Calciatori di sinistra Quique Peinado estratto

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E tutto cominciò così

Enric González non lo sa, e la città di New York ha vissuto momenti ben più memorabili, ma senza di loro il libro che state leggendo non sarebbe mai esistito. Non ricordo il nome dell’hotel, però si trovava nella zona nord, sulla Centesima Strada o giù di lì, e io ero in fissa con Historias del Calcio (2007), un libro che raccoglie alcuni articoli sul calcio italiano scritti da González per El País. Uno di questi parlava di Cristiano Lucarelli e della sua storia d’amore con il Livorno. I fatti erano così luminosi che per riuscire ad appesantirli bisognava essere molto rozzi (spero di non esserlo stato io nel capitolo che dedico loro in questo libro), ma Enric González la impreziosisce togliendosi di mezzo, che è quanto fanno quelli bravi, e ciò che aspiro a fare io – sebbene non abbia resistito alla tentazione di mettere qua e là qualche cameo (nella maggior parte dei casi per contestualizzare, e sempre senza manie di protagonismo). In quell’hotel di Manhattan passai il libro a Paloma, che su certe questioni è l’essere umano con la migliore capacità di giudizio che conosca, nonostante si sia sposata – da sobria – con me, e le chiesi di leggere il pezzo. Se Calciatori di sinistra ha una faccia, non è quella del Sócrates della copertina né la mia: è quella che fece lei dopo avere finito di leggerlo. «È splendido» mi disse. Vedendo la sua espressione seppi che là c’era un libro. Qualche tipo particolarmente sveglio – qualcuno più preparato di te c’è sempre – noterà che qui non si trova traccia di Diego 15

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Maradona, Jorge Valdano o Éric Cantona. No, non ci sono. E ci sarà qualche italiano a cui mancherà Fabrizio Miccoli, mentre i tifosi del Getafe reclameranno Fabio Celestini, e gli argentini chiederanno la storia di Javier Zanetti e degli zapatisti, oppure quella del «Loco» Montaño, attaccante peronista (o magari gli sarebbe piaciuto che intervistassi l’intrigante Facundo Sava, il giocatore-psicologo passato anche dalla Spagna; o forse che parlassi un po’ più di César Luis Menotti). Chissà che questo libro non finisca nelle mani di uno scozzese che avrebbe voluto leggere di Pat Nevin, di Paddy Crerand o di David Speedie e della loro solidarietà operaia. Può darsi che qualche donna senta la mancanza di più ragazze, come la abertzale1 Eba Ferreira, o magari nel Comune di Miranda de Ebro qualcuno avrebbe desiderato che in queste pagine trovasse spazio anche Pablo Infante, che in un’intervista si è dichiarato di sinistra. A questi ultimi dico che è colpa di chi tra loro si è rifiutato di essere intervistato. E la stessa ragione vale per i tifosi del Betis, del Valencia o del Cadice che avrebbero voluto leggere di Joaquín «Quino» Sierra Vallejo. Vi mancherà Paul Breitner, il giocatore tedesco maoista che giocò anche nel Real Madrid. Il fatto che si sia tagliato la barba per soldi (all’epoca lo pagarono centocinquantamila marchi per la campagna pubblicitaria di un dopobarba), e che ormai in là con gli anni abbia dichiarato di non essere mai stato realmente di sinistra, e che tanto la sua famosa foto con il poster di Mao quanto le sue dichiarazioni filo-comuniste furono una posa figlia dei peccati di gioventù, mi hanno però tolto la voglia di occuparmene. Questo libro è, credo, il primo al mondo scritto su questo preciso argomento, e sicuramente è il tentativo più esaustivo di parlare di calciatori di sinistra che sia mai stato fatto. Un dato fantastico, perché è un pezzettino di storia, e ciò mi rende orgoglioso. Però non si tratta unicamente di questo: è un libro di racconti su giocatori di calcio professionisti che hanno esternato pubblicamente una posizione politica. Spero sia piacevole da leggere, appassionante, e mi auguro Termine basco che grosso modo significa «patriota» o «nazionalista». Di solito viene usato per indicare simpatizzanti e militanti di movimenti o partiti politici baschi di matrice indipendentista o separatista. [N.d.T.] 1

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che alla fine possiate pensare che ne sia valsa la pena di pagare il prezzo di copertina. Ho scartato di proposito certe storie scrivendo le quali non mi sentivo a mio agio, o che non mi facevano divertire. Senza indugio. Per esempio, non c’è niente sulla Guerra civile spagnola. È un’omissione consapevole. Ora, se avete vicino un rilevatore di frasi melense e piene di zucchero spegnetelo perché con le seguenti parole si romperebbe… è già spento? Allora vado: questo è, senza dubbio, il progetto più importante della mia vita. Quello che ha preteso più da me e del quale mi sento più orgoglioso. Ciononostante, l’obiettivo è solo intrattenervi. Il che è già abbastanza. Bene, potete riaccendere il rilevatore. E adesso leggete, è per questo che avete pagato.

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Il calciatore che perse contro Santiago Carrillo

Se i comunisti credono che il calcio sia l’oppio dei popoli, allora negli anni sessanta il Partito comunista di Spagna (Pce) era un campo di papaveri. Santiago Carrillo, tifoso dichiarato dello Sporting Gijón che durante l’esilio andava in incognito all’estero per vedere le partite delle squadre spagnole, comandava le fila clandestine del movimento della falce e martello iberico, e in una delle più dure battaglie della storia dell’organizzazione si trovò davanti un calciatore. Non era, evidentemente, un giocatore qualsiasi. Il protagonista di questa storia nacque a Errenteria, nei Paesi Baschi, ma era cresciuto nell’Unione Sovietica, dove era diventato ingegnere senza mai smettere di tirare calci al pallone. Giocò con la gloriosa maglia rossa della Nazionale sovietica e ne difese i colori nell’arena politica, fino alla morte. Agustín Gómez ebbe molti rivali, nei campi da calcio e sul terreno delle idee, ma nessuno fu duro come Carrillo. Gómez Pagola fu uno dei molti niños de Rusia1 che, in piena Guerra civile spagnola, furono inviati nell’Unione Sovietica per sfuggire a un futuro che prospettava solo fame e morte. A quindici anni, nel 1937, lasciò Errenteria per andare a Mosca. Era già un giocatore di calcio. Di fatto, la prima cosa che fece al suo arrivo fu calcare un campo da gioco. «Si è giocata nello Stadio Dinamo, in campo ridotto, la prima partita internazionale giovanile tra la Stadio, squadra 1

Bambini di Russia. [N.d.T.]

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composta da pionieri di Mosca, e la formazione basca del sanatorio Obninsk. I capitani Gómez Pagola e Kolya Kustov hanno presentato le loro squadre. La partita è terminata 2 a 1 a favore della Stadio. Molte migliaia di bambini riempivano il campo» raccontava l’ABC dell’epoca. In pochi anni, Agustín si sarebbe trasformato in un comunista da manuale, amante dell’Unione Sovietica e, inoltre, calciatore di prestigio. La prima selezione calcistica agonistica dell’Urss fu formata nel 1923. Da allora, e fino ai Giochi olimpici di Helsinki del 1952, disputò soltanto amichevoli. Come avveniva per tutto lo sport sovietico, la squadra aveva una finalità sia agonistica sia politica. Erano pionieri che dovevano tenere alto il nome dell’Urss e del suo esemplare sistema sportivo. Tra i cognomi Nikolayev, Bašaškin, Petrov e Gogoberidze ne risaltava uno: Gómez Pagola. A trent’anni era capitano della Torpedo Mosca, dopo essere passato per il Krasnaya Roza e il Krylia Sovetov Samara. Nella sua carriera aveva già affrontato i migliori: marcò anche Ladislao Kubala nel suo debutto internazionale con l’Ungheria. Però andare ai Giochi era un’altra cosa. E anche se la squadra si fermò presto (vinse 2 a 1 contro la Bulgaria, ma poi fu eliminata dalla Jugoslavia in uno spareggio seguito al 5 a 5 del primo incontro), il cognome Gómez Pagola rimarrà per sempre nella storia del calcio sovietico. Come in quella della Torpedo, il club dell’industria automobilistica, che riuscì a fare breccia nel dominio della Dinamo, del Cska e dello Spartak (dove giocava un altro niño de Rusia, il bilbaino Ruperto Sagasti) vincendo la Coppa sovietica nel 1949 e nel 1952. Dopo il cattivo risultato dei Giochi olimpici, Gómez Pagola, che nel torneo era stato schierato tra le riserve, disse che sulla squadra aveva pesato la tensione di avere addosso gli occhi delle massime cariche nazionali. Certo, non tutti potevano sostenere quella pressione come lui. Certo, gli altri calciatori non erano allo stesso tempo militanti del Pce, né venivano inviati con una certa frequenza in missione in tutta Europa per organizzare i comunisti spagnoli, sempre sotto l’ombrello di papà Pcus (il Partito comunista dell’Unione Sovietica). Certo, non c’erano molti calciatori – né mai ce ne sarebbero stati – con la storia politica di Agustín Gómez. Nel 1953 muore Stalin e nel 1956 si concludono i primi accordi 19

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affinché alcuni di quei niños, ormai adulti, possano ritornare in Spagna. In questo contingente c’è anche Agustín Gómez, in una manovra che il Regime di Franco vende come il salvataggio di centinaia di spagnoli dal pericolo sovietico. A Gómez, certo, non interessava che lo salvassero da niente. Finì all’Atletico Madrid, anche se giocò poco o nulla. A 34 anni il calcio di altissimo livello per lui era ormai alle spalle e, inoltre, la sua missione era un’altra. Adesso rientrava nel paese che aveva dovuto abbandonare da adolescente per aiutare i comunisti in clandestinità. Al suo ingresso in Spagna fu interrogato, come accadeva a tutti quelli che tornavano, dalle autorità franchiste. Il 12 dicembre, la Divisione di investigazione sociale, oltre che catalogarlo come «uno di quelli che lavorano», scriveva in un’informativa: «Durante il suo soggiorno in Russia è stato giocatore di calcio, facente parte della squadra chiamata Torpedo Mosca. Apparentemente è in attesa di autorizzazione dalla Fifa per il suo passaggio all’Atletico Madrid, squadra con la quale si allena, e il giorno 8 ha giocato contro il club di calcio tedesco del Fortuna Düsseldorf». Gómez, agente del Kgb e massimo responsabile del Partito comunista dei Paesi Baschi, già ritirato dal calcio professionistico (che allora era poco più che una copertura), si dedicò ad allenare squadre giovanili a Tolosa, in Guipúzcoa, anche se la sua principale occupazione era quella di attivista al servizio di Mosca. Alla fine dovette fuggire dalla Spagna e visse in vari paesi latinoamericani, tra cui il Venezuela, sotto diverse identità. Non ha mai smesso di essere un dirigente del Pce. Il suo grande scontro con Santiago Carrillo si verificò nel 1968. L’Urss decise di reprimere la Primavera di Praga – il timido tentativo messo in atto dal presidente cecoslovacco Alexander Dubcek per uscire dall’ortodossia sovietica e proporre un’apertura con quello che chiamava «socialismo dal volto umano» – e invase il paese. Centinaia di migliaia di soldati del Patto di Varsavia (Unione Sovietica, Bulgaria, Ddr, Ungheria e Polonia) e 2500 carri armati entrarono in Cecoslovacchia per frenare il tentativo di riforma. Il Pce, a rimorchio di una corrente guidata da Carrillo, decise di condannare l’invasione. Il settore più ortodosso e vicino a Mosca si oppose. Tra loro c’era anche Agustín Gómez, il più fedele ai sovietici. 20

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«Agustín era venuto a lavorare con noi sulle questioni dei Paesi Baschi, e ricordo che allora rimproverò ai sovietici di tenere, alle volte, delle posizioni da “grande potenza”. La sua approvazione (alla condanna dell’invasione) non fu un ostacolo al fatto che più tardi, dopo la soppressione della rivolta, partecipasse a un progetto di scissione prosovietica insieme a Eduardo García Lopez (in quel momento segretario organizzativo del Pce)» dichiarò Santiago Carrillo. Pare poco convincente l’ipotesi che dà per certo che Gómez approvasse la condanna all’invasione. Semmai avvenne il contrario. Semplicemente, come risulta dagli atti, disse che non avrebbe «fatto niente che pregiudichi l’unità del partito». Ciò che non si poté mai mettere in dubbio fu però la sua fedeltà agli ordini che arrivavano da Mosca di fronte alla sfida di Carrillo, che già cominciava a pendere verso quello che si sarebbe poi chiamato eurocomunismo, e che si allontanava dal comunismo ortodosso sovietico. In quei momenti le tensioni erano già insostenibili e Agustín Gómez ed Eduardo García López, l’altro militante e suo stesso compagno, erano stati espulsi dal Pce, sebbene Carrillo desse a intendere, con la frase citata nel precedente capoverso, che furono loro ad andarsene per fondare un altro partito. Un anno dopo sarebbe stato sospeso dalla militanza anche Enrique Líster, eroe militare della

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Guerra civile spagnola. Gómez non accettò mai la sua espulsione, e criticò duramente Carrillo per quello che, a suo giudizio, era l’isolamento del Pce dal resto dei partiti comunisti del mondo, così come la sua posizione accomodante con la Chiesa. Molti militanti abbandonarono il Pce assieme al suo eroe-calciatore, e fondarono un partito con un nome che spaventerebbe il marketing politico attuale – Pce (VIII e IX Congresso) – e che in realtà reclamava di essere il vero Partito comunista di Spagna sotto l’ombrello di Mosca. Di fatto, la sua prima decisione fu espellere Santiago Carrillo per «alto tradimento della causa comunista». A seguire Gómez fu una significativa manciata di militanti, identificata con lo zoccolo duro e più ortodosso del comunismo. compagno agustín gómez, la tua causa trionferà! si leggeva sui cartelli del nuovo partito. Finanziato da Mosca, il Pce (VIII e IX Congresso) cominciò anche a pubblicare un’edizione parallela del periodico Mundo Obrero, con la testata rossa anziché nera. Nel 1980 scomparve formalmente, dopo essersi fuso con il Partito comunista dei lavoratori, che l’anno precedente aveva ottenuto quasi 48mila voti alle elezioni generali. Da lì sarebbe sorto un partito vivo ancora oggi: il Partito comunista dei popoli di Spagna, garante di quell’ortodossia comunista che difese sempre Agustín Gómez, e che alle elezioni generali del 2011 ha ottenuto 26 436 voti. La salute di Gómez – il valoroso calciatore della Torpedo Mosca, l’agente del Kgb, l’uomo forte del Pcus in Spagna – a poco a poco si deteriorò. Ritornò a Mosca, la terra che amò di più, e morì il 16 novembre 1975, quando mancavano due giorni al suo cinquantatreesimo compleanno e quattro alla morte di Francisco Franco. Un anno dopo, Santiago Carrillo decideva, senza il permesso di Mosca, di rientrare in Spagna dopo essersi accordato con Adolfo Suárez, il grande traghettatore della transizione verso la democrazia. Quando tornò aveva una casa già pronta a Madrid. L’incaricata affinché tutto fosse perfetto fu Carmen Sánchez Biedma, figlia di un repubblicano assassinato nel 1948… e moglie di Agustín Gómez. Nel cimitero Donskoi di Mosca, tra le lapidi in cirillico, ne risalta una con lettere dell’alfabeto latino. È nera e reca la foto di un uomo non molto vecchio: è Agustín Gómez Pagola. Sotto la sua effigie, di solito, ci sono fiori rossi, accanto a un’iscrizione in spagnolo 22

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ormai quasi cancellata dal passaggio del tempo: dirigente comunista. Lo fu fino all’ultimo giorno. Per lui il calcio fu solo un mezzo per fare la rivoluzione.

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