La stanza di Jonas Karlsson incipit

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Isbn Edizioni via Conca del Naviglio, 10 20123 Milano Direzione editoriale: Massimo Coppola Editor e diritti: Sara Sedehi Redazione: Antonio Benforte, Linda Fava Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi Ufficio commerciale: Caterina Vodret, Simone Pappalettera Art director: Alice Beniero Grafica: Fabio Montagnoli Copyright © Jonas Karlsson 2009 Pubblicato in accordo con Salomonsson Agency Questo libro è stato pubblicato con il sostegno dello Swedish Arts Council www.isbnedizioni.it info@isbnedizioni.it © Isbn Edizioni S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Rummet

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L’ufficio come luogo d’alienazione per eccellenza, come coacervo di paranoie, ansie e paure che possono portare alla follia. In questo romanzo dalle atmosfere kafkiane, il protagonista, Björn, ci racconta in prima persona e nel dettaglio ciò che accade sul suo luogo di lavoro, e la scoperta, quasi per caso, di una «stanza», tra i bagni e l’ascensore, misteriosa, stranamente vuota e in perfetto ordine. Björn, incapace di ambientarsi a causa di una congenita refrattarietà ai rapporti personali, mista al desiderio di fare carriera, trova utile e rilassante rifugiarsi sempre più spesso – a causa delle continue pressioni, delle opprimenti dinamiche d’azienda – nella stanza. Una stanza che, chissà come mai, nessuno dei suoi colleghi ha mai visto. Con una scrittura asciutta e incisiva, cambi di prospettiva e colpi di scena, Karlsson ha scritto un romanzo perfetto sulla paranoia del lavoro moderno. Un libro sorprendente, sia per stile che per tematiche, e drammaticamente attuale. Tra Il grande capo di Von Trier ed Essere John Malkovich di Spike Jonze, La stanza mette in mostra tutte le qualità di uno degli scrittori europei più promettenti degli ultimi anni.


Jonas Karlsson La stanza

Traduzione Alessandro Bassini

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La prima volta che sono entrato nella stanza, sono tornato quasi subito indietro. In realtà dovevo andare in bagno, ma avevo preso la porta sbagliata. Un odore di chiuso mi ha colpito quando l’ho aperta, ma non ricordo di aver pensato a nulla in particolare. Non mi ero nemmeno accorto che c’era qualcosa in quel corridoio prima dell’ascensore, a parte i bagni. Toh, ho pensato. Una stanza. Ho aperto e chiuso la porta. Niente di più.

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Due settimane prima avevo cominciato a lavorare in un ufficio pubblico e per molti aspetti ero ancora alle prime armi. Cercavo tuttavia di chiedere il meno possibile. Volevo diventare rapidamente una persona su cui poter contare. Al mio vecchio lavoro ero abituato a essere un leader. Non ero un capo e neppure un responsabile, ma una persona che quando serviva sapeva far stare gli altri al proprio posto. Non sempre benvoluto, non un leccapiedi o uno sempre pronto a dir di sì, ma osservato e trattato con un certo rispetto, forse perfino con ammirazione. Magari anche con un briciolo di servilismo? Ero fermamente intenzionato a raggiungere il più in fretta possibile la stessa posizione sul nuovo posto di lavoro. In realtà la proposta di cercare un altro impiego non era partita da me. Mi trovavo abbastanza bene dove lavoravo prima ed ero a mio agio con la routine dell’ufficio, ma in qualche modo quell’ambiente aveva cominciato ad andarmi stretto ed ero logorato dalla sensazione di svolgere mansioni al di sotto delle mie capacità. In più, questo devo ammetterlo, non andavo sempre d’accordo con i colleghi. Alla fine il mio ex capo era venuto da me, mi aveva messo un braccio intorno alle spalle e mi aveva detto che era venuto il momento di trovare una soluzione migliore. Si chiedeva se non fosse ora di fare un passo avanti. «Un passo avanti» così aveva detto, facendo 6


un gesto con la mano verso l’alto per indicare la direzione della mia carriera. Insieme avevamo vagliato diverse alternative. Dopo un periodo di riflessione, di comune accordo con lui, la scelta era caduta sulla nuova agenzia governativa e, dopo aver preso determinati contatti, avevano concluso che un trasferimento poteva avere luogo senza grandi difficoltà. Anche il sindacato era d’accordo e non aveva messo i bastoni fra le ruote, come è facile che accada. Io e il mio ex capo avevamo festeggiato nel suo ufficio con un bicchiere di sidro analcolico, dopodiché mi aveva augurato buona fortuna. Lo stesso giorno in cui la prima neve cadeva su Stoccolma, ho portato le scatole con la mia roba su per i gradini dell’ingresso e ho attraversato la sala all’entrata del grande edificio in mattoni rossi. La donna alla reception mi ha sorriso. Mi è subito piaciuta. C’era qualcosa nel suo modo di fare. Ho capito subito di essere arrivato nel posto giusto. Mi sono tirato su con la schiena, mentre mi passava per la testa l’espressione «scalata al successo». Un’occasione, ho pensato. Finalmente avrei potuto esprimere a pieno le mie potenzialità e diventare ciò che avevo sempre voluto essere. Il nuovo lavoro non offriva uno stipendio più alto. Semmai il contrario: condizioni leggermente peggiori per quel che riguardava la flessibilità d’orario e le vacanze. Inoltre ero costretto a dividere la scrivania nel mezzo di un open space senza divisori. Nonostante questo, ero pieno di entusiasmo e con la voglia di costruirmi una base da cui partire per mostrare immediatamente le mie capacità. Ho elaborato un’apposita strategia. La mattina arrivavo con mezz’ora di anticipo e ogni giorno seguivo un mio schema: cinquantacinque minuti concentrato sul lavoro, poi cinque minuti di pausa, comprese eventuali interruzioni per fare la pipì. Evitavo di socializzare inutilmente con gli altri. Ho chiesto inoltre di poter avere le precedenti delibere dell’ufficio per studiare le espressioni ricorrenti, che costituivano, per così dire, il vocabolario di base. Le ho portate a casa e ho dedicato sere e weekend a documentarmi sulle varie strutture interne e a scoprire quali canali di comunicazione informale potevano esserci nel dipartimento. Tutto questo per mettermi alla pari nella maniera più rapida ed efficace e procurarmi un piccolo ma significativo vantaggio sui miei colleghi, che conoscevano già il posto di lavoro e le sue condizioni. 7


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Il mio compagno di scrivania, Håkan, aveva le basette e due cerchi neri intorno agli occhi. All’inizio mi ha aiutato con diversi dettagli pratici, mostrandomi dov’erano le cose, passandomi degli opuscoli e inviandomi per email documenti con ogni tipo di informazione. Evidentemente era un modo piacevole per prendersi una pausa, un’opportunità per sfuggire ai suoi doveri, perché gli venivano sempre in mente nuove cose che, secondo lui, avrei dovuto sapere. Poteva trattarsi di lavoro, dei nostri colleghi, oppure di qualche buon ristorante nei paraggi. Dopo un certo periodo sono stato costretto a fargli notare che anch’io dovevo avere la possibilità di svolgere il mio lavoro senza interruzioni. «Calmati» gli ho detto quando è arrivato con un altro fascicolo, cercando di avere la mia attenzione. «Non puoi calmarti un attimo?» Si è tranquillizzato all’istante e si è fatto molto più guardingo, probabilmente offeso perché gli avevo subito ruggito contro. Sicuramente questo stonava con l’immagine del nuovo arrivato, ma si addiceva bene alle voci che mettevo volentieri in giro sul mio conto, secondo le quali ero uno ambizioso e dai modi spicci. Col tempo mi sono fatto un’idea dei miei colleghi, del loro carattere e della loro posizione nella gerarchia dell’ufficio. Dietro Håkan 8


sedeva Ann, una donna sulla cinquantina. Sembrava competente e ambiziosa, ma anche il tipo di persona che pensa di sapere tutto e vuole sempre avere ragione. Era chiaro che tutti si rivolgevano a lei quando non osavano parlare con il capo. Accanto al computer teneva una cornice con il disegno fatto da un bambino. Rappresentava un sole che tramontava sul mare. Tuttavia il disegno era sbagliato, perché dietro al sole, lungo l’orizzonte, si vedevano due strisce di terra che sbucavano su entrambi i lati, il che è impossibile. Probabilmente per lei aveva un valore affettivo, ma per noi non era piacevole posarci sopra gli occhi. Davanti ad Ann sedeva Jörgen. Grande e grosso, ma sicuramente sprovvisto di un cervello della stessa misura. Una serie di annotazioni scherzose e di cartoline, che palesemente non avevano niente a che fare con il lavoro e rivelavano una certa inclinazione alla banalità, erano disposte sulla sua scrivania o appiccicate al computer. A intervalli regolari bisbigliava qualcosa ad Ann, dopo di che la sentivo cinguettare «Oh Jörgen!», come se le avesse raccontato una barzelletta sporca. Fra loro c’era una certa differenza d’età, che secondo le mie stime ammontava ad almeno dieci anni. Dietro di loro sedeva John, un signore taciturno sui sessanta, che lavorava ai rimborsi spese delle visite d’ispezione. Accanto a lui c’era una che credo si chiamasse Lisbeth. Non so. Non intendevo chiederglielo, visto che non si era presentata. Eravamo ventitré persone e quasi tutti avevano uno schermo o un piccolo divisorio intorno alla scrivania. Solo io e Håkan eravamo in mezzo alla stanza. Un giorno Håkan ha detto che presto sarebbero arrivati degli schermi anche per noi, ma io gli ho risposto che non faceva alcuna differenza. «Non ho niente da nascondere» ho detto. Un po’ alla volta ho preso il ritmo con i miei periodi da cinquantacinque minuti, e il lavoro scorreva liscio. Mi sforzavo di seguire il mio schema e di non lasciarmi disturbare nel bel mezzo di un periodo di lavoro, né per pause caffè, né per chiacchiere o telefonate né per andare in bagno. Qualche volta mi scappava la pipì già dopo cinque minuti, ma facevo in modo di resistere fino alla fine. Quale sollievo per 9


l’anima, dover temprare il carattere! E com’era maggiore il piacere, quando finalmente ci si poteva rilassare! Esistevano due modi per arrivare ai bagni. Il primo, girato l’angolo dove c’era la palma, era leggermente più breve del secondo. Tuttavia, dal momento che avevo voglia di cambiare, quel giorno ho fatto il giro più lungo, passando davanti all’ascensore. Ed è stato allora che sono entrato nella stanza per la prima volta. Mi sono reso conto subito dell’errore e, dopo essere passato davanti al contenitore di plastica per la raccolta della carta, ho raggiunto la porta accanto, la prima di una fila di tre bagni. Sono tornato indietro giusto in tempo per il successivo periodo da cinquantacinque minuti e a fine giornata mi ero quasi dimenticato di aver guardato oltre la porta che conduceva a quello spazio in più.


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