La grande baldoria

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PROLOGO «Col cazzo... sono falliti!»

L’ultimo giorno di marzo si rivelò un generoso inizio di primavera, grazie all’incapacità dei dirigenti dello Stern Group. Azienda manifatturiera con una reputazione in rapido declino, per anni era stata preda dei ribassisti, speculatori di borsa che puntano a far scendere il prezzo delle azioni. Ora lo Stern Group sembrava in agonia, eppure c’erano ancora dei temerari – e dei deficienti tout court – che sostenevano il prezzo delle azioni mettendo soldi buoni su soldi cattivi e comprando altre azioni. Il colpo di grazia, a quanto pare, era stato assestato una mattina del marzo 2004, quando la società aveva emesso un comunicato in cui rivelava di aver scoperto un buco nella propria contabilità. Era un chiaro invito a vendere le azioni, indipendentemente dal loro prezzo di scambio dopo la dichiarazione. Se stavano per fallire, come la notizia sembrava lasciare intendere, allora, in teoria, le azioni dello Stern Group non valevano niente: qualsiasi prezzo sopra lo zero era un prezzo a cui valeva la pena vendere allo scoperto (cioè vendere azioni che non si hanno, nella speranza di acquistarle in seguito a un prezzo più basso). All’annuncio del comunicato il valore delle azioni si era immediatamente dimezzato, ma siccome la notizia era filtrata già prima dell’apertura del mercato, non era stato possibile aprire una posizione short nell’esatto istante in cui 9

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il comunicato era stato emesso. Un ribasso del genere avrebbe scoraggiato molti operatori, convinti che dopo il collasso del cinquanta per cento le azioni non sarebbero scese ulteriormente. Noi invece restammo fedeli alla nostra strategia e, dopo una breve chiacchierata col mio cliente, ci buttammo nella mischia. Per cominciare vendetti un milione di azioni dello Stern Group a cinque centesimi, tanto per tenermi prudente, visto che il prezzo faceva su e giù come uno yo-yo. Stabilii che, quando le acque si fossero calmate, avremmo incrementato la posizione. Quando però i fessi, convinti che ci sarebbe stata una ripresa, iniziarono a rastrellare le azioni, il progetto cominciò a sembrare un pessimo affare e Michael, il mio capo in sala contrattazioni, iniziò a darmi il tormento. «Sarà meglio che verifichi se il cliente è coperto, nel caso la cosa si metta male» sbottò, sempre preoccupato che l’arroganza del cliente nelle contrattazioni si ritorcesse contro di lui. Michael era uno che andava sul sicuro: investiva i soldi dei clienti a lungo termine, in modo ragionevole e con strategie ragionevoli. Odiava l’atteggiamento da day trader dei miei clienti e anche la loro totale mancanza di cautela negli affari. Due minuti dopo aver calmato Michael, anch’io cominciai a diventare nervoso, pur riuscendo per tutto il tempo a far buon viso a cattivo gioco. «È solo il rimbalzo del gatto morto» dissi al mio cliente. «Si stabilizzeranno, glielo prometto.» Ma il prezzo raccontava tutta un’altra storia. Il volume era enorme e le azioni salivano costantemente; ormai erano scambiate a cinque centesimi e settantacinque, poi a sei, qualcuna fu addirittura stampata a sei e mezzo. Violammo la regola d’oro e decidemmo di raddoppiare la posta su una pessima operazione. Vendetti un altro milione di azioni a sei e venticinque l’una, quindi ormai eravamo scoperti per la bella cifra di oltre centodiecimila sterline su uno stock che si rifiutava di piegarsi ai nostri desideri. «Se arrivano a otto o più, ritiro l’operazione» avvertì Michael, che mi alitava sul collo come un cazzo di funzionario di dogana. «Sta’ zitto, Mike» risposi. Non ero disposto a lasciare che mi parlasse come si fa con un bambino di tre anni soltanto perché non gli piaceva l’aria che tirava. 10

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Non appena ricominciò a urlarmi dietro, il mio monitor si fermò e la stampa delle operazioni si interruppe. Adesso al posto del prezzo compariva una S gialla: secondo le notizie della Reuters, che scorrevano in basso lungo il monitor, le azioni erano state sospese in attesa di un altro annuncio. Il fatto che, almeno momentaneamente, il disastro fosse stato rinviato, per me fu un sollievo: se erano sospese non potevano salire, e la posizione short non poteva peggiorare. O la va o la spacca, pensai mentre prendevo l’ascensore per scendere al piano terra, accendendo una sigaretta con mani tremanti e fumandola nervosamente fino al filtro. Il semplice fatto che nei miei pensieri la società fosse allo stadio terminale non contava nulla se il comunicato che avevano emesso conteneva buone notizie. Anche se per lo Stern Group poteva trattarsi di una tregua solo temporanea, il prezzo sarebbe comunque schizzato alle stelle, perché i ribassisti si sarebbero affannati a coprire le loro posizioni short, e i cacciatori d’affari avrebbero fatto a botte per un’operazione veloce al rialzo. Avevo la nausea. Se la società diceva qualcosa di anche minimamente positivo, anche solo «il buco di bilancio è grave, ma non grave quanto temevamo», le azioni potevano salire a dodici o tredici centesimi in pochi secondi e noi saremmo andati sotto di ben oltre centomila sterline. Troppo teso per tornare alla scrivania, andavo freneticamente su e giù per il corridoio in attesa dell’ora della verità. Mentre vagavo come un condannato a morte, una telefonata di Dave sul cellulare confermò le mie peggiori paure. Con voce atterrita annunciò: «Le stanno stampando a dodici e un quarto...», causandomi una violenta stretta al petto. Ma prima che potessi rispondere scoppiò a ridere. «Col cazzo» gridò, «sono falliti!», facendomi passare dal panico alla gioia in due secondi netti. «Segaiolo» urlai, cercando senza convinzione di mettere insieme un po’ di rabbia per quello stupido scherzo. «Cosa mi rompi le palle a fare? Ricompra la short, cazzo, vai a incassare.» Tornai dentro di corsa e lessi l’annuncio coi miei occhi. Lo Stern Group era morto e sepolto, anche se le azioni erano ancora sospese. Dave piazzò sul caso uno dei nostri dealer più esperti e gli disse di informarsi sul mercato per capire a che prezzo avrebbe potuto comprare un milione di Stern Group. Trovò il pacchetto in offerta a due 11

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centesimi e mezzo in una vendita fuori mercato e il mio cliente non se lo fece dire due volte. Chiudemmo immediatamente la posizione, lasciandolo più ricco di novantamila sterline, meno la nostra generosa percentuale sull’affare. Ero più che felice di quel piccolo colpo, soprattutto pensando a quanto stava andando da cani solo pochi minuti prima. Non appena il mercato chiuse i battenti, alle quattro e mezza precise, me ne andai a cercare un po’ di coca per festeggiare l’ennesimo disastro scampato per pura fortuna. Come un levriero che si precipita fuori dalla gabbia di partenza, mi buttai dritto su Kentish Town per passare da Sammy, dicendogli senza fiato al telefono di portare quattordici grammi di roba bianca: musica per le sue orecchie e per le mie gengive salivanti. Concluso l’affare, corsi a casa in taxi per esaminare il bottino. Ammucchiato sulla specchiera, era davvero un bel malloppo, ed era persino vagamente accettabile perché mi ero convinto che sarebbe stata l’ultima volta che facevo baldoria prima di chiudere con la City e trasferirmi in Medio Oriente. Iniziò così una maratona di settantadue ore che mi portò all’inferno e ritorno e tutto, ironia della sorte, in nome della liberazione dalla polvere.

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