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TRIMESTRALE/ANNO 10 / # 96 EURO 8

DANILO CORREALE GABRIELE DE SANTIS SARA ENRICO NICCOLÒ MORGAN GANDOLFI RICCARDO GIACCONI ANTONIO GUIOTTO MAZIAR MOKHTARI MOBARAKEH MARCO MORICI GIOVANNI OBERTI MARIA DOMENICA RAPICAVOLI MICHELA DE MATTEI DANIELE FRANZELLA FEDERICO GORI GIORGIO IALONGO GIANNI COLANGELO

Poste italiane spa spedizione in a.p. 70% Roma

GUIDO TALARICO EDITORE

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# 96

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IL GIURAMENTO DI CORREALE E DEL TALENT L’opera vincitrice di questa edizione è un lavoro politico la cui forza risiede nella ricerca delle responsabilità: una richiesta elementare ma dirompente

di GUIDO TALARICO

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iurodidiretuttalaveritànientaltrochelaverità. Così, tutta d’un fiato, va divorata l’opera di Danilo Corrale vincitrice del Talent Prize edizione 2013. Un lavoro politico la cui forza risiede nella ricerca delle responsabilità. Una richiesta elementare (“dimmi la verità!”) ma in realtà dirompente perché arriva in un momento in cui i problemi rimangono senza autori e senza soluzioni. The future in their hands - The visible hand, è un progetto attraverso il quale Correale, abbinando la sacralità di un giuramento alla lettura delle mani fatta da un cartomante indiano, pone il tema del futuro e della paura: a quali mani abbiamo consegnato le nostre prospettive? Siamo più sicuri affidandoci a un cartomante o a un banchiere, valgono più la cabala o le promesse di un politico? La giuria del Talent Prize, che ho il privilegio di presiedere e non finirò mai di ringraziare per il lavoro svolto, anche in questa sesta edizione ha fatto una selezione di alto profilo. Con Correale sono entrati tra i dieci finalisti Gabriele De Santis, Sara Enrico, Niccolò Morgan Gandolfi, Riccardo Giacconi, Antonio Guiotto, Maziar Mokhtari, Marco Morici, Giovanni Oberti, Maria Domenica Rapicavoli. Tutte opere di grande qualità, lo stesso dicasi per i menzionati e per i premi speciali – Enrico Vanzella (Axa), Federico Gori (Metaenergia), Enrico De Mattei (Casa dell’Architettura), Giorgio Ialongo e Gianni Colangelo Inside Art e Insideart.eu).Senza dimenticare che, grazie all’ambasciata di Francia a Roma e alla sinergia con l’Atelier Wicar di Lille, il Talent Prize è un premio internazionale. Sono anni depressivi per chi si occupa di arte e di cultura, soprattutto in un paese come il nostro. Tutti gli operatori di settore, dagli artisti ai musei, dai galleristi agli editori, vivono in uno stato di abbandono come se la cultura fosse un peso e non un’opportunità. Un incubo che dura da anni. Vedere il lavoro di mille ragazzi, scoprirne e valorizzarne le potenzialità, sostenere il loro talento è una ottima ragione per andare avanti. Per questo anche quest’anno abbiamo sostenuto il Talent Prize, per questo continueremo a farlo. Lo giuro.

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INSIDEART ANNO 10 # 96 TRIMESTRALE DICEMBRE 2013

Editore e direttore Guido Talarico (direttore@guidotalaricoeditore.it) Caporedattore Maurizio Zuccari (m.zuccari@insideitalia.it) Redazione Francesco Angelucci, Giorgia Bernoni Fabrizia Carabelli, Alessandro Caruso, Sophie Cnapelynck, Monica Matera, Maria Luisa Prete (redazione@insideitalia.it) Progetto grafico Gaia Toscano (grafica@insideitalia.it) Grafica Giuseppe Marino (grafica2@insideitalia.it) Foto & service La presse/Ap, Manuela Giusto, T&P Editori, Millenaria Product Manager Carlo Taurelli Salimbeni (c.t.salimbeni@guidotalaricoeditore.it) Marketing & pubblicità Raffaella Stracqualursi (marketing@guidotalaricoeditore.it) Elena Pagnotta (partner@guidotalaricoeditore.it) Amministrazione Alessandro Romanelli (amministrazione@guidotalaricoeditore.it) I nostri recapiti via Antonio Vivaldi 9, 00199 Roma Tel. 0039 06 8080099, 06 99700377 Fax 0039 06 99700312 www.insideart.eu (segreteria@guidotalaricoeditore.it) Stampa Gescom spa, Viterbo Distribuzione edicola Reds scarl, Via Bastioni Michelangelo, 5A 00192 Roma - Tel. 06-39745482 Distribuzione libreria Joo Distrubuzione, Via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Abbonamenti Il costo per 4 numeri è di 32 euro mentre per l’edizione online è di 11 euro e può essere sottoscritto in qualsiasi momento dell’anno. Il costo dei numeri arretrati è di 18 euro. Per informazioni: abbonamenti@guidotalaricoeditore.it. Inside Art, Reg. Stampa Trib. Cz n. 152 del 23/03/04, è una testata edita da Editoriale Dets srl (amministratore unico Guido Talarico). Direttore responsabile e trattamento dati Guido Talarico. Le notizie pubblicate impegnano esclusivamente i rispettivi autori. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati. Hanno collaborato Deianira Amico, Alessia Ballabio, Luca Massimo Barbero, Maria Letizia Bixio, Alessia Carlino, Simone Cosimi, Isabella Falautano, Marie Fernandez, Alberto Fiz, Vasco Forconi, Alfonso Giancotti, Margherita Maccaferri, Anna Mattirolo, Maurizio Molinari, Amalia Nangeroni, Ludovico Pratesi, Claudia Quintieri, Sara Rella, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo In copertina: Danilo Correale The future in their hands (the invisible hand), 2011-12 A destra:

Moneyless Untitled, 2013 Numero chiuso in redazione il 24.10.2013 ci trovi nei bookshop dei musei, negli spazi d’arte e nelle migliori edicole e librerie di tutta Italia www.insideart.eu oltre 17mila liker seguici su

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NEL MONDO DELLE IMMAGINI

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LE MANI IN PASTA di Alberto Fiz

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UNA GENERAZIONE CHE SI INTERROGA SUL PROPRIO TEMPO di Anna Mattirolo

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UNO SPACCATO DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI di Ludovico Pratesi

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E IL VIDEO VA IN FLESSIONE di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

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LE RELAZIONI TRA MEMORIA E AMBIENTE

di Luca Massimo Barbero

di Vasco Forconi e Margherita Maccaferri

IL VINCITORE 24

DANILO CORREALE, SCUSATECI DI VINCERE

di Maurizio Zuccari

FINALISTI 32 36 40 44 48 52 56 60 64

GABRIELE DE SANTIS, MEMORIE SCOLPITE di Fabrizia Carabelli SARA ENRICO, SUGGESTIONI CUCITE ADDOSSO di Alessandro Caruso NICCOLÒ MORGAN GANDOLFI, UNA FINESTRA SUL MONDO di Giorgia Bernoni RICCARDO GIACCONI, INDAGINI SULL’IDEA DI CONFINE di Francesco Angelucci ANTONIO GUIOTTO, MACCHINE CON IL CUORE di Amalia Nangeroni MAZIAR MOKHTARI MOBARAKEH, MURI GIALLI DI MEMORIA di Deianira Amico MARCO MORICI, ARCHITETTURE EVOLUTIVE di Maria Letizia Bixio GIOVANNI OBERTI, QUANDO IL TEMPO SI FA MATERIA di Monica Matera MARIA DOMENICA RAPICAVOLI, INDAGINI SICILIANE di Claudia Quintieri

MENZIONATI 69 70 71 72 73

PAOLA ANZICHÉ SILVIA CAMPORESI EMMANUELE DE RUVO STEFANIA MIGLIORATI ANDREA NACCIARRITI

FINALISTI WICAR 74

TALENT E WICAR ANCORA INSIEME di Marie Fernandez

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BENOÎT CARPENTIER ANAÏS DELMOITIEZ JUSTINE PLUVINAGE DAVID GOMMEZ MATHILDE LAVENNE LEONIE YOUNGE ANTOINE PETITPREZ


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PREMI SPECIALI 82 86 90 94 96

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FIOCCO AZZURRO IN REDAZIONE Il 28 settembre è nato Niccolò Alla sua mamma, Maria Luisa Prete, e al papà, Maurizio Zuccari, vanno gli auguri di Inside Art e della Ed. Dets

DANIELE FRANZELLA, TALENTO SIGNIFICA INTERPRETARE di Isabella Falautano FEDERICO GORI, IL TUTTO IN OGNI SINGOLA PARTE di Maurizio Molinari MICHELA DE MATTEI, ALLA RICERCA DI UN PAESAGGIO di Alfonso Giancotti GIORGIO IALONGO, L’ATTIMO FERMO PRIMA DEL BOTTO di Maurizio Zuccari GIANNI COLANGELO, ANATOMIA DEL FERROVECCHIO di Simone Cosimi

IMAGO ORBIS 98

FESTIVAL DI FOTOGRAFIA, ROMA PIENA DI NIENTE di Francesco Angelucci

EVENTI 100 104 108 110

LE ALLEGORIE DI VALERIO ADAMI di Claudio Spadoni LA FRAGILITÀ DI ADRIAN PACI di Paola Nicolin e Alessandro Rabottini DANTE FERRETTI, DALLO SCHIZZO ALLA REALTÀ di Alessandro Caruso CIAK, SI RACCONTA di Gianfranco Giagni

CARTELLONE 112

LE MOSTRE IN ITALIA E ALL’ESTERO di Barbara Santini

PERSONAGGI 116

AMRIT CHUSUWAN L’ARTE THAI PARLA ITALIANO di Sara Rella

SPAZI & DESIGN 122

LOT-EK, UNA COPPIA READYMADE di Monica Matera

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CAMUSAC, LA RINASCITA DI CASSINO di Fabrizia Carabelli COLLEZIONI CASSINATI di Bruno Corà MAST, ARTE E BULLONI di Alessia Ballabio

NUVOLE & PAROLE 140 MONEYLESS, FORME SOSPESE

NEL VUOTO di Alessia Carlino


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Il premio ideato da Guido Talarico per i nuovi talenti artistici compie sei anni Tutti i protagonisti dell’edizione vinta da Danilo Correale


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LA MOSTRA Alla Casa dell’Architettura dal 16 al 30 novembre I nuovi talenti premiati al Talent Prize sono in mostra dal 16 al 30 novembre alla Casa dell’Architettura di Roma. Con Danilo Correale, il vincitore – che si aggiudica 10mila euro – e i nove finalisti, espongono le opere selezionate anche i cinque premi speciali e gli altrettanti artisti residenti all’Atelier Wicar nel corso del 2012-13. La mostra, organizzata in collaborazione con lo Ied di Roma, è curata da Vasco Forconi e Margherita Maccaferri, partecipanti al master dell’Istituto europeo di design per curatore museale e di eventi, coordinato da Viviana Gravano. Casa dell’Architettura, piazza Manfredo Fanti 47, Roma. Info: 0697604598; www.casadellarchitettura.it; www.talentprize.it; www.insideart.eu

Il cortile dell’ambasciata di Francia a Roma foto Manuela Giusto


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NEL MONDO DELLE IMMAGINI Impegno, analisi, concretezza e grande attenzione per un valore visivo che va assottigliandosi: queste le indagini che si sono distinte nel bacino di proposte del Talent Prize

di LUCA MASSIMO BARBERO*

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mpia come sempre l’opportunità di studio e di monitoraggio della ricerca contemporanea under quaranta che offre il Talent Prize, quest’anno giunto alla sua sesta edizione. È la pittura a raccogliere ancora una volta il più grande numero di partecipanti, ed è un’opera pittorica che ricordo più di altre per la sua rara capacità di coniugare ricerca visiva, tradizione culturale, messaggio globale e fusione tra due mondi, Oriente e Occidente, spesso opposti e in conflitto tra loro. Mohammad Mohsin intreccia iconografia, tematiche e linguaggi a creare una “memoria del presente” tra visione, simbolo, consapevolezza e patrimonio sociale. Altri artisti hanno toccato queste corde, proponendo opere che felicemente coniugano pensiero, impegno, concettualità e valore visivo. Uno di loro è Andrea Nacciarriti che ha proposto un lavoro che sintetizza la sua indagine e il suo interesse per i luoghi di maggiore conflitto del nostro tempo – in questo caso lo scarico abusivo di rifiuti tossici in mare – che rimanda attraverso il senso di un pericolo e di un’angoscia incombente, ma finalmente visibile. Alex Bellan con un video della durata di 15 ore, tante sono le ore di luce e quindi quelle

dedicate al lavoro, risponde invece a consapevolezza del territorio, recupero storico e analisi economico-politica nel riportare simbolicamente a galla con queste immagini asfittiche i ritmi, gli imprevisti e le modalità di una economia in disuso, quella offerta dal dedalo di corsi fluviali che un tempo venivano utilizzati per trasportare le merci dalle cave del padovano fino a Venezia. A queste immagini inafferrabili fa da contrappunto la precisione fotografica di Danilo Correale, vincitore di questa edizione, il cui lavoro offre una prospettiva di riflessione sull’invisibilità di certe operazioni, di certi movimenti e di alcune verità legate alla crisi e al collasso di questo momento storico. Queste le indagini che nel grande bacino di proposte del Talent Prize si sono distinte: impegno, analisi, concretezza e grande attenzione per un valore visivo che spesso va invece assottigliandosi, dimostrando la presenza anche di indagini poco aggiornate, incisive, sensate, e quindi paradossali in una società in cui il mondo delle immagini ha una centralità tanto sensazionale quanto rilevante. *curatore associato collezione Peggy GuggenheimVenezia giurato Talent Prize

L’ingresso dei giardini di Palazzo Farnese a Roma durante la presentazione del Talent Prize Sopra: Luca Massimo Barbero foto Manuela Giusto


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LE MANI IN PASTA Nel suo insieme il Talent Prize ha evidenziato una ricerca tesa a recuperare l’aspetto misterioso del quotidiano intrufolandosi nei meandri della memoria

di ALBERTO FIZ*

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anilo Correale non è stato con le mani in mano. L’artista napoletano ha vinto meritatamente l’edizione 2013 del Talent Prize, un premio che può portare molto lontano (Yuri Ancarani, premiato lo scorso anno, si è rivelato una delle sorprese più interessanti della Biennale veneziana). Correale ha presentato The future in their hands The visible hand, un efficace lavoro fotografico che affronta, senza retorica, il rapporto ambiguo tra verità e menzogna. È sufficiente la visione di sei palmi della mano di altrettanti guru della finanza alzati in segno di giuramento che escono dalle maniche di eleganti abiti scuri e camice bianche, per sintetizzare un intero processo giudiziario con infinite contraddizioni e sotterfugi. Collocate in sequenza, le mani, simbolo d’identità, solo apparentemente uguali l’una all’altra, appaiono una perfetta metonimia in grado di svelare l’atteggiamento dei differenti personaggi. Un lavoro iconico, direi antiwarholiano, che mette in luce le differenze occulte dei nostri comportamenti, sebbene rimanga difficile distinguere, a prima vista, chi fa man

bassa, chi se ne lava le mani o chi, invece, appare così affidabile che saremmo disposti a mettere la mano sul fuoco. Nel suo insieme, il Talent Prize ha evidenziato la prevalenza di una ricerca tesa a recuperare l’aspetto misterioso del quotidiano intrufolandosi nei meandri della memoria. Documenti e lettere personali accatastati e non più leggibili (Gabriele De Santis), bicchieri dall’atmosfera morandiana su cui si è cristallizzata la polvere del tempo (Giovanni Oberti), frammenti di un paesaggio ricoperto dalla sabbia gialla del deserto (Maziar Mokhtari), ipotesi architettoniche fallite (Marco Morici), accumulazioni precarie di elementi in legno (Antonio Guiotto), confessioni di una cantante-artista finita nel dimenticatoio (Riccardo Giacconi), la natura incorniciata (Niccolò Morgan Gandolfi), il montaggio alternato tra le giostre e i migranti che giungono di notte a Lampedusa (Maria Domenica Rapicavoli), sono solo alcuni esempi tratti dalle opere dei finalisti del Talent Prize che hanno scelto un’indagine sottotraccia del reale in base a un’estetica contemplativa, caratterizzata da sconfinamenti nella sfera dell’inconscio.

A destra, in alto: Francesco Pizzo con Roberto Minerdo rispettivamente vicepresidente e direttore comunicazione e relazioni istituzionali Metaenergia A destra: Viviana Gravano direttrice master Ied in curatore museali e di eventi Sopra: Alberto Fiz foto Manuela Giusto


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In una situazione di grande crisi creativa e produttiva, è evidente il desiderio diffuso di ricatalogare e archiviare i dati di un sistema in profonda trasformazione. Non a caso, tra i settori maggiormente indagati dagli artisti, un posto di rilievo è stato assunto dalla scultura che, spesso e volentieri, si affida all’accumulazione e allo straniamento recuperando la sempre attuale lezione dadaista. In difficoltà si trova la pittura, troppo ostentatamente citazionista (tra i pittori ha raggiunto il gruppo dei finalisti la sola Sara Enrico con un’opera astratta e monocroma affidata alla tessitura jacquard), mentre le nuove tecnologie sembrano curiosamente estranee alla produzione dei più giovani. Il Talent Prize, insomma, è lo specchio fedele di un sistema dove appare evidente la difficoltà d’imporre una vera innovazione formale e linguistica. Sarebbe ora che la nuova generazione si decidesse a mettere le mani in pasta rischiando di più. Allora, forse, potremo battere le mani e vedere opere anche sbagliate ma coraggiose. * direttore Marca Catanzaro giurato Talent Prize


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UNA GENERAZIONE CHE SI INTERROGA SULPROPRIOTEMPO Ancora una volta il numero dei partecipanti al progetto ha dato la misura di quanto questa iniziativa sia sentita e riconosciuta nel settore

di ANNA MATTIROLO*

S A sinistra, in alto: Alfonso Giancotti presidente comitato tecnico scientifico Casa dell’Architettura A destra: Italo Carli direttore generale Axa Art foto Francesco Angelucci In basso: Alain Le Roy ambasciatore di Francia in Italia Sopra: Anna Mattirolo foto Manuela Giusto

pesso sono coinvolta come giurato in occasioni come il Talent Prize e la prima domanda che sempre mi rivolgono è quale sia il punto di vista da applicare nel valutare. Occuparsi di arte contemporanea, come artisti, come studiosi, come storici e critici, o come appassionati permette di immergersi del tutto nel proprio tempo e viverne tutta la mutevolezza. Certamente ogni tempo storico ha il proprio concetto di arte contemporanea, tuttavia credo vi siano delle particolarità in alcune opere che le fanno sempre attuali, ben al di là dei loro legami con il momento nel quale sono state prodotte. Definire queste particolarità non è cosa semplice; certamente sono individuabili degli aspetti, delle caratteristiche che ci permettono di dire, talvolta solo di intuire, che una data opera ha certe caratteristiche. Penso all’importanza che in un’opera può avere la ricerca, la profondità, raggiungibile con lo studio o con la risposta a una domanda interiore, o assoluta o magari semplicemente alla pregnanza che

quel progetto ha per chi lo fa e che “naturalmente” si trasmette a chi lo riceve, a chi si pone in una posizione di ascolto, di scambio. Ebbene, occasioni come quella del Talent Prize sono importanti per testare gli interessi, la vitalità creativa, la forza dei giovani artisti con lo spessore delle loro ricerche. Ancora una volta il numero dei partecipanti al progetto ha dato la misura di quanto questa iniziativa sia sentita e riconosciuta nel settore. Ancora una volta un elogio va alla capacità di saper dar voce al proprio pensiero attraverso l’uso dei medium più diversi: segno di una generazione che torna a interrogarsi a fondo sul proprio tempo con coscienza critica, lucidità, interesse. Quale arte promuovere dunque? La risposta più naturale è la più complessa: quella che rimane “contemporanea” a lungo, quella per cui gli spazi di relazione e interrogazione non si interrompono mai. * direttrice Maxxi arte, Roma giurata Talent Prize


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UNO SPACCATO DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI Un’arte impegnata, che affronta in maniera diretta o metaforica problematiche di ordine morale, etico e politico. Questo è il fil rouge che unisce l’opera del vincitore con quelle dei nove finalisti

di LUDOVICO PRATESI*

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n’arte impegnata, che affronta in maniera diretta o metaforica problematiche di ordine morale, etico e politico. Questo è il fil rouge che unisce l’opera del vincitore, Danilo Correale, con quelle degli altri nove finalisti, riuniti in un’occasione che offre da anni un interessante ed efficace spaccato dell’evoluzione dell’arte italiana delle ultime generazioni. Se l’opera del vincitore interpreta in maniera esoterica le esistenze e i destini di alcuni protagonisti della classe politica italiana, altrettanto interessanti nella loro poetica complessità appaiono le opere degli scultori Gabriele De Santis, Antonio Guiotto e Marco Morici, che declinano con forme e materiali diversi le relazioni sentimentali, l’estetica del fallimento e le regole della percezione, senza mai scadere in nar-

razioni banali o scontate. I lavori fotografici di Niccolò Morgan Gandolfi e Maziar Mokhtari sono più legati a un immaginario surreale e onirico che scompagina con leggerezza e ironia i codici della storia dell’arte contemporanea. Intime e personali le installazioni di Maria Domenica Rapicavoli e Giovanni Oberti, dove gli artisti riflettono sul trascorrere del tempo, secondo modalità di carattere privato, quasi domestico, che ritroviamo nell’opera di Sara Enrico. Infine un particolare incoraggiamento a Riccardo Giacconi, videoartista colto e consapevole, capace di narrare storie articolate e sorprendenti con precisione e intensità e meritevole di futuri riconoscimenti. * direttore Centro arti visive Pescheria giurato Talent Prize

A destra, in alto: Eric Tallon addetto culturale dell’ambasciata di Francia in Italia Sotto: Sophie Cnapelynck responsabile relazioni esterne Talent Prize (al centro) con Anouk Aspisi (a destra) addetta culturale dell’ambasciata di Francia in Italia foto Francesco Angelucci Sopra: Ludovico Pratesi foto Manuela Giusto


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E IL VIDEO VA IN FLESSIONE L’analisi delle opere e dei partecipanti al concorso rappresenta sempre motivo d’interesse per chi desidera fotografare lo stato dell’arte contemporanea in Italia di PATRIZIA SANDRETTO RE REBAUDENGO*

G A sinistra, in alto: Guido Talarico editore e direttore di Inside Art e ideatore del Talent Prize Sotto: Carlo Taurelli Salimbeni product manager di Inside Art Sopra: Patrizia Sandretto Re Rebaudengo foto Manuela Giusto

iunto quest’anno alla sua sesta edizione, il Talent Prize è nato per dare visibilità ai giovani artisti italiani e rappresenta un’iniziativa particolarmente importante nel nostro paese. Gli artisti emergenti, nelle prime fasi della loro carriera, spesso vengono penalizzati dalle poche occasioni formative di eccellenza e dalla scarsità di spazi espositivi a loro disposizione. Il Talent Prize offre loro la possibilità di farsi conoscere da un più ampio pubblico, facendo registrare ogni anno un’entusiasta adesione. La qualità degli artisti che hanno partecipato al concorso di quest’anno è ulteriormente cresciuta rispetto alle edizioni precedenti, così come si è arricchita la struttura stessa del Talent Prize. La mostra dei finalisti alla Casa dell’architettura di Roma, realizzata con la collaborazione dei giovani curatori dello Ied e, per il vincitore, l’esperienza a Lille, rendono il Talent Prize un’occasione imprescindibile per la crescita dei giovani artisti che vi partecipano e che vengono chiamati a confrontarsi con professionisti del settore. L’analisi delle opere e dei partecipanti al concorso, poi, rappresenta sempre motivo di interesse per chi desidera fotografare lo stato dell’arte contemporanea in Italia, dei suoi orientamenti, delle sue caratteristiche e delle diversità dei suoi linguaggi.

Posta la sostanziale parità numerica tra artisti uomini (53%) e donne (47%), l’esame delle opere in concorso e dei mezzi espressivi utilizzati fa registrare una leggera flessione della pittura, nonostante sia ancora il medium più amato dai giovani artisti (41% dei partecipanti). Seguono la fotografia (in crescita con il 24%), l’installazione e la scultura (rispettivamente, il 17% e 10% delle opere in concorso). Chiude la graduatoria il video, che rappresenta solo l’8% delle opere presentate. Se possiamo parlare di una riscoperta, da parte degli artisti italiani giovani, della scultura e dell’installazione, dobbiamo anche sottolineare come la flessione nell’utilizzo del video sia perfettamente in linea con quanto osserviamo anche nelle più importanti occasioni espositive internazionali. Sono lieta che anche quest’anno il Talent Prize sia riuscito a mettere in evidenza il lavoro di tanti giovani artisti, dando loro la possibilità di far conoscere la propria ricerca e offrendo loro un’occasione di visibilità. Auguro a tutti i partecipanti di mantenere intatto il loro impegno e la capacità di mettersi in gioco per continuare, attraverso le loro opere, a farsi interpreti del mondo che ci circonda. * presidente fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, giurata Talent Prize


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LE RELAZIONI TRA MEMORIA E AMBIENTE Fortemente presente è un atteggiamento critico rivolto ai meccanismi di potere che si celano dietro strutture politiche, economiche e sociali di VASCO FORCONI e MARGHERITA MACCAFERRI*

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a giovani curatori ci siamo posti il problema di come confrontarci con un premio di arti visive quale il Talent Prize che lascia agli artisti totale libertà nell’individuazione delle tematiche da affrontare. La nostra scelta poteva essere quella di inserire le opere all’interno di un’unica narrazione, tracciando in questo modo un percorso definito; ma è proprio nella grande diversità di approcci artistici e di problematiche affrontate che il premio rivela il suo grande potenziale: aprire uno sguardo sull’ampio e sfaccettato panorama dell’arte prodotta dalla più giovane generazione di artisti. Dal confronto tra le opere che si dividono nelle diverse sezioni del premio emergono affinità e relazioni spontanee, aree tematiche fluide che confinano e confluiscono le une nelle altre; è proprio su queste dinamiche che crediamo si debba concentrare l’attenzione. Fortemente presente è un atteggiamento critico rivolto ai meccanismi di potere che si celano dietro strutture politiche, economiche e sociali, arrivando a plasmare profondamente

tutto lo spazio delle relazioni e del vivere. La memoria costituisce un’altra importante tematica che viene sviluppata a partire da diverse prospettive critiche: come un riaffiorare della tradizione nel contemporaneo, come un racconto intimo che si rivela, o ancora come traccia tangibile di un processo irrisolto. Altrettanto manifesta è l’attenzione rivolta dagli artisti ai rapporti che s’instaurano tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda: questo, a seconda dei casi, diventa luogo di sperimentazioni percettive, di riflessioni sul paesaggio e sulla natura, di cambiamenti di prospettiva inattesi. Nel momento in cui le opere vengono inserite nello spazio espositivo aperto e circolare della Casa dell’Architettura, queste relazioni complesse prendono forma concreta, dando vita a una serie di piccoli choc e conflitti e ad altrettanti nuclei di senso con i quali lo spettatore, come un contemporaneo flaneur, è chiamato a confrontarsi nell’atto di attraversare la galleria. * master Ied per curatore museale e di eventi curatori Talent Prize

A destra: giardini di palazzo Farnese sede dell’ambasciata di Francia foto Manuela Giusto In alto: Margherita Maccaferri (foto Paolo Panzera) e Vasco Forconi


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SCUSATECI DI VINCERE Passione civile e rovesciamento semantico delle categorie del potere Ecco la poetica di Danilo Correale che si aggiudica la sesta edizione del Talent Prize. E assicura: questo è un anno fortunato e un momento fondamentale del mio percorso di ricerca di MAURIZIO ZUCCARI

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Danilo Correale We’re are sorry, 2012 cortesia galleria Raucci/Santamaria foto Enzo Velo

e’re sorry per le condizioni di lavoro a cui vi abbiamo abituato, we’re sorry per avervi fatto credere che con lo studio e l’impegno avreste trovato un posto nella società, we’re sorry per la disparità dei salari, we’re sorry per aver messo troppo spesso parenti e amici in posizioni di potere, we’re sorry per aver lasciato invecchiare la classe politica, we’re sorry per non aver dato peso a molte questioni sociali, we’re sorry per non aver pensato alla cultura come bene comune, we’re sorry per non avervi ascoltato adeguatamente, we’re sorry per aver considerato l’arte come bene elitario... È una lunga sequela di scuse quella con cui Danilo Correale firma una delle sue opere: We’re sorry, appunto. Scusateci per il futuro negato e quant’altro ancora: niente meglio di questa sequenza di scuse mostra l’opera e gli intenti dell’artista napoletano vincitore della sesta edizione del Talent Prize. L’impegno artistico versus il disimpegno sociale cui ci ha abituato il ceto politico che sta mandando a fondo il nostro paese e l’Occidente. La denuncia della politica come sopruso e menefreghismo, lo

strapotere dei burattinai dell’economia globalizzata che non trova se non burattini compiacenti e masse depauperate e incazzate – temi al centro di molte opere di questa edizione del nostro premio – ha in Correale uno dei corifèi più interessanti. Un giovane (classe 1982) che vive la sua condizione di precario intellettuale non diversa dalla stragrande maggioranza della sua generazione, e affila le sue armi per affidare a installazioni e immagini concettuali la capacità iconica di rovesciare l’esistente, dire la sua contro la sonnolenza del vivere civile contemporaneo. Non lungo, ma già nutrito il curriculum e il viavai spaziale del nostro, da una parte all’altra del globo: Napoli, Milano, Londra, Berlino, New York. Ma anche Roma e Siena, dove nelle ultime settimane ha cumulato, oltre al Talent, anche il premio messo in palio dalla fondazione Ermanno Casoli nella città del Palio. Ormai hai una certa dimestichezza con i premi: un post apocalisse fortunato, il tuo. «Beh, fortunato è il termine esatto. Nonostante le differenze sostanziali tra i due riconoscimenti, arrivano entrambi in un momento fondamentale del mio percorso


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L’IDEA DI SUGGERIRE TRASVERSALMENTE ALLE IMMAGINI DELLE MANI DI SEI INDIVIDUI ALZATE NELL’ATTO DI PRESTARE GIURAMENTO LA LETTURA DEL LORO PALMO FUNGE DA DISPOSITIVO CON IL QUALE RACCONTARE L’OSCURITÀ DI UN CERTO TIPO DI POTERE SIA ESSO POLITICO O ECONOMICO D’ALTRONDE È CHIARO CHE POLITICA ED ECONOMIA SONO DUE ASPETTI DELLA NOSTRA SOCIETÀ ORMAI TOTALMENTE SOVRAPPOSTI MA QUELLO CHE MI INTERESSA È L’ASPETTO UMANO DIETRO QUESTE ISTITUZIONI

The future in their hands (The visible hand), 2011-12 particolare A destra: L’opera completa vincitrice della sesta edizione del Talent Prize cortesia Galleria Raucci/Santamaria foto Enzo Velo


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di ricerca. Purtroppo in un paese dove manca quasi totalmente un supporto economico pubblico ad arte, cultura e ricerca è fondamentale che esistano fondazioni ed enti privati che nel proprio piccolo provano a sostenere l’arte». The future in their hands, l’opera vincitrice, come nasce e cosa racconta? «The future in their hands (the visibile hand) è un freddura lucida ispirata dalla celebre frase di Adam Smith: “The invisibile hand of the market”, attraverso la quale l’economista britannico descriveva i poteri invisibili che orientano le oscillazioni del mercato. Purtroppo tali “mani” non sono mai invisibili, anzi. L’idea di suggerire, trasversalmente alle immagini delle mani di sei individui alzate nell’atto di prestare giuramento, la lettura del loro palmo, funge da dispositivo con il quale raccontare l’oscurità di un certo tipo di potere, sia esso politico o economico, d’altronde è chiaro che politica ed economia sono due aspetti della nostra società ormai totalmente sovrapposti, ma quello che mi interessa è l’aspetto umano dietro queste istituzioni. La narrativa speculativa, costruita attraverso la lettura della personalità, del presente, passato e futuro di questi uomini, tracciato dalla chiromante, suggerisce all’osservarore non tanto la personalità dietro ogni singola mano, ma la distanza tra il soggetto ritratto e l’osservatore».

E The game? «L’opera è un progetto complesso e articolato che si snoda tra cooperazione e affettività. Attraverso il pretesto di una partita di calcio a tre porte, metafora del discorso tridialettico di Asger Jorn, tre gruppi di operai di diverse aziende proveranno a mettere in scena durante una partita di pallone un differente modello dialettico (trialettico, appunto) su matrice non antagonista. Il tentativo è quello di stimolare la condivisione di un’esperienza che possa rendere consapevoli e motivare ad agire nel concreto per imprimere un movimento, segnare un cambiamento positivo nella comunità a cui appartengono e apparteniamo». La destrutturazione della semiotica del potere, politico e finanziario, sembra essere il filo rosso concettuale dei tuoi lavori. «Nel corso degli ultimi tre anni ho lavorato proprio su questo, accompagnato da autori come John Zerzan, Marshall Sahlins, Christian Marazzi. Quello che mi premeva e mi preme ancora oggi mettere in luce, attraverso la critica, è l’aspetto umano del potere, nel tentativo di andare oltre la lettura della società come un semplice rapporto tra le parti. È nel caleidoscopico lessico istituzionale e negli aspetti spesso interpretati come collaterali che il mio lavoro trova terreno fertile. Più che destrutturazione parlerei però di rimodulazione: le strategie e le immagini che uso sono spesso le medesime,

BOTTA E RISPOSTA L’arte della vita in 10 domande Cosa sognavi di diventare da grande? «Cardiochirurgo». Come sei diventata un artista? «Restando in piedi fino a tardi». Cosa vorresti essere se non fossi un artista? «Una voce di un cartoon». Hobby, passioni? «Sconvenienti». Come definiresti la tua arte? «Imprevedibile». Come definiresti la tua vita? «Precaria». Ci sono valori eterni, nell’arte o nella vita? «I valori sono la prima forma di prigionia, preferisco l’autonomia». Chi sono i tuoi maestri nell’arte o nella vita? «Dotti e dottrine mi spaventano, nutro stima immensa per molti ma pochi posso definire maestri». Cosa trovi interessante oggi? «L’abuso della parola interessante». Cosa non sopporti di questo tempo? «La politicheria».


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PERSONALI 2012 The warp and the weft curata da Roccasalva, De Bellis, Daneri Peep Hole, Milano

We have a business proposal Galleria Raucci/Santamaria, Napoli 2011 Pareto optimality Supportico Lopez Berlino Entrèe Gallery Bergen, Norvegia 2010 Mosh pit control Galleria Raucci/Santamaria, Napoli 2009 How much art can you take? Spazio Chan, Genova 2008 Goodbye my darling curata da M. Scotini Galleria Franco Riccardo Artivisive, Napoli 2006 My illusion Galleria Franco Riccardo Artivisive, Napoli

GALLERIE Galleria Raucci/Santamaria corso Amedeo di Savoia 190, Napoli tel. 0817443645 www.raucciesantamaria.com Supportico Lopez Kurfürstenstrasse 14/b Berlino www.supporticolopez.com

QUOTAZIONI da 3.000 a 25mila euro

DANILO CORREALE UTILIZZA UNA VASTA GAMMA DI TECNICHE E STRUMENTI ESPRESSIVI QUALI FOTOGRAFIA, VIDEO E PROCESSI COLLABORATIVI CHE ATTINGONO DALL’IMMAGINARIO COLLETTIVO, DALLA CULTURA POPOLARE E DAL PAESAGGIO MEDIATICO CONTEMPORANEO PER APRIRE NUOVI PERCORSI INTERPRETATIVI ATTRAVERSO I QUALI AVVICINARSI AI MODI DI PRODUZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ ODIERNA PEEP HOLE

We are making history, 2010


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L’ASPETTO ICONICO DELLA FOTOGRAFIA DIVENTA PER CORREALE IL TERRITORIO METAFORICO DA METTERE IN LUCE COME LUOGO DI COMBATTIMENTI E CONTINUA NEGOZIAZIONE DELLA NOSTRA PRESA SUL MONDO. QUELLO CHE NE RISULTA È UNO SGUARDO CRITICO CHE SMASCHERA I SISTEMI CHE REGOLANO LA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTÀ. LE SUE SCULTURE E FOTOGRAFIE SONO UNA SERIE DI AZIONI CHE PUNTANO A RIVALUTARE L’AFFIDABILITÀ E LA PRESUNTA TRASPARENZA DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA MA ANCHE DI OGNI ARCHIVIO DELLA MEMORIA FRANCESCO MANACORDA


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quelle riconoscibili sulle quali non è poi così difficile agire con una vena critica, trasformandole in qualcosa di completamente diverso». Foto, video e altro. Raccontaci le tue opere dal punto di vista di materiali e tecniche. «Credo che il materiale principale del mio lavoro sia sempre il contesto politico e sociale, preso e plasmato, riprodotto, tradotto come materia solida. Restituire in diverse forme stratificando i contenuti attraverso il testo, la fotografia, il video o le installazioni è decisamente la caratteristica del mio lavoro. Sono le micro variazioni apportate sulle ripetizioni di una medesima forma o modello a costituire il racconto. Potrei aggiungere che anche quando lavoro con la fotografia o il testo la mia attenzione è sempre focalizzata sul tempo, sul racconto scandito in più parti che può divenire intimo nello spettatore, quindi montarsi autonomamente come una pellicola cinematografica fino a dare luogo a nuovi contenuti individuali». Molti referenti culturali, ma dotti e dottrine ti spaventano, dici. Davvero zero maestri? «Maestro è per me una parola di un peso enorme, forse per questo non riesco a pensare a chi è stato tale per me. Potrei elencare tante persone che stimo, ma davvero nessuno potrei definire maestro, forse non ho saputo riconoscere come insegnamenti quello che mi è stato sussurrato. O forse potrei dire che i testi dei Wretched (vecchio gruppo anarcopunk milanese) mi hanno insegnato molto di più di quello che mi è stato

insegnato in ambito accademico riguardo all’attitudine alla vita e all’arte. Fatto sta che un solo nome sarebbe troppo e allo stesso tempo troppo poco». Da Napoli a New York, passando per il Maine, Londra, Berlino. Che porti, che hai preso? «Effettivamente negli ultimi quattro o cinque anni ho avuto l’opportunità di vivere per brevi periodi in diverse capitali europee e non solo, spesso per residenze artistiche e ancora più spesso per motivi di ricerca. Questo, per quanto arricchente nel bagaglio culturale di un qualsiasi individuo, può essere anche visto come sintomo della precarietà che pervade molti aspetti della nostra società, sentita soprattutto dai lavoratori della conoscenza. Personalmente non mi sento, nel bene e nel male, legato a un luogo specifico, vedo la mobilità più come diretta conseguenza di un lavoro sempre più intermittente. Il tentativo è certamente quello di volgere tutto ciò a proprio favore, provando a resistere ai momenti in cui la precarietà si riflette anche negli affetti». Dalla prima personale all’ultima, cosa è rimasto e cosa è cambiato nel tuo modo di fare e pensare? «Sicuramente è rimasta la generosità con il quale mi piace raccontare una ricerca, la voglia di confrontarmi e mettermi in gioco. Così come la tensione distruttiva con cui mi muovo da un progetto a un altro. Potrei azzardarmi a dire che il mio lavoro è la mostra, che per me non funge solo da momento

conclusivo di un percorso ma più come opera indipendente, composta da piccoli frammenti di un progetto quasi sempre più ampio. Quello che è cambiato? Sicuramente la lucidità con la quale utilizzo e costruisco i dispositivi che mi permettono di raccontare una storia». Mostre in corso, progetti? «Il mio lavoro è attualmente esposto nell’ambito del progetto Liquid asset, nel programma dello Steirisher Erbst di Graz curato da Luigi Fassi e Caterina Gregos. Un progetto specifico sulla facciata della galleria nazionale di Mosca in una sezione collaterale della biennale, e un altro progetto nello spazio pubblico a New York nell’ambito di Performa 13. Attualmente sono impegnato, come dicevo, prima nella produzione di The game, e in una nuova ricerca dai contorni ancora molto poco definiti sul rapporto tra sonno e capitalismo, per il quale sto cercando finanziatori». Ma il futuro in mano a chi è? «Dovrebbe essere in mano alle singole soggettività ma mi pare che venga sempre più spesso strappato dalle mani da qualcuno». We’re sorry per? «Dovresti saperlo: we’re sorry per non aver cambiato ciò che promettevamo di cambiare, we’re sorry per avervi tenuto all’oscuro, we’re sorry per il costo dell’istruzione, we’re sorry per la burocrazia, we’re sorry per i processi farsa, we’re sorry per avervi fatto credere che ci dispiaccia».


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L’ARTISTA

DANILO CORREALE

1982 Nasce il 13 marzo a Napoli, dove vive, alternandosi con New York

2006 Si diploma in scultura all’accademia di Belle arti di Napoli. Dello stesso anno è la sua prima personale My illusion alla galleria Franco Riccardo Artivisive, nel capoluogo partenopeo

2009 Si diploma in arti visive alla Naba (Nuova accademia di Belle arti) di Milano Danilo Correale foto Giuseppe Cicala

2010

In alto: Stumble, 2012

Frequenta il Csav, il workshop estivo aperto ai giovani artisti con Hans Haacke alla fondazione Ratti di Como

Nella pagina a fianco da sinistra: The game, 2013 (bozzetto dell’opera vincitrice del premio Ermanno Casoli) e Picket flags, 2010

Vince il Talent Prize promosso da Inside Art e, dopo poche settimane, il premio Ermanno Casoli promosso dalla omonima fondazione

2013


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MEMORIE SCOLPITE Gabriele De Santis si muove in bilico tra linguaggio visivo e verbale In Love story converte le lettere dei suoi genitori in un blocco scultoreo rendendone impossibile la lettura di FABRIZIA CARABELLI

S

i chiama Love stoy 1960-64 l’installazione con cui Gabriele De Santis, artista romano classe ‘83, è arrivato tra i finalisti del Talent Prize 2013. La storia dell’opera potrebbe tranquillamente essere la trama per una soap opera. Un ragazzo, frugando in casa tra varie scartoffie, trova una serie di lettere di cui sino a quel momento aveva ignorato l’esistenza. Inizia a leggerle (chi può biasimarlo, alzi la mano chi non l’avrebbe fatto) e scopre che gli artefici di quello scambio epistolare sono i suoi genitori, da qualche tempo deceduti, i quali l’avevano sempre tenuto all’oscuro della presenza di quelle lettere. Così Gabriele chiama la sorella, l’unica persona in grado di fornirgli spiegazioni, la quale sa tutto; e non solo, gli comunica la volontà dei genitori di lasciare segreto il

contenuto del loro scambio epistolare, avvenuto tra il 1960 e il 1964, lasso di tempo in cui i due, prima di sposarsi, mantenevano una relazione a distanza. Troppo tardi, ma non tanto da impedirgli di smettere, riponendo le lettere e sigillandole in un blocco marmoreo impenetrabile, scrigno senza chiave in cui è custodita la prova inconfutabile dell’amore dei genitori. È così che quel gruppo di fogli di carta, inizialmente scritti con la finalità di essere letti, vengono trasformati dall’artista in installazione scultorea, illeggibile e censurata al pubblico, ma in primis a se stesso, forse in segno di profondo rispetto verso il padre e la madre, forse per rimediare all’involontaria profanazione di quel momento d’intimità familiare. L’artista ci ripropone le lettere così come sono, nude e crude, forse anche troppo, senza rielabo-

razioni concettuali e senza orpelli. Molti ricorderanno il video discusso di Sophie Calle, presentato nel 2007 alla 52esima Biennale di Venezia, intitolato Pas pu saisir la mort, in cui l’artista francese riprendeva gli ultimi minuti di vita di sua madre. Meno incisivo è il lavoro di De Santis e molto più ermetico ma anche molto meno spettacolare appare il suo gesto che svela, oltre che una natura sensibile, un sottile atto semiotico. Mutando la natura dell’oggetto, dotandolo di una diversa funzionalità rispetto a quella iniziale, l’artista congela il contenuto linguistico epistolare in simbolo, che suggerisce il contenuto, ma non lo rivela. Le radici di questo intervento simbolico si possono rintracciare lontano: esattamente nel 1964 lo stesso desiderio di rendere illeggibile un oggetto leggibile aveva spinto Marcel Broodthaers, artista e


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Sotto: Love story 1960-1964, 2013 cortesia Frutta Gallery, Roma In basso a destra: Tell the truth and then run, 2013 cortesia Frutta Gallery, Roma

poeta d’origine belga, a realizzare Pensebête, una cinquantina di copie di una sua raccolta di poesie, convertite in un blocco plastico che diventava scultura. La comunicazione e il gioco linguistico di accezione magrittiana sembrano essere al centro della ricerca artistica di De Santis, che si muove sempre in bilico tra linguaggio visivo e linguaggio verbale, con l’intento di mostrare la bellezza di un problema, senza risolverlo, ma offrendo al fruitore gli strumenti per sciogliere il rebus. E difatti la sensibilità di Love story non è sempre replicata nelle sue opere che, nonostante il rifiuto dell’artista ad accettare la definizione, più spesso appaiono divertenti e spiritose, un po’ ludiche, un po’ dada, ma sempre completate dal loro titolo, il quale tuttavia non spiega l’opera, anzi ne articola il significato: «È come una torta appena preparata – afferma l’artista – la torta è il lavoro e il profumo che emana è il titolo». Il mondo di De Santis è abitato da una produzione variegata,

fatta di opere originali e meno originali dall’effetto straniante, attraverso le quali tenta di dare un corpo e una struttura a un concetto, dotandolo di tridimensionalità. Come in AB, il libro derivato da un’operazione realizzata alla Nomas Foundation, in cui 40 opere di artisti diversi diventavano i punti cardinali di una mappa data al visitatore per orientarsi nello spazio espositivo. I suoi curiosi assemblage danno vita a un mondo animato surreale, fatto di forme assurde e irreali, colonne con rotelle e con i pedali, che rimandano a un concetto, corredate da titoli spesso provocatori, come quello dato alla sua retrospettiva alla Frutta Gallery, Suck my Disney. Sfuggente e poco incline a raccontarsi, De Santis dice di trarre ispirazione dalla vita, nonostante possa dare l’impressione di restare a volte ingabbiato negli schemi del concettualismo che, invece di offrire la libertà professata, rischia di trascinare le opere in un’ambiguità spesso forzata.

L’OPERA Love story 1960-1964 A lungo nascosto affinché i figli non lo leggessero, questo carteggio, oltre ad essere testimone di una storia d’amore ormai lontana nel tempo, si presenta agli occhi di De Santis con la forza e il fascino che appartiene a tutto ciò che in un modo o nell’altro è stato sottoposto a un intenzionale processo di censura. Sono diverse allora le dinamiche che simultaneamente s’instaurano nel lavoro dell’artista: fondamentale tra queste è il processo di metamorfosi che investe le lettere nel momento in cui, essendone vietata la lettura, si trasformano da luogo di una memoria linguistica a pura scultura, perdendo la loro originaria fruibilità e assumendo le forme di un blocco di marmo. Paradossalmente è proprio dall’atto della censura che ha origine il movente dell’azione artistica, la quale si manifesta nel rendere concreto un cambiamento di prospettiva mentale. Attraverso questo gioco concettuale, artista e spettatore si trovano coinvolti nella stessa condizione di osservatori passivi, il cui voyeurismo e desiderio di conoscenza rimangono inevitabilmente frustrati. Proibito l’accesso alla materia linguistica e memoriale delle lettere, non resta altro che farle oggetto di una conoscenza estetica e spaziale. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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L’ARTISTA Gabriele De Santis

Gabriele De Santis In alto: Time machine, 2012 cortesia Frutta Gallery, Roma A pagina 33: Tell the truth and run, 2013 cortesia Frutta Gallery, Roma

Gabriele De Santis nasce a Roma il 30 dicembre 1983, dove attualmente lavora. Frequenta la Salzburg summer academy (Internationale sommerakademie fuer bildende kunst) e la university of the arts di Londra dove studia visual arts. Nel 2010 vince il premio Moroso per l’arte contemporanea. Nei due anni successivi partecipa a numerose mostre collettive, esponendo (tra le altre) a Milano, Udine e Verona. Nel 2012 viene invitato a esporre le sue opere al Macro di Roma, all’interno della mostra Re-generation, curata da Ilaria Gianni e Maria Alicata. Nello stesso anno molte delle opere di Gabriele vengono esposte nel corso della mostra personale Suck my Disney, alla Frutta Gallery di Roma. (V. F. e M. M.)


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SUGGESTIONI CUCITE ADDOSSO Sara Enrico intreccia tecniche e strumenti della sua opera, dal telaio Jacquard al moderno scanner: «Ho riflettuto sul rapporto tra il lavoro artistico, le moderne tecnologie e la produzione industriale» di ALESSANDRO CARUSO

L’

opera d’arte parla a chi la vede. E Untitled (Jacquard) suggerisce molte suggestioni, a cominciare dall’idea dell’intreccio. Quello di Sara Enrico, infatti, è un lavoro che gravita attorno a questo concetto. Intreccio di tessuto, di tecniche e di significati. Una tela da pittura su cui sono cucite delle armoniche sagome con la tecnica dello Jacquard, un particolare tipo di telaio, tanto antico quanto efficace, particolarmente utilizzato per le tessiture di precisione. Uno strumento testimone della storia, diventato simbolo della rivoluzione industriale del XIX secolo, grazie al quale la produzione tessile è diventata più meccanica e veloce. La sua introduzione non fu ben accolta dai tessitori dell’epoca. Il marchingegno, infatti,

era manovrabile anche da una sola persona, eludendo così il lavoro di più lavoratori, necessari invece per il funzionamento del vecchio telaio a liccetti. Il telaio Jacquard, oggi, reso migliore dalle moderne tecnologie, è imprescindibile nella produzione delle tessiture più pregiate e complesse. Sara Enrico ha rievocato questa tradizione, intrecciando la contemporaneità della sua opera con una tecnica artigianale molto antica. E lo ha fatto con un intento ben preciso: «Ho riflettuto sui possibili rapporti tra arte, nuove tecnologie e produzione industriale – spiega – in particolare il settore tessile. Il lavoro nasce infatti dalla scansione di un pezzo di tela da pittura che in precedenza ho manipolato in vari modi. Passando in rassegna la superficie con lo scanner

sono entrata in relazione con la natura stessa dell'oggetto, con la sua fattura, ne ho approfondito la materia originale». Nella sua ricerca attuale, infatti, è sempre presente la volontà di mettere l’arte a contatto con la realtà produttiva per fare dialogare armonicamente le due dimensioni: «Lo faccio anche per una necessità e curiosità di relazionare la mia pratica individuale a situazioni più collaborative – spiega – ricercando in esse la possibilità di uno sviluppo e di una messa in crisi del mio ruolo e dei miei standard». Sara Enrico è una giovane artista torinese, classe 1979, e ha tutta l’aria di avere le idee molto chiare sul suo percorso artistico. Ha studiato decorazione all'accademia di Torino e poi si è specializzata in restauro di dipinti antichi a Firenze. Racconta di avere scelto il


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L’OPERA Untitled (Jacquard) Da sempre affascinata dal processo di trasformazione e dalla possibilità di manipolare le superfici, Sara Enrico presenta un lavoro che simboleggia un importante momento di snodo nell’ambito della sua ricerca artistica. Avvalendosi per la prima volta della collaborazione di un designer tessile, l’artista trasforma una tela, precedentemente manipolata e scansionata, in un vero e proprio tessuto attraverso l’antica tecnica dello Jacquard. Il telaio Jacquard fu il primo meccanismo al quale venne applicata una scheda perforata che ne guidasse i movimenti durante la lavorazione, tanto da essere considerato il precursore del calcolatore quindi dei moderni computer. L’ artista dà vita a una serie di rapporti dialettici tra processi e supporti, facendo dialogare la tradizione artigianale con tecniche più contemporanee. Sara Enrico mette in atto un procedimento circolare telaprocesso-tela: dalla superficie bianca, simbolo della tradizione pittorica, attraverso le moderne tecniche di scannerizzazione e stampa digitale, il telaio Jacquard tesse la superficie restituendo la matericità e le sottili variazioni monocromatiche dell’originale. Con Untitled (Jacquard) l’artista utilizza l’anacronismo delle tecniche per instaurare un dialogo tra superfici, oggetti e storia. (V. F. e M. M)

restauro perché le piaceva l’idea di entrare in contatto con un’opera dal retro, da un punto di vista analitico, di ricerca, di ricostruzione. «Poi col tempo ho iniziato ad appassionarmi all’arte contemporanea – rivela – e il passaggio è stato piuttosto naturale». E di strada ne sta facendo con passi da gigante. Ha partecipato quest’anno al progetto Vitrine 270° alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Torino, ha vissuto l’esperienza di residenza in Viafarini a Milano e più recentemente ha partecipato alla XIX edizione di Csav, Artists research laboratory della fondazione Antonio Ratti a Como. E dall’anno scorso è membro del progetto Diogene, uno stimolante cenacolo di creativi, nato a Torino, in cui promuovere il confronto e la ricerca tra artisti contemporanei di vari paesi. La sua produzione

artistica, così pregiata nel processo realizzativo, riporta a una dimensione molto artigianale dell’artista. La definizione la intriga, ma non la convince: «Tempo fa leggevo il testo di Glenn Adamson, Thinking through craft – dice – in cui si ragiona proprio sulla definizione di “craft” nella contemporaneità, sulla questione se l’arte possa essere ancora definita come mestiere e perciò abilità manuale. Ma non vorrei dare una definizione così serrata al mio lavoro». Molto più semplicemente, cita l’impressione che un suo amico ha avuto delle sue opere: «Ha utilizzato il termine erranza tecnica. Mi è piaciuto – confessa – penso che riesca a inquadrare la mia ricerca il cui ritmo sincopato viene talvolta vissuto da me come una potenzialità, supportata da una certa ansia sperimentativa. A volte

sento però il limite di tale inclinazione e ritorno ad allenarmi su tecniche e procedimenti che già conosco, perché posso in questo modo avanzare con maggiore consapevolezza». Sara dimostra di avere già raggiunto la maturità artistica necessaria per continuare a stupire. Lo dice il coraggio che ha avuto nella sperimentazione. Lo conferma l’anticonformismo con cui tratta il colore, «un materiale – spiega – da conoscere e utilizzare per la sua struttura fisica ancor prima che per la sua apparenza, valenza cromatica e percettiva». Lo testimoniano, infine, i suoi progetti per il futuro, concretamente stimolanti e legittimamente ambiziosi: «Sto riflettendo sulla possibilità di attivare uno spazio progetto – conclude l’artista – che spero possa partire all'inizio del prossimo anno».


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L’ARTISTA Sara Enrico

A destra: Sara Enrico, ritratto In alto: Screensaver, 2013 A sinistra, in alto: RSC#37, 2011 Foto Sebastiano Pellion di Persano A pagina 38: Untitled (Jacquard), 2013 Foto, Paolo Robino cortesia dell’artista

Sara Enrico nasce a Biella il 20 maggio 1979. Vive e lavora a Torino. Ha studiato all’accademia di Belle arti di Torino e si è specializzata in restauro di dipinti antichi all'Istituto Spinelli a Firenze. Dal 2008 al 2012 è stata membro di progetto Diogene a Torino. Recentemente ha partecipato alla XIX edizione di Csav – Artists research laboratory della fondazione Antonio Ratti a Como e a The book society #01 al museo d’Arte contemporanea di Villa Croce a Genova. Nel 2012 è stata artista in residenza a Viafarini in residence, a Milano e per Painting Detours a villa Gorgo, Nogaredo al Torre (Udine). Ha esposto, tra le altre, nelle personali Vitrine-270°, alla Gam nel 2013, Open Atelier, al Vir a Milano nel 2012 e Less concreteness, al Mars di Milano nel 2010. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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UNA FINESTRA SUL MONDO Niccolò Morgan Gandolfi realizza immagini che racchiudono suggestioni capaci di andare oltre l’inquadratura: «La fotografia mi ha sempre affascinato per il suo rapporto legato alla vista e per il suo essere una pratica solitaria» di GIORGIA BERNONI

R

isate frequenti che si alternano a un caldo timbro di voce. Raggiunto al telefono nel suo studio bolognese, Niccolò Morgan Gandolfi non nasconde una certa timidezza nel raccontare il suo ingresso nel mondo dell’arte, accanto a un certo entusiasmo nel descrivere le peculiarità della sua ricerca estetica che si esprime principalmente nel campo della fotografia. «Il mio percorso artistico – esordisce – ha delle radici abbastanza profonde già dal liceo visto che ho frequentato l’artistico. Mi sono appassionato alla fotografia a 17 anni quando, in seguito al risarcimento per un incidente stradale, mi sono potuto permettere di comprarmi una macchina professionale. In particolare la fotografia mi ha sempre affascinato per il suo rapporto legato alla vista; in casa ho sempre respirato la passione per il cinema e in passato ho fatto delle piccole esperienze sul campo come direttore della fotografia ma ho comunque sempre prediletto di più lavorare con la fotografia. La fortuna di cominciare presto risiede anche nel fatto che il mezzo lo si digerisce in fretta per quanto riguarda l’aspetto tecnico. Così adesso sono in grado di scegliere con cognizione di causa esattamente quale mezzo voglio usare». Le im-

magini che Gandolfi, classe 1983, cattura nei suo lavori richiamano suggestioni che portano lo spettatore a chiedersi cosa ci sia poco oltre il limite dell’inquadratura o cosa è successo qualche minuto prima (o cosa succederà qualche minuto dopo) lo scatto dell’autore. Scorci di città insolitamente deserte si alternano a paesaggi naturali di difficile identificazione con il risultato di evocare una determinata tecnica che si cela dietro gli scatti. «Della fotografia – continua – mi piace anche l’aspetto che la pratica, a differenza di quello che succede su un set cinematografico, è sostanzialmente solitaria. Anche nei miei attuali lavori, compreso quello che ho presentato al Talent Prize, le immagini sono costruite con precisione allestendo dei set, anche se faccio quasi tutto da solo. Dietro ogni foto c’è anche una fatica fisica visto che da anni ho scelto di scattare con il banco ottico, un mezzo abbastanza improprio per l’uso che ne faccio; vista la sua mole viene usato quasi sempre in studio, invece io me lo porto dietro in montagna o in giro. Lo uso perché ci sono dei vantaggi a livello qualitativo e posso stampare in grandi dimensioni senza perdere in qualità. È una scelta ben definita anche perché non faccio reportage e il banco ottico mi dà la possibilità di costru-

ire bene l’immagine prendendomi tutto il tempo che mi serve per inquadrare». A questo proposito la critica Alessandra Prandin ben sintetizza in un suo scritto del 2012: “Siamo lontani dalla fotografia di paesaggio o dalla logica dello scatto rubato e l’uso del banco ottico non è una semplice scelta strumentale, ma una presa di posizione perché che presuppone tempi lunghi ed è lo strumento preferito per la fotografia di architetture. L’obiettivo della macchina è testimone unico dell’azione, della costruzione e dell’esperienza dell’artista in un processo in cui l’immagine fotografica è solo uno dei momenti che costituiscono l’opera”. Prima di tornare nella Bologna in cui si è formato, il fotografo ha vissuto a Parigi e in California, dove ha sviluppato un progetto incentrato su Los Angeles. «Quasi tutto il lavoro è incentrato sul paesaggio urbano – precisa Gandolfi – non è presente la figura umana. Questo lavoro si inserisce nello spazio che si crea tra la realtà e l’immaginario che abbiamo di questa città, in contrasto con la conoscenza del luogo che avviene attraverso la sua stessa mitologia, enfatizzata da Hollywood e della quale si cerca la conferma in ogni angolo della città. Inizialmente questo progetto è nato da una volontà di lavorare sul paesaggio


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L’OPERA Untitled La ricerca stilistica di Niccolò Morgan Gandolfi trova le sue radici nell’osservazione dell’esperienza percettiva umana che, nell’atto di interpretare l’ambiente circostante, non rivela mai una visione univoca. L’opera, estratta da una più ampia serie che s’interroga sulla stessa problematica, rappresenta l’atto stesso della scelta di un soggetto da parte dell’artista. Il perimetro, incorniciato da una luce al neon quasi evanescente, è sia soggetto mentale che paesaggio reale, sia rappresentazione che luogo dell’esposizione stessa. L’artista entra così nel mondo naturale e lo altera facendolo diventare un luogo di indagine sperimentale, luogo di azioni e di idee. Attraverso l’installazione e la delimitazione di questo spazio, Gandolfi crea una porta, un passaggio, che, con un gioco di elementi inattesi, provoca nell’osservatore un distacco cognitivo, generatore di uno straniamento che lo allontana dall’estetica propria dello spazio naturale; questo è alterato e trasformato in qualcosa di puramente astratto, quasi mistico. L’artista svela un universo, come in una rivelazione ermetica, dove luci e tenebre costruiscono e dissolvono il mondo a noi visibile, in un flusso di connessioni e nuovi punti di vista. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)

ma comunque sempre intorno a una sorta di azione, l’obiettivo era di costruire delle cose attorno al paesaggio per materializzare il tempo che ho dedicato a quel luogo. Questo era il primo stadio dei miei lavori sul paesaggio, adesso c’è stata un’evoluzione: sto lavorando molto sul rapporto tra l’artista e il paesaggio in cui si muove, su quella che può essere una sorta d’influenza che può avere un artista sul paesaggio. La foto del neon del Talent Prize ne è un esempio: si tratta di un’inquadratura, un frame quasi pittorico, dove illuminando solamente l’interno del frame riesco a individuare un soggetto». L’esperienza californiana ha permesso all’artista di mettere a confronto la realtà statunitense con quella nostrana. «Ho colto molte differenze, anche sul piano della formazione. In Italia l’università che ho frequentato, lo Iuav a Venezia, è una scuola assolutamente teorica, poco pratica. Ovviamente il sistema statunitense è quasi all’opposto. Una cosa

che mi è piaciuta molto di Los Angeles è la grande apertura verso gli agenti esterni, quando ti ritrovi a una mostra è facilissimo creare delle sinergie e riuscire ad avere un reale scambio di contatti che avvengono anche con le istituzioni, mentre in Italia questo è molto difficile. Il rapporto con le persone è genuino perché c’è molta disponibilità da parte di tutti. Ho conosciuto James Welling, artista che ha tenuto da poco una personale alla Tate, che mi ha invitato a frequentare il suo studio e a lavorare con la sua strumentazione e la camera oscura». La fascinazione verso gli altri mezzi artistici non tarda ad arrivare. «Sono molto incuriosito anche dalle altre arti: sto facendo soprattutto installazioni, sempre legate alla fotografia. Un’opera esposta in Viafarini a Milano consisteva in 500 chili di candele, l’azione reale sarebbe stato accenderle e arrivare a un punto di visibilità molto lontano e quindi racchiudere tutto in uno scatto per operare un’integrazione tra installazione e

fotografia».“La relazione con il mezzo – precisa ancora Prandin – si fa più complessa e lo spettatore viene chiamato a riflettere sul rapporto tra i diversi registri presenti nell’immagine. Azione, scultura, fotografia: l’ibridazione di mezzi e linguaggi è una tendenza attuale che coinvolge il regno dell’immagine e che ci ricorda la fotografia degli anni settanta (che si riafferma oggi con nuovi protagonisti) nella West Coast degli Stati Uniti. Fotografia e arti plastiche si confondono, entrano a giocare ruoli diversi nella realizzazione dell’opera». D’obbligo un’ultima riflessione dedicata agli artisti che hanno influenzato la sua ricerca. «Ho colto da tante persone che mi hanno ispirato ma sicuramente la land art, soprattutto quella sviluppata negli Stati Uniti, mi ha aiutato tantissimo per l’uso del mezzo fotografico: un misto tra documentazione e azione ma ciò che si presenta alla fine è solo un’immagine fotografica», conclude con una risata rassicurante.


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L’ARTISTA Niccolò Morgan Gandolfi Niccolò Morgan Gandolfi nasce a Washington D. C. (Stati Uniti) il 31 agosto 1983. Si diploma al liceo artistico Francesco Arcangeli di Bologna e consegue l’attestato di assistente fotografo della moda al centro di formazione professionale Riccardo Bauer di Milano. Nello stesso anno lavora come tirocinante con il fotografo di moda Riccardo Vimercati. Nel 2009 si laurea presso lo Iuav di Venezia. Nel 2010 ha vissuto a Los Angeles per un progetto di ricerca dalla durata di un anno. Ha partecipato a residenze e collettive tra cui la 94ma collettiva dei borsisti alla fondazione Bevilacqua La Masa, Vir Viafarini in residence e New Holland a San Pietroburgo. (V. F. e M. M.)

A sinistra: Niccolò Morgan Gandolfi In alto: Segnalatore di posizione, 2012 Nella pagina precedente: L. A. Look (dalla serie), 2010 A pagina 43: Untitled, 2013


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INDAGINI SULL’IDEA DI CONFINE Riccardo Giacconi è finalista Talent Prize con il video ritratto dedicato alla ex Lollipop Domenique Fidanza. La ricerca dell’artista si fonda sul concetto di linea con opere che camminano in equilibrio su territori instabili di FRANCESCO ANGELUCCI

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uasità è un sostantivo che non esiste. La parola descrive la poetica di Riccardo Giacconi, o almeno una sua parte. Nell’Ottocento la si sarebbe chiamata titanismo, quella passione tutta romantica di lottare con la certezza di essere sconfitti per mano di un nemico eterno e invincibile. Giacconi riprende l’idea, gratta via l’eroismo abbassando l’obiettivo da raggiungere. La guerra non è più contro sistemi immutabili ma sono medaglie da conquistare per una corsa ai cento metri o successi da mantenere per una vita intera. Il risultato è lo stesso: nessuna riconoscenza viene riportata a casa, ma per un pelo. Il protagonista perfetto dell’artista è il personaggio che non arriva alla meta, l’eterno secondo che quasi

poteva essere primo. È un tragico sfumato ma umano, un gioco che non appartiene solo agli eroi. «In inglese il concetto si può esprimere con almostness; è una parola che non esiste – dice Giacconi – ma che rende bene l’idea. L’ho usata per la prima volta nel 2009 mentre lavoravo al video La scena emisferica in collaborazione con Daniele Zoico. Il lavoro racconta la storia dell’atleta Frankie Fredericks, che ha ottenuto quattro medaglie d’argento olimpiche nei 100 e 200 metri, arrivando sempre secondo. È soprattutto nello sport che mi affascina il quasi, un campo dove ci si dà completamente per raggiungere i propri obiettivi». Giacconi è finalista al Talent Prize con un video dedicato a Domenique Fidanza, ex membro della girl-band Lollipop: «La storia di

Dominique – continua – mi è sembrata in un certo modo parallela a quella di Fredericks: ha partecipato a un talent show in Italia per poi entrare nella band. Il gruppo si è sciolto e Dominique è entrata in un altro talent show, questa volta in Francia, dove è arrivata seconda. Dopo qualche anno sarebbe dovuto uscire il suo album solista che non si è mai realizzato. Dominique, fra l’altro, è anche una pittrice». Giacconi ha visto nella cantante una sorta di suo alterego, entrambi artisti e ospitati dalla Francia per portare avanti il loro mestiere. Per questo, nonostante la lingua madre dei due sia l’italiano, nel video parlano francese: un’attenzione al luogo e al linguaggio che è una costante nei lavori del finalista. «Credo che l’arte abbia la possibilità, se non la responsabilità, di far


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L’ARTISTA Riccardo Giacconi Riccardo Giacconi nasce a San Severino nelle Marche il 18 gennaio 1985. Ha studiato arti visive all’Università allo Iuav di Venezia, alla Uwe di Bristol e la New York university. Ha svolto numerose residenze per artisti, fra cui quella a Viafarini (Milano), a Lugar a Dudas (Cali, Colombia) e al Macro, museo d’arte contemporanea di Roma. Ha presentato i suoi film in diversi festival, fra cui il Torino film festival e il Fid Marseille international film festival. Ha preso parte alla sezione Résonance della Biennale di Lione, ed è stato fra i finalisti dell’Ariane De Rothschild Prize. Ha esposto, fra l'altro, alla Whitechapel Gallery di Londra, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla quinta Biennale di Praga e al Maxxi di Roma. Nel 2007 ha cofondato il collettivo Blauer Hase con cui cura la pubblicazione periodica Paesaggio e il festival Helicotrema.

A sinistra: Senza titolo, particolare dell’installazione, 2007 A pagina 48: Riccardo Giacconi, foto Ala d’Amico A pagina 50, in alto: In thin air, installazione, 2009 A destra in basso: Portrait de Domenique Fidanza dans sa maison en Suisse, frame da video, 2012

venire alla luce la presenza dei linguaggi nei quali siamo costantemente immersi, anche se non ce ne rendiamo conto. È un po’ come un rumore di fondo continuo: ti accorgi che c’era solo quando smette. Come scrive Giorgio Agamben: “da anni si cerca di persuadere i cittadini ad accedere come normali e umani dispositivi che sono stati sempre considerati eccezionali”». Invece il luogo? «Sono sempre stato interessato ai paesaggi che le persone abitano – prosegue – all’articolazione fra figura e sfondo, un argomento che è ancora al centro dell’investigazione artistica». A interessare l’artista è lo spazio che passa fra la figura e lo sfondo, la sua è una riflessione su come fondere questi due elementi. Come un pittore Giacconi nel video di Fidanza comincia con il definire un paesaggio, in questo caso un tramonto. «Sono degli ambienti che stavano intorno a lei, ho cercato di inserire la sua figura nel contesto,

provando a mescolare il soggetto con il paesaggio: spesso la voce è quella di Dominique mentre sullo schermo passano alberi, cieli, montagne, come se a parlare fossero i suoi stessi luoghi». I lavori dell’artista sono sempre in bilico fra arte e documentario, ma è un’idea precisa quella che muove il suo operato: «Attraverso il genere del documentario mi interessa mettere in discussione la vita stessa del documento – confessa Giacconi – che è considerato come una forma sociale fissa e legata a una certa idea di verità. Invece, ciò che mi affascina è indagare uno statuto del documento che possiamo chiamare variazionale, cioè basato non su una verità certificata e sterilizzata, ma sui diversi modi di esistenza e di narrazione di un evento». Amante delle forme culturali in disuso, il finalista lavora su espressioni un tempo molto comuni ma ora abbandonate o poco usate, come la radio. «Ad affascin-

armi in questo caso è l’ascolto collettivo, una pratica che è stata rilegata a una dimensione privata mentre precedentemente avveniva in una comunità». L’artista fa parte del collettivo che ha partecipato alle due edizioni del festival Helicotrema, di cui l’ultima si è tenuta ad aprile nel Macro capitolino. All’interno della manifestazione Giacconi si riallaccia alla tradizione del radiodramma e del radiodocumentario «Sono opere sonore – conlude il creativo – e in qualche modo è come avere dei corti cinematografici ma senza immagini». La poetica ultima di Giacconi sembra essere il confine, non tanto quello che c’è al di là o al di qua della linea, quanto la linea stessa. Concetto instabile che non appena credi di aver afferrato scompare, lasciandoti da questa o da quell’altra parte, consapevole di aver passato qualcosa. Ecco, lo stare su quel qualcosa è il campo d’indagine dell’artista.


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L’OPERA Portrait de Domenique Fidanza dans sa maison en Suisse Riccardo Giacconi racconta storie che prendono forma attraverso i immagini, suoni e memorie. I protagonisti dei suoi video sono persone, che con le loro testimonianze intrecciano un sottile rapporto tra biografia e confessione, proponendosi in veste nuova al mondo che intende ascoltarli. L’artista nella sua ricerca s’interroga sul difficile rapporto esistente tra spettacolo e vita, accompagnando il nostro sguardo verso una dimensione altra rispetto a quella documentata delle biografie ufficiali, dimostrando l’assoluta precarietà del concetto di verità. Creando questi video, attraverso una narrazione che si avvale di registrazioni, parole e appunti personali, Giacconi dipinge dei ritratti, racconti intimi di figure che diventano parte di una costellazione più ampia, in un tempo e in uno spazio che è quello del contemporaneo. Dominique Fidanza, cantante belgo-italiana, in questo video racconta la sua esperienza nel mondo dello show business rivelandone la spietata crudeltà e freddezza. Lontana dalle luci dei riflettori dei talent show, immersa nel silenzio delle montagne svizzere, la giovane artista è libera di raccontare se stessa, mostrando il grande sogno-incubo che si nasconde dietro il raggiungimento della notorietà. In un ciclo di silenzi, parole e sospiri, l’intimità della protagonista dialoga con le immagini e i suoni, selezionati e montati da Giacconi in quella che appare come una pagina di un diario segreto, svelata timidamente alla visione del pubblico. (V. F. e M. M.)


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MACCHINE CON IL CUORE Antonio Guiotto trasforma macchinari complessi in sculture animate: «Considero l’artista come uno scienziato entrambi hanno la stessa funzione sociale: creare qualcosa che possa far bene al mondo intero» di AMALIA NANGERONI

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love you è un’opera che genera frequenze sonore vitali per curare l’essere umano. Da diversi anni Antonio Guiotto, padovano classe 1978, si è dedicato allo studio di questa pratica curativa sperimentando i suoni anche sul proprio corpo. «Volevo comprovare il loro reale effetto benefico», afferma l’artista mentre spiega che attraverso una serie di ricerche incrociate ha scoperto che molto di quello che noi conosciamo si basa su queste frequenze. Ad esempio le campane tibetane, i canti gregoriani e la stessa litania del rosario hanno una frequenza ben precisa che produce un effetto curativo. «Ho cercato di applicare nel mio lavoro questo processo creando delle macchine che riproducono le frequenze 528 Hz e 936 Hz, in grado di riparare la prima il dna e la seconda di rivitalizzare la ghiandola pineale che per le scienze olistiche e orientali è la zona di connessione tra il corpo e la mente e che favorisce la percezione di ciò che ci sta attorno». L’artista ha voluto poi trasformare

queste macchine in sculture sfruttando inoltre il potere del colore per generare un cambiamento benefico. «I love you è un atto d’amore che io compio nei confronti del fruitore dell’opera, quello che mi interessa è la capacità che ha l’arte di salvare l’umanità», precisa. Guiotto considera l’artista come uno scienziato: «entrambi hanno la stessa funzione sociale: creare qualcosa che possa far bene al mondo intero. Partendo dagli studi di altri studiosi, lo scienziato quando ha un’intuizione comincia a confutare la sua tesi effettuando una serie di esperimenti che termina quando crede siano sufficienti a determinare un risultato. Così, ogni progetto al quale lavoro è un esperimento. Per me l’importante in assoluto come artista è fare ricerca e sperimentare. Mi piace concepire le opere in serie di lavori, quando raggiungo il numero sufficiente di opere/esperimenti in grado di esplicitare il concetto che ho in mente, mi fermo». Ricerca e sperimentazione sono alla base della sua metodologia artistica. In linea con il

principio del rasoio di Occam, Guiotto produce un determinato numero di opere per esplicitare il suo concetto. La serie I want tell you an art work ne è un esempio in quanto composta da sette elementi che esistono solo sotto forma di racconto narrato. L’idea di “serie limitata” si inscrive all’interno di una riflessione più ampia compiuta dall’artista riguardo ai confini. «Affascinante è osservare come l’arte e la creatività siano il mezzo principale per definirli e allo stesso tempo dissolverli. Un confine si può superare solo quando si definisce. Ho smesso di fare l’artista per un anno e mezzo tra il 2007 e il 2009 ma poi ho ripreso. Di ritorno da un viaggio avevo raccolto una serie di piccoli appunti visivi ai quali ho iniziato ad attribuire un titolo in modo che spiegasse cosa c’era fuori campo. Da questo lavoro c’è stata poi un’evoluzione, ho cominciato a dare sottotitoli a opere di altri artisti e infine sono giunto a eliminare le immagini lasciando solo il testo». Guiotto, che si è formato all’accademia di Belle arti di Venezia


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L’OPERA I love you (con 528 Hz e 936 Hz) I love you (con 528 Hz e 936 Hz) testimonia la profonda attitudine sperimentale caratteristica dei lavori di Antonio Guiotto. L’opera, parte di una più ampia serie di sculture e installazioni, si presenta a tutti gli effetti come dispositivo di visualizzazione di una ricerca sulla ricezione di frequenze intangibili. L’artista da tempo si dedica allo studio delle vibrazioni sonore curative, attività che lo ha portato a condurre esperimenti prima su se stesso poi sui visitatori del suo studio. Diffondendo nell’ambiente alcune precise frequenze, Guiotto registra le eventuali reazioni dei presenti, osservandone i cambiamenti negli stati d’animo. Il dispositivo, costituito da una struttura in legno, da casse stereo e da un lettore mp3, vede la sua principale funzione nel diffondere all’interno dell’ambiente espositivo due frequenze pure (528 Hz e 936 Hz) appena percettibili. L’elaborazione di questi materiali in una costruzione complessa serve, da un lato a rendere corporeo un processo di ricerca che altrimenti rimarrebbe nascosto, dall’altro a sviluppare una ricerca più dichiaratamente artistica. Il pubblico, la cui presenza è necessaria affinché l’estetica dell’opera sia completa, si trova così coinvolto in un duplice processo dialettico: da una parte la serietà della ricerca empirica, dall’altra l’ironia generata dalla struttura enigmatica e apparentemente priva di funzione dell’opera stessa. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)

studiando scultura, sostiene che l’insegnamento accademico ha influito molto poco su di lui rispetto al suo vissuto. «Le figure che hanno stimolato in assoluto la mia ricerca artistica sono sicuramente state mio padre, non perché fosse un artista ma per il suo modo di vedere le cose, e mio nonno che era un inventore. Tra gli artisti, uno su tutti, Duchamp». Ma la sua formazione principale si basa su ricerche che ha condotto in campi diversi da quello dell’arte: «Se mi dedicassi come uno storico esclusivamente all’arte, la mia arte assomiglierebbe ad altra arte». Però è anche vero che alcuni suoi lavori richiamano opere di altri artisti, come ad esempio Contemporary art cover show, dove in un video vi è una chiara citazione della Venere degli stracci di Pistoletto: «Mi piace pensare di realiz-

zare dei collage utilizzando opere di altri artisti per sviluppare una mia teoria». Il confronto con altri artisti avviene anche attraverso collaborazioni, come nel caso del Progetto Superfluo realizzato con Nicola Genovese e Alex Bellan. «Volevamo creare a Padova una piattaforma per l’arte contemporanea che offrisse agli artisti degli spazi dove esporre le loro opere», precisa. Poi, in occasione di molte mostre collettive, Guiotto ha innestato un dialogo con gli altri artisti e con gli stessi spazi espositivi. Proprio a una mostra ospitata negli spazi dell’ex-macello a Padova, ha esposto un generatore di calore che gonfiava un telo creando una sorta di volta che si muoveva sinuosamente ricalcando la figura di una medusa: «Questa doveva dare l’impressione di poter in qualche modo sostenere

l’architettura in un gesto di riconoscenza». Infine, alla questione ecologista si rifà invece la sua partecipazione alla 50esima biennale di Venezia con il gruppo Riserva artificiale: «Partecipare alla biennale è stata un’esperienza straordinaria, poi lavorare con Cesare Pietroiusti, un grande artista a cui devo moltissimo dal punto di vista intellettuale, è stata una delle cose che mi ha scosso di più». Il progetto non voleva denunciare esplicitamente l’inquinamento a porto Marghera, gli artisti guidavamo i visitatori in un tour guidato all’interno di una riserva delimitata: «Durante gli spostamenti, a piedi o in bici, raccontavamo delle storie vere o inventate per portare attenzione sul fascino del luogo come l’inferno di cui parla Calvino nelle Città invisibili».


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L’ARTISTA Antonio Guiotto

A sinistra: Antonio Guiotto In alto: Casa dolce casa addio, 2011 A destra: Qualcosa accade (trasformazione di un libro che non ho letto e che non leggerò mai), 2011 A pagina 53: I love you (con 528 Hz e 936 Hz), 2013 cortesia Any space gallery Bruxelles

Antonio Guiotto nasce a Padova il 9 giugno 1978. Attualmente vive a Borgoricco (Padova). Si forma all’accademia di Belle arti di Venezia dove segue il corso di scultura. Nel 2005 partecipa alla residenza al Konrad Lorenz institute di Vienna. Assieme all’artista Nicola Genovese nel 2010 fonda il Progetto Superfluo. Collabora con Fondazione March, Carrozzeria Margot e con Niamè Glass Doors. Nel 2003 con il gruppo Riserva artificiale ha partecipato alla 50esima biennale Arti visive di Venezia a cura di Francesco Bonami. Tra le sue personali ricordiamo Equilibrium del 2012 ad Asolo (Treviso) a cura di Pietro Rigolo. (V. F. e M. M.)


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MURI GIALLI DI MEMORIA Maziar Mokhtari Mobarakeh si ispira alle pareti ridipinte della sua città in Iran: «L’intera cittadina sembra andare verso la cancellazione. Ho sentito che il muro era come un testo scritto in cui tutte le parole sono state cancellate» di DEIANIRA AMICO

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ono pochi i giovani autori che, come l’iraniano Maziar Mokhtari Mobarakeh, nella loro poetica hanno sedimentato il valore della memoria. Memoria intesa come valore fondante dell’esistenza, base culturale e umana attraverso la quale intraprendere qualsiasi viaggio. È l’intuizione che cogliamo in Palimpsest (dal greco antico “raschiato di nuovo”), un progetto che Mokhtari ha cominciato nel 2010, composto da una serie di foto e videoinstallazioni ispirate ai muri ridipinti negli spazi urbani della sua città natale Esfahan, in Iran. In quest’ultimo lavoro Mokhtari ha ripreso i muri gialli, come il deserto che caratterizza il suo paesaggio natale, rielaborandoli e creando dei set scenografici con oggetti e luoghi uniformati nelle stesse tonalità di colore. Vere finzioni, si potrebbero definire queste fotografie. Non tanto per il processo di manipolazione dell’immagine, ma per il contenuto stesso che veicola: anche i veri muri di Esfahan sono manipolati, sono palimpsest, nell’antica etimologia del termine sono pagine (in questo caso superfici) manoscritte, cancellate e scritte nuovamente. E in questo ossimoro si cela il senso stesso delle bellissime, talvolta struggenti immagini di questo artista nato nel 1980 che dal 2004 si divide tra l’Italia e l’Iran. Nel 2010, dopo la formazione all’accademia di Belle arti di Roma e diverse esperienze nel campo della pittura, grazie al

suo viaggio in Iran si avvicina per la prima volta alla fotografia e al tema del muro: «mi sono reso conto che ad Esfahan alcuni muri sono ricoperti di colore giallo, come se fossero cancellati attraverso questo colore. L’intera città sembra andare verso la cancellazione. Ho sentito che il muro era come un testo scritto in cui tutte le parole sono state cancellate». Nel suo fare fotografia Mokhtari racchiude quella sensibilità, quella meditazione dello sguardo, quel senso di sospensione del tempo che appartengono alla cultura persiana come alla tradizione metafisica italiana. Yellow apocalipse è il titolo della sua prima personale italiana che dal 15 novembre all’11 gennaio 2014 animerà gli spazi della galleria Oltredimore nella nuova sede situata nel distretto della Manifattura delle arti di Bologna, uno dei poli culturali più grandi d’Europa realizzato nell’area dell’ex Manifattura Tabacchi e dell’ex macello, su progetto dell’architetto Aldo Rossi. Immaginiamo, in questa nuova tappa del percorso di Mokhtari, di camminare in una città senza cielo, di scontrarci a ogni angolo con muri ciechi, monocromi, illuminati da una luce zenitale. Partecipiamo alla condizione di dover affrontare una barriera in tutte le sue declinazioni e aree tematiche: muri come confini, muri come metafore, muri reali e muri immaginari, muri di parole e muri di immagini, muro come ostacolo da abbattere e muro come limite in cui

proteggersi. Il muro di Mokhtari è, nell’ossessività della sua presenza, una sorta di manifestazione del disagio dell’individuo nell’uniformità della società dei consumi ed espressione delle sue velleità di cambiamento. Raramente compare la figura umana, a volte è espressa con l’immagine di un pellegrino statuario una divinità muta, ritratta di spalle, come in preghiera di fronte al muro del pianto schermato, oppure rappresentata frontalmente, sullo sfondo di una delle ricche industrie tessili di Esfahan. Il progresso è un’illusione, un muro ridipinto ha solo cambiato il suo aspetto, nella sostanza senza una vera rivoluzione, senza poter abbattere il muro, non esiste possibilità di uscire dalla condizione esistenziale e storica di isolamento. Il senso più reale dell’opera di Mokhtari è che la realtà non esiste, ogni cosa è solo un fatto di percezione, di vissuto, di conoscenza. In fondo, si vede soltanto ciò che si sa. Il tutto appare, dunque, come una meravigliosa allegoria, una metafora del vedere “altro” e soprattutto “oltre”. L’antidoto rivoluzionario per abbattere le barriere è l’arte, un’arte che vive di limiti e frontiere, un’arte che «nasca da un’esperienza vissuta», come afferma l’artista, e che sappia affrontare quel muro che è momento di resistenza contro l’espressione. Un’arte, forse, consapevole che la stratificazione culturale è chiave di lettura e indice della civiltà contemporanea.


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L’ARTISTA E L’OPERA Maziar Mokhtari Mobarakeh Former flour factory

A destra: Maziar Mokhtari In alto: Former flour factory (prova d’artista) 2013 stampa lambda 90x252cm cortesia galleria Oltredimore, Bologna Nella pagina successiva, in senso orario: Palimpsest, 2010 Samaa, 2010 Yellow pilgrim in front of former textile, s. d. Senza titolo, 2009 Yellow Sofa, 2013 A pagina 57: Peykan 48, s. d.

Maziar Mokhtari Mobarakeh nasce a Isfahan (Iran), il 18 marzo 1980. Al momento vive e lavora tra l’Italia e l’Iran. Si è diplomato all’accademia di Belle arti di Roma. Ha esposto nel 2010 Palimpsest all’Azad art gallery di Teheran, alla Stux gallery di New York nel 2012 e a Bologna alla Galleria Oltredimore nel 2013.Maziar L’artista racconta attraverso le sue immagini di quel ”muro”, quella chiusura forzata che ancora oggi, e forse più di ieri, è tanto forte nel suo paese d’origine, l’Iran. Attraverso il video e la fotografia, questo giovane artista si è inserito sulla scena internazionale portando con sé tratti tipici della sua tradizione: è proprio in quel giallo dai riflessi dorati, simbolo di forti contraddizioni, che il lavoro di Mohktari prende vita. Nel 2012, infatti, nel corso di un viaggio nella sua città natale di Isfahan, l’artista prende coscienza del fatto che la maggior parte dei muri degli edifici sono coperti da questo stesso colore. Tale esperienza lo porta a elaborare un ciclo di opere, di cui Former flour factory fa parte, che intende mostrare la repressione culturale e sociale in atto nel suo paese. In questo lavoro fotografico l’artista crea un set scenografico utilizzando però oggetti e luoghi esistenti nella realtà urbana, dando loro nuovi significati attraverso la stesura intensa e uniforme di quella stessa campitura di giallo. Questi muri dipinti diventano così il simbolo di una cancellazione totalizzante, del concetto universale di barriera, che nega la diversità e la oscura in modo definitivo. Questo confine è tanto fisico quanto metaforico: porta con sé il segno, la testimonianza, la memoria di una civiltà che viene truccata, dipinta come fosse la maschera di se stessa. Eppure il muro resta sempre muro, anche se camuffato, come la forza vitale del messaggio resta tale anche se repressa. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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ARCHITETTURE EVOLUTIVE Marco Morici lavora sulla trasformazione dei metalli per dare vita a sculture: «Bisogna ridare alla cultura contemporanea il miscuglio che ci fagocita» A lui va anche il premio Repubblica.it di MARIA LETIZIA BIXIO

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arco Morici, ventotto anni, a breve architetto, giovane artista romano con il desiderio di trovare presto una residenza all’estero, finalista del Talent prize 2013 e vincitore del premio Repubblica.it, racconta il suo percorso artistico partendo dall’inizio. Era il 2009 quando è entrato a far parte del collettivo Oblivious artefacts, gruppo di sperimentazione visiva nato dall’unione di più artisti emergenti con alle spalle studi di architettura, interesse per grafica, fotografia, design e soprattutto per la videoarte. «Abbiamo cominciato curando l’immagine di un’etichetta berlinese di musica elettronica, ora arrivata ad altissimi livelli in tutto il mondo: la stroboscopic artefacts – racconta l’artista – Eravamo i vj ufficiali, curavamo dalle grafiche alla produzione video. L’ambiente della techno, del clubbing, le atmosfere notturne ci interessavano per l’estetica che ha guidato la nostra produzione. I nostri video erano cinema sperimentale applicato alla cultura dei

club». Gli Oblivious lavorano tutt’oggi con i controller, in presa diretta, curando questo tipo di approccio, meticolosi con l’immagine video che viene plasmata per, e sulla, musica. Lasciato questo interessante background sullo sfondo, Morici si è cimentato nella sua prima mostra romana alla galleria CO2, una bipersonale insieme a Ignazio Mortellaro, ideatore degli Oblivious per altro, ideando la grande creatura primordiale in ferro sospesa al soffitto dello spazio espositivo. «L’idea – racconta l’artista – l’abbiamo elaborata a Filicudi, eravamo in ritiro sull’isola e ci siamo confrontati su come poter racchiudere in un oggetto metallico un’eco del riverbero terrestre e celeste. L’ossidiana che fluttuava dal soffitto è una roccia tipica delle Eolie, l’abbiamo presa lì, e da quell’ammasso scuro, di vetro condensato, è nata la scultura». Quando la mostra si è conclusa la creatura in ferro è stata distrutta. Morici racconta che tornando nel garage dove era stata ammassata tutta quella ferraglia, i metalli, poggiati a terra, a contatto con l’u-

mido erano stati avvolti da uno strato di ruggine. «Ancora più belli di quando erano sospesi al soffitto della galleria, luccicanti – commmenta – come se la terra si fosse ripresa quell’eco celeste e ancestrale che la scultura voleva immortalare». Con la CO2 Morici prosegue il suo percorso partecipando a due collettive, stimolato dal confronto con il gallerista Giorgio Galotti e con gli altri artisti della galleria. Tuttavia, il trasferimento a Torino della stessa non lo preoccupa. Morici vive l’idea di aver un nuovo luogo con cui confrontarsi con entusiasmo, lo stesso che ha verso Torino, città dalla forte connotazione industriale che, sottolinea con l’occhio dell’architetto, «ha nel suo tessuto urbano costruzioni che hanno segnato la storia dagli inizi del ‘900. È stata completamente rimodernata per le Olimpiadi di qualche anno fa, mi piacerebbe sviluppare lì un progetto che coinvolgesse anche i luoghi urbani, della città, non solamente lo spazio galleria. Torino è già Europa – conclude – si respirerà un’aria nuova, sicuramente


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L’ARTISTA Marco Morici Marco Morici nasce a Genzano di Roma il 17 aprile 1985. Studia architettura alla Sapienza di Roma. Dal 2009 fa parte del collettivo Oblivious artefacts. Ha esposto ai Mercati di Traiano nel 2009. Dal 2011collabora con la galleria CO2 dove ha realizzato una personale e due collettive, rispettivamente Ossidiana, Epipedon, curata da Ludovico Pratesi, e Il Teorema di Gauss, curata da Attilia Fattori Franchini, Gianni Garrera e Ludovico Pratesi, che gioca sul confronto con un’opera di Gilberto Zorio. Nel 2012 è finalista del premio Combat prize. Attualmente vive e lavora a Roma.. (V. F. e M. M.)

interessante». Promette nuove sperimentazioni, laddove in fondo le gallerie sono prima di tutto degli spazi, e le opere, inevitabilmente, variano la propria natura al variare del contesto dove vengono inserite. «Un’opera – ribadisce – all’interno di una galleria acquista degli echi diversi, assenti all’interno di un museo o di un salotto. Mi colpisce come l’architettura giochi con le opere, le faccia risuonare, e allo stesso tempo come un’opera cambi i connotati di un ambiente». Guardando agli ultimi progetti sorge un dilemma: Melancholia o Malinconia? Da Albrecht Dürer a Lars von Trier sino all’Enigma melanconico di Morici, ci si trova dinanzi a un complesso progetto, rimedio e riepilogo del mal di vivere umano. Il progetto non è ancora concluso per l’artista, tutti i file audio sono da lavorare per tirar fuori un’opera video, la cui base audio sarà proprio il collage delle varie interviste. «È stato un progetto impegnativo,

per due mesi ho attivato un account su skype, ero in ascolto solo per un’ora, dalla mezzanotte all’una di ogni mercoledì notte. Le prime ore di un giorno nuovo. Chiunque poteva contattarmi. Tema della chiacchierata: la malinconia. L’orario così tardo consentiva un approccio disinibito. L’idea era quella di aprire su internet una porta, da usare come valvola per incanalare la propria esperienza malinconica. Credo sia un sentimento molto importante, se ben conosciuto aiuta a riallacciare i contatti con quello che si è stati, e a capire cosa si voglia. Sono state veramente molte le persone che mi hanno colpito, ciascuno leggeva e legava la propria malinconia a cause diverse». Arrivando all’opera presentata al Talent, si scorge un lavoro intriso di un bagaglio culturale profondamente influenzato dallo studio dell’architettura. «Ho capito di poter usare i miei studi come arma proprio par-

tendo da temi affrontanti in facoltà: la città, l’urbanistica, i materiali edili. Così è nata Studio per un’architettura fallita, opera che rispecchia l’idea che molte delle speranze che hanno guidato la rivoluzione estetica architettonica, come ad esempio la trasparenza delle superfici come trasparenza di una società, sono crollate, o forse non sono mai esistite. «Mi piace molto una frase famosissima di Rem Koolhass: “fanculo il contesto, sintetizza bene come lo spazio architettonico sia uno spazio di dominio, che si innesca all’interno di un contesto urbano sempre più caotico e privo di riferimenti». La scultura in finale al Talent è una riflessione sul caos esaltante che aggroviglia le città che, a detta del suo autore, non si deve razionalizzare o regolare, «ma occorre svilupparne i flussi, intercettandoli ed esaltandoli. Bisogna ridare indietro alla cultura contemporanea esattamente il miscuglio che ci fagocita contro».


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L’OPERA Studio per un’architettura fallita

A destra: Studio per un’architettura fallita, 2013 Sopra: Malinconia #03 2013 A sinistra, nel box: Marco Morici foto Giovanni De Angelis A sinistra e a pagina 61: Il teorema di Gauss, 2013

Studio per un’architettura fallita va considerata come un’opera che riflette e indaga sul concetto di fallimento attraverso prospettive molteplici. Il primo elemento critico sul quale l’artista intende fare luce, è quello che si manifesta in architettura tra fase ideale di progettazione e conseguente produzione di strutture reali, quando l’iniziale dimensione utopica si scontra con la complessa realtà sociale. Tutt’altro che perfetto, il modo in cui le architetture vanno effettivamente a collocarsi nell’ambiente è portatore di forti contrasti culturali, economici ed ecologici. L’architettura si svela così per quello che realmente è: uno strumento di potere che silenziosamente influisce sull’estetica del paesaggio urbano e di conseguenza sulla vita delle persone. La scultura in cemento, lana di roccia e collante, rozzi materiali edili, riflette questa ambivalenza: dietro un’ingannevole facciata di volumi geometrici, si nasconde una massa informe, corrotta, simbolo dell’universo di contraddizioni che le architetture sono chiamate a nascondere. Ma vi è un altro fallimento di cui quest’opera si fa testimone: quello che si verifica nel momento in cui l’utopia progettuale si scontra con la materia reale. L’artista, confrontandosi con essa ed indagando il suo rapporto con lo spazio, produce un massa mutilata, grottesca, sofferente e al contempo enigmatica che lascia presagire una più ampia serie di significati possibili. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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QUANDO IL TEMPO SI FA MATERIA Giovanni Oberti indaga lo spazio del quotidiano fino a spingersi sul sottile confine tra essere e apparire per materializzare il tempo e invitare a un nuovo e più profondo sguardo sul mondo di MONICA MATERA

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ifficile dire come e quando Giovanni Oberti diventa artista. «In famiglia ho sempre vissuto in un clima di libertà di immaginazione, creatività e interesse per le arti. I miei genitori e mia sorella sono architetti, ho studiato arte, la mia compagna è fotografa, ho la fortuna di lavorare da anni come assistente per Luca Vitone, le cose avvengono lentamente. Frequento alcuni artisti con i quali mi trovo molto bene, dentro e fuori il lavoro. Vorrei conoscerne meglio altri che stimo e dei quali seguo le evoluzioni, ogni mostra visitata è l’occasione per conoscere la pratica e la poetica di un nuovo artista e magari di uscire con qualcosa in più». Un ambiente intriso d’arte che lo accompagna fin dai suoi primi passi, il liceo

artistico tra Bergamo e Treviglio, l’accademia Carrara a Bergamo e poi Milano e lo studio di Vitone che «per me è prima di tutto un esempio, un fratello maggiore, geloso e protettivo allo stesso tempo, ormai lavoriamo insieme da quando ho finito l’accademia e ho la fortuna di seguirlo durante le varie fasi del lavoro come della vita privata». Così Giovanni ci spiega il suo approccio all’arte, sincera vocazione oppure semplice predisposizione e sinergia di diversi fattori che si influenzano scambievolmente nel tempo. Un processo che Giovanni studia e osserva anche nei suoi lavori, analizzando le relazioni che si intessono fra gli elementi che abitano lo spazio, i processi di trasformazione di una materia da uno stato all’altro, lo scorrere del tempo che prende forma attraverso l’ac-

cumulo e le stratificazioni, intendendo il tempo come indagine del luogo. È quel labile confine tra essere e apparire che cattura l’attenzione di Giovanni. «La mia ricerca – dice – è basata sull’indagare lo spazio del visibile, il tempo e il vuoto necessari alla fruizione e l’osservazione in generale». È un invito a svelare, a raggiungere la verità, a guardare con uno sguardo più profondo e attento una realtà preesistente fatta di oggetti, immagini e fenomeni sui quali l’artista interviene in maniera silenziosa e minima. A volte utilizzando l’oro, la pittura o anche interventi più impalpabili che possano però caricare di significato ciò che lo circonda, tali da rendere percepibili meccanismi solitamente occultati, affidandosi sempre a una leggibilità quasi immediata del suo lavoro.


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L’OPERA Senza titolo (Archi di dama) Senza titolo (Archi di dama) è un lavoro che si presenta al pubblico in tutta la sua apparente semplicità: due oggetti quotidiani, un bicchiere di cristallo ed un vaso di vetro, che, per due anni, sono stati pazientemente riempiti d’acqua e lasciati asciugare facendo lentamente emergere una traccia bianca di calcare che ne riveste interamente le pareti interne. Attraverso questa semplice azione, quasi invisibile, l’artista attiva una serie di processi che coinvolgono tanto l’oggetto quanto le sue relazioni con lo spazio e con l’osservatore. Le forme in vetro perdono così la loro trasparenza e la loro utilità originaria e, collocate su di uno specifico supporto, quindi decontestualizzate, acquisiscono una spazialità propria ma differente. Gli oggetti si trasformano in altrettanti dispositivi in grado di problematizzare lo statuto dello sguardo, al quale viene richiesto di scavare oltre la superficie opaca delle cose, al di là della sua mera apparenza, quindi di farsi più attento. Le tracce che il calcare progressivamente deposita sul vetro sono anche il segno dello scorrere del tempo, una memoria sottile che si fissa attraverso un processo di perdita e di svuotamento. Utilizzando la materia più essenziale, passivamente plasmata dalle condizioni atmosferiche, l’artista dà forma tangibile alla trasformazione, costante e in divenire, e all’estrema precarietà della condizione liquida della vita stessa. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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A sinistra: Senza titolo (Oggetti dipinti), 2009 cortesia dell’artista fotografia Floriana Giacinti A destra: Senza titolo (Traguardare), 2012 cortesia dell’artista In basso, a destra: Giovanni Oberti fotografia Floriana Giacinti A pagina 65: Senza titolo (Archi di dama), 2013 cortesia dell’artista

«Cerco di realizzare oggetti, ma anche installazioni e fotografie capaci di evocare subito una condizione di intimità nella persona che vi si trova difronte, attraverso un immaginario il più possibile comune. Non tralascio però altri piani di lettura e interpretazione». Una stratificazione che riplasma l’oggetto nella sua essenza esteriore e nel suo significare tanto da essere restituito con una diversa autonomia al giudizio del fruitore. Un intenso scambio dialettico fra lo spettatore e l’opera che Giovanni alimenta attingendo alle materie semplici e quotidiane come ad esempio l’aria, l’acqua e la terra, l’umido e la pol-

vere, la grafite che considera il mezzo della rappresentazione. «Mi sono trovato a realizzare i primi lavori con la polvere, come quelli con l’umidità presente nell’aria, dal momento in cui volevo costruire una mostra attraverso gli elementi che da sempre abitano lo spazio. La grafite per via dell’immortalità del materiale». Senza titolo (Vanitas), è il primo lavoro dell’artista basato sulla raccolta dell’umidità. E poi Senza titolo (Oggetti dipinti), i frutti essiccati e ricoperti di uno strato di grafite nera che si palesano ad una prima osservazione come sculture in bronzo celando e racchiudendo la vera es-

senza. Ma è con l’installazione Senza titolo (Archi di dama) che Giovanni arriva tra i finalisti del Talent Prize, il concorso riservato ai giovani artisti contemporanei, «un oggetto sul quale stavo lavorando da tempo, mi sembrava adatto per rappresentare la complessità delle mie installazioni attraverso una fotografia». Pensando a oggi e al futuro «osservo cosa accade, porto avanti progetti che ho già realizzato, confido in tempi migliori, penso a come trovare le forze necessarie alla realizzazione di lavori nuovi e spero nell’immediato di trovare uno studio (gratis) dove lavorare».


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L’ARTISTA Giovanni Oberti Giovanni Oberti nasce a Bergamo il 20 settembre 1982. Frequenta il liceo artistico tra Bergamo e Treviglio e nel 2004-2005 si diploma all’Accademia Carrara di Bergamo. Trasferitosi a Milano lavora per quasi un anno come aiuto allestitore da Sotheby’s e si iscrive al corso per l’abilitazione all’insegnamento che abbandona durante il secondo anno. Collabora per alcuni progetti con Marcello Maloberti, Liliana Moro e Cesare Viel. Da anni ormai lavora con Luca Vitone gestendo lo studio milanese. Un ricco curriculum quello del giovane artista che lo vede nel 2005 alla prima personale Indoor/Outdoor alla Galleria Olim di Bergamo, curata da Enrico De Pascale. Tra le ultime esposizioni annovera Veerle, one Torino alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, curata da Chris Fitzpatrick e Teorema di Gauss alla CO2 di Roma a cura di Attilia Fattori Franchini, Gianni Garrera e Ludovico Pratesi.


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INDAGINI SICILIANE Maria Domenica Rapicavoli gira e monta le sue opere video con le quali descrive e denuncia: «Mi interessa molto l’idea di costruire un discorso narrativo attraverso le immagini» di CLAUDIA QUINTIERI

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aria Domenica Rapicavoli nasce a Catania, dove frequenta l’accademia di Belle arti. Scultura e fotografia sono i linguaggi che l’appassionano maggiormente durante l’accademia, in seguito continua a utilizzare la fotografia tralasciando la scultura. Si trasferisce poi a Londra per seguire il master in Fine art al Goldsmiths college e due anni fa approda a New York, dove ora vive e lavora, per partecipare al Whitney independent study program. A Londra inizia a utilizzare il video che ama perché è un «linguaggio immediato» e dichiara «un mezzo in cui mi posso applicare da sola realizzando le riprese e il montaggio. Ciò mi dà una grande libertà e poi mi interessa l’idea di costruire un discorso narrativo con le immagini». Il video che ha segnato una tappa importante nel suo percorso è One, no-one, girato durante il master a Londra. «Di Londra – spiega l’artista – mi ha colpito il fatto che le persone non

si conoscono, così ho passeggiato per un mese in un parco, vestita sempre nello stesso modo, interagendo con chi incontravo. Davo loro la mia telecamera e mentre mi riprendevano dovevano capire chi fossi. Pensavo mi avrebbero dato degli stereotipi, invece, alla fine la gente parlava di sé più che di me. Tutto ciò ha rappresentato un momento importante di confronto con l’altro e, dal punto di vista artistico, ho creato un modo di sperimentare l’uso della telecamera». Le opere di Rapicavoli hanno a che fare con la politica, l’economia, le ideologie, le strutture del potere, che analizza cercando di interrogarsi su ciò che funziona e ciò che non funziona, mettendo in evidenza questo secondo aspetto: «Anche se si parla di questioni conosciute cerco di soffermarmi sugli elementi più nascosti o che magari non si notano subito». Maria Domenica, nonostante viva all’estero, è rimasta molto attaccata alla Sicilia, dove torna spesso, che ha raccontato diverse volte. «Per me è im-

portante occuparmi delle mie origini. Parlare spesso della Sicilia in questi anni mi è servito per comunicare qualcosa di universale anche partendo da un contesto locale». Ricordiamo l’opera If you saw what I saw che risale al 2010 ed è stata presentata alla galleria Sacs di Catania: qui l’artista analizza il rapporto fra realtà e finzione che si vive a Corleone, conosciuta in tutto il mondo per il film Il padrino di Coppola: la mafia esiste ma è una realtà diversa da quella del film, che ha portato molti turisti stranieri a cercare “il mafioso”. Ma, naturalmente, nella cittadina vivono anche persone oneste. L’interesse di Rapicavoli si posa sulla storia, «ho fatto le foto dell’archivio del maxiprocesso che si è svolto negli anni ‘80 grazie a Falcone e Borsellino» e sulla vita, «ho conosciuto gli abitanti di Corleone che mi hanno raccontato la quotidianità, per esempio ho realizzato un video di persone che giocano a bocce in un parco». Un altro progetto incentrato sulla Sicilia è


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A destra e in basso: Load displacement, 2012 A pagina 69: Corleone, 2009

L’OPERA Load displacement

Disrupted accounts, presentato al Bocs di Catania nel 2013: parla della militarizzazione nell’isola e degli accordi in questo senso fra Italia e Stati Uniti. Rapicavoli è partita dalla ricerca dei resti di un aereo tedesco precipitato nel ‘43 sull’Etna: li ha trovati e li ha fotografati. Il ‘43 è l’anno in cui gli statunitensi sono sbarcati in Sicilia, data da cui inizia la collaborazione con l’Italia. Il cuore del progetto è una videoinstallazione in cui il video è stato girato dall’artista con una cinepresa 8 mm. Le immagini sono girate sull’Etna, in basi militari siciliane, e si alternano a documenti trovati nella rete, mentre l’audio è stato creato appositamente dall’artista e racchiude la voce di alcuni piloti di droni statunitensi che vivono in per lo più Nevada anche se i veivoli partono dalla Sicilia. Fa parte del progetto anche il Muos di Niscemi. Rapicavoli, così facendo, crea dei modi di comunicazione delle realtà che racconta che

vanno ben oltre il sistema di informazione globalizzata, la decisione delle modalità da seguire per costruire l’opera è diversa per ogni creazione e dipende dal concept. Ad esempio, in Disrupted accounts il fatto che si volesse parlare delle tematiche con una narrazione non lineare, ha fatto sì che fosse importante creare visivamente e sonoramente interruzioni e gap a livello temporale. Maria Domenica Rapicavoli è finalista del Talent Prize 2013 con il video Load displacement che parla degli sbarchi di clandestini avvenuti a Lampedusa negli ultimi anni. A immagini delle navi e di una giostra del luogo, si affiancano frasi letterarie celebri insieme a frasi dell’artista che dichiara: «La letteratura è universale e con essa si tocca la sensibilità di tutti». Il video, un sentito atto di denuncia della mercificazione di vite umane, si svolge di notte in un’atmosfera suggestiva dove regna il silenzio.

Il lavoro di Maria Domenica Rapicavoli ruota attorno all’analisi critica nei confronti delle forze politiche, ideologiche ed economiche che condizionano la società e le masse che la costituiscono. Load displacement, letteralmente lo spostamento del peso di una nave a pieno carico, racconta il complesso fenomeno dell’immigrazione clandestina, che quotidianamente è possibile osservare lungo le coste dell’isola di Lampedusa. Il video mostra le barche che durante la notte arrivano silenziose nel porto, abbandonandovi centinaia di uomini che emergono dal buio con le loro silhouette; contemporaneamente una giostra illuminata gira non distante dal luogo dove avvengono gli sbarchi. Nell’installazione le immagini sono affiancate da un susseguirsi di citazioni tratte da poesie, racconti e saggi di diversi autori quali Adorno, Brecht, Omero, Marx, Whitman e altri. La relazione tra video e parole instaura un dialogo che, alternandosi tra momenti di sincronia e fuori tempo, traduce quella condizione di spaesamento e alienazione cui sono soggetti gli uomini invisibili che il video ritrae. La scelta di autori che affrontano alcuni dei grandi temi legati all’economia, alla politica, alla cultura, uniti a poeti e scrittori che descrivono una condizione esistenziale di schiacciamento e costrizione, testimonia quanto l’artista, affrontando la circostanza particolare dell’isola siciliana, di fatto voglia raccontare un fenomeno universale: il movimento globale di persone e merci che il mercato libero forzatamente impone. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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L’ARTISTA Maria Domenica Rapicavoli

A destra: Maria Domenica Rapicavoli In alto: Muos, 2013

Maria Domenica Rapicavoli nasce a Catania il 30 dicembre 1976. Si diploma all’accademia di Belle arti di Catania e nel 2004 si trasferisce in Inghilterra. Nel 2005 frequenta un master in Fine arts al Goldsmiths college di Londra. Trascorre qualche mese a Parigi partecipando alla residenza alla Dena foundation e nel 2012 si trasferisce a New York per frequentare il Whitney ISP (Independent study program). Tra le sue personali ricordiamo Disrupted accounts, curata da Alessandra Ferlito nel 2003 e 2007 Partners in crime, con Anna Friedel, alla Raum500 gallery di Monaco nel 2007. (V. F. e M. M.)


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a cura di VASCO FORCONI E MARGHERITA MACCAFERRI

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PAOLA ANZICHÉ Above Attraverso un unico piano sequenza in Above di Paola Anziché la macchina da presa sembra sorvolare una fitta e rigogliosa radura, in sottofondo tra i suoni della natura si distinguono il canto di un merlo e il suono del vento. L’immagine, leggermente sgranata, scorre lenta lasciando l’osservatore in una condizione di attesa e curiosa ricerca di senso. Progressivamente, con l’avanzare del movimento di camera, si svela un’alta struttura in cemento completamente avvolta da un fitto mantello d’edera che quasi ne nasconde la vista. Affascinata dall’elemento naturale e dalla sua capacità di trasfigurazione degli ambienti, Anziché produce un video nel quale la vegetazione prende il sopravvento sull’architettura, instaurando con essa un rapporto allo stesso tempo simbiotico e parassitario. Tutta l’opera gioca attorno a una percezione illusoria: quello che a prima vista sembrerebbe il volo aereo su una foresta, si rivela invece uno sguardo dal basso verso l’alto, nel quale l’elemento naturale rappresenta solo una parte di una struttura più ampia. Lo stesso suono della natura è in realtà artificioso, ingannatore, in quanto registrato in un altro sito e successivamente montato sulle immagini. L’artista reinventa e ridefinisce un luogo, dove gli elementi che lo compongono, sottoposti a un forte processo di decontestualizzazione, nascondono e allo stesso tempo mostrano l’illusorietà della scena. Paola Anziché nasce a Milano il 27 marzo 1975. Attualmente vive a Torino. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e alla Städelschule di Francoforte.

A sinistra: Above, 2003 Sopra: Paola Anziché


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a cura di VASCO FORCONI E MARGHERITA MACCAFERRI

SILVIA CAMPORESI After Zabriskie Point After Zabriskie Point è un lavoro facente parte della più ampia serie, Qualche volta, di notte; omaggio e rilettura dell’opera cinematografica di Michelangelo Antonioni. Il titolo della serie fa riferimento alla risposta, enigmatica e sospesa, che il regista diede alla domanda «Lei crede in Dio?». Le due fotografie presentate costituiscono un reenactment della scena finale dell’omonimo film del 1970, nel quale, in seguito a un’esplosione, oggetti di ogni sorta si librano confusamente nell’aria. Silvia Camporesi concepisce le due immagini come fotogrammi, suggerendo, nel lento movimento delle cose, un progressivo avanzamento spaziotemporale, evidenziato dalle impercettibili differenze tra le due fotografie. Elemento fondante dell’opera è quel senso di sospensione e di attesa così centrale nella cinematografia di Antonioni: dove però questa sospensione è destinata a risolversi, nella fotografia di Camporesi si fissa in maniera definitiva. Citando letteralmente le sequenze nelle quali i protagonisti vivono una condizione di estremo spaesamento, l’artista pone l’accento sulla qualità prettamente fotografica del cinema del maestro, all’interno del quale, spesso, le immagini prevalgono sulla sceneggiatura. Nel passaggio dalla pellicola cinematografica alla fotografia digitale inoltre, si verifica una variazione estetica, intrinseca alle potenzialità del dispositivo, che genera un’ulteriore livello nel processo di risemantizzazione dell’immagine. Silvia Camporesi nasce a Forlì il 24 febbraio 1973. Laureata in filosofia all’Università di Bologna, vive e lavora a Forlì.


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A destra: Emmanuele De Ruvo Sotto: 1638-1983 2012 A sinistra in alto: Silvia Camporesi Sotto: After Zabriskie Point, 2012

EMMANUELE DE RUVO 1638-1983 Nelle opere di Emmanuele De Ruvo due anime si intrecciano e convivono in modo dialettico: una prima strettamente artistica, ispirata dal lavoro della madre pittrice, e una seconda scientifica, diretta influenza dell’attività ingegneristico-elettronica del padre. Testimone di questa sua attitudine sperimentale è la serie intitolata Trazioni attraverso la quale l’artista riflette intorno al tema dell’equilibrio e della tensione tra le diverse forze fisiche. L’opera, facente parte della già citata serie, è una struttura complessa che, attraverso un sistema di morse, mantiene in trazione un foglio di carta il quale a sua volta sostiene il peso di una vecchia macchina da scrivere: 1638-1983, progettata secondo un sistema di rettangoli aurei, in proporzione 2:1, gioca sul dualismo e sulla specularità tra le due date: il 1638, anno della pubblicazione di Due nuove scienze, testo nel quale Galilei affronta, per la prima volta, il problema della trazione attraverso il metodo scientifico, e il 1983, data in cui le macchine da scrivere di tipo meccanico vengono sostituite dalle più moderne macchine elettroniche. Oltre a stabilire una connessione concettuale tra le due date, l’artista, collocando al centro della struttura la citazione galileiana, crea un legame tra le tensioni viventi nell’opera, costituendo così un discorso su come i grandi cambiamenti in termini di conoscenza avvengano con una spiazzante velocità, pur mantenendo un parentela diretta con la tradizione scientifica inaugurata da Galilei. Emmanuele De Ruvo nasce a Napoli il 28 novembre 1983, dove attualmente vive e lavora. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Nel 2010 vince il concorso Italian figurativ artist di Stoccolma.


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STEFANIA MIGLIORATI Infiltrazioni

A destra: Infiltrazioni, 2012 Sopra: Stefania Migliorati

Nel corso della sua carriera Stefania Migliorati si è interrogata sul concetto di passaggio, di rapporto problematico tra diverse realtà culturali, linguistiche e sociali. Infiltrazioni è un’opera che si inserisce appieno in questa dinamica, elaborando visivamente l’idea di un qualcosa che si insinua attraverso un movimento internoesterno nel quale è coinvolto anche lo stesso spazio espositivo. Quest’opera costituita da un insieme di corde bianche, geometricamente disposte a ridosso dell’angolo del soffitto, attiva contemporaneamente diverse letture. Da una parte, quella più evidente, ricrea, attraverso il tessuto bianco e la scelta di una precisa collocazione nello spazio, l’aspetto di una vera e propria infiltrazione d’acqua che impregna le pareti. Dall’altra, una lettura più profonda, rimanda al passaporto bianco, il quale ha sostituito il precedente passaporto Nansen; quest’ultimo, tra la prima e la seconda guerra mondiale, permise a centinaia di migliaia di persone apolidi l’emigrazione in un paese diverso da quello di origine. Oggi il passaporto bianco funge da documento d’identificazione emesso dallo stato ospitante, ridefinendo così la figura di colui che attraversa i confini, non più apolide ma infiltrato culturale, politico e sociale. Tutta l’opera tende a visualizzare la condizione di inbetweenness, quel passaggio che agisce come un ponte energetico, come uno scambio tra interno ed esterno che mette in discussione i principi di identità e nazione, di proibizione e movimento. Nasce a Clusone (Bergamo) l’11 luglio 1977. Attualmente vive e lavora tra Bergamo e Berlino. Nel 2003 consegue una laurea in lingue e letterature straniere a Bergamo e nel 2007 una laurea in arti visive all’ l’accademia di Belle arti di Brera.


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ANDREA NACCIARRITI Shahinaz, Yvonne A, Voriais Sporadais Andrea Nacciarriti conduce una ricerca artistica volta a indagare criticamente fatti di cronaca che, nonostante la loro manifesta gravità, sono stati nel tempo dimenticati. Shahinaz, Yvonne A, Voriais Sporadais, sono i nomi delle tre navi mercantili, cariche di sostanze nocive e radioattive, affondate negli anni ’90 a opera dalla criminalità organizzata e ritrovate grazie alla testimonianza di Francesco Fonti, pentito dell’ndrangheta. L’installazione dell’artista, parte di un progetto più ampio dedicato allo stesso tema, è composta di un massiccio contenitore industriale per liquidi ancorato al soffitto, dal quale precipitano gocce d’acqua che costantemente si riversano su di un sottostante cumulo di cemento a presa rapida. Il contatto diretto tra queste due sostanze genera forme irregolari destinate a solidificarsi dando vita a sculture casuali, fuori controllo. Il fatto di cronaca è così rappresentato attraverso l’utilizzo di quegli stessi materiali coinvolti nell’affondamento, stabilendo una continuità metonimica ed estetica con l’universo della nave. Il processo di cementificazione, l’ineluttabile creazione di una forma che permane nel tempo, restituisce al fatto stesso una nuova evidenza, riattivandone la memoria. L’artista mette in luce e denuncia il perpetuarsi di un atteggiamento omissivo che coinvolge a più livelli e da decenni la società italiana, attraverso un’opera nella quale vive una forte tensione tra forma, contenuto e interpretazione. Andrea Nacciarriti nasce a Ostra Vetere (Ancona) il 2 giugno 1976. Attualmente vive a Milano. Studia all’Accademia di Belle Arti di Bologna, poi si muove tra Milano e Torino e nel 2010 vince il Premio Terna03 nella sezione Gigawatt: il premio consiste in una residenza alla Red Gate Gallery di Pechino.

A destra: Shahinaz, Yvonne A Voriais Sporadais, 2013 Sopra: Andrea Nacciarriti


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TALENT E WICAR ANCORA INSIEME Quando la giovane creatività qualunque siano le sue origini non smette di stupire «Anche quest’anno possiamo riaffermare di nuovo il nostro impegno a mostrare i grandi artisti di domani oltre i nostri confini»

di MARIE FERNANDEZ*

Q

uest’anno, di nuovo, ho avuto il grande piacere di partecipare alla prestigiosa giuria del Talent Prize, premio dedicato alla giovane creazione artistica contemporanea organizzato dalla rivista Inside Art. E, ancora una volta, sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla qualità e dalla diversità delle proposte dei candidati. La creatività artistica emergente, qualunque siano le sue origini, non smette di stupire e sorprendere tutti i membri della giuria. Prova è, se ve ne fosse bisogno, la necessità di continuare a organizzare e sostenere questo tipo di iniziative, sempre troppo rare, che Guido Talarico editore promuove da sei anni ricompensando e facendo conoscere a un largo pubblico artisti talentuosi e promettenti. L’edizione 2013 del Talent Prize si è contraddistinta per la grande qualità dei progetti fotografici, tra i quali spicca quello di Danilo Correale, vincitore di questa sesta edizione con l’opera The future in their hands – The visible hand unanimemente votata da tutta la giuria, il lavoro si è distinto per la sua originalità e per lo sguardo non privo di umorismo gettato sulla sfera politica. Proponendo la chiromanzia, pratica divinatoria popolare ben codificata ma che resta poco meno che azzardata, come chiave di lettura degli arcani

del potere, Correale presenta una versione alternativa, non senza ironia, per decifrare le intenzioni (diventate poco chiare?) di chi ci governa. Dopo Giulio Delvè e Yuri Ancarani, rispettivamente vincitori del Talent Prize 2011 e 2012, sarà nostro piacere ricordare che la città di Lille accoglierà Correale a settembre del 2014 e presenterà la sua opera in occasione della mostra Format à l’italienne V accanto alle creazioni dei borsisti Wicar 2013-14. Grazie al sostegno dell’Institut Français e alla collaborazione che ha unito il Talent Prize all’atelier Wicar, possiamo anche quest'anno riaffermare insieme il nostro impegno nel mostrare gli artisti di domani oltre i nostri confini. Dal 1862 Lille e il ministero di scienze, dell’agricoltura e delle arti, nel rispetto delle volontà testamentarie del cavaliere di Lille Jean Baptiste Wicar, organizza una prestigiosa giuria incaricata di selezionare gli artisti della metropoli per regalare loro una residenza di ricerca e creazione della durata di tre mesi nell’atelier Wicar di Roma. La mostra Format à l’italienne che si tiene ogni anno nella città francese tra i mesi di settembre e ottobre, nell’Espace le Carré, galleria d’arte municipale contemporanea, espone i lavori realizzati dai borsisti Wicar durante la loro

A destra, in alto: L’ingresso dell’Atelier Wicar Sopra: Marie Fernandez foto Manuela Giusto


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residenza romana. Quest’anno la quarta edizione della mostra presenta gli artisti 20122013. Con Mirifique il duo Justine Pluvinage e Anaïs Delmoitiez ci conducono nel loro universo onirico romano, contemporaneamente artificiale e fantastico, attraverso una serie di undici video, corti e sorprendenti come un sogno effimero ma terribilmente presente. Le sculture di Benoît Carpentier propongono un approccio atipico di questa tecnica dove le cinghie che compongono il lavoro si trasformano in segmenti temporali. Dal suo canto David Gommez ha tratto profitto dalla sua residenza per sviluppare e approfondire la nozione di spazializzazione grafica, caratteristica di tutta la sua produzione, prendendo letteralmente le impronte dell’atelier capitolino in quanto luogo storico legato alla memoria del cavaliere Wicar. In un altro registro, ma legato alla nozione di tracce e strati, il duo Léonie Young e Mathilde Lavenne ha condotto un lavoro di scavo e ricerca sul territorio romano che prende forma nell’installazione Made of dust, frutto della fusione fra elementi prelevati in vari in situ e il ricco immaginario delle giovani creative. Infine, Antoine Petitprez, borsista Wicar 2007, è autore della serie fotografica di una sottigliezza notevole, intitolata Alberi, con

questo lavoro l’artista presenta tronchi romani dove i regni animali, minerali e vegetali si fondono e si confondono. Petitprez, così, è stato invitato a confrontare le sue creazioni con quelle dei giovani borsisti di quest’anno. Grazie alla qualità della collaborazione che ha unito l’atelier Wicar al Talent Prize e beneficiato del sostegno finanziario dell’Institut français, questo scambio fra la Francia e l’Italia permette agli artisti dei due paesi, e alle loro rispettive creazioni, di essere presenti fuori dai propri confini. Così, questa edizione del Talent Prize accoglie, anche quest’anno le opere dei borsisti Wicar in occasione dell’esposizione che prende vita alla Casa dell’architettura a Roma il 16 novembre. La città di Lille accoglie con immenso piacere il prossimo anno Danilo Correale, vincitore del Talent Prize 2013. Senza dubbio, questo scambio fra gli artisti italiani e francesi conferma la volontà della città di Lille di sostenere attivamente la causa culturale degli artisti a livello internazionale e di consolidare i legami con le collaborazioni che condividono le stesse ambizioni artistiche e culturali. *direttrice arti visive e attività espositive direzione generale della cultura di Lille giurata Talent Prize


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BENOÎT CARPENTIER Proiezioni Le sculture di Proiezioni partono da due ritratti: il primo raffigura una guardia svizzera che sorveglia il Vaticano, il secondo un moderno legionario romano impegnato ad attrarre turisti alle porte del Colosseo. Se il primo rappresenta la continuità nel presente di un’azione antica, il secondo rivela il perpetuarsi di un costume passato che rivive nel presente in una forma non autentica. Benoît Carpentier visualizza questo salto spazio-temporale servendosi di filamenti di tessuto che escono dall’immagine, costituendone il corpo tridimensionale, il quale, a sua volta, s’immette nello spazio presente. Partendo dalla prospettiva rinascimentale, l’artista devia il punto di fuga centrale verso un centro gravitazionale che attrae al suolo i filamenti. Come fossero raggi solari, questi ultimi danno forma concreta a l’intervallo di tempo che vi è tra l’emissione della luce e la sua percezione da parte del soggetto. Questa struttura visiva agisce contraendo la distanza che separa l’occhio dall’oggetto, restituendo quella dimensione di sospensione e ambiguità tra presente e passato nella quale vivono i due soggetti ritratti. Eppure qualcosa rimane indefinito: là dove il dispositivo fotografico accentua il grado di definizione delle forme e dei dettagli, la struttura gravitazionale dei filamenti di tessuto destruttura l’immagine, creando un paradosso concettuale tra percezione e realtà, passato e presente. Benoît Carpentier nasce a Valenciennes l’8 agosto 1976. Attualmente vive e lavora a Soyans, Francia. Nel 2003 consegue un master di primo livello in arti plastiche all’università di Valenciennes, e nel 2002 grazie al progetto Erasmus trascorre un periodo di all’accademia di Belle arti di Palermo. Nel 2005 partecipa al festival Body Navigation di San Pietroburgo presentando la performance Preset objects.

Benoît Carpentier foto Manuela Giusto In alto: Proiezioni, 2012 foto Manuela Giusto A destra, in alto:

Justine Pluvinage e Anaïs Delmoitiez foto Manuela Giusto

A destra, in basso: Mirifique, frame da video, 2012


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ANAÏS DELMOITIEZ E JUSTINE PLUVINAGE Mirifique Mirifique nasce dalla collaborazione tra Justine Pluvinage, fotografa e videoartista, e Anaïs Delmoitiez cantante, attrice e scrittrice. Decise a ritrarre frammenti di vita attraverso la prospettiva del sogno e dell'inconscio, sviluppano insieme un flusso di lavoro: ogni mattina per tre mesi registrano il racconto dei propri sogni notturni, e avvalendosi dello stesso principio di spontaneità, collezionano frammenti video, altrettanti testimoni delle loro peregrinazioni romane. Sfruttando ciascuna le proprie abilità tecniche, le due artiste uniscono in un'unica entità la materia cinematografica e il racconto onirico che, attraverso la voce di Delmoitiez, si trasforma in suono. Il risultato, Mirifique, letteralmente ciò che è allo stesso tempo meraviglioso e squallido, è un'opera in cui storie e sogni trovano ciascuno le proprie immagini, generando di volta in volta sensazioni diverse di umorismo e poesia, muovendosi sempre sul crinale che vi è tra l'indeterminatezza tipica del sogno e la ricerca di un significato. Mosse dal desiderio di dissolvere le barriere che separano arte, vita e sogno, le due artiste producono una serie di video il cui principale intento è quello di spingere il pubblico a interrogarsi e a riflettere sulla vita stessa. È solo in questo momento che Mirifique funziona. Anaïs Delmoitiez nasce a Lille il 4 febbraio 1982, dove tutt’ora vive e lavora. Si forma in arti plastiche e dello Spettacolo all’università Lille 3, specializzandosi in teatro, scrittura e canto.Dal 2009 canta nel gruppo pop-folk Ellis Bell. Justine Pluvinage nasce nel 1983. Vive e lavora a Lille. Dopo gli studi di psicologia, nel 2009 si diploma all'École nationale supérieure de la photographie di Arles.


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DAVID GOMMEZ Senza titolo 2013 La ricerca artistica di David Gommez da più di dieci anni si sviluppa attorno alla nozione di spazializzazione grafica. In Senza titolo 2013, attraverso la tecnica dell’incisione a rilievo, l’artista mette in atto un vero e proprio processo di scoperta che, partendo da una rilevazione diretta delle superfici architettoniche, genera una nuova geografia degli spazi. Nel corso della sua residenza romana l’artista indaga lo stretto rapporto che si stabilisce tra processo artistico e luogo fisico: la superficie del pavimento dell’atelier Wicar viene sezionata in riquadri geometrici e rivelata attraverso il colore. L’artista, stendendo a terra larghe campiture di vernice e successivamente avvalendosi della tecnica del frottage, imprime la carta della texture sottostante; in seguito a questa duplice azione l’opera acquisisce la qualità tattile di un morbido tessuto. Il colore è esplorato e lavorato per portarne alla luce le potenzialità di riverberazione, a loro volta amplificate dalla forma curvilinea dell’opera. Strutture fisse ma sempre in movimento, le sue installazioni fuoriescono dal limite spaziale d’origine, generando nuove relazioni con l’ambiente circostante. Come un cartografo degli spazi, Gommez rivela un’attitudine all’archiviazione delle forme incontrate di giorno in giorno, creando così un repertorio in progress, mai completo, dal quale attingere nel corso della sua ricerca artistica. David Gommez nasce a Lille nel 1970, dove tutt’ora vive e lavora. Consegue il diploma superiore all’Enseignement régional supérieur d’expression plastique di Tourcoing e successivamente nell’Enseignement supérieur d’arts appliqués et textile di Roubaix.


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Leonie Young e Mathilde Lavenne Sotto: Expedition 1, Road S5 41.954747,12.744843, 2013 A sinistra: Senza titolo 2013 A sinistra, in basso: David Gommez foto Mauela Giusto

MATHILDE LAVENNE E LEONIE YOUNGE Expedition 1, Road S5, 41.954747,12.744843 Leonie Young sviluppa uno studio sul paesaggio urbano estraendone scorci attraverso il disegno e la fotografia. Queste porzioni della realtà, diventano nuove finestre sull’universo metropolitano che si apre così a inedite interpretazioni. L’artista si concentra sui luoghi apparentemente banali e privi d’interesse, fissando quei microeventi che, pur nel loro aspetto casuale, creano momenti di inaspettata poesia. Mathilde Lavenne compie i suoi studi nell’Accademia di Belle Arti di Strasburgo, dove apprende tecniche di lavorazione di materiali quali vetro e metallo. L’artista, considerando l’intervento sulla struttura urbana come una costruzione mentale dello spazio, sviluppa un approccio affine a quello di Young, connotato però da una forte tensione verso la matericità degli elementi. Durante la residenza all’atelier Wicar, le due artiste sviluppano un progetto comune che le porta a esplorare la monumentalità di Roma, percorrendo a ritroso la storia dei suoi materiali d’origine. Expedition 1, Road S5, 41.954747,12.744843 è la testimonianza di questo percorso di ricerca che le conduce fino alle antiche cave di Tivoli e di Carrara. La fotografia prende forma attraverso la pieghettatura che, suggerendo una spazialità fisica e concettuale, la trasforma in un’installazione che occupa la realtà come fosse un atto creativo di messa in scena. Leonie Young nasce a 1981. Diplomata nel 2006 all’École Nationale des Arts Décoratifs di Parigi, vive e lavora a Lille dal 2011. Mathilde Lavenne nasce nel 1982, vive e lavora a Lille. Dopo il master in art et culture all’università di Lille III, frequenta l’École des beaux arts di Tourcoing e nel 2010 ottiene un post-diploma presso l’École supérieure des arts décoratifs di Strasburgo.


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ANTOINE PETITPREZ Alberi Nel corso di un lungo soggiorno in Italia, Antoine Petitprez approfondisce la sua ricerca fotografica focalizzando l’attenzione sullo studio delle piante e maturando un’istantanea attrazione nei confronti delle palme romane con l’opera Alberi. Affascinato dall’aspetto di alcuni tronchi, l’artista ne fissa fotograficamente le peculiarità, le venature, la conformazione, evidenziando la continuità esistente tra le radici erose dal tempo e il terreno brulicante. Come le palme sono visceralmente ancorate al suolo, così i reperti archeologici romani sono testimoni di una continuità morfologica e culturale con il substrato della città. Il confronto con questo universo archeologico produce una forma di riconoscimento, un’agnizione, rivelando all’artista il profondo legame concettuale che vi è tra la sua opera e le rovine del passato. Petitprez ritrova così, attraverso la fotografia, quegli strati profondi, testimoni visivi dei differenti avvenimenti, reali e immaginari, collettivi e individuali. L’immagine fotografica risulta quindi scissa in una duplice tensione: se da un lato la qualità della stampa manifesta un’attitudine realisticodescrittiva, dall’altra l’utilizzo del fondo nero, decontestualizzando il soggetto e rendendolo monumentale, apre a una possibile interpretazione che trascende la semplice mimesi. Antoine Petitprez nasce a Loos il 7 giugno 1961. Compie gli studi all’École d’art di Cambrai e successivamente all’università di Valenciennes. Dal 1988 si dedica completamente alla fotografia. Fino ad oggi ha realizzato 11 serie fotografiche. Tra febbraio e marzo del 2010 partecipa alla residenza d’artista a Dortmund in Germania all’interno del progetto Transfer France-Nrw/Dortmund. Vive e lavora a Lille.

A sinistra: Alberi, 2007 In alto: Antoine Petitprez


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TALENTO SIGNIFICA INTERPRETARE È Daniele Franzella l’artista scelto da Axa come premio speciale per il Talent Prize «L’opera richiama un senso di inquietudine e attiva un’immediata chiamata all’azione facendosi amplificatore di nuove idee» di ISABELLA FALAUTANO*

I

n linea con il proprio noble purpose di assicuratore, Axa promuove policy di investimento di lungo periodo in favore dell’arte, vista sia come patrimonio da valorizzare sia come terreno in cui impegnarsi con un'attenzione particolare alle nuove generazioni. Il settore privato può giocare un importante ruolo nel promuovere i beni pubblici globali (dalla ricerca all’arte, alla cultura, dall’ambiente alla salute, fino alla conoscenza e l’informazione), integrando le proprie competenze e risorse con il settore pubblico e contribuendo a soddisfare dei bisogni che non sempre gli stati sono in grado di tutelare pienamente. È importante interpretare i beni e le attività culturali come una ricchezza e un driver di crescita per la nuova economia, anche grazie allo sviluppo di solide professionalità umanistiche, scientifiche e organizzative. Non si tratta di testimonianze improduttive da mantenere nel presente, ma di opportunità da valorizzare adeguatamente. Per questo Axa in Italia, attraverso le compagnie Axa Assicurazioni, Axa Mps e Axa Art ha scelto l’opera di Daniele Franzella, perché esprime, attraverso il linguaggio della scultura, una modalità di rapportarsi

al futuro che condividiamo nell’ambito del nostro mestiere, la protezione. L’opera del trentacinquenne artista palermitano è stata in grado di suscitare emozioni tra i tecnici e gli appassionati incaricati di dare un giudizio sulle numerose candidature. Le due figure con megafono richiamano un senso di inquietudine e attivano un’immediata call to action, quasi un monito: è fondamentale usare la testa e produrre contenuti di qualità per guardare con ottimismo al futuro e superare un complesso momento di trasformazioni come quello attuale. Tutto questo è coerente con la strategia di Axa di generare dibattito e idee innovative per il presente e il futuro, facendo leva sulla propria expertise e facendosi amplificatore di idee innovative per ispirare la società. Axa supporta il talento per contribuire alla creazione di un domani migliore. E tutela arte e cultura per trasmettere alle nuove generazioni la ricchezza del nostro patrimonio artistico. Perché talento significa anche saper interpretare la realtà e vedere nel lungo periodo. * responsabile relazioni esterne e istituzionali gruppo Axa in Italia


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L’ARTISTA Daniele Franzella Daniele Franzella nasce a Palermo il 15 giugno 1978, dove vive e lavora. Comincia a consolidare le sue consapevolezze all’interno del corso di scultura all’accademia di Belle arti di Palermo. Nel 1999 vince il primo premio al IV concorso nazionale di scultura di Spinetoli (AP). Nel 2005 partecipa alla 51esima Biennale di Venezia alla collettiva Già non ancora nella chiesa di San Lio. (V. F. e M. M.)

L’OPERA Senza titolo Due figure. Due megafoni. Due colori. Nessun volto. La scultura Senza titolo di Daniele Franzella lascia ampio spazio all’interpretazione e pone lo spettatore davanti a una enigmatica serie di interrogativi. L’opera rincorre quel senso di straniamento e di sospensione che si insinua nell’osservatore alla vista dei due soggetti, immobili, nell’atto di comunicare qualcosa a gran voce, senza però emettere alcun suono. La loro azione è impossibilitata da una mancanza fisica che si contrappone invece alla corporeità tanto definita dei volumi, che prendono posto nello spazio e se ne impossessano. La scelta della figura del maestro di cerimonie rimanda a una tradizione che ha origini antiche e che si tramanda nei secoli tanto in Occidente quanto in Oriente. Il cerimoniere è colui che sovraintende e organizza eventi importanti, ne stabilisce il come e il quando. Questa sua responsabilità però, nell’opera, è messa totalmente in discussione: dai megafoni esce un vuoto silenzioso che non dirige e lascia un senso di inquietante malinconia. Giocando sulla forte connotazione fisica delle figure e l’ironica mancanza dei volti, Franzella crea un cortocircuito temporale tra presente e passato, tra presenza e mancanza, tra divulgazione del suono e silenzio, enunciando in questo modo un monito: «Per dare voce e forza al nostro futuro dobbiamo usare la testa, altrimenti quello che verrà amplificato sarà solo il silenzio, il vuoto del nostro presente». (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)

A sinistra: Senza titolo, 2013 Sopra: Daniele Franzella A pagina 87: L’abito della sposa 2006


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IL TUTTO IN OGNI SINGOLA PARTE Sono le foglie dell’opera di Federico Gori premiato da Metaenergia, a rappresentare la forza che deriva dall’unione: «Virtù, forza e coraggio sono valori di cui il nostro paese ha estremamente bisogno» di MAURIZIO MOLINARI*

G

ià per i Romani la quercia era simbolo di virtù, forza, coraggio, dignità, perseveranza e resistenza. Nell’opera del giovane artista Federico Gori, Giro giro tondo, la molteplicità dinamica delle foglie è unita in un movimento verso un’unica direzione in ascensione, espressione di una concezione per cui il tutto è costituito da singole parti, la cui somma è però qualcosa di diverso dal tutto. Le esili foglie di quercia traggono dal loro ambiente e dai suoi elementi la loro forza armonica. Non si impongono all’ambiente, né lo sfruttano, ma si lasciano da esso sedurre. Il vento danza con le foglie e loro, tutte insieme, danzano con il vento: così ascendono. Si percepisce, in modo semplice e diretto, una trasformazione fondamentale, che è educativa dell’umanità. Perché solo mettendo al centro dell’attenzione l’esile foglia (che è l’individuo, le singole persone) la quale, sedotta da un vento che abbraccia e mai rifiuta, danza con le altre

foglie, si può dare un movimento di grandezza, ascensione e bellezza. Virtù, forza, coraggio, dignità, perseveranza e resistenza sono allora valori di cui il nostro paese ha estremamente bisogno in questo momento, perché tutte le fragili foglie della nostra società possano diventare, in un’unica armonica unità, forti come un quercia che resiste, nei secoli, alle intemperie, rigenerando continuamente se stessa. Noi crediamo dunque che questo lavoro, della più semplice e immediata bellezza, esprima, senza far pesare la sua complessità costitutiva, i valori profondi in cui Metaenergia crede da sempre e possa assurgere a dolce monito per la nostra terra: mettere al centro le persone, senza però far prevalere sullo sfondo l’individualità, bensì armonizzando l’umano con la sua più fondamentale parte, l’ambiente. Così vento, luce, ombra e materia umana si trasfigurano, generando energia. * presidente Metaenergia

A destra: Giro giro tondo, 2012 foto Bärbel Reinhard A pagina 92: Federico Gori


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L’ARTISTA Federico Gori Federico Gori nasce a Prato il 7 febbraio 1977. Vive e lavora a Pistoia. Diplomato in pittura all’accademia di Belle arti di Firenze nel 2001, nel 2002 è vincitore di una residenza di tre mesi alla Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri, Hic Terminus Haeret, a Seggiano (Grosseto). (V. F. e M. M.)

L’OPERA Giro giro tondo La ricerca di Federico Gori si sviluppa a partire dai concetti di natura e paesaggio, temi trattati e approfonditi attraverso una precisa poetica. La rappresentazione infatti, nella sua forma più immediata di presentazione del soggetto naturale, implica per l’artista il ricorso a determinati archetipi, ad alcuni modelli imprescindibili dall’associazione e raffronto tra il qui della forma e l’altrove dell’immagine conservata nella memoria. Si crea in questo modo un forte legame tra l’opera e il suo contesto, così come tra l’opera-paesaggio e l’uomo-spettatore che ne interiorizza la visione. Attraverso un lavoro minuzioso Federico Gori crea un’installazione ambientale costituita da un vortice di foglie di quercia; Giro giro tondo rivela la sostanza corporea e allo stesso tempo emozionale dell’approccio tra l’uomo e lo spazio naturale che lo circonda, in un’altalenante armonia tra equilibrio e precarietà. Il vortice è metaforicamente potenza, vitalità incontrollabile, alla quale si contrappone la fragilità e la leggerezza delle foglie. Un dualismo che ricorre anche nella scelta della quercia come pianta rappresentante di un universo fortemente simbolico: fin dall’antichità considerato simbolo di prosperità e maestosità, quest’albero raffigura la condizione dell’essere umano stretto tra la materialità del soddisfare i propri piaceri e bisogni e la spiritualità della spinta a innalzarsi verso l’assoluto e il divino. Lo stesso spazio architettonico prende vita, animato da un dialogo tra struttura fisica e percezione mentale, in un continuo girotondo di forme tangibili e proiezioni immaginative. (V. F. e M. M.)


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ALLA RICERCA DI UN PAESAGGIO L’opera Innesti di Michela de Mattei è stata premiata dalla Casa dell’Archittura per aver posto come centrale il problema della visione: «Il tema del lavoro rappresenta una modalità d’azione di natura compositiva propria della disciplina architettonica»

di ALFONSO GIANCOTTI*

uando, è trascorso poco più di un anno, ho ricevuto la nomina a presidente del comitato tecnico scientifico della Casa dell’Architettura mi sono domandato, insieme agli altri membri, quale potesse essere la strategia da perseguire per restituire centralità, nell’opinione comune, al significato del lavoro dell’architetto. Com’è possibile restituire all’architetto quel ruolo di intellettuale che storicamente gli è appartenuto, a prescindere dalle forme attraverso le quali ognuno di noi esercita questo mestiere? Com’è possibile farlo nella piena consapevolezza di come il nostro paese stia attraversando una stagione di profonda crisi culturale ed economica. Di comune accordo abbiamo, allora, sentito la necessità di provare a considerare la Casa dell’Architettura come un terreno di confronto tra discipline diverse, unite dal comune interesse verso i fenomeni della cultura urbana: le arti visive, il cinema, lo spettacolo, la musica e la letteratura. Una scelta per restituire all’architettura il ruolo di sintesi di tutte le discipline, tanto umanistiche quanto scientifiche, proprie del pensiero e dell’agire umano. All’interno di questo processo l’evento Talents Prize ha rivestito un ruolo strategico. Da un lato perché permette di tornare a parlare di visione, immaginazione e sogno,

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dall’altro perché si propone di valorizzare l’opera di giovani talenti, investendo sul loro lavoro. In questa ottica va quindi anche interpretata la scelta del comitato tecnico scientifico di assegnare il premio speciale Casa dell’Architettura all’opera Innesti di Michela de Mattei. Un’opera che si segnala per la scelta di porre il tema della visione quale fondamento del proprio percorso di ricerca che, nel lavoro di questa giovane artista, attraversa i territori della memoria, della storia, del luogo, della letteratura, della fisicità e dello spazio affidando alla questione del paesaggio un ruolo determinante per la comprensione del significato dell’opera stessa. Il tema dell’innesto, letto secondo quest’ottica di ibridazione di discipline e temi, rappresenta una modalità di azione di natura compositiva, propria della disciplina architettonica, in grado di costruire, nella contaminazione di forme e linguaggi, una condizione e una dimensione fortemente evocativa. Immaginazione e visione, come strumenti per superare, sotto il profilo intellettuale e materiale, una delle stagioni più difficili del nostro paese. *presidente del comitato tecnico e scientifico della Casa dell’Architettura di Roma


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L’ARTISTA E L’OPERA Michela de Mattei, Innesti Michela de Mattei per Innesti si reca in tre luoghi strettamente legati alla vita, all’opera e alla morte di tre personaggi simili nella loro profonda contraddittorietà e radicale libertà: l’idroscalo di Ostia, dove Pier Paolo Pasolini viene brutalmente assassinato, Metato di Pisa, dove Ezra Pound scrive i Canti Pisani, e Bolognano dove Joseph Beuys realizza La difesa della natura. Nei confronti di questi luoghi, seppur vicini all’artista da un punto di visto conoscitivo, è impossibile sperimentare una vicinanza immediata: così come le memorie di cui sono portatori, essi sono radicalmente altri ed è negato con loro un qualunque rapporto di continuità fisica e sensibile. La difficoltà della memoria diventa però un problema spaziale nel momento in cui l’artista, recandosi fisicamente in questi tre luoghi, innesta nel terreno dei tubi di zinco che generano con esso dinamiche molteplici. Il tentativo è quello di erigere delle strutture che, pur nella loro precarietà, siano in grado di generare un flusso di senso e di ritrovare, proprio attraverso il rapporto fisico con il terreno, una più ampia connessione con la memoria di cui questo è portatore simbolico. Dentro lo spazio espositivo, la testimonianza fotografica di queste azioni è accompagnata da un’installazione in cui i tubi, posti in orizzontale, si fanno diffusori acustici della registrazione audio di un’intervista condotta da Pasolini ad Ezra Pound. Un sensore di movimento rileva la presenza del pubblico e agisce sull’audio che diventa incomprensibile se ci si avvicina fisicamente all’opera. Ciò che l’artista richiede allo spettatore è uno sforzo di attenzione che consiste proprio nel comprendere che il passato è un qualcosa di radicalmente altro e che una relazione, seppure problematica, con esso si può instaurare solo ricordando e mantenendo questa distanza. Michela de Mattei nasce a Roma il 17 agosto 1984, dopo la laurea in Filosofia, lavora come assistente per l’artista Giuseppe Gallo. Partecipa al Festival della creatività, nuovo spazio Factory, Macro Testaccio nel 2013. È presente alla seconda edizione della rassegna Autunno Contemporaneo con un’installazione site specific. Vive e lavora a Roma. (Vasco Forconi e Margherita Maccaferri)


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Quando abiti al terzo piano il pavimento è sempre un’illusione 2011 Sotto: 1,2,3,4,5,6,7,8,9,10,11,12 anni d’olmo 2012 A sinistra: Michela de Mattei A pagina 93: Esperimenti d’innesto 2013 cortesia galleria Ex Elettrofonica


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L’ATTIMO FERMO PRIMA DEL BOTTO C’è in Giorgio Ialongo questo clima da fine della festa, di mestore (mesto stupore) che non è ancora uno sparire nel buio ma è già uno stare fuori dalle luci della ribalta, dalla cultura light che ha allumato l’Occidente negli ultimi decenni di MAURIZIO ZUCCARI

C’

è stato un tempo in cui, vinghiati alla mano di mamma o papà, si scantonava pel mondo, a riempirsi l’occhi e il cuore del poco o tanto raccolto nella circonferenza dello sguardo. A volte, l’occhio monello cadeva innanzi alla tabaccheria con le memorie dei luoghi, dove a uso d’improvvisati turisti sbucavano da una rastrelliera immagini di quell’altrove. Cartoline a tinte deboli, i cui colori esangui davano una patina di modernità a volti sorridenti e paesaggi ridenti nati in bianco e nero, nuage d’emozioni di un’era economica dove il boom e lo sboom erano di là da venire. Gli scatti di Giorgio Ialongo sembrano saltabeccare gli steccati degli anni, scartabellati da un album dei ricordi di quel tempo che fu. Rievocano una Roma che ha appena lasciata la fraschetta fuori porta, tra campi non ancora gravidi di palazzi e cemento, ma non ha un’utilitaria su cui salire. Al massimo, inforca la lambretta. Una città che più eterna non si può, sospesa in un altrove senza tempo, iconico, vivo solo nel ricordo di qualche flashbulb nostalgico. Ma c’è un ma. Muri sbreccati e gruppi scultorei, alberi stenti e lampioni spenti, ponti e acquedotti dell’urbe immota non rappresentano solo una città stupenda e dolente, una signora avanti con gli anni, capace d’essere sguajata e feroce eppure soave e ammiccante. Ancora capace d’accendere le fantasie d’ammiratori occasionali, le avance d’antichi amanti mai sazi dei suoi favori. Sono scorci dell’urbe già caput mundi, potrebbero essere angoli di Buenos Aires, specchi di Pampas. Ché le foto di Ialongo, le sue gamme tonali, non rievocano solo pose d’antan: quelle vie prive al più di genti, o percorse da figure all’apparenza immutabili, come il panorama in cui si stagliano, sembrano già offrire uno sguardo sul domani, su un dilà scarno e senza riguardi neppure per la storia. Dove il vento s’è portato via gli ultimi lustrini della festa e le luci restano scialbe, anche se accese, sul disincanto di chi ha lasciato la serata e va, a capo chino, coi suoi pensieri. O sta, muto e impietrito, come se ciò che lo circonda non lo riguardi più. Come altre, e innominabili, siano le rogne da grattarsi, al termine della baldoria. Ecco, c’è in Ialongo questo clima da fine della fiesta, di mestore – mesto stupore – che non è ancora uno sparire nel bujo ma è già uno stare fuori dalle luci della ribalta, dalla cultura light che ha allumato negli ultimi decenni l’Occidente. I suoi scatti, così, facendo l’occhiolino al nostro ieri si fanno carico di raccontare l’oggi proiettandosi sul domani. Sono l’attimo fermo prima del botto. Un nuovo inizio. Ché il mondo è una palla e, prima o poi, gira (vira) tutto.


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L’OPERA M’illumino d’incenso

L’ARTISTA Nell’atelier di Delogu Giorgio Ialongo è nato a Roma il 15 settembre 1977. Comincia a interessarsi alla fotografia da giovanissimo grazie alla preesistente passione del padre che gli regala, a tredici anni, la sua Nikon a pellicola. Dopo una laurea in sociologia dell’arte della letteratura all’università la Sapienza, si specializza nel 2011 all’Istituto superiore di fotografia e comunicazione integrata di San Lorenzo in tecniche digitali. Lavora nell’atelier di Marco Delogu dove comincia a conoscere artisti romani e internazionali. Attualmente, con il suo studio privato (Home photo studio) si occupa di foto e video reportage di eventi pubblici e cerimonie private, di fotografia di scena, di book e lookbook e di stampe Fine art.

Giorgio Ialongo sviluppa la sua ricerca fotografica indagando principalmente la questione del paesaggio urbano. L’artista avverte con sofferenza quanto i luoghi portatori di un’aura millenaria vengano in qualche modo sfruttati per il loro potere di rappresentanza ma al contempo silenziosamente declassati in luoghi di passaggio, resi marginali, e in qualche modo dimenticati. Ed è proprio con una precisa volontà di rivalutazione che, attraverso M’illumino d’incenso, l’artista indirizza il suo sguardo sul lungotevere romano, luogo che incarna appieno quel senso di marginalizzazione sopra citato. Durante il corso dell’estate quest’ultimo viene vivacemente animato dalla presenza di numerose attività commerciali, le quali però agiscono producendo una rivalutazione totalmente effimera, non strutturale, che con il finire dell’estate restituisce il lungofiume alla sua condizione di latente decadenza. Il lavoro tende a connettere la storia millenaria di Roma, con la sua grandezza, i suoi protagonisti e i suoi fasti perduti nella pochezza della dimensione politica attuale, soppiantati dal ruolo centrale e cosmopolita della chiesa cattolica. Un passato grandioso che non c’è più, sostituito, nel percepito globalizzato, dalla forza del messaggio universale di una chiesa che dimostra di sapersi rinnovare più di altre istituzioni contemporanee. Componente imprescindibile della ricerca fotografica di Giorgio Ialongo è anche il ricorso alla postproduzione la quale viene qui concepita come forma di restauro digitale, configurandosi in fondo come il vero elemento propulsore della poetica di riattivazione del paesaggio urbano perseguita dall’artista. (V. F. e M. M.)

A sinistra: Giorgio Ialongo In alto: M’illumino d’incenso 2013


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ANATOMIA DEL FERROVECCHIO Gianni Colangelo vince il premio speciale Insideart.eu A convincere i lettori un lavoro che indaga il rapporto fra originalità e artificio tramite un teschio di mucca: «Qui non c’è speranza ma in città non potrei lavorare» di SIMONE COSIMI

il rapporto fra natura e artificio, quindi cultura, ad aver impressionato i lettori di Insideart.eu. Lo testimonia la vittoria, con 1.335 voti raccolti sul sito, dello scultore Gianni Colangelo. L’abruzzese si è infatti aggiudicato il premio speciale intitolato alla nostra testata, uno dei riconoscimenti collaterali legati alla sesta edizione del Talent prize. Il suo lavoro porta d’altronde un titolo emblematico: Anatomia meccanica. Gira intorno a un teschio di mucca. O meglio, presenta una coppia composta da un pezzo originale, dunque di osso, e uno realizzato attraverso il recupero di ferri vecchi: «Racconta la contrapposizione tra il naturale e l’artefatto – dice Colangelo da Pratola Peligna, piccolo comune in provincia dell’Aquila, ancora colpito per la notizia del primo posto – d’altronde non siamo soprattutto imitatori, noi umani?». Giusto. Curiosa, la storia del trentenne assemblatore e scultore. Geometra a Sulmona, ha prima imboccato la strada musicale al conservatorio per poi virare verso una laurea in Lettere moderne. Fino alla specialistica all’accademia di Belle arti, tutto nel capoluogo abruzzese. E alla scelta della più plastica delle specialità, la scultura, come mezzo

È

espressivo prediletto. Nessuna galleria di riferimento, nessun curatore a spianargli la strada: un cavallo sciolto, Colangelo, che fa tutto da solo e va dove lo portano gli interessi. Non solo. Anche l’affannosa ricerca di materiali poveri, di recupero, si carica di un significato fortissimo, fatto di disincanto e isolamento rispetto alla propria condizione: «Qui non c’è traccia di speranza – racconta del territorio in cui vive e lavora, quello della valle Peligna, un altopiano dell’Abruzzo centrale – le poche fabbriche chiudono o hanno già chiuso da un pezzo. Quando racconti che vuoi fare lo scrittore o l’artista la gente ti ride in faccia. E io mi ritrovo alla ricerca di questi ferrivecchi, che poi monto in opere anche più grandi di quella che ha vinto il premio, fino ai quattro metri d’altezza». Quasi la metafora di un territorio che combatte contro la depressione. Perché, quindi, non scegliere una città d’arte o un grande centro per dare benzina alla propria inclinazione? «Perché non potrei mai permettermelo – chiude l’artista – mi piace girare, portare i miei lavori altrove, devo dire che riesco anche a vendere senza molti problemi, ma ho bisogno di tanto spazio per esprimermi. E qui ho la possibilità di utilizzare un laboratorio dove questi lavori prendono vita: a Roma o all’estero non sarebbe possibile». Certe volte, d’altronde, è proprio dalle viscere della provincia – dove la natura riesce ancora a esprimersi – che sbocciano le tendenze più genuine. Quelle che la città, in un colpo di spietata astuzia, inghiottirà in un sol boccone.


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L’OPERA Anatomia meccanica Gianni Colangelo è un artista che da anni incentra la sua ricerca scultorea attorno all’assemblaggio di materiali di scarto, reperti della tradizione contadina e pastorale nonché residui di una produzione industriale ormai prossima al collasso. Originario della valle Peligna, un altopiano dell’Abruzzo centrale, avverte con sofferenza la profonda crisi lavorativa che colpisce il suo territorio natale. Il gesto di raccogliere materiali dismessi e unirli in figure sempre più grandi e complesse, vede come principale intento quello di riportare ad un grado di visibilità la storia di quei lavoratori che nel tempo hanno prodotto e utilizzato quegli stessi oggetti fino a consumarli. È proprio in questa tradizione che, secondo l’artista, troviamo le nostre radici culturali più profonde. Con Anatomia meccanica, un assemblaggio nel quale un cranio di mucca è affiancato a una scultura in ferro che ne ricalca la forma, l’artista instaura un confronto diretto tra la natura e l’artefatto, riflettendo sull’eterno tentativo dell’uomo di approssimare la perfezione della natura stessa. L’utilizzo che Colangelo fa del ferro, oltre a richiamarci a quella tradizione del lavoro popolare prima citata, testimonia un interesse tutto interno alla materia stessa. Il ferro, arrugginito, consumato dal tempo e dal lavoro, si presenta con tutta l’evidenza di ciò che ha una sua storia già definita, il compito dell’artista è quindi quello di riscoprire questo materiale e sottoporlo a una nuova ricerca di significato.

L’ARTISTA Dal trombone alle belle arti Gianni Colangelo è nato a Sulmona (Aq) il 26 giugno 1983. Nel 2002 prende il diploma in tromba e trombone al conservatorio dell’Aquila. Nel 2009 consegue la laurea triennale in storia e pratica delle arti, della musica e dello spettacolo alla facoltà di lettere e filosofia del capoluogo abruzzese. Nel 2011 arriva alla laurea specialistica in decorazione, con indirizzo in beni storico artistici, all’accademia di Belle arti dell'Aquila.

A fianco: Gianni Colangelo A sinistra: Anatomia meccanica, 2013 foto Antonella Palombizio e Antonio Secondo


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FESTIVAL DI FOTOGRAFIA Roma piena di niente È stata l’ossessione di Flaubert scrivere un romanzo fatto di niente. Quasi tre secoli dopo, l’assenza e il vuoto sono il tema di Fotografia festival internazionale di Roma, a cura di Marco Delogu. Comporre un’immagine significa prima di tutto lasciare fuori qualcosa, decidere cosa è la differenza che passa fra un artista e un uomo con una macchina fotografica. Lorena Endara gira il suo obiettivo sul nulla, su quello che ogni bravo artista lascerebbe fuori, compone l’immagine sull’esclusione che diventa il tutto dello scatto. È una foto astratta questa, dove nulla rappresenta qualcosa, anche il ricordo di un pontile sfuma in una forma geometrica. Non ci sono appigli dove ancorare lo sguardo, l’alter ego è l’horror vacui medievale dove non c’è spazio per un sospiro. Definita in colpi di levare, per dirla alla Michelangelo, l’immagine schiva un soggetto, l’autrice non racconta storie (cosa che fra parentesi era il fine ultimo della fotografia per Robert Capa) ma consegna una pagina bianca, elegante nel suo essere, significare, rappresentare l’assenza, la Vacatio che è anche il nome del festival di fotografia dove lo scatto è esposto nel Macro capitolino. Flaubert ci ha lasciato il suo nulla con L’educazione sentimentale, Endara può star sicura di aver detto tutto tranne le cose importanti. Fino all’otto dicembre. Info: www.fotografiafestival.it (Francesco Angelucci)

Lorena Endara, Panama dalla serie Muelle, 2007

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LE ALLEGORIE DI VALERIO ADAMI di CLAUDIO SPADONI*

Resta nella linearità del suo lavoro, una cifra stilistica così inconfondibile da indurre quasi inevitabilmente a non discostarsi da alcuni motivi canonici, peraltro imprescindibili, siano o meno pacificamente riconducibili all’alveo – solo in apparenza? – sempre più dilatato della cultura visiva contemporanea. Con Valerio Adami si rischia quasi inevitabilmente di ricalcare sentieri critici già ampiamente percorsi, con le innumerevoli voci bibliografiche che hanno accompagnato la sua storia grafico-pittorica per oltre mezzo secolo, che potrebbero costituire un paradigma di possibilità interpretative. Resta, tuttavia, nella linearità del suo lavoro, una cifra stilistica così inconfondibile da indurre quasi inevitabilmente a non discostarsi da alcuni motivi canonici, peraltro imprescindibili, siano o meno pacificamente riconducibili all’alveo – solo in apparenza? – sempre più dilatato della cultura visiva contemporanea. È pur vero che si possono riscontrare talune voci per così dire meno ligie alle convenzioni critiche, come nei casi di scrittori, poeti, filosofi, piuttosto che di storici ed abituali esegeti d’arte, e che più di questi, a volte, hanno concepito costruzioni letterarie e speculative stimolanti sul disegno e la pittura di Adami. Si pensi, per fare solo qualche nome, a Italo Calvino, ad Antonio Tabucchi, a Carlos Fuentes, o a Jacques Derrida e Jan Francois Lyotard. O ad un semiologo come Paolo Fabbri, che in esergo ad un suo saggio dell’anno 2000 aveva posto, esemplarmente, le prime righe della descrizione del Disegno di Cesare Ripa nel suo notissimo trattato di Iconologia. Si potrebbe partire da qui, pensando al ruolo primario che la pratica del disegno ha in Adami. “Un giovane d’aspetto nobilissimo, vestito d’un vago & ricco drappo, che con la destra mano tenghi un compasso, & con la sinistra uno specchio”. Ma vale la pena riportare anche il seguito: “Si potrà dipingere il Disegno per esser padre della scultura, pittura & architettura, con tre teste uguali, e simili, & che con le mani tenghi diversi istromenti convenevoli alle sopradette arti, & perché questa pittura per se stessa è chiara, mi pare sopra di essa non farsi altra dichiaratione”. Potrebbe essere un disegno di Adami, naturalmente ripensato dopo quattro secoli, anche a scandire la distanza da quelle xilografie che corredavano Iconologia, attribuite per convenzione al Cavalier d’Arpino, pur in assenza di documenti di sorta a comprovarlo. Ma quel che più importa non è tanto la paternità delle illustrazioni, quanto il condensato di fonti culturali eterogenee cui il Ripa attinse. Fonti classiche e delle migliori immagini poetiche, come quelle di Ovidio e Virgilio, ma anche lasciti di una tradizione narrativa popolare, consolidati in figure retoriche d’uso convenzionale. Così come, per altri aspetti, detto per inciso, il sincretismo di paganesimo e cristianesimo. Del resto, gli artisti che vi attinsero per oltre un secolo, e alcuni furono tra i maggiori del tempo loro, certo non si curarono di tale promiscuità. Come osservava Mario Praz: “A mediare tra paganesimo e cristianesimo sciamò una schiera di allegorie, quasi sacerdotesse che prestavano un doppio ossequio [...]. Così accanto ai santi e agli dei figurarono un collegio di Virtù e un anticollegio di Vizi, e alle Muse si affiancarono le immagini delle Arti...”. Si potrebbe pensare che in un’analoga commistione di cultura alta e cultura popolare Adami abbia fondato la coscienza matura del suo linguaggio figurativo negli anni ‘60, quando il trionfo della pop art


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A sinistra: Malinconia. Tema e variazioni, 2004 A destra, in alto: Tramonto. Regard en arrière, 1990 A destra, in basso: Valerio Adami foto Michel Nguyen A pagina 101: Uomo e donna durante una vacanza alpestre, s. d.

made in Usa – lasciando stare i precedenti inglesi che sono altra cosa, com’è ben noto, e gli ancor più precedenti casi dadaisti che sono tutt’altro per intenzioni, contesto, esiti espressivi poggiava per buona parte sull’assunzione enfatizzata di icone, sigle, insegne, oggetti d’uso e consumo corrente. S’intende che la questione per Adami era diversa, al punto che proprio il suo soggiorno statunitense ha probabilmente segnato il momento di una precisa consapevolezza della propria condizione, difficilmente compatibile col conclamato pragmatismo degli americani: l’assunzione diretta e acritica della realtà visiva offerta in versione popular. Il paesaggio metropolitano creato dalla cultura consumistica d’oltreoceano offriva un campionario iconografico sterminato quanto privato di memoria, di qualsivoglia stratificazione o intreccio di trasmissioni storiche. Nessun “significato” altro, nessuna qualità simbolica, se non quella di un’amplificazione sotto specie artistica del prelievo iconografico. E dunque, un’iconografia azzerata, per così dire, di ogni consistenza iconologica. Nessuna possibilità allegorica. Se Adami scrive che “disegnare è un modo di conoscere”, resta implicito che l’elaborazione grafica è la risultante di un sapere preesistente, diciamo pure di una memoria anche iconologica continuamente rielaborata e investita di nuove e ulteriori significazioni. Si potrebbe riprendere, in merito, Dore Ashton, attenta a cogliere l’“irriducibilità” della condizione europea di Adami rispetto al clima pop di marca statunitense. Rileggiamolo: “Essere un italiano a New York portò Adami a un sobrio assestamento, e alla sua prima dichiarazione di indipendenza, facendogli prendere le distanze anche dal movimento internazionale chiamato pop art. È vero, in lui il colore e il disegno continuarono a ispirarsi al manifesto e a dipendere da un popolare idioma visivo familiare. Ma questa semplicità era solo apparente. Sotto si celava un’intelligenza severa, che analizzava un’esperienza di modernità che avrebbe potuto non essere accettata”. Tutt’altra cosa, insomma, che le Cam-

pbell’s soup, i Flowers, l’Electic chair, i Brillo box, e tutti i “ritratti”, per dire, di un Warhol, ma anche dei “fumetti” di un Lichtenstein, per citare solo due dei protagonisti più acclarati. “Firmerò col mio nome le seguenti cose – scriveva l’ineffabile Andy – abbigliamento bisex, sigarette, registratori, impianti sonori, dischi rock’n’roll, qualsiasi cosa riguardi film e attrezzature cinematografiche, cibo, fruste, soldi!”. Basti riportare qualche considerazione di Adami, e siamo precisamente nel ‘68, per chiudere la questione rimarcando la sua distanza abissale dall’artista pop per antonomasia: “La mia mano dovrebbe essere una sorta di sismografo che dà corpo alle tracce lasciate dal percorso dell’immaginazione. Guardando una cosa si scopre tutto un materiale interno, e da queste relazioni prima sconosciute, nascono delle alterazioni di forme [...]”. Guardare, appunto; che per un mediterraneo colto quale Adami significa attivare una rete di connessioni, di rimandi, di conoscenze depositate in una memoria che informa l’occhio, lo guida, lo educa alla forma. Roger Shattuck, nel suo The innocent eye, parlava di un occhio innocente, appunto, che presupporrebbe uno sguardo spogliato d’ogni sapere, di ogni categoria culturale. Una condizione del vedere che riporterebbe ad un ipotetico candore originario. Ma Shattuck avvertiva che un simile candore “non è qualcosa di dato, è un traguardo”. Forse occorrerebbe aggiungere che tale traguardo, irraggiungibile, non può che appartenere alla nostalgia consapevole dell’originario, che resta pur sempre un mito. Saperlo, significa non tanto mirare a questa condizione quanto assumerla come possibilità di un vedere comunque carico di interrogativi, di enigmi. Un vedere non univoco, che contraddice il convincimento che “tutto è già stato interpretato” e come racchiuso nella gabbia delle convenzioni, dei codici del linguaggio, quale esso sia. *curatore della mostra, estratto dal catalogo cortesia Carlo Cambi editore


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LA MOSTRA Allegorie al Mar di Ravenna Il ciclo di esposizioni monografiche dedicate dal Museo d’arte della città di Ravenna a figure di primo piano dell’arte contemporanea si arricchisce quest’autunno di una mostra di grande rilievo che ha come protagonista Valerio Adami, artista di larga notorietà internazionale con la mostra Allegorie, a cura di Claudio Spadoni. La sceltissima raccolta di opere comprende una cinquantina di tele, diverse delle quali di grandi dimensioni e provenienti in larga misura dalla collezione dell'artista, oltre a un vasto repertorio di disegni, opere autonome giustamente considerate da Adami una parte fondamentale del suo lavoro, quasi a far propria la nota affermazione di J. D. Ingres «Il disegno comprende tutto, tranne il colore». Bolognese di nascita (1935), Adami si trasferisce quasi subito con la famiglia a Milano, dove poi frequenta l’accademia di Brera seguendo i corsi di Achille Funi. Artista e intellettuale come pochi altri della sua generazione, le sue frequentazioni vanno da pittori come Chagall, Mirò, Matta, Lam a scrittori e filosofi, quali Octavio Paz, Buzzati, Calvino, Derrida, Lyotard, suoi finissimi esegeti fra i tanti altri che figurano in una bibliografia vastissima. Dal 1957 si divide fra Parigi e l’Italia, con frequenti soggiorni a Londra e New York, nel Sud America, in India e in diversi paesi europei. Dopo l'esordio espositivo alla galleria del Naviglio a Milano e all’Institute of contemporary art di Londra, si susseguono le mostre prestigiose a Documenta di Kassel, alla biennale di Venezia con un sala personale, al Museo d’arte moderna di New York, poi a quello di Parigi e al Kunstverein di Ulm e Amburgo. In occasione della mostra Valerio Adami ha realizzato un litografia dal titolo Ecco i primi segni dell'estate per il Mar di 100 esemplari in numerazione araba, in vendita esclusiva presso il bookshop del museo. Fino all’8 dicembre. Museo d’arte della città di Ravenna, via di Roma, 13. Info: www. mar.ra. it


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LA FRAGILITÀ DI ADRIAN PACI Le opere dell’artista sono il risultato di episodi umani che s’intrecciano dove le vite in transito costituiscono un’umanità fragile e caparbia. I lavori in mostra al Pac sembrano condividere un senso di perdita che accompagna ogni essere umano alla ricerca della propria identità di PAOLA NICOLIN E ALESSANDRO RABOTTINI*

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in dalla metà degli anni Novanta il lavoro di Adrian Paci (1969, Scutari, Albania) ha attirato l’attenzione della critica internazionale per la capacità di coniugare narrazione, rigore formale e riflessione sociale, offrendo una visione insieme poetica e problematica delle trasformazioni politiche e umane cui sono andati incontro i paesi dell’ex blocco sovietico dopo la caduta del Muro di Berlino. Agli esordi della sua carriera, Paci ha prodotto un corpus di opere influenzato dal clima culturale di quegli anni e all’interno del quale il tema dell’immigrazione si unisce alla riflessione sul ruolo delle immagini nel racconto delle nostre esistenze. A partire da questo nucleo tematico – in cui autobiografia e cultura si sovrappongono – l’artista ha poi negli anni ampliato i confini reali e metaforici del proprio lavoro, giungendo a un’esplorazione di carattere universale sui temi della perdita, del movimento delle persone nello spazio e nel tempo, della ricerca di un altrove umano e geografico. In questa prospettiva, il titolo della mostra Vite in transito chiarisce la centralità di alcuni temi all’interno della produzione artistica di Paci. Se la figura umana occupa un ruolo primario nel suo lavoro – sia esso pittorico, fotografico o cinematografico – diventando il nucleo originario di narrazione, immaginazione e speranza, è il movimento costante – sia esso quello dei popoli attraverso le frontiere geo-politiche o quello della memoria personale, tra la dimensione del vissuto e quella della cultura e della storia – a profilarsi all’orizzonte come

cornice di riferimento della sua produzione. Le opere in mostra sembrano condividere un senso di perdita, che accompagna ogni essere umano alla ricerca della propria identità. Questa ricerca porta con sé un’inesorabile quanto necessaria separazione attraverso la quale prendere le distanze, tra un prima e un dopo. Le opere di Paci sono così il risultato di più episodi umani che s’intrecciano e dove le vite in transito costituiscono un’umanità insieme fragile e caparbia. La mostra sceglie di presentare un’ampia selezione di opere realizzate a partire dalla metà degli anni Novanta fino alla produzione più recente, in un percorso costruito attraverso il dialogo tra le opere e lo spazio espositivo, in grado di esprimere al meglio la varietà di linguaggi che Adrian Paci utilizza nel suo lavoro. Il continuo slittamento di tecniche, supporti e materiali – dal disegno alla fotografia, dalla pittura al video fino alla scultura – rende testimonianza non solo della solida formazione artistica di Paci, ma allo stesso tempo il talento con il quale ha saputo declinare e trasfigurare l’interesse verso l’insieme di riti che accompagnano la nostra quotidianità in immagini senza tempo, astratte, aperte a una molteplicità di letture metaforiche. In questo universo di significati si collocano le storie e i personaggi protagonisti di lavori esposti: dai disoccupati silenziosi di Turn on (2004) agli uomini in marcia verso un aereo pronto a decollare in Centro di permanenza temporanea (2007); dai volti estatici dei fedeli raccolti di fronte all’icona sacra di Pilgrimages (2005) ai lamenti della prefica che celebra


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il passaggio dalla morte alla vita in Vajtojca (2002), fino all’artista stesso che entra in contatto con il pubblico stringendo ad una ad una le mani dei presenti in Encounter (2011). In molti casi il racconto dell’esperienza quotidiana è definito dal ricorso a immagini e atmosfere che fanno riferimento alla tradizione pittorica e alle cinematografie di autori come Pier Paolo Pasolini, del quale troviamo echi nell’opera Electric blue (2010), ma anche Michelangelo Antonioni e Bela Tarr. La libertà espressiva che contraddistingue il lavoro di Adrian Paci rende infatti possibile anche una continua osmosi tra media e linguaggi differenti: se i video e i film possiedono spesso la sintesi visiva propria della pittura, quest’ultima assume l’andamento narrativo proprio del cinema, attraverso il frequente ricorso al formato del fotogramma e alla struttura in serie. Nella serie di disegni su carta Passages, nelle gouaches montate su tela di Secondo Pasolini (Decameron, 2007) o ancora nella pittura su legno de I Racconti di Canterbury (2010) – omaggio alle affinità tra i film del regista italiano e la pittura – Paci ricolloca alle immagini che già esistono all’interno di una dimensione filmica, fissando il flusso continuo del video. Il percorso espositivo così concepito si colloca anche la nuova opera filmica The column, esposta per la prima volta in un’istituzione italiana. Il film è un racconto visionario che descrive l’estrazione di un blocco di marmo da una cava cinese e la sua successiva lavorazione nella forma di una colonna in stile classico. Questa lavorazione avviene in mare, per mano di operai che formano un tutt’uno con la scultura: gli operai viaggiano all’interno di una nave officina la cui destinazione rimane in-

certa. The column è una potente metafora che unisce l’estrema attualità di temi come la delocalizzazione del lavoro, la trasformazione delle tradizioni e il confronto tra le culture, a un linguaggio visivo di enigmatica bellezza. Accanto al film, è esposta la colonna di marmo di sei metri come elemento scultoreo e insieme narrativo. La mostra infine è arricchita da un contributo di Giovanni De Lazzari (Lecco, 1977), artista formatosi con Adrian Paci durante gli anni del suo insegnamento all’accademia di Belle arti di Bergamo. De Lazzari ha concepito un intervento artistico di natura installativa – visibile al primo piano del Pac – realizzato attraverso la selezione e inclusione di materiali, per lo più inediti, provenienti dalla collezione privata di Luciano Formica. Essi raccontano gli esordi della carriera di Paci e approfondiscono la dimensione delle fonti e il loro montaggio all’interno del discorso espositivo. Quello di cui siamo spettatori è allora la conturbante seduzione del racconto e della poesia delle dinamiche umane, di cui spesso la donna è silente depositaria. L’artista è il filo rosso della narrazione che si snoda tra tragedia e gioco, tra legami spirituali e conflitti sociali e sa cogliere l’energia esistenziale nei momenti marginali. Il risultato è un’opera complessa che parla dallo stesso tempo di vicinanza ed estraneità, empatia e distanza, passato e futuro, abbandono e ritorno all’intimità della casa, luogo anche questo dell’anima più che paese geograficamente e fisicamente determinato. *curatori della mostra estratto dal catalogo sviluppato come wall text per il Pac


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LA MOSTRA Vite in transito al Pac di Milano

A destra: The column, 2013 cortesia Kaufmann Repetto, Milano e Galerie Peter Kilchmann Zurigo In alto: Secondo Pasolini (Decameron), 2006 A sinistra: Turn on, 2004 A pagina 88: Centro di permanenza temporanea, 2007

Il Pac Padiglione d’arte contemporanea di Milano presenta Adrian Paci vite in transito, una retrospettiva dedicata all’artista albanese che, sin dal 1997, ha scelto Milano come sua città d’adozione. A cura di Paola Nicolin e Alessandro Rabottini, la mostra al Pac presenta un’ampia selezione di opere realizzate a partire dalla metà degli anni Novanta fino alla produzione più recente, la nuova opera The column (2013), in un percorso che esprime la varietà di linguaggi che Adrian Paci utilizza nel suo lavoro, spaziando dal disegno alla fotografia, dalla pittura al video fino alla scultura. L’esposizione è accompagnata da Adrian Paci Transit, una pubblicazione realizzata in coproduzione con il Jeu de Paume e il Musée d’art contemporain di Montréal e pubblicato da Mousse publishing. Come di consueto il museo milanese ha in programma visite guidate e laboratori gratuiti, ideati e organizzati da Marte e realizzate con il contributo del gruppo Coop Lombardia, per avvicinare grandi e piccoli alle opere dell’artista. Fino al 6 gennaio 2014. Pac, via Palestro 14, Milano. Info: www.pac milano. it


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DALLO SCHIZZO ALLA REALTÀ Al Moma di New York la mostra dedicata a Dante Ferretti, uno dei più grandi scenografi della storia del cinema Nei suoi bozzetti e nei video proposti dall’allestimento rivivono pezzi di una leggenda tutta italiana vissuta in pellicola

di ALESSANDRO CARUSO

A sinistra: Dante Ferretti Sopra: bozzetto Nightmare father per Hugo Cabret 2011


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er la prima volta il Moma dedica una mostra a uno scenografo. Attenzione, non uno qualunque. Parliamo di Dante Ferretti. Tre Oscar all’attivo, il suo nome alberga a fianco a quello di grandi registi che hanno firmato pellicole indimenticabili: Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Martin Scorsese o Steven Spielberg. Il tempio dell’arte contemporanea nella Grande mela con Dante Ferretti: design and construction for the cinema rispolvera una vecchia storia d’amore mai sopita, quella tra Italia e Stati Uniti sotto il segno del cinema. «Nella sua lunga carriera iniziata nel 1969 – spiega Marina Sagona, artista e curatrice della mostra – Dante Ferretti ha lavorato con registi come Pasolini, Scorsese, Cronenberg, Ferreri, Zeffirelli, De Palma e Fellini a olte 50 film, ha realizzato 24 opere teatrali e ideato una dozzina di altri progetti museali e televisivi. La mostra del Moma prende in esame l’arte della produzione scenografica partendo dalla capacità di Ferretti di trasformare i sogni in una realtà tangibile, in un’epoca in cui la tecnologia digitale sta trasformando il modo di fare cinema». Un autentico costruttore di suggestioni, che partendo dall’idea traduce in uno schizzo immagini destinate a entrare nell’eternità. Con questi schizzi Ferretti ha costruito una carriera entusiasmante, ancora oggi benedetta da preziose collaborazioni con le produzioni e i registi più celebri. Nato a Macerata nel 1943, ha dietro di sé una di quelle storie che colpiscono. L’ha raccontata spesso in questi ultimi giorni, da quando la mostra ha aperto i battenti, il 28 settembre. Un’adolescenza scandita dalle intemperanze guidate da una grande passione, quella per il grande schermo, e un rapido successo per un talento di cui, in breve tempo,

si sono accorti i grandi registi italiani, prima, e internazionali, poi. Le grandi scene di alcuni must della storia del cinema, come Hugo Cabret, Tito Andronico o L’età dell’innocenza, sono esposte al Moma allo stato embrionale, quando erano ancora disegni. «Il centro della mostra – continua Sagona – è un vasto labirinto di schermi su cui sono proiettati i film più importanti su cui Ferretti ha lavorato, oltre a una selezione di sketches, modelli e disegni e una rassegna di 22 film». Dalle linee ai soggetti si ha una chiara visione della fantasia dello scenografo. E dal bozzetto alla scena girata si nota come i registi si siano affidati integralmente all’ingegneria mentale di Ferretti. Il suo nome, non a caso, è uno di quelli che porta con sé l’eredità del genio creativo italiano, che nel cinema è affiancato a quello di illustri e mai dimenticati maestri, come Fellini, Risi o Scola, e per questo il Moma ripropone anche il documentario, girato da Gianfranco Giagni, che racconta la storia dello scenografo dalle origini alla ribalta mondiale del più grande cinema d’autore. Si tratta di un corto presentato in anteprima mondiale alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2010. Un ritratto affidato a una lunga intervista, ma anche allo sguardo e alle testimonianze di registi e attori con cui Ferretti ha condiviso importanti progetti professionali oltre quella di una “complice” davvero speciale come Francesca Lo Schiavo, sua moglie. «Il documentario Dante Ferretti: scenografo italiano di Gianfranco Giagni – ha concluso Sagona – è stato prodotto da Cinecittà Studios e raccoglie, tra gli altri, le testimonianze di Martin Scorsese, Leonardo Di Caprio, Terry Gilliam e Julie Taymor». Un estratto di una storia ancora tutta da vivere.


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CIAK, SI RACCONTA

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arlando di Dante Ferretti, Martin Scorsese si dice ancora sorpreso quando pensa che «uno degli artisti migliori che abbia mai lavorato nell’ambito dell’allestimento scenografico sia diventato uno dei miei collaboratori più validi». Basterebbe questa frase detta da uno dei grandi maestri di cinema per descrivere l’importanza dell’ultimo discendente di una stirpe di grandi scenografi italiani famosi in tutto il mondo: da Piero Gherardi a Danilo Donati a Mario Garbuglia. Ferretti ha iniziato lavorando al fianco di Pier Paolo Pasolini, diventando lo scenografo prediletto di Federico Fellini e continuando a lavorare con alcuni grandi maestri del cinema di oggi: Scorsese appunto, ma anche Tim Burton, e Terry Gilliam, Brian De Palma, Neil Jordan, Julie Taymor. Le sue scenografie lo hanno portato a vincere due Academy awards, tre Bafta, cinque David di Donatello e dodici Nastri d’argento. Quando ho incontrato Dante Ferretti la prima volta a Cinecittà per proporgli il documentario, ho avuto l’impressione di avere di fronte il Cinema, nella sua vera essenza e commistione di arte e artigianato. Dante, come racconta Tornatore nel documentario «realizza scenografie che non si lasciano imprigionare dai limiti del fotogramma». Lo ve-

devo camminare per il suo studio e mi sembrava un uomo apparentemente ruvido e diretto, che però si muoveva con un grazia inaspettata attraverso le centinaia di suoi disegni, libri e fotografie che lo circondavano. Ho pensato allora quanto questa sua immagine corrispondesse al lavoro di scenografo, che ha anche a che fare con qualcosa di solido, fatto di materiali e misure geometriche. E quanto questo sia necessario per arrivare alla bellezza, alla grazia e alla poesia di una scenografia: elementi fondamentali per qualsiasi grande film. Io ho realizzato alcuni documentari legati al cinema, raccontando e facendomi raccontare il dietro le quinte della “macchina cinema”, cercando così di far scoprire allo spettatore il mestiere che si nasconde dietro quei nomi che, il più delle volte, troviamo nei titoli di coda. È successo con Rosabella, la storia italiana di Orson Welles, in cui il periodo italiano di Welles era raccontato da quei direttori della fotografia, montatori, direttori di produzione che avevano avuto la fortuna di lavorare con lui. E così è stato anche per il ritratto che ho fatto del grande produttore esecutivo di Fellini e Visconti: Pietro Notarianni (Il dottor Divago) e per la famosa sartoria cinematografica e teatrale Tirelli (Sartoria Tirelli. Vestire il cinema). Ecco perché quan-


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LA MOSTRA La prima su uno scenografo Resterà aperta fino al 9 febbraio 2014. la mostra Dante Ferretti: design and construction for the cinema, inaugurata con una visita privata alla presenza di Martin Scorsese, regista con cui Ferretti ha vinto due dei tre Oscar ricevuti. La mostra è stata realizzata grazie al contributo di Cinecittà World per cui Ferretti ha realizzato le scenografie del parco a tema che sorgerà sulla Pontina a Roma e del cui grande progetto è esposto il disegno al Moma. All'interno della mostra è proiettato il documentario Dante Ferretti: scenografo italiano, di Gianfranco Giagni, prodotto da Cinecittà Studios, presentato con successo nel 2010 al Festival di Venezia, in vendita al bookshop del Moma.

Nel documentario dedicato a Ferretti esposto al Moma viene ripercorsa la sua carriera dagli esordi al successo

di GIANFRANCO GIAGNI*

do ho deciso di realizzare un documentario su Dante Ferretti e ho trovato il suo consenso insieme a quello dei produttori, che si sono detti disposti a imbarcarsi in quest’avventura, è stata per me una vera e propria festa. Ed è stata una festa la lavorazione: andare a parlare di cinema e delle sue scenografie con registi come Martin Scorsese, Terry Gilliam, Julie Taymor, Jean Jacques Annaud, Liliana Cavani, Giuseppe Tornatore; produttori come Harvey Weinstein; costumisti e arredatori premi Oscar come Gabriella Pescucci e Francesca Lo Schiavo; attori come Leonardo Di Caprio; amici come Valentino Garavani e Carla Fendi. Così come anche vedere le sequenze di film come Gangs of New York, The aviator, Shutter island, Kundun, Titus, Sweeny Todd, Ciao maschio, Ginger e Fred e farsi raccontare da Ferretti la genesi di alcune scenografie. E al di là delle fotografie, dei fuori set e dei materiali di repertorio che ho inserito, è stato emozionante entrare in contatto con quei suoi bozzetti, così pieni di colori e di passione verso il proprio mestiere. I testimoni e i film, insieme naturalmente a Ferretti stesso, hanno trasformato il nostro documentario in un viaggio: quello di un uomo poco più che adolescente che, partito da una piccola città delle Marche, arriva a Cinecittà e poi fi-

nalmente in America. Un viaggio con delle tappe ben precise. Si parte da Cinecittà appunto, dove Ferretti ha il suo studio e dove ha realizzato alcune delle scenografie più importanti per Fellini, Terry Gilliam, Martin Scorsese, Marco Ferreri ed Elio Petri. Poi le Marche, e Macerata in particolare, dove è cominciata la storia di questo grande scenografo, ragazzo innamorato di cinema, pittura e architettura. E ancora Torino, dove raccontiamo il Ferretti non soltanto scenografo cinematografico, ma artista capace di reinventare la struttura del Museo Egizio. New York. Dove abbiamo incontrato alcuni dei registi e un produttore fondamentali per la vita professionale di Ferretti: Martin Scorsese, Harvey Weinstein e Julie Taymor. E così alla fine di questo viaggio che è durato più di quarant’anni, il tempo della carriera di Ferretti, lo spettatore si accorgerà che raccontare la sua storia e il suo lavoro è diventato anche il pretesto per raccontare un mestiere, quello dello scenografo, nel quale l’eccellenza italiana, come accade per i costumisti, i musicisti e i direttori della fotografia, continua ad essere un esempio per chi fa cinema in tutto il mondo.

A sinistra: bozzetto di Cinecittà World Sopra: locandina del documentario su Ferretti copyright Dante Ferretti, cortesia Ufficio stampa Colapietro & Alì per Cinecittà studios

*regista del documentario Dante Ferretti: scenografo italiano


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a cura di BARBARA SANTINI

DOHA/1 Adel Abdessemed L’Arab museum of modern art ospita fino al 5 gennaio 2014 la mostra L’âge d’or dell’algerino Adel Abdessemed, diventato noto per la mastodontica statua raffigurante la testata di Zidane a Materazzi. E anche quest’opera è esposta nella sua personale nell’importante museo arabo. Abdessemed ha descritto se stesso come un ”artista di atti” e i suoi lavori sono ben noti per il loro forte impatto e la risonanza simbolica. Prende i materiali in grande considerazione, per poi diventare provocatorio nel loro utilizzo: ossa di cammello, oro, sale, ottone, gomma e terracotta assumono un nuovo e innovativo significato. Info: www.mathaf.org.qa

ROMA/1 Robert Capa Fino al 6 gennaio 2014 il Museo di Roma Palazzo Braschi ospita Robert Capa in Italia 1943 - 1944 curata da Beatrix Lengyel. Settantotto fotografie per parlare della guerra subita dalla gente comune, di piccoli paesi uguali in tutto il mondo ridotti in macerie, di soldati e civili vittime della stessa strage. Scatti in bianco e nero per raccontare il settantesimo anniversario dello sbarco degli Alleati con immagini che colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza e per l’empatia che scatenano in chi le guarda. Info: www.museodiroma.it

DOHA/2 Damien Hirst Una mostra che ha sollevato polemiche nel piccolo grande emirato arabo per la sua provocatorietà, incompatibile con i rigidi costumi islamici. Al Qatar museums authority di Doha, Relics la prima retrospettiva di Damien Hirst in Medio Oriente, curata da Francesco Bonami, in programma fino al 22 gennaio 2014. Installazioni, pittura, scultura e disegno attraversano l’intera produzione di uno degli artisti più controversi e apprezzati della sua generazione pronto a sfidare i confini tra arte, scienza e cultura popolare. Info: www.qma.com.qa/en

EDIMBURGO Louise Bourgeois ROMA/2 Jan Fabre Il Maxxi di Roma ospita fino al 16 febbraio 2014 Jan Fabre, stigmata. Actions & performance 1976-2013 una grande retrospettiva che racconta il lavoro di artista e performer di Jan Fabre in circa 40 anni di vita creativa, curata da Germano Celant. I 92 tavoli trasparenti che invadono gli spazi del museo accolgono oltre 800 tra documenti, disegni, thinking model, collage, film, foto, e oggetti iconici come costumi e sculture delle decine di performance e azioni, sia private che pubbliche. Info: www. fondazionem axxi.it

Lavori autobiografici, sculture e disegni, dal 28 ottobre al 18 maggio 2014: la Scottish national gallery of modern art di Edimburgo presenta Louise Bourgeois: a woman without secrets. Opere che esplorano i ricordi dell’infanzia o riflettono sui complessi rapporti con i genitori. Le sue creazioni sollevano domande universali sulla vita, sull’arte e sui ruoli femminili attraverso un vocabolario di motivi ricorrenti e l’uso di materiali che evidenziano l’interazione tra gli opposti (maschio e femmina, padre e madre, paura e calma, vulnerabilità e forza). Info: www.natio nalgal leries.org


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MARSIGLIA Le Corbusier L’atelier J1del porto di Marsiglia, inaugurato di recente, ospita la mostra Le Corbusier et la question du brutalisme. Fino al 22 dicembre, dipinti, sculture, arazzi e stampe vengono esposte per illustrare il lavoro pluridisciplinare di una delle figure più influenti nella storia dell’architettura e del design. Con la personale si vuole rendere omaggio non sono al maestro del movimento moderno ma anche a capolavori teorici di Le Corbusier come La ville radieuse: la città antropomorfica progettata per ristabilire un dialogo tra l’uomo e il suo spazio vitale. Info: www.mp2013.fr

CATANIA Louise Nevelson

LONDRA/1 Calder e Melotti

Louise Nevelson approda negli spazi espositivi della fondazione Puglisi Cosentino a Catania, fino al 19 gennaio 2014. Curata da Bruno Corà, la mostra annovera oltre 70 opere della scultrice statunitense di origine russa Louise Berliawsky Nevelson. Disegni, terrecotte, assemblage e foto per narrare il suo contributo allo sviluppo della nozione plastica nella scultura del secolo scorso. La sua opera occupa un posto di particolare rilievo, collocandosi tra quelle esperienze che, dopo le avanguardie storiche del futurismo e del dada, hanno fatto uso assiduo del recupero dell’oggetto e del frammento con intenti compositivi. Info: www.fondazionepuglisicosentino.it

Una coppia italoamericana per un progetto artistico che ha come concept la città di Spoleto. La Ronchini gallery di Londra ospita fino al 30 novembre Calder e Melotti: children of the sky in collaborazione con il Museo Carandente Palazzo Collicola di Spoleto curata dal direttore Gianluca Marziani. Esposte le opere dello statunitense Alexander Calder (1898-1976), in foto, e dell’italiano Fausto Melotti (1901-1986) per raccontare le storie di due artisti dalle tecniche e dai gusti estetici affini che hanno preso ispirazione dalla città di Spoleto. Info: www.ronchinigallery.com

LONDRA/2 Paul Klee Paul Klee: making visible esposta alla Tate modern di Londra riunisce disegni, acquerelli e dipinti del maestro svizzero, dai primi del Novecento alla fine degli anni ‘30. La retrospettiva di 130 tra quadri e disegni in 17 sale dimostra l’inesauribile creatività di Klee e la straordinaria diversità e complessità delle sue opere. Il curatore della mostra, Matthew Gale, ha deciso di seguire un ordine rigorosamente cronologico, seguendo le indicazioni dello stesso Klee, che con grande precisione scriveva su ogni quadro non solo l’anno ma anche il numero dell’opera. Fino al 9 marzo 2014. Info: www.tate.org.uk

PISA Andy Warhol A Pisa, Palazzo Blu ospita fino al 2 febbraio 2014 Andy Warhol. Una storia americana, curata da Walter Guadagnini e Claudia Zevi. La mostra propone 230 opere che ripercorrono l’itinerario creativo di Andy Warhol, grazie al lavoro di ricerca condotto negli archivi dell’Andy Warhol museum di Pittsburgh – che custodisce una larga parte del suo lascito e che concede il prestito di alcuni importanti lavori pressoché inediti in Italia – e al supporto di alcune storiche collezioni americane ed europee. Info: www.mostrawarhol.it


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VILLA MEDICI QUI SI COLTIVA LA CREATIVITÀ

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ono oltre 350 i dossier di candidatura inviati ogni anno per svolgere una residenza artistica a Villa Medici. Le richieste arrivano da tutti gli ambiti espressivi e riflettono sempre di più il carattere interdisciplinare della creazione contemporanea. Fondata nel 1666 da Luigi XIV come luogo di accoglienza e di formazione per artisti, l’Accademia di Francia a Roma mantiene fede alla sua missione e rappresenta oggi un laboratorio multiforme di creazione e di ricerca. Artisti e studiosi di diverse nazionalità vengono accolti a Villa Medici per un periodo di un anno o di diciotto mesi, durante il quale hanno la possibilità di sviluppare il proprio progetto nelle condizioni ideali, in un contesto di confronto e di dialogo con gli altri borsisti e con la città. Un’opportunità sempre più rara per chi lavora nel campo culturale e che costituisce un importante strumento di sostegno alla produzione artistica. Per l’anno 2013/2014 si sovrappongono due promozioni di pensionnaires. I primi 11 sono arrivati nello scorso aprile e altri 12 sono a Roma da settembre. Ancor più che in passato, sono presenti candidati di diverse nazionalità (ar-

Fondata nel 1666 da Luigi XIV come sede per l’accoglienza degli artisti l’Accademia di Francia a Roma continua a mantenere fede alla sua missione e oggi rappresenta un laboratorio multiforme di creazione e di ricerca di CESARE GIRALDI

gentina, armena, colombiana, francese, italiana, giapponese, israeliana, marocchina). I loro progetti attraversano linguaggi e discipline e contribuiscono ad arricchire il dialogo artistico tra Francia e Italia, in un’ottica di apertura verso gli altri Paesi. Quest’anno il Ministero della

Cultura e della Comunicazione francese ha avviato una riforma delle residenze artistiche a Villa Medici, con l’obiettivo di rafforzare il suo status di “Accademia”, di luogo di formazione orientato all’eccellenza, e di potenziare la dimensione internazionale di un’istituzione francese con

un’identità fortemente europea e connessa al resto del mondo. Per garantire l’accompagnamento artistico dei borsisti, verranno selezionati ogni anno non più di una quindicina di candidati, a cui si aggiungono, per soggiorni di qualche mese, alcuni artisti premiati usciti dagli istituti d’insegnamento superiore del Ministero della Cultura e della Comunicazione francese. Restano invariati i criteri di ammissione dei borsisti: il concorso è aperto agli artisti e ai ricercatori di tutte le nazionalità, con un’ottima conoscenza della lingua francese e di età compresa tra i 20 e i 45 anni. L’importanza che l’Accademia di Francia a Roma accorda a questa missione – chiamata mission Colbert – emerge anche nella programmazione culturale, che offre ai borsisti di oggi e di ieri uno spazio di primo piano. Attraverso il Teatro delle Esposizioni, la manifestazione annuale che permette agli artisti in residenza di confrontarsi con il pubblico romano, ma anche attraverso le esposizioni – fino al 19 gennaio 2014 è in corso la mostra del grande fotografo francese Patrick Faigenbaum, borsista dal 1985 al 1987 – gli incontri letterari e i concerti che tutto l’anno vengono organizzati a Villa Medici.


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LA MOSTRA Patrick Faigenbaum

A destra: Patrick Faigenbaum Avenue Vinohradska, Prague 1994 Sopra: borsisti attualmente in residenza a Villa Medici con il direttore dell’Accademia di Francia a Roma Éric de Chassey foto Malik Nejmi A sinistra: Teatro delle Esposizioni # 2 Delphine Coindet Podium Medici, 2011 foto Frédéric Piet

Dal 4 ottobre fino al 19 gennaio 2014 Villa Medici presenta la prima retrospettiva in Italia dedicata al fotografo francese Patrick Faigenbaum. L’esposizione è organizzata dall’Accademia di Francia a Roma in collaborazione con la Vancouver art gallery, che ne ha ospitato nel marzo 2013 la prima tappa. Curata dal critico Jean-François Chevrier e dall’artista Jeff Wall, si inserisce nell’ambito della 12esima edizione di FOTOGRAFIA – Festival internazionale di Roma e propone per la prima volta in Italia oltre settanta opere di varie dimensioni dell’artista, ripercorrendone quarant’anni di carriera: ritratti intimi, paesaggi rurali e periferie urbane, nature morte, un corpus di immagini che traccia una cartografia dell’Europa, dove le profondità della storia sono indissolubilmente legate al presente.


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L’ARTE THAI PARLA ITALIANO Parola di Amrit Chusuwan della Silpakorn university di Bangkok: «Ecco come un artista fiorentino ha cambiato la nostra storia» di SARA RELLA

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ersonalità centrale dell’arte contemporanea thailandese e tra le più rappresentative del continente asiatico, Amrit Chusuwan divide la sua intensa attività tra la sperimentazione artistica, l’insegnamento e la programmazione di iniziative artistiche e culturali. Lo incontriamo durante la sua visita in Italia, in vista della mostra che a novembre ospiterà i lavori di Alessandro Kokocinski negli spazi del Silpakorn art centre, la principale istituzione per lo studio e la diffusione delle arti in Thailandia. Del suo fondatore, Corrado Feroci, Chusuwan prosegue l’impegno nel promuovere una didattica basata sulla conoscenza delle radici culturali e sul confronto diretto con le opere di maestri di altri paesi. Feroci, sin dagli esordi, inviava i suoi migliori allievi a completare gli studi in Italia e, nel presente, Chusuwan è impegnato nella realizzazione di progetti che permettano agli studenti di conoscere il lavoro di artisti italiani. Come ha origine la School of art della Silpakorn university? «Tutto inizia circa ottanta anni fa, quando un giovane artista fiorentino giunge nella regione del Siam, l’attuale Thailandia, per lavorare alle opere volute dalla famiglia reale. Al suo arrivo in Siam è stato affascinato da quella terra, ma si è reso conto che ciò che mancava era una scuola d’arte. Lui era uno scultore, così ha pensato che avrebbe potuto fondare la prima scuola di belle arti. Quel giovane era Corrado Feroci.


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LA MOSTRA Stratigrafie di segni e sogni Alessandro Kokocinski realizza Stratigrafie di segni e sogni, una mostra itinerante in grado di accomunare la vocazione dell’arte alla poesia della vita, attraverso lo sviluppo della carta. Una novantina di opere, quasi tutte inedite, raccontano l’esperienza dell’artista come circense, teatrante e scenografo per intraprendere un viaggio didattico cognitivo in uno spazio in grado di comprendere i linguaggi più diversi. Dal 2 al 30 novembre al Silpakorn art centre di Bangkok. La mostra sarà poi a febbraio all’Himalayas art museum di Shanghai e al Centro cultural Recoleta di Buenos Aires nell’estate 2014. Info: www.kokocinski.org


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L’ARTISTA Amrit Chusuwan Amrit Chusuwan è nato a Nakhon Si Thammarat (Thailandia), il 22 aprile 1955. Dopo avere studiato pittura alla Silpakorn university di Bangkok si laurea in Polonia nel 1980. È stato tra i primi artisti thailandesi a provare l’utilizzo di nuove tecniche espressive. Le installazioni degli anni ’80 lo hanno reso un protagonista dell’arte contemporanea nel suo paese. Dagli anni ’90 ha iniziato a inserire video nelle sue installazioni. Le sue opere multimediali sono ricche di riflessioni scaturite dal pensiero buddhista, spesso integrate da domande sulle contraddizioni della vita in relazione alla pratica spirituale. Nel 2007, insieme a Nipan Oranniwesna, rappresenta il suo paese alla 52esima Biennale di Venezia portando l’installazione Being sand. È direttore del Silpakorn university art centre di Bangkok.

Prima ancora di lui, a dire il vero, c’era un altro italiano, Galileo Chini, che lavorava già da tempo ai dipinti del palazzo reale. Credo che sia stato proprio Chini a dire a Feroci vieni in Siam, è una terra piuttosto interessante. La realizzazione della prima scuola d’arte, a opera di Feroci, rappresenta il punto di partenza per l’apprendimento dell’arte moderna da parte della società thailandese. La scuola inizialmente aveva quattro grandi dipartimenti: scultura, pittura, archeologia e architettura. Feroci mandava gli allievi migliori a completare gli studi in Italia, molti dei docenti del primo periodo della Silpakorn, infatti, si erano formati in Italia. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Silpakorn school of art diviene ufficialmente università». A proposito di Corrado Feroci, nel 1960 pubblica un articolo in cui illustrava agli artisti thailandesi due percorsi nella realizzazione di opere d’arte. Da un lato li invita ad apprendere le tecniche di pittura e di scultura alla maniera occidentale; dall’altro li esorta a conservare i caratteri tipici della propria tradizione. Crede che questi suggerimenti siano stati seguiti dai suoi allievi? «Penso che fino all’arrivo di Feroci, non avremmo neppure potuto fare un raffronto chiaro tra cosa è Occidente e cosa è

Oriente, più semplicemente portavamo avanti il nostro modo tradizionale di fare oggetti d’artigianato. È stato lui a inserire un elemento di critica e un termine di paragone che ci ha permesso di distinguere tra arte e artigianato e, cosa ancora più importante, a quel punto ci è stato chiaro: noi non eravamo Occidente, eravamo Asia. Avevamo la nostra identità che non avremmo potuto riprodurre nelle opere semplicemente copiando o imitando altri. Le nostre radici, la nostra storia sono piuttosto diverse, ma ciò che è più importante è che, nel momento in cui conosciamo l’Occidente e allo stesso tempo abbiamo consapevolezza dell’Oriente, possiamo stabilire un confronto». Nell’opera presentata alla Biennale di Venezia del 2007, Being sand, che fa parte della doppia installazione dal titolo Globalization... Please slow down, affronta il tema della globalizzazione, può dirci un suo pensiero a riguardo? Ha a che fare con il preservare l’identità contro la tendenza generale dell’arte globalizzata? «A dire il vero non sono contrario alla globalizzazione. In Thailandia abbiamo il detto “slow but sure”. Il titolo Globalization... Plesase slow down significa che non possiamo stare al


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A destra: monumento a Silpa Bhirasri (Corrado Feroci) alla Silpakorn university di Bangkok Sotto: Amrit Chusuwan Being sand, 2007 A sinistra: l’ingresso dell’università In basso: studenti della Silpakorn university durante un'esercitazione A pagina 119: Amrit Chusuwan Inside out, outside in, 2008 A pagina 118: Alessandro Kokocinski Nascere per vivere la nostra morte, 2013 A pagina 117: Amrit Chusuwan foto Manuela Giusto

passo con lo sviluppo della globalizzazione. Se ci fermiamo a osservare, vediamo che nella nostra società molti avvenimenti accadono insieme e si sviluppano troppo in fretta. Facendo un passo indietro possiamo guardare dall’esterno l’evolversi di questi accadimenti e questo è molto meglio che fare un salto in avanti e lanciarsi a capofitto in una realtà frenetica, senza averne coscienza. In Being sand ho voluto trasferire in arte il concetto buddhista di illuminazione. Ho chiesto al pubblico di camminare a piedi nudi sulla sabbia; l’opera non è altro che l’esperienza della sabbia vissuta dal pubblico, puoi toccarla con i piedi e camminarci sopra. Ho chiesto loro di scrivere le sensazioni provate e in molti hanno lasciato commenti legati ai propri ricordi. Il Buddha dice che se vuoi conoscere devi rendere la tua mente neutra come sabbia, perché la sabbia non percepisce nulla, un animale può lasciarvi i suoi escrementi senza che questa mostri repulsione per l’odore; in altre parole chi ha la mente come sabbia ha raggiunto la condizione quiescente di vuoto mentale. Questa condizione è alla base dell’autoconsapevolezza. Così, se hai autocoscienza non ti immergerai nel vortice degli accadimenti. Anche a livello sociale possiamo fare un raffronto: in Thailandia siamo 70 milioni di abitanti. Di questi, 50 milioni

LA STORIA Un italiano a Bangkok Corrado Feroci nasce a Firenze il 15 settembre 1892. Dopo aver terminato gli studi artistici all’accademia di Belle arti di Firenze, si trasferisce in Siam, l’attuale Thailandia, dove ottiene riconoscimenti come artista e come docente. Nel 1932, grazie ai risultati prodotti dal suo primo corso di pittura e scultura per artisti locali e ai fondi ottenuti dal governo, istituisce la prima scuola d’arte siamese: la Silpakorn school of art. Nel 1943 la Silpakorn diventa università di Bangkok, la prima thailandese dedicata alle belle arti, di cui Feroci è stato insegnante e rettore. Nello stesso anno ottiene la cittadinanza thailandese e adotta il nome locale di Silpa Bhirasri. La sua opera di promozione culturale, fonte d’ispirazione per le successive generazioni di artisti, lo ha reso celebre come il padre dell’arte moderna e contemporanea thailandese. Info: www.su.ac.th

vivono di agricoltura nelle campagne: cos’è la globalizzazione per loro? Non siamo ancora pronti per immergerci nella globalizzazione, è quindi meglio rallentare, osservare, riflettere e fare una scelta consapevole». Può darci qualche anticipazione sui prossimi progetti della Silpakorn university? «Abbiamo due progetti che riguardano artisti italiani, il più grande dei due è frutto della collaborazione con Emanuele De Reggi: insieme abbiamo avuto l’idea di portare in Italia i lavori che Corrado Feroci ha realizzato in Thailandia per mostrarli al pubblico. Il progetto sarà realizzato tra un paio d’anni, forse a Roma, o a Firenze, visto che Feroci era fiorentino. L’altro progetto sarà realizzato a novembre: ho invitato Alessandro Kokocinski a esporre i suoi lavori alla Silpakorn. Grazie a questa iniziativa le sue opere saranno esposte per la prima volta in Thailandia». Dunque, la tradizione si rinnova? «Sì, e mi piacerebbe proseguire lo scambio artistico e culturale tra i due paesi, anche permettendo agli allievi di visitare l’Italia e vedere le opere originali, allo stesso tempo vorrei invitare gli artisti italiani a Bangkok. Stiamo lavorando per questo».


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NEW TAIPEI CITY MUSEUM OF ART Il New Taipei city museum of art, disegnato nel 2011, è composto da circa 1.100 container che creano le pareti dell’edificio. Una struttura dai bordi a "gradini” che si impone per il forte volume come una sculturaparatìa galleggiante sopra il paesaggio, trasportando i visitatori verso il futuro dell’arte contemporanea. L’edificio è attraversato da una passerella e da un ponte passeggeri che lo collega allo spazio circostante. A livello del terreno, la struttura aggettante fornisce una piazza pedonale protetta e ombreggiata. Il collegamento della piazza al piano interrato è adibito a mostre speciali. L’ingresso del museo al piano terra comprende una hall centro informazioni. All’ultimo piano, vicino a due ristoranti, è situato il museo dei bambini. Con una funicolare si accede al parco sul livello più alto. Un display digitale trasmette videoarte in piazza.

UNACOPPIA di MONICA MATERA

Sbarca in Italia il primo progetto del duo Ada Tolla e Giuseppe Lignano dello studio di progettazione Lot-Ek Al Maxxi l’allestimento per la mostra sugli architetti italiani all’estero Ricerca tecnologica, innovazione e sostenibilità edilizia attraverso il riadattamento di oggetti esistenti

I

n bilico tra due città distanti come Napoli e New York, ma dotate entrambe di una «forte energia» e complesse realtà sociali, nasce e si sviluppa lo studio di architettura e design Lot-Ek. Da una parte l’Italia, la tradizione e il rispetto per la storia che frena il rinnovamento, dall’altra gli Usa, un paesaggio «attuale, più ancora che moderno», in continuo modificarsi. Lot-Ek, low and technology, per un approccio sostenibile, innovativo e attento ai temi di mobilità e trasformabilità che porta Ada Tolla e Giuseppe Lignano a sfumare i confini tra arte, architettura e spettacolo tanto da essere considerati tra i più originali a livello globale. Fascino per il quotidiano e sensibilità alla cultura materiale per un lavoro imperniato sul riuso e sul riadattamento di oggetti e sistemi industriali esistenti non originariamente realizzati per l’architettura.


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READYMADE Abbiamo incontrato la coppia di architetti italoamericana alla terza edizione di Demanio marittimo km 278, una “12 ore” all’insegna dell’arte, dell’architettura, del design, del cinema e della letteratura curata da Cristina Colli e Pippo Corra sulle spiagge di Marzocca di Senigallia per farci raccontare di Lot-Ek e del loro primo progetto italiano previsto per il museo Maxxi di Roma. Due italiani che hanno fatto fortuna all’estero. Nel 1991, a Napoli, create Lot-Ek, lo studio di architettura e design, che nel ‘95 apre un’altra sede a New York. Come nasce e si sviluppa il vostro percorso? e in che modo l’atmosfera napoletana e quella newyorkese hanno influito sul lavoro? «Gli Stati Uniti in generale sono stati di grande influenza. Giuseppe e io abbiamo viaggiato per oltre due mesi negli Usa, nell’estate suc-

cessiva alla laurea in architettura, e siamo rimasti fortemente colpiti dalla potenza del costruito: quanto il paesaggio statunitense, urbano e non, sia attuale, più ancora che moderno, quanto sia capace di cambiare, modificarsi e rinnovarsi con una sorta di brutalità difficile da concepire venendo dall’Europa, dove la cautela e il rispetto per la storia inibiscono qualsiasi forma di cambiamento. Abbiamo immediatamente percepito un’enorme potenzialità in quella che abbiamo definito “natura artificiale”, cioè lo sviluppo né pianificato né tanto meno progettato di un mondo di oggetti, tecnologie, sistemi che crescono attorno all’architettura in maniera quasi organica. Mi riferisco ad arie condizionate, aeroplani, antenne, autostrade, baracche, cabine, camion, cartelloni pubblicitari, condotti, container, cumuli, gru, impalcature, parcheggi, scarti,


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LO STUDIO LOT-EK La coppia di architetti Ada Tolla (Potenza, 29 febbraio 1964) e Giuseppe Lignano (Napoli, 5 settembre 1963) si sono laureati in architettura e urbanistica nel 1989 all’universita Federico II di Napoli. Nel 1990-91 hanno seguito studi post-laurea alla Columbia university di New York e nel 1993 hanno realizzato il primo progetto newyorkese. Oltre all’attività professionale, Tolla e Lignano svolgono attività didattica presso la Columbia university. Per presentare il loro lavoro e la filosofia progettuale, sono spesso invitati da numerose università e istituzioni culturali internazionali. I progetti di Lot-Ek abbracciano diversi settori: architettura, urbanistica, design e installazioni d’arte. I lavori sono realizzati per diversi tipi di committenza (pubblica, privata, istituzionale) e in varie nazioni tra cui Giappone, Cina e Corea. Varie le monografie pubblicate sul loro lavoro. Gli oggetti e le installazioni d’arte e design di Lot-Ek hanno preso parte a numerose esposizioni internazionali entrando anche a far parte di alcune prestigiose collezioni come il Guggenheim museum di New York. Info: www. lot-ek .co m

A destra: Ada Tolla e Giuseppe Lignano

scatole, serbatoi, taniche, tubi, tunnel. La connessione tra Napoli e New York è tra due dimensioni urbane dotate di una forte energia in qualche modo parallela – entrambe caotiche, molto vitali, un po’ anarchiche. Città con dimensioni sociali complesse: Napoli tra le poche città non borghesi italiane, ancora caratterizzata da differenze di ceto ed economiche molto estreme e soprattutto dalla presenza, della vecchia aristocrazia e della classe lavoratrice – “blu collar”, per dirla all’americana. New York, con il suo gene etnico, e la presenza di mondi e razze e culture e religioni. Città di contrasti e convivenze strette, e di grande densità, costruita e umana, con la differenza che a New York si può vivere e lavorare, a Napoli meno». Lot-Ek è conosciuto a livello mondiale per l’approccio altamente sostenibile e innovativo. Il vostro lavoro in che modo si distingue dagli altri studi di progettazione che operano nello stesso ambito? «Il nostro lavoro si sviluppa da un’idea di “upcycle”: piuttosto che riciclare materiali, siamo interessati all’uso di oggetti, al riuso delle loro qualità e caratteristiche fisiche, e al mantenimento della loro leggibilità e di una certa essenza. Siamo interessati al nostro mondo così com’è. Siamo affascinati dal quotidiano, dall’ordinario, dalle distinte qualità di una cultura materiale che

non è – apparentemente – intenzionalmente eccezionale. Questo è il “low” in Lot-Ek: il paesaggio artificiale, costruito, “manmade”, e l’umiltà e banalità dei componenti generici che lo costituiscono. Alcuni di questi artefatti, come ci hanno mostrato artisti da Duchamp a Warhol, sono dei readymade di profonda bellezza e integrità». Spaziate da progetti residenziali, istituzionali e commerciali alla realizzazione di esposizioni e installazioni museali come il Moma, il Whitney museum e il Guggenheim. In quali progetti riuscite a esprimere più liberamente la vostra vena creativa? Da dove prendete ispirazione? «Osserviamo la maniera in cui questi oggetti esistono e si comportano nel loro habitat: la maniera in cui sono stoccati, impilati, trasportati, sistemati, dislocati o occupati. Studiamo le caratteristiche del singolo oggetto ma anche e soprattutto, le condizioni che emergono raggruppando oggetti, da due a duemila. Trasformiamo questi oggetti attraverso operazioni forti, tanto fisiche quanto concettuali, sfidando i limiti di semplici assemblaggi verso architetture più complesse. La trasformazione di questi oggetti è un’operazione di “upcycle” soprattutto in quanto è un’operazione creativa, di lavoro ed interazione tra l’oggetto stesso ed i requisiti funzionali del progetto specifico.


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IL PROGETTO Erasmus effect al Maxxi Erasmus effect è la mostra proposta al Maxxi, dal 5 dicembre al 25 maggio 2014, dedicata agli architetti italiani all’estero. Lo studio Lot-Ek ha realizzato l’installazione di un container continuo. Il progetto è ancora in fase di studio ma gli architetti ci hanno rivelato alcune anticipazioni: comincerà fuori del museo, snodandosi attraverso gli interni del Maxxi, in un percorso costellato di contenuti digitali e audiovisivi. I concetti che ispirano l’allestimento sono il taglio, lo spostamento e lo spazio. Il taglio è inteso come sradicamento dalla terra di origine e si materializza nello scomporre in più sezioni il container. L’idea dello spostamento richiama il senso del viaggio: trasferirsi, esplorare, trovare nuovi mondi e opportunità. Un’idea simboleggiata dalle porzioni del container provenienti da lontano, esattamente dalla Cina. Infine, lo spazio. L’uomo oggi vive in un ambiente globale, che si estende al di là dei confini. Nel lavoro, infatti, si ricollegano le storie e i progetti di oltre 50 architetti italiani, che hanno allargato il loro spazio di azione andando a vivere lontani gli uni dagli altri e affermandosi all’estero.

Non abbiamo mai distinto tra progetti d’arte – istallazioni d’arte o lavori per musei ed istituzioni – e proggetti commerciali». Attualmente insegnate alla Graduate school of architecture della Columbia university. In che modo il vostro corso interpreta l’architettura di domani? «La Columbia university è una grande piattaforma di scambio, un’opportunità continua per confrontarsi con il mondo dell’architettura in senso globale. In più il rapporto con gli studenti è un’interazione a cui diamo grande valore. Cerchiamo di insegnare cose che ci stanno profondamente a cuore, dal valore delle infrastrutture alla cultura del cibo – i sistemi di produzione, distribuzione e trasformazione, molto pressanti e altamente infrastrutturali specialmente nel mondo statunitense. Ma cerchiamo soprattutto di insegnare l’architettura con la A maiuscola, spingendo gli studenti a esprimersi con la loro voce, non attraverso scopiazzature e mode così facili da adottare in un momento di scambio mediatico diffuso come il nostro. Il corso più importante è quello che insegniamo all’ultimo anno, ultimo semestre del master, in cui gli studenti sviluppano una monografia, un libro che è il risultato di uno sforzo di espressione assolutamente personale per identificare il proprio interesse e possibile contributo all’architettura».

Il rendering del progetto allestitivo per la mostra Erasmus effect (cortesia degli autori) che si tiene al Maxxi da dicembre, ideato da Ada Tolla e Giuseppe Lignano, insieme al Project architect Francesco Breganze. Nell’immagine, elaborata dallo studio Lot-Ek, è proposta un’interpretazione del lavoro. Si nota la suddivisione in sezioni del container e la sua distribuzione negli spazi del museo. In arancione le linee grafiche parallele segnate sul pavimento e sulle pareti, che tracciano l’intera galleria. I piani paralleli creano un ritmo spaziale che completa i contenuti all’interno delle porzioni del container e sono ordinati secondo una linea temporale che dal 1930 arriva a oggi

Descrivete i progetti legati a una dimensione più propriamente artistica e quelli che Lot-Ek ha in cantiere. «Prima di tutto, un cantiere vero e proprio – la nostra prima casa ex-novo, Carroll house – finalmente iniziato a Brooklyn. Un progetto che riusa 18 “shipping container” in un assemblaggio più complesso, in cui i contenitori sono accumulati e il cumulo è poi tagliato in diagonale, con un’operazione più forte e coraggiosa e su una scala diversa. Esploriamo la dura bellezza di una precisione quasi violenta: ricordiamo le incisioni pionieristiche di Gordon Matta-Clark o di Lucio Fontana, e di altri artisti con sensibilità verso il ferro e l’aria, e una tagliente lama immaginaria. Secondo, il progetto più grande mai intrapreso dallo studio, la ristrutturazione del Pier 57, una struttura industriale di circa 40 mila metri quadri nel cuore di New York, a un passo dall’Highline e dal Meat packing district, che stiamo trasformando in spazio pubblico con attività commerciali e culturali, un grande parco e un cinema all’aperto. E infine, non meno importante, il nostro primo progetto in Italia, un allestimento per il Maxxi per la mostra di architettura Erasmus effect che si aprirà a dicembre e riguarderà gli architetti italiani all’estero. Un progetto in cui entriamo sviluppando il contenitore, essendo al tempo stesso parte del contenuto».


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LOT-EK/L’HITECH VESTE L’ARTE WHITNEY STUDIO Lot-Ek è stato incaricato di progettare uno studio d’arte per il Whitney museum of american art per ospitare conferenze, mostre e il programma di educazione del museo con attività rivolte ad adulti, ragazzi e famiglie. Il Whitney studio si trova nel cortile delle sculture di Palazzo Breuer su Madison avenue a New York. Composto da 6 container impilati su due livelli per formare un cubo, la struttura è percorsa da una finestratura diagonale continua che corre lungo due lati e il tetto per fornire la luce naturale e offrire ai visitatori del museo uno scorcio sulle attività realizzate. All’interno lo studio offre uno spazio a doppia altezza e un soppalco triangolare per la produzione e la visione di lavori artistici.

PIER 57 La ristrutturazione del Pier 57, iniziata nel 2012, trasforma il complesso industriale del molo newyorkese in un edificio aperto e pubblico che intreccia, dentro i suoi quattro livelli strutturali, l’ambiente esterno del River park Hudson con spazi interni per le attività culturali e il tempo libero. Il progetto è incentrato su mercati aperti – articolati attraverso il riutilizzo (o "upcycling") di container – con gallerie, ristoranti e vendita al dettaglio su più livelli, e un porto turistico con bar lungo l’esterno. Sul tetto il parco pubblico e l’anfiteatro, la nuova sede permanente per proiezioni all’aperto e spettacoli per il Tribeca film festival.

CYNTHIA BROAN GALLERY Completata nel 2005 a Chelsea, New York, la Cynthia Broan gallery è stata ricavata all’interno di un garage destinato alla riparazione delle auto. Allo spazio sono stati aggiunti quattro elementi mobili che permettono molteplici configurazioni delle aree espositive e la creazione di volumi diversi per ogni spettacolo. Lo spazio della galleria può crescere e diminuire secondo necessità. La sala video separa i due principali spazi espositivi bianchi creando un terzo volume scuro. La facciata è un sottile strato di vinile stampabile che viene steso sopra il vecchio muro di mattoni creando una superficie d’arte in continua evoluzione.


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PUMA CITY Disegnata nel 2007 e ultimata nel 2008, la struttura mobile destinata ad accogliere eventi, si compone di 24 container adattati e trasformati e completamente smontabili. I container, con il logo della società committente, sono disposti su 3 livelli e danno la possibilità di giocare con spazi interni ed esterni, creando sbalzi e terrazze. Al piano terra 2 moduli composti da 4 container open space, al secondo piano uffici, area stampa e magazzino mentre all’ultimo piano bar, spazio per eventi e un’ampia terrazza. Con i suoi 11.000 metri quadrati di spazio, Puma city è il primo edificio a essere realmente mobile e progettato per rispondere alle sfide architettoniche del suo genere. Tra i vari riconoscimenti, il progetto ha vinto nel 2009 il premio di architettura internazionale del Chicago athenaeum museum.

NEW JALISCO LIBRARY Disegnata nel 2005 nella città messicana di Guadalajara, la New Jalisco library nasce dal riciclo di oltre 200 fusoliere degli aerei Boing 727 e 737 orientate verso nord-sud per motivi di esposizione solare. Lo spazio all'interno delle fusoliere viene utilizzato per contenere libri, sale riunioni, uffici amministrativi e centri tecnologici. Un ampio atrio è destinato alle aree di lettura e a due auditorium. Il progetto è incentrato attorno al grande atrio vetrato. Un sistema trasparente a cristalli liquidi integrato nel vetro proietta sulla piazza delle immagini per presentare le attività della libreria.

TAICHUNG CITY CULTURAL CENTER Il Taichung city cultural center disegnato nel 2013 si impone come ponte tra la città di Taichung, in Taiwan, e il parco. Forma stabile ma dinamica, un rettangolo che rivela due triangoli simmetrici: uno lasciato a piano terra, adibito a museo di belle arti, crea un confine tra città e parco. L’altro, sollevato, contiene la biblioteca comunale e oltre ad aprirsi al parco crea un’ombreggiata piazza sottostante. Presenti spazi per eventi culturali, attività condivise e ambienti tranquilli per lo studio. Il centro è dotato di facciate e pareti-giardino con aperture che regolano la luce del giorno all’interno degli spazi e di sistemi per la gestione delle acque piovane e grige. Esempio di architettura sostenibile, l’edificio è costruito con 1.620 container marini.


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Il 12 ottobre ha aperto le porte il Camusac il nuovo museo d’arte contemporanea che raccoglie piÚ di duecento opere provenienti dalla collezione della famiglia Longo. Un esempio di mecenatismo del XXI secolo, destinato a diventare fulcro artistico della scena italiana e internazionale di FABRIZIA CARABELLI

LA RINASCITA


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DI CASSINO Spazio interno del capannone industriale del Camusac foto Brunella Longo


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È STATO UN PERCORSO LUNGO, SOSTENUTO DAL DESIDERIO CHE LA NOSTRA PASSIONE PER L’ARTE POTESSE CONCRETIZZARSI IN UNA REALTÀ DA METTERE A DISPOSIZIONE DI CHIUNQUE CONDIVIDA QUEL SENTIMENTO CHE L’INCONTRO CON UN’OPERA D’ARTE È IN GRADO DI OFFRIRE SERGIO LONGO

Eliseo Mattiacci Dove circolano le idee, 1992 foto Brunella Longo A destra: Shigeru Saito Composito, 2012 foto Brunella Longo

N

ella provincia di Frosinone, sovrastata dalla splendida Abbazia benedettina, sorge la piccola città di Cassino, anticamente centro di diffusione del monachesimo occidentale, in seguito soprannominata la città martire, poiché interamente distrutta durante la II guerra mondiale. A distanza di anni dalla sua ricostruzione, Cassino esce dalla sua condizione di provincialità, ripartendo in grande stile con un’importante opera di internazionalizzazione culturale: l’apertura del Camusac, il nuovo museo dedicato all’arte contemporanea. La realizzazione di questo spazio tuttavia non è che il risultato di un lungo percorso di ricerca e di raccolta, nato dai fruttuosi investimenti di Sergio Longo, imprenditore nell’ambito del settore edile, il quale ha imbarcato l’intera famiglia in quest’ambizioso progetto di collezionismo artistico, avvalendosi della sapiente guida dell’amico e critico d’arte Bruno Corà, l’attuale direttore artistico della fondazione. L’associazione culturale Longo è in effetti attiva sul territorio già da diverso tempo, con una collezione inizialmente chiusa al grande pubblico, diventata visitabile solo dal 1996, anno in cui la famiglia inizia a collaborare con l’università degli studi di Cassino. Da questa collaborazione è derivata un’intensa attività di organizzazione di convegni e iniziative artistiche, nell’ambito delle quali vengono commissionate installazioni, realizzate ad hoc da artisti d’importanza

internazionale, in diversi luoghi pubblici di Cassino. Il Camusac ha dato quindi forma alla passione e dedizione di una famiglia, che ha deciso di mettere a disposizione del pubblico «Una collezione di circa duecento opere raccolte nell’arco di venticinque anni», come la definisce orgoglioso Sergio Longo, fatta di nomi e di capolavori del panorama artistico italiano e internazionale. Quella che inizialmente era solo un’idea utopistica e lontana è diventata realizzabile grazie al sostegno di diverse strutture pubbliche e private e grazie a quella che è stata definita dall’ex rettore dell’università di Cassino Oronzo Pecere: «Un esempio di mecenatismo illuminato, di generosità civile, che ha messo la città nella condizione di completare in modo innovativo la sua offerta culturale e turistica». Un mecenatismo che Longo vorrebbe rendere simile al passato, mantenendo vivo il contatto tra committente, pubblico e artisti, sia consolidati che emegenti, attraverso forme di workshop sperimentali e, forse, anche di residenze d’artista, in modo da consentire ai suoi ospiti una creazione delle opere in situ e un contatto con i materiali e con il territorio. Un mecenatismo necessariamente diverso da quello del passato, ma pur sempre fondamentale per il nostro paese, che agogna oggi più di ieri a un disperato bisogno d’investimenti a sostegno della cultura. L’accrescimento considerevole di anno in anno della collezione ha spinto Sergio Longo a metterla a disposizione del pubblico


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in una struttura museale, con una rotazione che permetterà un ricambio periodico di opere. Queste ultime saranno accolte negli edifici industriali della Longo Spa, ristrutturati ad hoc dall’architetto Giacomo Bianchi, capannoni che contano una vasta superficie di circa 2.000 metri quadrati, ancora un po’ trasandati nel loro aspetto esteriore, nonostante siano costeggiati da un bellissimo sentiero di ghiaia con sei imponenti sculture in acciaio firmate Marco Tirelli. L’interno è ampio e lo spazio, forse ancora in fieri, si mostra in tutte le sue potenzialità. Pareti bianche spezzate da pannelli e da un paravento irregolare, dietro al quale altre si nascondono altre opere, tutte di grande valore artistico, tra cui illustri nomi della storia artistica italiana e internazionale, come Kounellis, Gallo, Paolini, Ontani, Lombardi e Anselmo. Tuttavia il museo non si limita al suo edificio centrale, ma si snoda intorno ad esso, insinuandosi ovunque, nel parco circostante, dove si ergono le sue sculture monumentali, e nei giardini limitrofi, attorno ai quali sorgono le abitazioni della famiglia Longo, integrate nel contesto con una naturalezza sbalorditiva. E’ così che da un lato s’intravede nascosta nel verde un’opera di Eliseo Mattiacci, dall’altro l’unicorno di Bizhan Bassiri e al centro del giardino La caduta di Michelangelo Pistoletto. Da un vaso sistemato sul prato spunta il Gesto vegetale di Penone, mentre attorno alla piscina della proprietà si erge la scultura Caduti di Olviero Rainaldi e sul

soffitto del patio esterno camminano le formiche del Mondo sottosopra di Paolo Bresciani. Il parco procede sul retro, dove una sorta di spiral getty di Beverly Pepper occupa quasi interamente lo spazio, accompagnata dal bellissimo ulivo inglobato nel marmo di Hossein Golba. Altre opere sono custodite all’interno delle residenze private, non aperte al pubblico, alle cui pareti spiccano i lavori di Thomas Lange e di Sampaio de Sousa, mentre il muro del salone è impreziosito dal Wall drawing n. 804 di Sol Lewitt. Oltre alla collezione permanente, il Camusac prevede l’organizzazione di esposizioni temporanee di personalità significative ed emergenti del XX e XXI secolo. A riprova di ciò, apre la stagione espositiva la mostra Infinito riflesso, nata dalla collaborazione tra Enrico Castellani e un artista giapponese, simpaticamente soprannominato Gennaro dalla famiglia Longo, a causa della difficoltà nel pronunciare il suo vero nome, Shigeru Saito. Quest’ultimo, da alcuni anni in Italia, ha tratto ispirazione dalle opere storiche del maestro italiano per la realizzazione delle sue sculture, che rivelano grande sapienza e originalità. A partire dal 12 ottobre, il basso Lazio vanta la presenza, in uno spazio decentrato, accanto a siti d’interesse storico, di un importante centro di arte contemporanea, alla stregua di ciò che soprattutto all’estero è ormai prassi consolidata: da un lato rivalutare le zone periferiche, dall’altro sfruttare i grandi spazi a disposizione fuori dai centri metropolitani.


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COLLEZIONI CASSINATI Il corpus di opere della fondazione Longo è aumentando di anno in anno fino al ‘96 quando è iniziata la collaborazione con l’università di Cassino Da dieci, ora i lavori sono duecento alcuni dei quali realizzati in situ di BRUNO CORÀ*

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e opere iniziali della collezione erano solamente dieci e appartenevano agli artisti Giovanni Anselmo, Marco Bagnoli, Antonio Gatto, Jannis Kounellis, Sol Lewitt, Eliseo Mattiacci, Vittorio Messina, Michelangelo Pistoletto, Renato Ranaldi, Eduard Winklhofer. Dalle prime scelte compiute si evidenziano immediatamente alcuni criteri condivisi dai Longo. Il primo criterio era costituito dall’individuazione di una temporalità storica da cui partire nella considerazione degli artisti e delle opere da scegliere. Tale frangente temporale fu individuato nella decade degli anni Sessanta quale spartiacque di quelle esperienze di linguaggi pittorici e plastici che segnano la fine dell’informale e l’avvento delle ricerche neoggettuali, concettuali, di arte povera, di arte minimalista e successive, orientate agli esempi di radicalità ideale e formale dei protagonisti di quelle tendenze. Il secondo criterio considerava che l’acquisizione delle opere fosse rivolta per lo più ad artisti viventi, con i quali si discuteva individualmente ogni aspetto relativo alla collocazione del loro lavoro nell’ambiente destinato ad accoglierlo. Da allora lo sviluppo della raccolta ha segnato, salvo eccezioni rare, quelle linee di orientamento oltreché l’ovvio aspetto di un’autentica qualità. In tal modo, mentre la collezione dell’associazione Longo raggiungeva nel giro di una decina d’anni un nucleo di circa duecento opere, la stessa Università di Cassino vedeva sorgere nei suoi ambienti e presso le sue sedi una decina di importanti installazioni in situ, talvolta di scala monumentale, rispondenti ai nomi di artisti quali Bizhan Bassiri, Christina Pizarro, Jannis Kounellis, Klaus Munch, Sol Lewitt, Renato Ranaldi, Antonio Gattomì, Vittorio Messina ed Eliseo Mattiacci. Nel corso di alcuni convegni di studio promossi dall’università e dall’associazione Longo intanto erano stati richie-


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A destra: Sergio Longo Sotto: Vista della mostra Infinito riflesso A sinistra: Bruno Corà e Ludovico Pratesi all’inaugurazione del Camusac visti attraverso l’opera Cabina di Maurizio Savini

LA MOSTRA Castellani-Saito, Infinito riflesso Infinito riflesso. Enrico Castellani – Shigeru Saito, a cura di Bruno Corà, è l’evento inaugurale dell’apertura del Camusac. Frutto della collaborazione tra il maestro italiano e l’artista giapponese, è non solo l’occasione per avviare la stagione espositiva della fondazione, ma anche un pretesto per rendere omaggio a un’importante figura artistica dell’arte italiana, quella di Enrico Castellani. A quest’ultimo si sono ispirati molti artisti delle giovani generazioni, che hanno convertito le sue opere in punto di riferimento per il proprio lavoro. Tra questi Saito che, arrivato da alcuni anni in Italia dal Giappone, è entrato in contatto con Castellani e, durante la sua permanenza negli spazi della fondazione Longo, ha elaborando una serie di opere, esplicitamente ispirate a quelle storiche dell’artista. Tuttavia nel concentrare la sua ricerca sulle superfici e sui rilievi della materia, il giovane artista rivela un tratto del tutto personale e originale. La mostra, fino al 12 gennaio 2014, mette a confronto le due produzioni, diverse, ma entrambe poetiche e frutto dell’intervento di due personalità culturali lontane, ma entrambe orientate nella stessa direzione.

sti progetti, dal carattere di “opere in situ”, per nuove installazioni urbane e nello stesso campus universitario, a Daniel Buren, a Mauro Staccioli, a Dani Karavan, a Hidetoshi Nagasawa e ad altri artisti partecipanti a quelle scadenze di riflessione condotte dalla cattedra di estetica per i rispettivi allievi partecipanti ai corsi. Ben presto, a partire da tali attività, la collezione Longo e quella stessa dell’università divenivano meta di interessi di studio e di visite amatoriali da ogni parte del territorio e dal resto d’Italia. Artisti di varia provenienza, galleristi e collezionisti transitavano e sostavano intanto con frequenza presso la sede della collezione dell’associazione Longo. Si aggiunge poi un gruppo di opere riunite secondo un ordine che le diversifica per la loro appartenenza a momenti o a distinzioni linguistiche nonché spesso generazionali o di appartenenza a momenti o tendenze ben definite. Per esperienza, raccolte come questa sono destinate a crescere negli anni a venire e questa odierna, dunque, non è che una tappa utile a riflettere su quanto si è già messo insieme per fruizione idealmente disponibile a quanti ne volessero prendere visione. Se, come previsto, le collezioni conosceranno lo sviluppo auspicato, Cassino e la sua università potranno vantare un nuovo primato, accanto a quelli di carattere storico-culturale già riconosciuti a questa generosa terra. Con questi pronostici, diviene reale e possibile la nascita di una nuova istituzione, una vera e propria sede espositiva d’arte contemporanea quale centro attrezzato e aperto pubblicamente ai giovani, alla città e al territorio, nella volontà di affermare nuovi obiettivi di sviluppo e richiamo, in una fase difficile della storia italiana ed europea. *curatore della mostra e direttore artistico del Camusac estratto dal catalogo, cortesia Edizioni Università di Cassino e dell’autore


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A Bologna un centro concilia la sperimentazione tecnologica con gli impulsi dell’armonia creativa Colori, design e opere convivono con la struttura della fabbrica nel cuore industriale dell’Emilia di ALESSIA BALLABIO

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ast. Manifattura di arte, sperimentazione e tecnologia, uno spazio inaugurato a Bologna lo scorso 4 ottobre, in un complesso innovativo di 25mila metri quadrati progettato dai giovani architetti di Labics vincitori del concorso indetto a livello internazionale. È adiacente alla storica fabbrica di Gd e alla sede centrale del gruppo Coesia, azienda leader nel settore delle macchine automatiche e della meccanica di precisione. Proprio qui sorge il Mast, nato su iniziativa di Isabella Seràgnoli, presidente di Coesia, che negli anni ha perseguito con tenacia questo progetto che verrà aperto, già da gennaio, al territorio. Un ambiente ponte fra l’impresa e il suo territorio d’origine, un investimento che tramite l’omonima fondazione no profit, vuole favorire lo sviluppo della creatività e dell’iniziativa tra le giovani generazioni, anche in collaborazione con altre istituzioni locali. Seràgnoli lo racconta come «un centro polifunzionale a disposizione dei collaboratori di Coesia e della comunità, che offrirà vari spazi tra i quali: una gallery per le esposizioni, un auditorium, un’accademia, un nido, un wellness, un ristorante

aziendale e una caffetteria». Un percorso che parte dunque dall’infanzia, con il nido già attivo dal 2012 e che attualmente conta 69 bambini ma che potrà ospitarne fino a 80, al quale si è aggiunta dal 2013 una sezione di scuola materna. Questa trovata è stata messa a punto in collaborazione con la società Reggio children, impegnata nella promozione dei diritti dei bambini, e sviluppando una metodologia di apprendimento basata sul lavoro collegiale e sulle relazioni profonde fra i bambini e le loro famiglie. Il percorso formativo trova la sua meta finale nell’academy, anche questa progettata con tecnologie all’avanguardia, aperta a tutte le scuole del territorio e pensata come luogo di sperimentazione e di approfondimento tecnologico. Al suo ingresso è collocata la Sfera di Arnaldo Pomodoro, una forma perfetta che tende all'essenzialità volumetrica esteriore svelando un interno fatto di ripetizioni geometriche o segmenti paragonabili a ingranaggi di macchinari nascosti dal massiccio contenitore, resi parzialmente visibili dalle spaccature e dai tagli che rompono la superficie levigata esterna, ingranaggi industriali che calzano a perfezione in questo contesto. Nella grande sca-

linata d'ingresso l’opera Collective movement sphere di Olafur Eliasson illumina l’ambiente e conduce verso l’accesso al teatro, anticipato dalla presenza nel foyer della scultura Shine di Anish Kapoor. La progettazione dell’auditorium ha portato a un oggetto unico a Bologna per dimensioni, 400 posti in uno scrigno sonoro vicino al centro della città, arricchito da una valenza polifunzionale: l’acustica è modulabile a seconda della tipologia di spettacolo, dai convegni al cinema in 3D, al teatro o alla danza. A svelare più che altrove la committenza è lo spazio espositivo, la gallery interamente ad accesso gratuito, articolato su due piani e dedicato all’esplorazione dei processi di innovazione tecnologica e imprenditoriale. Strumenti interattivi, postazioni multimediali e installazioni di realtà aumentata sommati per coinvolgere maggiormente i più giovani con un mix di tecnologia e arte. In occasione dell’inaugurazione è stata presentata in questo spazio un’esposizione interattiva sul mondo dell’industria meccanica. E poi ci sono i numerosi servizi ausiliari, tra i quali la caffetteria situata accanto al grande specchio d’acqua, che è


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GLI ARCHITETTI Labics, dai campus al Mast Labics è uno studio di architettura e pianificazione urbana con sede a Roma, fondato nel 2002 da Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori. Sin dalla nascita si è caratterizzato come uno dei più importanti studi italiani emergenti. Vince nel 2003 un concorso per il progetto di un Campus universitario a Rozzano, Milano. In occasione del Design vanguard appare sulla copertina di Architectural Record. Tra i numerosi lavori: il design concept e l’architettura di Obikà, un progetto di ristorazione internazionale con sedi a Milano, Roma, Londra, Firenze, New York, Tokyo, Toronto e Kuwait City; la Città del sole, un intervento di riqualificazione urbana a Roma; e il più recente complesso polifunzionale Mast di Bologna. Info: www. labics.it A destra: Brian Griffin, Liam steel fixer, 2005 (particolare) Nella pagina a fianco: La galleria del Mast A pagina 134: Il nido del Mast

considerata un polo d’attrazione per i suoi forti contenuti d’avanguardia essendo attrezzata con una cucina a vista per rappresentazioni di cultura gastronomica, il wellness e il ristorante dove si può trovare il celebre Coffe table di Donald Judd. Viviamo nel mondo occidentale, in quella che viene comunemente definita era post industriale. Molte fabbriche sono state chiuse e i processi produttivi delocalizzati in un’ Europa che sta cambiando volto per trasformarsi in un erogatore di servizi. Un passato industriale che nella sua iconografia rappresenta uno spaccato di storia sociale italiana e che nelle fotografie vive finalmente di una nuova memoria. L’ industria è spesso un grandioso spettacolo visivo, affascinante, da immortalare, e la fotografia, le cui immagini sono pensate e concettualizzate prima a tavolino, si colloca distante dalla pubblicità, fa appello allo sguardo del suo autore, alla sua creatività, alle sue percezioni dei luoghi e delle persone. Il mondo del lavoro ha trovato espressione nella prima edizione della Biennale di fotografia industriale, finita il 20 ottobre. La rassegna promossa dalla fondazione Mast con la collaborazione dei Rencontres d’Arles e la direzione


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artistica di François HébelHébel, si è articolata in ben 17 esposizioni ospitate in dieci differenti sedi storiche di Bologna, oltre che nel centro polifunzionale Mast. Attraverso un vasto arco temporale le mostre hanno rappresentato il lavoro, soggetto spesso trattato con indifferenza dal mondo della fotografia e dagli stessi fotografi, con stampe fotografiche, libri e proiezioni pubbliche: «Fin dalle sue origini nel XIX secolo – spiega Hébel – la fotografia è stata utilizzata dalle imprese ai fini della produzione, della comunicazione, dell’identificazione e della memoria. La promozione del marchio, il ritratto del presidente e la valorizzazione dei volti dei collaboratori, sono oggetto di tantissime commissioni per brochure, mostre o siti internet. La fotografia ha contribuito anche a far evolvere i processi sociali, mostrando la disumanità di certi lavori». Foto/industria ha coinvolto

quindi alcuni luoghi simbolo della città di Bologna idealmente collegati al nuovo Mast scelto come punto di partenza con I mondi dell’industria, una rappresentazione del lavoro dal Novecento a oggi attraverso una selezione di 200 immagini della collezione di fotografia industriale di Mast che consta di circa 1.000 fotografie ed è curata da Urs Stahel, ex direttore del Fotomuseum di Winterhur, ospitata nello spazio espositivo del Mast. Queste prime immagini, esposte fino a dicembre, saranno poi variate con cadenza semestrale. Illustrano il cambiamento nello scenario della produzione industriale, dei luoghi di lavoro, del prodotto, delle architetture e di come l’uomo si rapporta all’ambiente in cui opera. Un concept, questo, affrontato anche in alcune tappe della Biennale della fotografia industriale, come all’ex ospedale

degli Innocenti, dove Gabriele Basilico ha proposto Luoghi del lavoro, in cui l’artista sfidava prospettive e simmetrie per regalare una sensazione di movimento al cemento, e Massimo Siragusa, che con le sue luci ha dato vita alla mostra Labor limae. Il leitmotiv continuava, modultato da diverse contaminazioni, in altri angoli della città: da Rapporto annuale, dove l’occhio ironico di Brian Griffin illuminava lo spazio Carbonesi, a Materie prime di Harry Gruyaert, pioniere della fotografia a colori, accolto alla Pinacoteca nazionale di Bologna, fino alle testimonianze dell’apartheid negli scatti di David Goldblatt al Museo civico archeologico, con la mostra In miniera e all’Uomo e la macchina di Henri Cartier-Bresson a palazzo Pepoli, per concudere con gli scatti di Robert Doisneau, fatti per Renault, e Scor di Elliott Erwitt a palazzo Magnani.


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Anish Kapoor Shine, 2012 A sinistra: La mostra I mondi dell’industria esposta all’interno del Mast

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FORME SOSPESE NEL VUOTO Moneyless si esprime all’interno degli spazi pubblici dove le sue installazioni geometriche dialogano con l’ambiente circostante. I suoi lavori sono arrivati in molte città del mondo ma il concetto è sempre lo stesso: povertà di ALESSIO CARLINO

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a ricerca stilistica di Teo Pirisi, in arte Moneyless, nasce dall’elaborazione della forma geometrica come concetto portante di una matrice estetico espressiva che genera e costruisce strutture architettoniche in profondo dialogo con l’ambiente circostante. Il lavoro di Moneyless è stato recentemente protagonista di un progetto espositivo della 999 Contemporary gallery di Roma, Alea iacta est, mostra curata da Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, rivelando le diverse anime di un artista dalla eterogenea creatività che opera all’interno dello spazio pubblico attraverso installazioni tridimensionali e murales dalla cifra geometrica predominante. Abbiamo incontrato Moneyless per analizzare e comprendere le suggestioni e gli apporti che caratterizzano i suoi lavori dediti a narrare questa affascinante realtà delle forme. “Vedere con la mente. Una geometria per comprendere lo spazio senza percepirlo visivamente” è il titolo di un testo scritto da Lamberto Nasini, un incipit ideale per parlare delle tue opere perché il tuo lavoro si basa sulla costruzione di uno spazio impercettibile, architetture invisibili che dialogano con l’ambiente circostante. In che modo è iniziata questa ricerca sulla forma? «Mi hanno sempre attratto i prototipi automobilistici, quei bizzarri studi di aerodinamica degli anni ‘60 e ‘70 dove l’idea di automobile era un qualcosa di estremamente futuristico, più atto a impressionare che ad avere una funzione. Ho sempre disegnato geometrie e forme geometriche ispirate dalle più svariate cose, gli studi tecnici e di design aerodinamico penso siano alla base del mio interesse per la forma». La teoria platonica delle idee si riduce alla constatazione che la vera essenza di questo imperfetto mondo è la perfetta geometria. La matrice estetica dei tuoi lavori è riconducibile alle simmetrie della costruzione della forma, in particolar modo mi riferisco alle tue installazioni strutturali sospese nello spazio, da cosa è generata l’idea di appropriarti della tridimensionalità? «A dire il vero cerco sempre di evitare la simmetria nei miei lavori installativi, salvo pochi casi. Usare la terza dimensione per me è frutto di un processo di sviluppo e ricerca basato sull'evoluzione

della rappresentazione bidimensionale, è una sorta di complemento di concetti che si è concretizzato nel disegno e nello studio su carta». Schematizzare il tuo lavoro e ricondurlo al solo ambiente della street art è riduttivo. Se dovessi riflettere sulle tue opere lasciate in strada e quelle, invece, realizzate su supporti più canonici, presentabili quindi in contesti istituzionali, quali sensazioni nella loro creazione ti inducono a considerare in maniera diversa la tua arte? «Sotto il punto di vista del concetto di fare arte senza soldi le due cose vanno di pari passo, l’uso di materiali poveri e molto semplici per produrre un’opera d’arte è una delle basi fondanti del mio lavoro. Detto questo penso che ogni spazio abbia una sua funzione specifica, la forzatura di adattare qualcosa che è di per sé nata libera è una soluzione decisamente sbagliata, è bene secondo la mia visione distinguere le due cose ma, allo stesso tempo, avere dei punti di ricerca paralleli». La natura effimera e transitoria dei tuoi interventi è una componente con cui è inevitabile fare i conti. La loro memoria verrà tramandata attraverso le testimonianze fotografiche. Ti sei mai posto il problema della loro conservazione o in ultima analisi è il concetto stesso di transitorietà che rende affascinanti i tuoi interventi negli spazi pubblici? «Decisamente è la transitorietà il punto forza del mio lavoro installativo. Penso che nel mondo attuale nulla è certo e per sempre, preferisco all’arroganza di apparire a tutti i costi l’essere scoperto per poco tempo, per questa ragione ho deciso di lavorare con materiali effimeri e abbandonarli alle intemperie». “Il quadrato non è una forma del subconscio. È la creazione di ragione intuitiva. Il volto della nuova arte. Il quadrato è un neonato vivo e reale. È il primo passo di creazione pura nell’arte”. Questa affermazione è di Malevich che nel 1916 parlò di un nuovo realismo nell’arte, un realismo che si era appropriato unicamente di forme geometriche. Qual è secondo te il concetto di realismo? «Il realismo è per me un immaginario filtrato dalla mia mente, tutto quello che produco non sono altro che visioni di elementi concreti idealizzati dalla mia sintesi. Il realismo è soggettivo».


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LE MIE FORME SONO RIDOTTE AL MINIMO, ALLO STESSO TEMPO PORTANO UNA SPECIE DI TENSIONE INTENSA, UN MOVIMENTO INVISIBILE, LA MAGGIOR PARTE DEI MIEI MODELLI NASCONDONO MOLTEPLICI VISIONI E PROSPETTIVE DIVERSE CREDO CHE LA MIA ARTE PARLI ORA ATTRAVERSO LA GEOMETRIA A destra: Teo Pirisi In alto, da sinistra: Senza titolo serie Drawings 2012 Wood 002 serie Wood, 2013 A pagina 140, dall’alto: struttura Joshua Tree, 2012 Moneyless e Gaia in combo al sottopasso Ostiense di Roma, 2013 Senza titolo della serie Walls, Gaeta, 2013 cortesia dell’artista

L’ARTISTA Moneyless Teo Pirisi, alias Moneyless, nasce a Milano il 9 settembre 1980. Dopo essersi diplomato all’accademia di Belle arti di Carrara, ha frequentato un corso di specializzazione a Firenze in design della comunicazione. La sua ricerca artistica si esprime all’interno degli spazi pubblici dove le sue installazioni geometriche dialogano con l’ambiente circostante. Abbandonato il percorso del writing, dal 2004 sperimenta il linguaggio dell’universo geometrico. Le sue opere, presenti in molte nazioni, si stagliano in molteplici contesti eterogenei dediti a narrare le suggestioni di una ricerca basata sulla purezza e la semplicità dell’esistenza. Info: www.moneyless.it


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