Oreste del Buono - Facile da usare

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Un minimo di pietà

1 Forse dovrei rifarmi la barba. Sì, dovrei rifarmela, ma la sua faccia è accanto alla mia nello specchio, così lascio ricadere le dita che saggiavano la guancia, la pelle tremola, ritornando a posto, la pelle tremolante, questa buccia che ancora non mi sono rassegnato ad accettare, la sua faccia è accanto alla mia nello specchio, le lunghe ciglia palpitanti, il labbro inferiore sporgente, le ciglia pesanti di rimmel, il labbro troppo pulito, luce non meno premeditata dell’ombra, un contrasto che sa, svolazzare di cupa farfalla, sbocciare d’ingenuo frutto, di calcolo difficile, di giudizio impegnativo, la sua faccia è accanto alla mia nello specchio, risplende compatta e misteriosa, giudica e magari condanna la mia che a poco a poco si confonde e stinge, arretra, macchia indecisa, bluastra e grigia, in pratica inesistente, è mai esistita? «E poi dicono che sono vanitose le donne...» dice. «Perché... non lo sono? ... » dico. 


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«E gli uomini? ...» dice. «Hai finito di guardarti allo specchio?» Me lo sono consigliato prima, me lo ripeto ora, e non è piu un consiglio, è un ammonimento, sarebbe un ordine se si fosse in grado di dar ordini a noi stessi, ma si possono dare ordini solo agli altri, me lo ripeto ora, un ammonimento: rischio d’essere ingiusto con lei. Sono stanco, certo, abbastanza stanco, per la mia età mi sono già strapazzato troppo, ma non debbo pretendere che lei sia disfatta come me, però, è inverosimile che le sia bastato così poco per rifiorire dalla cenere: una doccia, una spremuta d’arancio, un caffè, il trucco, intanto, se avessi avuto buona volontà, avrei potuto rifarmi la barba invece di restare sul letto. Buona volontà?, è una parola, non me le sento più, le ossa, sono pesto, rotto, a cosa mi sarebbe servito rifarmi la barba? qui mi occorre una dormita, una vera dormita, altro che storie, e invece stiamo uscendo, lei ha deciso di andare a spasso, andiamo a spasso, come no?, a spasso. «Allora dove andiamo?» dico. «Dove vuoi, cuore... » dice. Giro la chiave, apro la porta, mentre cerco con cautela di ridurre alla ragione la matassa di impulsi maligni che ha preso a srotolarsi troppo in fretta: a spasso, certo, perché no?, lei ha dieci anni meno di me, mica la sente come me, la stanchezza, il respiro corto, il veleno nel sangue, il desiderio di lasciarmi andare ancora, su quel letto, che la porta riaccostata ormai mi nasconde, su quel letto per 


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poco non mi sono addormentato, ma non avrebbe potuto lamentarsi tanto lei, del resto, forse, non è restata soddisfatta da come è andata? Ho fatto del mio meglio, proprio del mio meglio, e pareva che di lei non stesse piu insieme un pezzo, io non voglio essere ingiusto con lei, ma non è giusto che le sia bastato cosi poco, una doccia, una spremuta d’arancio, un caffè, il trucco, eccola qui, è rifiorita, più viva che mai e io, invece, io non sono riuscito neppure a rifarmi la barba, istupidito, paralizzato. Rifarsi la barba non è nulla in pratica. Però è un simbolo e allora può voler dire tutto, l’impegno a reagire: si deve bene cominciare in qualche modo. «Sono straniero, sai? qui a Ischia...» dico. Scendo le scale dietro di lei. Ho la mano sulla ringhiera, ma, se inciampassi, le mie dita non saprebbero aggrapparsi. Le mie dita scivolano sulla ringhiera, se cadessi, non saprebbero trattenermi, o non vorrebbero? L’atrio dell’albergo è il fondo verso il quale defluiamo tra macchie su macchie di sole occhieggianti intorno a noi, instabili, no, non vorrebbero trattenermi, le mie dita, s’aprirebbero, sono già aperte, arrese, macchie su macchie di sole occhieggianti intorno a noi, instabili frammenti, scaglie, luminosa flora putrescente, fermentante pomeriggio d’estate. Straniero, mi ripeto, come se questa fosse la giustificazione adatta per placarmi: la parola si contorce appena, prima di coagularsi in un significato le sillabe sono già evaporate tra le labbra, le 


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labbra restano aperte, vuote come in una simulazione di stupore. 2 Fuori, tutto è giallo, è istintivo alzare la mano a proteggere lo sguardo, resto un attimo folgorato nel gesto da quadro sacro, ma la luce gialla non contiene la rivelazione d’alcuna verità, non sussistono verità, è per questo che i quadri sacri non sono piu di moda? La mano ricade, il cavallo passa oltre, pennacchio e bubbole, facce del vetturino e dei passeggeri, tela e legno sono risucchiati nell’opaca polvere, le nostre dita si sfiorano, strusciano di passo in passo. «Davvero non vuoi mangiare nulla?» dico. «No, «dice, «sai piuttosto…» «Ma hai preso solo una spremuta d’arancio e un caffè...» dico, «io almeno ho mangiato quei due panini...» «Sai piuttosto cosa mi devi comprare?...» dice. «Cosa?» dico. «Cosa posso comprarti?» «Un gelato,» dice, «ho voglia d’un gelato...» Pareva che di lei non stesse più insieme un pezzo, giaceva sotto di me schiantata, palpebre serrate, petto, membra un molle sudore, mi puntellavo sulle mani per guardarla, assaporare meglio il trionfo. Allora come ti senti?, ho detto. Morta, ha detto, per favore. Sì, dimmi. Ordinami una spremuta d’arancio e un caffè, e tu non lo prendi un caffè? II trionfo ha fatto così presto a franare mentre aspettavo che qualcuno rispondesse 


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al telefono, mentre parlamentavo con la ronzante voce meridionale che si ostinava a non capire. A telefono di nuovo muto, ho tentato di continuare un simulacro di conversazione: ho ordinato anche due panini, non vuoi un panino?, non abbiamo diritto a mettere qualcosa sotto i denti? Ma il luogo comune non bastava a difendermi, le sue palpebre erano spalancate, i suoi occhi erano spalancati: A me l’amore fa venire più sete che fame. Occhi ironici come se solo adesso lei potesse confessarli, adesso a illusione inferta e consumata. «Perché non te lo compri anche tu, un gelato?» «Io? Oh, io no...» «Già, tu sei un signore serio... Non puoi andare in giro con un cono...» «Io veramente...» Ironici, il cono traboccante di crema gialla, tutto è giallo nel pomeriggio inoltrato, la crema gialla traboccante dal cono sollevato sin sotto il naso, una specie di cerimonia, si spalancano su di me i suoi occhi, la bambinona che si è rotolata su quel letto con me: A me l’amore fa venire più sete che fame. Sono senza difesa contro il malumore, m’importa assai di essere giusto o ingiusto con lei, chi è mai stato giusto con me? lei, forse? la bambinona che lecca la crema gialla traboccante dal cono, tutto è giallo nel pomeriggio traboccante nella sera imminente, la bambinona gonfia, volgare, irrispettosa: più sete che fame, stringo i denti, che fame, i miei denti stridono. «Sta’ attenta... » 


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«Cosa c’è?» «Ti sei macchiata...» Un passo indietro, le dita che lisciano la maglietta, sempre più bambinona, sempre più gonfia, volgare, irrispettosa. «Dammi il fazzoletto, per favore…» «Non so se è pulito...» «Dammelo, subito.» Il fazzoletto non è pulito, lo appallottolo, strofino la macchia, s’allarga proprio in mezzo al petto. Resiste, naturalmente, anche se continuo a strofinarla, stanchezza e malumore degenerano: il petto colmo di lei oscilla, lei ride e mi fermo, il suo riso è equivoco, non so cosa farmene della sua indulgenza, della sua complicità, non è questo che volevo esprimere, cosa volevo esprimere?, la rabbia non vuole mai esprimere, non è teoria, è azione. Mi fermo, appallottolo più che mai il fazzoletto, e lei ride sempre: siamo compromessi nello stesso imbroglio. «Bella scusa... » dice. I miei denti stridono, mi ficco di nuovo il fazzoletto in tasca, ricominciamo a camminare, lei lecca la crema gialla traboccante dal cono, il giallo pomeriggio trabocca nella sera, un poco di grigio azzurro tra il verde dei pini, il rosa degli oleandri, il viola della bougainvillea, tiro fuori la mano di tasca, le nostre dita si sfiorano, strusciano di passo in passo, inevitabile attrito.

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3 Dico, potevo comportarmi m un altro modo?, forse, la sua scena non è stata abbastanza esplicita e convincente?, altro che convincente, un ricatto, una minaccia: Guarda questa maglietta turchese, non la trovi magnifica? su questi shorts starebbe meglio di questa, peccato questa macchia non se n’è andata per quanto tu abbia strofinato, bella scusa, anzi, s’è allargata, un colore magnifico davvero, su questi shorts starebbe a perfezione. Un ricatto, una minaccia, ho dovuto varcare la soglia della boutique a ogni costo, vincere la sua languida resistenza: Ma no, cosa ti metti in testa?, parlavo tanto per parlare, lo sai che sono abituata a parlare da sola, i miei desideri, i miei sogni, allora, con te non è ammissibile aprir bocca, ci mancherebbe che tu volessi esaudirli tutti, i miei desideri, i miei sogni, certo che questa maglietta mi piace infinitamente più di questa che ho addosso, a parte la macchia veramente incivile, sì, tu hai strofinato, hai strofinato, bella scusa, ma vedi che risultato?, se me la regali sei un tesoro, ma non prendermi così sul serio, i miei desideri, i miei sogni sono tanti, io, comunque, ti ho avvisato, non viziarmi, eh?, guarda questa borsa di paglia nera, ne ho già una ma questa. Da quanto tempo siamo qua dentro?, le ho comprato la maglietta turchese, la borsa di paglia nera, il fazzolettone rosso e blu, i sandali dorati, c’è altro da comprare? «Cuore, mi vizi... Non è giusto che tu mi vizi così...» 


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«Farti un regalo è un piacere, debbo ringraziarti io.» Mi odio, ma le cose, o si fanno o non si cominciano neppure, ho cominciato ormai, mi conviene andare sino in fondo, ho messo i due biglietti da diecimila nella mano dello spaventapasseri tinto e ritinto, aspetto il resto, sarà poca roba ma meglio che nulla, insomma, debbo fare attenzione, altrimenti, se continua così, mi troverò senza una lira domani o dopo: è costato il viaggio, anche calcolando lo sconto giornalisti, sul letto, del resto, non c’è sconto, e ieri sera siamo andati da un posto all’altro, ogni whisky un colpo mortale, e adesso tutta questa roba, mi meraviglio di avere ancora qualcosa in tasca, e, naturalmente, c’è l’albergo, due camere per salvare le apparenze, come ho potuto venir via da Milano con tanto poco? Uno stupido, fare attenzione mi servirà a molto con questa qui, prendere o lasciare, e lasciare adesso sarebbe ancor piu da stupido, no?, ormai le spese iniziali le ho fatte, meglio cercare di tirarne fuori il più possibile. È vero che l’idea di lasciare, adesso, mi tenterebbe abbastanza, una vera dormita e poi si torna all’ovile, ognuno ha diritto ai suoi sbagli almeno una volta nella vita: basta sapersene rendere conto, metterei una pezza sopra, non è mica una brutta idea. Lo spaventapasseri tinto e ritinto mi dà il resto, una miseria, prendere o lasciare, mi toccherà chiederne al giornale, e subito, altrimenti, sai che malinconia, rigiro le dita in tasca, quanto avrò ancora?, uno due tre quattro, ecco, quattro bi


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glietti, quarantamila e qualche spicciolo, c’è poco da scherzare. Avrei dovuto prevederlo, io che ho la fissazione, la smania di prevedere tutto, grande testa, grandissima, e proprio nell’occasione in cui prevedere non dico tutto, non pretendo tutto, ma almeno qualcosa, mi sarebbe servito, la mia testaccia, mica l’ho fatta funzionare, avrei dovuto prevederlo, che mi sarei ridotto così, così come?, in fin dei conti, forse, esagero, cosf come? Come?, è da buttar via lei?, se si girano tutti a guardarla e, invece, sta con me, m’ha messo una mano sul braccio, mi liscia la pelle con le sue dita lisce, mi è grata, soldi ed energie, è vero, nella vita occorre dare per avere, una bella donna, bella sino a un certo punto, in verità, lasciamo stare, se si girano tutti a guardarla, mi liscia la pelle con le sue dita lisce, grata, non mi è costata neppure troppo per ora, dal giornale quanto posso farmi mandare?, ma mi son fatto dare un sospeso ieri l’altro, altre centomila?, basteranno?, eh, sì, nella vita occorre dare per avere, se si vuole avere non si può essere avari, però, altre centomila dovrebbero bastare, l’avarizia non c’entra, c’entra il senso delle proporzioni. «Senti, cuore... » «Si? ...» «‘Ti voglio tanto bene...» «Anch’io.» «‘Senti, cuore...» «‘Si? ...» «Ti amo...» Lisce dita grate, il grigio azzurro della sera si chiu


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de sopra di noi come una campana di vetro. Ti amo anch’io, il mio odio tentenna, il mio odio per me stesso più che per lei, che colpa ne ha lei?, o, meglio, non ne ho più colpa io?, ti amo, anch’io, davvero ne ho tanta colpa?, anch’io, anch’io, prima o poi doveva pur succedere; era impossibile che andassi avanti così: avarizia, rassegnazione, dignità, eccetera, una bella noia, a un certo punto m’è capitato di non resistere più. Doveva succedere, con lei o con un’altra doveva succedere prima o poi, sì, è vero, me la sono immaginata diversa da com’è in realtà, l’immaginazione c’è per qualcosa, no?, già che c’ero, me la sono immaginata migliore, un tocco oggi, un ritocco domani, inutile che mi stia a lamentare adesso se realtà e sogno non corrispondono, e perché mai dovrebbero corrispondere? 4 «Sai che è un’indecenza?... « dice. «Un’indecenza?...» dico. «Siamo qui da ieri e ancora non abbiamo fatto un bagno in mare.» «Già...» Quest’angolo di spiaggia è color cenere: forse, vi hanno bruciato davvero qualcosa, o è soltanto la sera. «Da domani si cambia vita,» dice. «Intesi?...» «Intesi,» dico. S’inginocchia, deposita i suoi pacchi e pacchetti, la 


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sua mano batte, impaziente, tra sabbia e sassi. «Siediti un attimo,» dice. È una parola, come faccio a essere sicuro di rialzarmi, poi? La stanchezza m’immobilizza, m’inchioda. E se d’improvviso trovassi il coraggio, o la debolezza, è lo stesso, di parlarle chiaro?, dirle chiaro e tondo: Cara, carissima, tutto quello che vuoi, ma non ce la faccio più, sto tirando il fiato con i denti e non ce la faccio più, capisci cosa significa più? È ridicolo, ma, insomma, ormai ho la mia età, è cominciata con il viaggio, letto, lo chiamano, letto un corno, non ho chiuso occhio o quasi, ero proprio sulle ruote e, anche se non fossi stato sulle ruote, dove la metti l’emozione?, emozione, proprio emozione, una cosa qui che mi divora, il timore di non essere riconosciuto, il timore di non andarti più, il timore di poter essere rinnegato da te, mi sono fatto la barba due, anzi, tre volte, hai provato a farti la barba in un treno in movimento?, scusa, non badarci, sono veramente stupido, continuavo a grattarmi e graffiarmi le guance, a strapparmi questi quattro peli, nell’ansia di non essere abbastanza presentabile, non mi sentivo affatto presentabile quando sono sceso dal treno, ho cominciato a essere spinto dalla gente, nella polvere e il frastuono della stazione, e la stringa della scarpa destra ha scelto l’attimo giusto per sciogliersi, dovevo fermarmi ad allacciarla, mi spingevano, mi urtavano, ho provato a resistere, dapprima con troppa timidezza, forse, mi hanno travolto con irridente facilità, ho posato la valigia, ho provato 


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ancora a resistere con sempre maggiore ostinazione, cattiveria addirittura, sicché non hanno preso a defluire, intorno a me, così ho potuto chinarmi, tirare con stizza, allacciare quel serpentello viscido, uno sputo?, e, quando ho alzato gli occhi, davanti a me l’onda s’era rarefatta, tu eri visibile lì in fondo, guardavi i ritardatari uno a uno, stancamente, come rassegnata a non vedermi, ero l’ultimo, no? E dopo un passo la stringa della scarpa destra s’è sciolta di nuovo, strascicavo il piede, il serpentello si contorceva di sputo in sputo, emozione è ancora una definizione inadeguata, il cuore che andava, che era andato, a pezzi, i tuoi occhi finalmente si sono girati verso di me, mi hanno appena sfiorato, lo sapevo, lo sapevo, che non mi avresti riconosciuto, occorreva stabilire un segno di riconoscimento, concedermi una possibilità, già disperavo e, invece, ormai stava nascendo il tuo sorriso, il tuo sorriso che non dice tutto, ma sottintende persino troppo, cosa sottintende il tuo sorriso? «A cosa pensi?...» «Io?...» «Sì, tu, ci siamo solo tu ed io qui, ma forse non ci sei neppure tu…» «Come?» «Sei lontano... » «Oh, no...» M’ha posato una mano sulla spalla, mi sono mosso in avanti, già lei mi si piega sotto, il sorriso non della ragazza che sognavo, che avevo inventata di giorno in giorno, di lettera in lettera, ma della 


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donna che ho trovato ad aspettarmi accanto a quel pilone semidistrutto, nella polvere e nel frastuono della stazione, il suo sorriso che sottintende persino troppo, non è detto, dopotutto, che la delusione non sia reciproca, anzi, potrebbe essere più sua che mia. In fin dei conti, lei mi ha dovuto incoraggiare, accanto a quel pilone semidistrutto, nella polvere e il frastuono della stazione che stanno demolendo e chissà quando mai finiranno di demolire, per ricostruirla, naturalmente, ma chissà quando mai potranno cominciare a ricostruirla, la stazione che pare pateticamente ostinarsi a non cedere, a non perdere del tutto la sua vecchia, lurida faccia, faticosamente, dolorosamente scampata alla guerra in attesa del piccone, m’ha dovuto incoraggiare perché esitavo, continuavo a esitare, tutti i pezzi del mio tumultuoso cuore battevano ovunque per il mio corpo. M’ha dovuto posare quella sua mano sulla spalla, mi sono mosso in avanti, già lei mi si piega sotto, il suo sorriso, la sua faccia affondano nella cenere della spiaggia, sotto le mie mani resta solo il turchese della maglietta nuova, un ghirigoro che palpita e si sfalda, si sfalda e palpita, ripalpita. 5 Dov’è il caldo della giornata torrida? il caldo in cui mi sono sentito sciogliere, disfare in quella camera, su quel letto, il caldo s’è acquattato da qualche parte, una tana tra sabbia e sassi, aspetta che passi la notte. La vedo e non la vedo nel buio, con 


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l’indice ne ricostruisco i lineamenti, è come se la disegnassi nel buio, il buio non è nero, ma viola argento. «Cuore…» «Cara…» «Sei contento di stare con me?» «Sono felice... e tu?» «Puoi aver dubbi?» Quanti ne ho, di dubbi, un’infinità, eppure no, non ho dubbi, ho certezze, purtroppo, la certezza più tormentosa d’ogni dubbio, a esempio, esempio?, soprattutto, che oggi mi s’è aperta su di lei, diversa, troppo diversa da come me la sono immaginata, è vero, l’immaginazione c’è per qualcosa, no?, la mia stupida presunzione che fosse perfetta, di giorno in giorno, di lettera in lettera ho inventato lei come ho inventato me, speculando sulla nostra reciproca ignoranza, di questo soltanto si tratta: finzione. La nostra grande storia d’amore, che storia d’amore?, che amore?, l’amore tra gli scarafaggi, e almeno lei ha parlato, oggi, ha vuotato il sacco, i suoi peccati, dalla prima all’ultima volta, facciamo alla penultima, l’ultima è questa, anche se lei non la considera ancora peccato, i suoi peccati piccoli e grossi, lei se l’è concessa, la sua crisi di sincerità, la sua sincerità, dovremmo intenderci sul significato, il valore delle parole, la sua sincerità o il suo esibizionismo?, peggio, il suo calcolo, il suo raggiro per mettersi definitivamente dalla parte della ragione, togliermi la possibilità di scoprirmi in


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gannato, di protestare e accusare, perché non ho parlato anch’io?, perché non ho afferrato l’occasione per ribattere, ricambiare le confidenze? Forse, nonostante tutto, c’era qualcosa di salvabile tra noi, qualcosa di salvabile c’è sempre in ogni fatto di questo mondo, purché si riesca a tener lontana la malafede, la malafede in cui, invece, io oggi sono affogato, in cui affogo, oh, vigliacco, sporchissimo incommensurabile vigliacco, citando le frasi delle mie lettere, le frasi dall’efficacia, dalla menzogna già provata, scontata. «Non siamo fatti per stare insieme, caro?» «Eh, sì...» «E allora?...» In una lettera le frasi non debbono tener troppo conto dell’interlocutore, l’interlocutore è assente, lontano, in quanto l’interlocutore scrive e invia le sue obbiezioni e domande, si fa in tempo a mutare argomento, cambiar le carte in tavola, rovesciare il fronte, ma in un dialogo l’interlocutore ti è a ridosso, sei sempre in pericolo. Le mie dita si fermano sulla sua faccia che sto disegnando nel buio, e allora?, quattro sillabe delicate, apparentemente distratte, svanenti, e allora? Riprendo a muovere le dita, la pausa può tradirmi, dopotutto, potevo aspettarmela, questa domanda, me l’aspettavo senz’altro, nessuna pausa, ridisegno i suoi lineamenti, sfioro la sua bocca, la trappola che s’è appena schiusa sulle quattro sillabucce insidiose, la richiudo, la sigillo proprio con il dito su cui s’incide la fede matrimoniale, una garanzia più 


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che un impegno di tirarmi fuori da questo pasticcio. Ma dovrei sigillar la mia, di bocche, che già mi compromette, impaziente di cancellare in qualche modo, almeno sommergere, soffocare l’interrogativo addensantesi nel silenzio. «Ci sto pensando anch’io. Come puoi credere che non ci pensi? Ogni attimo...» M’azzittisco, la mano di nuovo ferma, l’anulare sinistro che preme contro la sua bocca, ma quanto può resistere? le sue labbra s’increspano sotto il polpastrello, lievi ma perentorie. «Ogni attimo?…» Sono stanco, non sono in grado di lottare, il mare davanti a me è viola argento, fruscia dolce e accanito, anche tener ferma questa mano sulla sua faccia è una fatica, il mare fruscia dolce e accanito, sto immobile, zitto, dolce e accanito. «Ogni attimo?» insiste, si sta tirando su, è in ginocchio. Raccoglie i suoi pacchi e pacchetti, s’alza, mi sovrasta, ritagliata in nero sul viola argento del mare, mi debbo alzare anch’io, annaspo, mi puntello sulle mani, mi tiro su lentamente, questo ginocchio scricchiola, riprendo a tirarmi su, e lei è già avanti, va in fretta, corre, delusa, offesa, rabbrividisco. «Aspettami...» ritrovo la voce, «aspettami...» 6 Dopotutto, perché sbattermi così giù? La mia età di qui, la mia età di là, come se fossi decrepito, 


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sono appena all’inizio della maturità, non posso sopportare quelli che rimpiangono sempre di non essere più ragazzi, retorica, pura e disgustosa retorica, da ragazzo non capivo nulla, ma nulla di nulla, pieno di complessi, paure, invece di farle, le cose, le pensavo, non posso, non debbo comportarmi come se fossi ancora un ragazzo, sono un uomo, l’inizio della maturità, una vita piena davanti, debbo comportarmi da uomo, farle, le cose, quanto a pensarle, c’è proprio bisogno di pensarle? Sì, sono un poco stanco, ma, animo, resistere, voglio vedere chi la spunta alla fine, lei ha dieci anni di meno, ne avrà, con le donne non si sa mai, occorrerebbe sempre far la tara al loro ottimismo in materia d’anni, che ne abbia pure dieci di meno, voglio proprio vedere chi la spunta alla fine. «Cosa facciamo stasera?...» Non risponde, camminiamo verso l’albergo, mica intenderà continuare a far la delusa, l’offesa? «Adesso t’impennacchi tutta per bene... Facciamo come ieri sera, no?... » Che diritti ha?, nessuno, non le ho mai nascosto d’essere sposato, non le ho mai promesso di mandar tutto a monte per lei, no, anche se nelle lettere sono stato un poco incosciente, incosciente sino al punto di metter nero su bianco qualcosa di veramente impegnativo no, belle frasi quante se ne vuole, slanci, voli quanti se ne vuole, ma generici, vaghi, incosciente sì, pazzo no, quindi, nessun diritto, cara, carissima. E ammettiamo pure che abbia avuto il mio attimo di pazzia, capita persi


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no alle persone più assennate, per me lo escluderei, ma, insomma, ammettiamo l’ipotesi, non sarai tanto stupida da averci creduto, da crederci?, troppo intelligente non sei, però, c’è un limite a tutto, comunque, se sei tanto stupida, perché dovrei scontarlo io? Andiamo avanti con le ipotesi, supponiamo, invece, che tu sia in malafede, che tu intenda tentare il colpo, è qui che ti aspetto: e tu tentalo, vediamo come ti ritrovi, provare per credere, dopo quello che mi hai detto, me le hai dette tu, certe cose, non me le sono inventate io, so che non puoi neppure azzardarti a protestare, ti tratterò come t’hanno trattato tanti altri, tutti gli altri. «Ieri sera è andata mica male, vero?... Se insisti, forse, ci riesci, a insegnarmi a ballare... anche se non abbiamo ballato troppo, tutto sommato, ieri sera...» Delusa, offesa, e non ne ha diritto: lei è una donna, io sono un uomo, se le va quello che facciamo, bene, se non le va, lo dica e ognuno per conto suo, chi s’è visto s’è visto, a parte tutto, ora che mi sono tolto la curiosità, potrei anche risparmiare, non è tanto per le altre centomila da sbatter via, e si fa presto con lei, quanto per la scocciatura di dover chiedere un altro sospeso al giornale, li so già, i commenti di quelli, come se non li conoscessi, il loro compatimento, la loro commiserazione, in definitiva, il loro disprezzo, e, invece, io, la testa, ce l’ho sempre sulle spalle, sempre, lei è una donna, io sono un uomo, se non le va, lo dica, e ognuno per conto suo, chi s’è visto s’è visto, mica ci si può 


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continuare a sposare a questo mondo. Del resto, sarebbe meglio non cominciare neppure, chissà se c’è ancora un vaporetto, stasera, me ne potrei andare subito, a dormire ci penserò in treno, persino sulle ruote, questa volta senza nessuna emozione a divorarmi, anche l’emozione me la sono immaginata, faceva parte del sogno. «Hai perso la parola?...» Camminiamo accanto, l’albergo deve essere vicino, forse a quella svolta. Un ronzio sopraggiunge alle nostre spalle, ci frastorna e trafigge, le nostre dita strusciano di passo in passo, chiudo la mia mano sulla sua, la tiro a me, mentre la motoretta ci supera, rumoroso, pericoloso calabrone, s’avventa nel viola argento della strada, scompare alla svolta ove deve essere l’albergo. Avanziamo, le mani unite, nel ronzio agonizzante, decrescente, le mani unite in un accordo provvisorio, equivoco, poi il ronzio muore, è morto, siamo alla svolta, uno spigolo giallo di casa, un ciuffo verde di pino, la notte è tutta un’attesa. «Cosa vuoi che ti dica?...» protesta. Esita, stringo la sua mano, ci sarà realmente l’albergo? Stringo sempre di più la sua mano, non possiamo permetterci di disunirci, ora, forse l’albergo non c’è, perché dovrebbe esserci? Non è una semplice attesa, è un agguato, un incubo che aumenta, si fa più denso, corposo a ogni passo. «Cosa vuoi che ci dica?...» ripete, la sua voce non sa più di protesta, si smorza nell’ansia, un bisbiglio colpevole, la sua mano risponde alla stretta della 


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mia. «Qualcosa...» bisbiglio in fretta, più che mai colpevole, «una qualsiasi cosa...» Siamo alla svolta, lo spigolo giallo comincia a spianarsi. a incurvarsi nella prospettiva o meglio nella smentita d’ogni prospettiva, il ciuffo verde si rarefà, si polverizza, sta venendo fuori la luna, ci piomba addosso, vischiosa e inesorabile, prima ancora che la svolta sia finita. [1962]

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