mesi prima, si trova a dover fronteggiare uno degli eventi più drammatici: due aerei si schiantano sulle Torri gemelle di New York. Questo fatto tragico ha dato inizio a una forma di guerra, ben diversa da quella delle guerre mondiali o dalla Guerra Fredda: essa ha come strategia di distruzione l’atto terroristico. In questo discorso pronunciato il giorno stesso dell’attacco, il presidente si rivolge non solo al popolo americano, ma indirettamente a tutto il mondo che, attraverso i canali televisivi, ha vissuto in diretta il crollo dei due famosi grattacieli situati nel cuore della città americana. Oggi, nostri concittadini, il nostro sistema di vita, perfino la nostra libertà, sono stati attaccati da una serie di atti terroristici deliberati e mortali. Le vittime si trovavano sugli aerei e nei propri uffici. Migliaia di vite sono state interrotte da atti di terrore deprecabili e malefici. Le immagini degli ae rei che si schiantavano sugli edifici, degli incendi, delle enormi strutture che si schiantavano al suolo, ci hanno riempito d’incredulità, di una terribile tri stezza e di una collera tranquilla e inflessibile, Questi omicidi di massa avevano come obiettivo di disintegrare la nostra nazione, di spingerla verso il caos. Ma hanno fallito. Il nostro Paese è forte. Un grande popolo è stato chiamato a difendere una grande nazione. Gli attac chi terroristici possono minare le fondamenta dei nostri edifici più grandi, ma non possono toccare le fondamenta dell’America. Possono piegare l’ac ciaio, ma non possono piegare l’acciaio della determinazione americana. È in corso la ricerca dei responsabili per questi attacchi malvagi. Non faremo distinzioni tra i terroristi che hanno commesso questi attacchi e quelli che li hanno aiutati. L’America è diventata un obiettivo perché noi siamo il faro più brillante nel mondo della libertà e delle possibilità dell’avvenire. E nessuno impedirà a questa luce di brillare. Oggi la nostra nazione ha visto il male, il peggio della natura umana, e noi abbiamo risposto con il meglio dell’Ameri ca. Con il coraggio dei nostri soccorritori, con la compassione degli stranieri e dei vicini che sono venuti a donarci il loro sangue e ad aiutare in tutti i modi che hanno potuto. Poco dopo il primo attacco, ho messo in atto tutti i piani di reazione in si tuazioni d’urgenza del nostro governo. Le nostre forze armate sono forti e preparate. I corpi speciali sono arrivati a New York e a Washington per aiuta re i soccorsi locali. La nostra principale priorità è quella di aiutare i feriti e di

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4. Quali sono le priorità che Bush ritiene di dover mettere in atto? A chi è rivolta la ricerca di cui parla?

2. Bush come descrive il suo Paese? A quale immagine lo associa? Spiega il motivo di questo paragone.

3. Gli attentati terroristici, oltre a causare la morte di molti uomini, quali altri fattori hanno voluto minare?

DIscORsI cElEBRI466 prendere tutte le precauzioni per proteggere i nostri cittadini nel Paese e nel mondo intero da altri attacchi. I lavori del nostro governo continuano senza interruzione. Tutte le agenzie federali evacuate oggi da Washington sono oc cupate questa sera da personale d’emergenza, e saranno piene di impiegati al lavoro domani. Le nostre istituzioni finanziarie restano solide, l’economia americana sarà anch’essa al lavoro domani. Questa sera vi chiedo di pregare per tutti quelli che soffrono, per i bambini che sono stati colpiti, per quelli il cui sentimento di sicurezza è stato minac ciato. E io prego perché ricevano conforto da un Potere più grande di ogni co sa tra noi, trasmesso attraverso i secoli dal Salmo 23: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me». È un giorno nel quale tutti gli americani si uniscono in questa determina zione per la giustizia e la pace. L’America ha respinto i nemici in passato, e noi lo rifaremo ancora una volta. Nessuno tra noi dimenticherà mai questo giorno. E noi continueremo ad avanzare per difendere la libertà e tutto ciò che c’è di buono e giusto nel nostro mondo. Grazie, buona notte e che Dio benedica l’America.

1. Questo attacco terroristico ha colpito parte del mondo civile nel suo quotidiano lavoro: sottolinea le vittime che vengono elencate. Come il presidente motiva questa forma di guerra? Qual è lo scopo?

5. Non è la prima volta che gli USA sono coinvolti in un conflitto, eppure Bush dice che in quel giorno gli americani «hanno visto il male». Spiega qual è la differenza tra questa esperienza dell’11 settembre e quelle in cui, nella storia, gli americani si sono trovati coinvolti.

6. Il discorso del presidente si conclude con una preghiera rivolta a Dio. Fai una ricerca e verifica se questa conclusione è eccezionale o se altri presidenti degli USA hanno usato nei loro discorsi questa formula finale. Cosa deduci da tale ricerca? Esponi le ragioni delle tue affermazioni.

467 VÁCLAV HAVEL Discorso al Senato della Repubblica Italiana, 4 aprile 2002 Drammaturgo, saggista e poeta, Havel ha contrastato con la sua arte e con il suo pensiero il regime comunista ed è stato uno dei leader della Rivoluzione di Velluto che, come anche altri grandi della storia, ha sostenuto una opposizione non vio lenta. Nel 1977, insieme ad altri intellettuali, ha redatto il documento passato alla storia col nome Charta 77 in cui venivano rivendicati i diritti umani di libertà e di autodeterminazione dei popoli. Havel si è sempre rifiutato di trasferirsi all’estero proprio perché voleva combat tere la sua battaglia pacifica in mezzo al suo popolo, attraverso le sue idee e la sua arte. Uomo temuto dal potere perché, attraverso la cultura, risvegliava le coscienze e il desiderio di libertà, è stato arrestato con l’accusa di sovversione. Nel 1989 gli Stati sotto l’influenza sovietica hanno conquistato la loro libertà e, attraverso elezioni li bere e democratiche, Havel è stato eletto presidente della allora Cecoslovacchia. Nel 1992 è stato nuovamente rieletto e confermato, ma nel frattempo la Cecoslovacchia si è divisa in Repubblica Ceca e Slovacchia. Il discorso che fa ai senatori italiani testimonia la profondità di pensiero e lo sguardo rivolto oltre i confini della propria terra. È rivolto a tutta l’umanità. […] Quanto è liberatorio, bello e salutare saper dire che non si capisce il mon do, che ci si tormenta per questo, che ci si stupisce di fronte ad esso e non lo si comprende! Come nel passato, quando l’Europa si stupiva di fronte alle entità incomprensibili che la circondavano, cioè al cospetto dell’Asia e del regno delle tenebre, così oggi dovrebbe stupirsi di fronte a sé stessa, a tutti i proces si che ha avviato e che dominano il mondo. Perché non stupirci osservando i giovani che non sanno più trascorrere neanche un minuto della loro vita sen za i telefoni cellulari? Perché non stupirci vedendoli stare ore e ore a contatto quotidiano con una macchina piuttosto che con un essere umano? Perché non stupirci riflettendo sul fatto che produciamo l’energia atomica, ma poi non sappiamo come smaltire le scorie nucleari? Perché non stupirci veden do scomparire i boschi, riflettendo sull’aria sempre più inquinata, sul fatto che la gente vive in enormi agglomerazioni ove scompaiono il senso della comunità e ogni norma morale? Perché non stupirci della crescita continua della produzione di automobili che ormai non ci consente più di attraversare neanche una capitale europea? Perché non stupirci del nostro proprio stupo re di fronte alla constatazione di quanto e con quale facilità l’arma biologica riesce a distruggere continenti interi, se noi stessi inventiamo queste armi nei nostri laboratori? Perché non stupirci alla fine che sempre meno persone — in Europa, in America, in Asia — producano valori concreti e sempre più

2 prodotto interno lordo: il valore di tutti i beni e servizi presenti all’interno di uno stato calcolati nell’arco di un periodo.

Effettivamente è giunta l’ora in cui l’Europa dovrebbe finalmente rinun ciare a pensare che deve esportare sé stessa nel mondo intero e sostituire a questa idea un’intenzione più modesta, ma più difficile da perseguire: inizia re a cambiare il mondo partendo da sé stessa, rischiando anche che nessu no segua il suo esempio. Qualcuno deve pur sempre cominciare! Non è forse anche questo un imperativo elaborato e sviluppato dalla filosofia europea?

Già nel corso di quest’anno si devono ancora svolgere diversi forum ove oc correrà deliberare su questioni fondamentali quali l’assetto futuro delle istitu zioni comuni e sulle leggi fondamentali della Confederazione europea, nonché sul piano di apertura dell’Unione ai paesi che si trovavano, tempo fa, dietro alla cortina di ferro3, oppure sul rapporto dell’Unione con le altre entità dell’attuale mondo multipolare! Sono convinto che non sprecheremo il nostro tempo.

Egregi presenti, volentieri ripropongo alla Vostra riflessione l’idea che forse c’è un tempo limite per affiancare l’impegno per l’unificazione europea con un esame serio e approfondito su noi stessi, sulle tendenze della civil tà moderna che è nata in Europa, sui problemi fondamentali dell’esistenza umana sulla terra, sulla felicità e la speranza degli uomini.

3 cortina di ferro: separazione territoriale e ideologica fra i paesi dell’Europa orientale e quelli dell’Europa occidentale, dove l’una era sotto l’influenza anglo-americana e l’altra sotto quella sovietica.

Signore e signori, tempo addietro Roma era il centro del mondo. Roma è la città in cui con i primi Trattati vennero poste le basi per il processo dell’u nificazione europea. Roma è la città ancora in cui a suo tempo fu costituito un famoso Club che decise di voler analizzare in modo critico gli sviluppi del mondo intero. Possa Roma diventare anche in futuro uno dei centri focali per la riflessione europea sul mondo! E, nello spirito del suo glorioso passato, possa diventare un altro simile centro focale anche Praga! Vi ringrazio dell’attenzione. 1 speculazione: attività commerciale che si propone di trarre forti guadagni dall’acquisto e dalla vendita di merci, valute ecc.

DIscORsI cElEBRI468 persone nel contempo si occupano solo di speculazione1, diventando molto più ricchi di chi è ancora in grado di produrli?

L’Europa avrà ancora molte occasioni all’inizio di questo millennio per una riflessione sulla propria responsabilità nei confronti del mondo.

Oggi l’Europa ha non solo l’occasione di dimostrare al mondo che mol te nazioni diverse possono convivere all’interno di una conformazione so vrannazionale e democratica, ma ha anche l’opportunità di ispirare il mondo in un altro modo: dare l’esempio, dimostrare cioè che si può vivere bene su questa terra anche se si pone l’accento su valori quali la bellezza di un paese o di una casa, l’affetto per il prossimo e il rispetto verso chi vivrà quando noi saremo partiti per il regno delle tenebre, piuttosto che porre l’accento sulla produzione del profitto o sulla crescita del prodotto interno lordo2.

8. Racconta di un tuo viaggio all’estero e descrivi ciò che hai trovato di simile e di diverso dall’Italia.

4. Quale passo deve innanzitutto fare l’Europa per poter svolgere questo compito?

2. Sottolinea tutto ciò che Havel ritiene essere motivo di stupore.

1. Cosa Havel definisce «liberatorio, bello e salutare»? Quali le ragioni per cui usa questi aggettivi?

3. Nel discorso si sottolinea che l’Europa ha un compito nel mondo: in cosa consiste?

5. Roma viene considerata città importante: sottolinea le ragioni di questo prestigio. 6. Attraverso un lavoro di ricerca scrivi e presenta alla classe una breve storia dell’Unione Europea. 7. La bandiera europea ha dei simboli e colori: ricercane il significato.

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