Roberto Ferrucci - Sentimenti sovversivi

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roberto ferrucci

Sentimenti sovversivi

ovunque»: in Italia e in Francia, a Venezia e a Saint-Nazaire, sulla costa atlantica. Nonostante tutto, l’indignazione civile, la vergogna politica di essere italiani oggi non riescono a soffocare la delicatezza e la capacità di amare (Roberto Ferrucci fa l’amore con le cose descrivendole). È un libro spalancato in mille paesaggi, respirati a pieni polmoni, oppure inquadrati dalla immensa vetrata di un aeroporto e dal piccolo schermo di una webcam. È un romanzo pieno di vento, tempestoso e carezzevole. Tiziano Scarpa

roberto ferrucci

Sentimenti sovversivi

A un certo punto il protagonista chiede a un amico come si chiama il vento che li avvolge in riva all’oceano. L’amico ci pensa un po’ su, e risponde: «Vento». Con le sue quarantamila parole, questo romanzo trova quarantamila volte il nome giusto al vento che sta spazzando via tutto, qui da noi: è la bruttissima aria che tira oggi in Italia. Roberto Ferrucci la affronta armato delle sue inconfondibili frasi cristalline, raffinate, combattive. Romanzo d’esperienze, Sentimenti sovversivi rinuncia alle fantasticherie letterarie, si lascia invadere da «quest’epoca che ti raggiunge sempre, che ti snida

Romanzo

SOVRACOPERTA.indd 1

€ 17,00

Isbn Edizioni

© Roberto Ferrucci

© Lucia Ziliotto, tutti i diritti riservati

12-05-2011 12:27:19


1 Tutto il bianco percepito

Ogni volta che ritorno qui, al decimo piano del Building, il vecchio tavolino è incastrato fra la colonna e la parete della terrazza, la superficie ripiegata in due. Ha addosso lo sporco del tempo, che mi sono convinto coincida ormai con le mie assenze. Nonostante le dimensioni, è pesantissimo, il che, con il vento che tira da queste parti, non nuoce affatto se non quando arriva il momento di spostarlo. Ogni volta che ritorno qui, prendo il tavolino, lo apro, lo pulisco, lo ricopro con la stuoia da spiaggia che ho trovato nell’armadio dell’ingresso, e trasformo l’insieme in un perfetto scrittoio che utilizzo più che posso. La prima volta, però, era inverno, e il tavolino l’ho soltanto pulito e mai usato. Non in terrazza, almeno, evitando così il problema dell’ancoraggio dei fogli al tavolo, che mi si sarebbe presentato le volte successive, con la bella stagione, quei refoli di vento improvvisi, potenti. Ho sempre desiderato avere una terrazza dove scrivere, e questa, così in faccia alla Loira, così accanto all’oceano, così sopra al porto di Saint-Nazaire, così in alto e con tutto il mondo intorno, sembra l’ideale di tutte le terrazze. In una panoramica introduttiva, lenta,


la videocamera inquadrerebbe ciò che adesso sto vedendo. Da sinistra i tre chilometri del ponte di Saint-Nazaire, poi, piano piano, il movimento metterebbe a fuoco il vecchio faro bretone, qui davanti – eccolo, lo sto indicando, vedete – e più lontano, di là dal fiume, oltre gli alberi, Saint-Brévin, sì, laggiù, un po’ più a destra. Qua sotto, l’obiettivo dovrebbe indugiare un po’ più a lungo sul piccolo quartiere del Petit Maroc che – meglio dirlo subito – nessuno ha saputo dirmi perché si chiami Petit Maroc. Infine, la videocamera dovrebbe ritornare indietro, fino a inquadrare, ancora più a sinistra, parallelo al Building, il porto di Saint-Nazaire, utilizzando il massimo ingrandimento possibile per far avvicinare il mio sguardo sulle navi in costruzione, quelle in riparazione, e infine su ciminiere, gru, fumi. Quando ci sono arrivato, la prima volta, mi sono reso conto che se nella tua vita sono tante, di solito, le case che hai abitato, che abiti, e che abiterai, mi sono accorto che, fra queste, da una parte c’è la casa dello stare, dall’altra la casa dell’essere. Quest’ultima, è meglio non coincida con casa tua. È piuttosto un sentimento. Senti che questo è il luogo. Non necessariamente dove vivere ma, di sicuro, dove ritornare quanto più di frequente possibile. Perciò sono di nuovo qui, e non ricordo più che volta è questa. La quinta, la sesta, non so. La prima volta che ci sono arrivato non è stata solo una percezione visiva, dunque, ma un vero sentire. Questa è la casa, ho pensato subito, non per forza mia, la casa, né raggiungibile a piacimento, condivisa con decine di altri scrittori prima di me, altrettanti dopo di me, invitati a fare dentro a questo appartamento, o su questa terrazza, proprio quello che sto facendo io, adesso, vedete, l’iPad piazzato sopra al tavolino ripulito e ordinato, un taccuino pieno di appunti, una penna, una caraffa d’acqua e un bicchiere. Sulla videotastiera dell’iPad, liscia, lucida, le dita non picchiettano sui tasti, ma li sfiorano, ci scivolano sopra, e lettera dopo lettera, tasto dopo tasto, sono delle carezze a far scaturire le parole. Scrivere


accarezzando le parole, chi l’avrebbe mai detto. Un oggetto che, subito, appena lo vedi, sembra la lavagnetta di quando eravamo bambini (fatta di ardesia, come i tetti delle case da queste parti, la stessa dei tetti del Petit Maroc, lavagna diffusa di scrittura potenziale). Quella lavagnetta con i gessetti colorati su cui – regalata a Natale o al compleanno – hanno preso forma le invenzioni più effimere della nostra vita, disegni e testi della durata di un attimo, il tempo di crearne uno, guardarlo, ammirarlo (non era così spiccato, allora, lo spirito critico) e, subito, cancellarlo. Guai a metterti in testa di scriverci una storia, là sopra. Nessuna pagina da far scorrere, solo l’infinita variante di uno stesso incipit. E usata così, adesso, guardata mentre scrivo, inclinata dalla custodia, sembra trasformarsi in una Lettera 22 piatta e liscia, macchina per scrivere del domani. La tecnologia che ti porta avanti partendo dal passato, e che ti fa stare nel presente come hai sempre desiderato. E avrei voluto scrivere una storia d’amore, quando ho iniziato questo libro, la prima volta che sono arrivato qui. Ma oggi è impossibile, credo, per uno scrittore italiano, scrivere una storia d’amore, riuscire ad astrarsi da un insopportabile senso di repulsione per il proprio paese. La quotidianità ti incalza metro dopo metro, sta in agguato a ogni angolo, provi a scartarla ma lei ti insegue, ti penetra dentro, non ti lascia scampo. Com’è possibile, oggi, mi domando, inventarsi dei personaggi che vivano e che agiscano in un altrove asettico, immuni dal marciume che ci sta attorno, che ci sovrasta, che si è insinuato dentro ciascuno di noi? Terminal 2F, dopo aver salutato l’hostess in cima alla scaletta (Au revoir Monsieur, bon séjour), nastro dei bagagli (e una valigia, non la mia, che continuava a girare solitaria con accanto un libro, la guida della Francia del Nord. Avrebbe potuto essermi utile, la guida), e poi scale mobili, tapis roulant, metro, locandine di giornali alle edicole senza nessun accenno alla politica italiana – finalmente – Montparnasse, altre scale, stavolta non mobili, Tgv, quattro ore circa, e quando le porte della stazione di Saint-Nazaire si spalancarono


davanti a me e al mio bagaglio di una trentina di chili, lo riconobbi subito, quel tipo, isolato lì, in piedi, cappotto nero come il mio, la luce che riverberava chiara dall’interno della stazione e che andò a rifrangersi, alle sue spalle, sullo sfondo giallo di una parete posticcia da lavori in corso. Ci misi un istante a ricalibrare i suoi lineamenti più marcati, i capelli grigi un po’ lunghi, con l’espressione e il ciuffo scuro delle foto che avevo visto vent’anni prima. In un istante parallelo al mio, vidi la mano con cui teneva la sigaretta alzarsi a mezz’aria, poco sotto il suo mento, indicarmi e salutarmi, e sentii la sua voce dire il mio nome alla francese mentre io, all’italiana, pronunciai il suo, Patrick Deville, il direttore letterario della fondazione che mi aveva invitato qui a Saint-Nazaire. Qualche parola, ringraziamenti, benvenuto, com’è andato il viaggio, benissimo, grazie, e intanto mi trascinavo dietro i trenta chili di bagaglio, rumorosi quasi quanto il motorino che in quel momento stava passando sul pavé esterno alla stazione. Ero imbarazzato, non era lui che mi aspettavo, così come, fino a un paio di giorni prima, non mi aspettavo che fosse lui il direttore della fondazione. Preparo sempre all’ultimo momento le mie partenze, non so se per pigrizia o per lasciare qualche margine in più alla sorpresa, qualche ulteriore prospettiva alla novità del viaggio. A dire il vero, però, forse mi preoccupa lo spostamento, l’idea di me trasportato da un luogo all’altro, timoroso di mancare coincidenze, di invertire tragitti, di sbagliare strada. Per fortuna c’è Teresa a orientarmi, a stabilire i percorsi, a indicarmi le direzioni. Lei si siede sul divano, il portatile sulle ginocchia, ed è come se lo avesse inventato lei, il teletrasporto, ma soltanto per me. Per noi. Nulla poté fare, però, Teresa, per l’imbarazzo del mio arrivo, quella sera. Non poteva prevederlo e così, pur di non tacere, alla stazione di Saint-Nazaire, quella sera, dissi a Patrick Deville la cosa più scema, quella che non dovresti dire mai a uno scrittore appena incontrato, anche se è la verità. Gli dissi che avevo letto tutti i suoi romanzi, snocciolai titoli, anno di pubblicazione, forse anche qualche personaggio. Ah oui, replicò


lui, vago, come si deve in questi casi, quando uno ti sta lusingando troppo e un po’ a vanvera. Era buio, sguazzavo in un imbarazzo da cui non sapevo come uscire, sudavo, pur se era inverno, avrei voluto mandare un sms a Teresa, domandarle aiuto, e intanto però una parte di me, o del mio sguardo, non saprei dire, cercava di percepire qualcosa di quel luogo, sintonizzato, il mio sguardo, com’era giusto, inevitabile, sulla frequenza della novità. E quella parte di me, attiva mio malgrado, percepiva del bianco. Tanto bianco. Mi sembrava che i palazzi là intorno, non alti, fossero tutti bianchi. E nonostante il marasma in cui mi trovavo in quel momento, la sensazione sgradevole della maglietta sotto alla camicia che si incollava alla schiena, come se fosse una qualunque serata d’agosto, altro che febbraio nel Nord della Francia – e fingevo di chiedermi come mai, che cosa rendesse possibile quell’anomalia umidiccia – nonostante tutto quel disagio, la percezione restava intatta, e si sarebbe rivelata, nei giorni successivi, una sensazione esatta. È il bianco a dominare le architetture squadrate e recenti di Saint-Nazaire, ricostruita quasi per intero nel dopoguerra e cresciuta via via in seguito. Un bianco geometrico, essenziale, tante linee, pochi angoli, nessuna curvatura. Anche le case qui di fronte alla terrazza sono bianche, case e palazzi del Petit Maroc, bianchi, e le costruzioni qui a fianco, lungo la rue du Port, bianche. E sono bianchi anche i capannoni del porto, a sinistra. Solo il Building spicca nel suo color ocra, diverso e unico anche in questo. Tutto il bianco percepito quella sera, e quel certo tipo di architetture, e le palme, ora lo so, sono alcuni dei motivi per cui la città è stata definita la California bretone. Avevo appena terminato di dire le mie fesserie su Patrick Deville e i suoi libri, quando passammo davanti a un bistrot e io, con la parte vigile di me e il rimbombo del bagaglio alle mie spalle, stavo tirando dritto mentre lui invece deviò di qualche metro verso l’entrata. La sua voce mi raggiunse pochi passi più in là, sul marciapiede. Andiamo a prendere un verre, disse. Avec plaisir, replicai io, deviando a mia volta verso l’interno e incastrandomi, ma solo per un


attimo, con il trolley fra le porte che lui mi teneva aperte. Lo stock con cui lo liberai fu secco, netto, come se avessi scardinato qualcosa dall’infisso della porta. Il mio affanno aumentò e guardai subito verso il bancone del bar, temendo un rimprovero, un’occhiata di traverso, non so, ma non c’era nessuno. Evitato il rimbrotto, scegliemmo il tavolino. Avvenne dentro a quel bistrot, credo, l’episodio cruciale che ha trasformato subito e per sempre questo luogo nel luogo della mia scrittura. Ci sedemmo. Lui propose un Sauvignon col nome di una regione o di una zona che non ricordo, ne discusse un po’ con il barista e, da buon intenditore di vini, mi chiese se andasse bene anche a me, che con quel freddo avrei però preferito un rosso, e invece, il senso di colpa per le sciocchezze di poco prima, mi fece dire di nuovo, e con un tono ebete, credo, avec plaisir, Patrick, merci. Ordinò e poi tirò indietro la sedia. Mi disse che doveva assentarsi una ventina di secondi (mi disse proprio così, devo m’absenter venti secondi), lasciò gli occhiali (il modello esatto che mi viene in mente quando sento la parola lunettes, montatura sottile, di metallo color del metallo, lenti ovali), li lasciò sul tavolino, laddove il barista avrebbe appoggiato, pochi centimetri più in là, uno dei due calici di Sauvignon del chissà dove. Il calice che decisi essere il suo, e mi impossessai dell’altro. Mandai un sms a Teresa. Mi bastò soltanto premere il tasto di invio. Lo avevo scritto in treno, calibrando le parole, misurando le virgole, controllando il tono. Un sms informativo e intimo, che voleva dire e raccontare. Soltanto dopo avere sentito il sibilo che ne segnala l’avvenuta partenza, mi accorsi che l’sms era troppo lungo per il vecchio telefonino che Teresa si ostinava a usare, sarebbe arrivato diviso in chissà quante parti, tronco, vanificando ogni mio sforzo di controllo, di calibratura, di misura. Bisbigliai un hélas fra me e me e ritornai presente al bistrot. Mi guardai intorno, con quel senso di spaesamento naturale, credo, in questi casi. Scattai un’inutile foto alla parete, un’altra meno inutile ai suoi occhiali e al calice di Sauvignon che nella foto brilla quasi


verdino, trafitto dalla luce, e Patrick Deville ritornò che i secondi saranno stati in tutto una settantina, a voler essere precisi, il tempo per altri tre scatti ancora più inutili, che ora, a distanza di anni, decido di cancellare, non più appunti visivi ma roba inservibile. Si sedette, afferrò il calice, lo alzò. Bene, disse, brindiamo al tuo arrivo (possiamo darci del tu, no, aveva detto appena entrati nel locale) e anche in onore di Alain Robbe-Grillet che oggi nous a laissé. Mi bloccai, come adesso, che alzo gli occhi verso la Loira e provo a ripetere lo stesso gesto così come si modificò appena ricevuta quella notizia, il calice a mezza altezza, meno verdino, quella sera, non coincidente alla luce – come invece sarebbe adesso, se lo alzassi qui, al sole, in terrazza – e un po’ dondolante, il vino, dopo il suono – dlinn – che fa il cristallo quando sbatte sul cristallo, scoccato più o meno quando disse à ton arrive. Sul ton, di preciso, credo. La mia sorpresa andava oltre la morte di Alain Robbe-Grillet, che aveva ottantacinque anni, e anche al fatto che fosse morto il giorno in cui io, per la prima volta, arrivavo in Francia non come turista, ma per un lungo soggiorno di lavoro. Più tardi, dopo cena, nel buio di quello che sarebbe stato il mio appartamento qui a Saint-Nazaire, avrei rivisto me stesso a inizio anni ottanta, non ancora ventenne, trovare a fatica, nel mio primo viaggio a Parigi, ebbro di poeti maledetti e di Jim Morrison, ma anche di École du regard, che è l’altro nome con cui veniva definito il Nouveau Roman, quella stradina stretta di Saint-Germain de Près, rue Bernard-Palissy, numero 7. La ricordo bene l’epoca del Nouveau Roman, lo sforzo, in quel periodo, di affrontare i romanzi di Alain Robbe-Grillet, di Claude Simon, di Robert Pinget, di Michel Butor, di Natalie Sarraute, e di Samuel Beckett, soprattutto, che furono esperienza, ostacolo e soddisfazione insieme. E una lezione, anche. Svoltai l’angolo, e mi ci ritrovai davanti, senza volerlo, faccia a faccia con quel portoncino di legno, così incongruo, apparentemente, rispetto alla soglia letteraria che rappresentava,


eppure così coerente, a pensarci bene, con la storia di quella casa editrice. Un portoncino riverniciato più volte, la densità irregolare e visibile degli strati color amaranto, con una targhetta piccola, di quelle che si usavano quando ero bambino, scritta dorata su sfondo nero, ricoperta in plastica trasparente, smangiata ai lati dai tempi, quello atmosferico e quello dell’età. Sopra c’era scritto Les Éditions de Minuit, Administration. Sotto, un’altra targhetta più piccola e di metallo: Entrez sans sonner. Ma a me bastava vedere tutto da fuori, e infatti non ci pensavo per niente di spingerla, quella porta. Diedi un’occhiata alla vetrinetta lì accanto. In realtà era il davanzale della finestra di un ufficio, a piano terra, sul quale erano esposti i libri pubblicati di recente. Anche su quel semplice davanzale, i romanzi Minuit mi incantavano. Merito delle loro copertine. Il sogno di ogni autore, posso dire oggi: non avere l’incubo della copertina, le discussioni continue con quei grafici che spesso fanno scempio di quello che dovrebbe essere il vestito del nostro libro. Non credo esista l’ufficio grafico da Minuit. Copertina bianca e, dentro un sottile bordino blu, nome dell’autore in nero, titolo in blu, il marchio dell’editore, una stellina e una emme minuscola in nero, così come roman, stampato poco più sotto. Tutto qui. Le copertine più sobrie, più note e – credo – più amate di Francia e da uno studente veneziano, incantato lì, davanti a quella finestra. Quando stai a lungo a osservare qualcosa, quando ti avventuri dentro ai dettagli, capita di perdere – per poco – il contatto con la real­ tà. Così fu con una leggera spinta che il portoncino amaranto si spalancò e subito di fronte a me vidi una scala strettissima di legno arricciarsi all’insù, verso il buio. Avrei potuto fermarmi lì, respirare quanto bastava di quel luogo e invece fu questione di poco e sentii gli scalini scricchiolare sotto i miei passi forse allo stesso modo di quando, nel 1951, ci salì per la prima volta un autore sconosciuto, che portava sottobraccio il manoscritto di un romanzo intitolato Molloy. Uno scrittore alto alto e magro magro che non sorrideva


mai. Samuel Beckett, irlandese, che però quel romanzo lo aveva scritto in francese. Al primo dei quattro piani c’era un ufficio con una dei pochi impiegati di Minuit. Mi guardò, mi salutò, io nemmeno guardai dentro, cercando di fare l’indifferente. Bonjour, balbettai, ora mi caccerà, pensai, e invece tacque. Provocai, spostandomi, qualche altro scricchiolio e lei mi guardò di nuovo. Ecco, ci siamo, pensai, e invece mi disse che mademoiselle era di sopra, all’ultimo piano, precisò. Ringraziai e non saprò mai se la mademoiselle era la stessa che incrociai qualche gradino più su. Colto in flagrante le dissi che ero uno studente italiano, lì per una ricerca, e lei mi portò in un ufficio sobrio, poco illuminato, e incominciò a selezionare dei dépliant. Mica avevo mentito, anzi, ma non ho mai avuto la minima idea della faccia che deve avere fatto mademoiselle quando, giratasi per porgermi il materiale, si è ritrovata sola in un ufficio vuoto di altre presenze, e l’impiegata del primo piano nemmeno deve avermi visto sfrecciare all’ingiù. Solo la frequenza degli scricchiolii stava dicendo a tutti, là dentro, che c’era uno che se la stava dando a gambe. Nel bistrot di Saint-Nazaire, invece, col calice un po’ meno a mezz’aria, la prima sera del mio arrivo qui, dissi qualcosa di formale, le cose che si dicono in questi casi, senza nessuna inclinazione, credo, che potesse far trasparire lo stupore per quella coincidenza. Il calice ritornò giù, finalmente, sul tavolo, cambiai discorso virando su dettagli tecnici riguardanti il periodo di residenza, affrettai i miei sorsi, di solito lentissimi, scanditi sempre da lunghe pause. Fu allora che sentii in tasca la vibrazione dell’sms di Teresa, la sua risposta al mio, di poco prima. Svuotati i bicchieri, il mio non del tutto, a dire il vero, uscimmo e raggiungemmo l’auto, parcheggiata a pochi metri di distanza. A bordo, alcuni minuti di tragitto. Il tempo, metro dopo metro, di percepire ancora netto quel bianco, che quasi non si notava al semibuio dell’illuminazione giallastra delle strade, e intanto le prime


indicazioni di alcuni luoghi essenziali, l’indice di Patrick Deville che oscillava da una parte all’altra, come una sorta di tergicristallo suggeritore: la biblioteca (bianca), il cinema (grigio, forse con del bianco), La cave de mon ami Jean-Luc (blanche), il supermercato (bianco, forse con del grigio), la base sottomarina (grigia) – e infine, voilà, scendemmo dall’auto appena fermata davanti al Building (difficile definirne il colore, al buio, ma di certo non bianco, questo). E quel buio, unito alla preoccupazione di recuperare con una certa disinvoltura i trenta chili di bagaglio dal bagagliaio, me lo avrebbero fatto sembrare un condominio qualunque, un po’ trasandato, anche. Sensazione ingiustificabile (trasandatezza a parte), in questo momento, mentre digito queste parole, davanti a un paesaggio comunque, sì, inimmaginabile quella notte. Dieci piani più su, poco dopo e dopo essermi rivisto a Parigi nel pellegrinaggio a Les Éditions de Minuit, dopo aver ripensato a certe pagine di Le Voyeur, dopo aver letto in rete le notizie della morte del suo autore, ed evitato accuratamente le novità dall’Italia, decisi che era tardi quanto bastava per rimandare a domani l’esplorazione dell’appartamento. Poi, però, appena spente le luci del soggiorno, si accese, fuori, dietro alle tende, l’ombra di un’illuminazione che, puntiforme, riempiva l’ampia vetrata e che di lì a poco mi sarebbe diventata familiare. Ma non approfondii. Lasciai che quelle luci restassero, solo per quella sera, un ovvio corollario esterno a una qualunque finestra di città. Come se le luci là fuori, dietro alle tende, appartenessero alla più normale illuminazione pubblica immaginabile. Un rumore proveniente da non so dove, da dentro l’appartamento o dall’esterno, non saprei, mi fece ricordare la vibrazione di prima, al bistrot. L’sms di Teresa. Mi insultai, recuperai frenetico l’iPhone dalla tasca dei pantaloni e lo lessi. Buonanotte anche a te, risposi. La notte precedente gliel’avevo augurata guardandola negli occhi, Teresa. Al risveglio, poco prima che uscisse, lei aveva fatto scivolare un


pacchettino rosso dalla sua mano nella mia, come se niente fosse. Lo aprii, era una penna permanente, tutta in metallo, una penna perpetua, una matita infinita, a voler essere precisi, che avrebbe funzionato sempre, in ogni condizione, che non si sarebbe esaurita mai. È per via dell’alluminio con cui è fatta, stava scritto sulla scatola. Poi però bisognava trovargliele, le parole. Permanenti, inesauribili, come la penna, trovare significati incorruttibili, narrazioni inalterabili. Per la tua scrittura, ovunque, mi aveva scritto su un biglietto. E ci eravamo baciati. Uno di quei baci che ci diamo spesso, Teresa e io. Ci baciamo come nei film, diciamo ridendo. Al buio dell’appartamento al decimo piano del Building avrei voluto scrivere di quel bacio, che aveva preceduto la sua uscita in fretta da casa, diretta al lavoro, io che la guardavo dalla finestra, mentre posava il sacchetto delle immondizie accanto al portone che si era appena tirata alle spalle, con un gesto deciso, accelerato alla fine del movimento, a far scattare la serratura nell’attimo – abituale, sapete come sono le porte veneziane, l’umidità, la salsedine – in cui si inceppa. L’aveva imparato subito, il trucco. Fece toccare terra al sacchetto piegando le ginocchia ma senza interrompere il passo in avanti e però lanciandolo, comunque, il suo azzurro d’occhi all’insù, sicura – mentre spostava la testa all’indietro – di trovare me, che ero lì. Spensi il computer e dentro la stanza rimase, solo per un momento, prima dell’implosione a nero, il riverbero del display che restò azzurro ancora per qualche secondo, prima di spegnersi. E fu in coincidenza con lo sfrigolio di chiusura dell’hard disk, che replicai a vuoto, nel vuoto, il brindisi di poco prima, al bistrot. Cin cin, dlinn, a Alain Robbe-Grillet.


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