IL SISTEMA: CASO PALAMARA

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Periodico edito dal "Centro Studi Officina Volturno"

ANNO XIX - NUMERO 216 - APRILE 2021

Copertina di Antonello Dell'Omo

GRATUITO

SCANSIONAMI

Aprile 2021

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Editoriale

di Antonio Casaccio

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uando ho iniziato a coltivare la mia passione per la scrittura, particolarmente per il giornalismo, non avrei mai immaginato di trovarmi alla tenera età di 21 anni a ricoprire il ruolo di direttore responsabile di una testata giornalistica. Soprattutto non avrei mai pensato di farlo in una realtà di ben 67 redattori, per la maggiore giovani che covano una passione smisurata per questo mestiere. Quando ho solcato la porta della redazione di Informare ero un giovane disilluso sulle sorti della società e della politica; ero perso unicamente nel disperato bisogno di “uno spazio di libertà” che potesse dar voce alle mie inchieste e alla mia attenzione verso chi giace ai bordi di una società ancora troppo miope. Col sudore e un sano coinvolgimento siamo riusciti a garantire ai nostri lettori un magazine di qualità, facendo passi da gigante per portare sempre più in alto una mission utopica: un giornalismo indipendente frutto della passione di chi crede nei sani valori della professione. Un percorso che non sarebbe stato possibile senza la guida di Tommaso e Angelo Morlando, due persone che resteranno centrali per la mia formazione umana e professionale; ognuno di noi deve a loro la capacità di lottare per princìpi che non potranno mai avere un valore di mercato. Vi starete chiedendo perché ne parlo in questo editoriale? Il numero di questo mese lo ritengo straordinario, con una prima pagina di grande impatto mediatico, un cazzotto allo stomaco ed un’esclusiva che ci arriva direttamente dalla Calabria, dalla penna del talentuoso Saverio

ANNO XIX - NUMERO 216 - APRILE 2021

Di Giorno. Parliamo di crisi della Giustizia, del caso Palamara che ha sconvolto il palazzo dei marescialli, creando un grande vuoto istituzionale e sfiducia nei cittadini. Ribadiamo che da parte nostra non verrà mai meno la fiducia nelle Istituzioni, che restano un punto di riferimento per tutti, ma occorre un cambiamento che parta dalle fondamenta: l’indipendenza della magistratura resta un pilastro costituzionale, così come la sua indipendenza dalla politica e viceversa. Sia chiaro: la politica NON deve più entrare nelle nomine inerenti la magistratura. Grazie all’aiuto di ogni singolo collaboratore, questo mese siamo stati nella Casa circondariale di Pozzuoli per far luce sul funzionamento dell’Istruzione all’interno delle carceri, ma non solo. Con Nello Trocchia abbiamo analizzato la storia e il presente della mafia romana, mentre abbiamo incontrato la senatrice Castellone (M5S) per discutere della campagna vaccinale e comprendere il nostro percorso verso “la luce in fondo al tunnel”. E a proposito di speranze, abbiamo analizzato il piano Next Generation UE per sottolineare due grandi assenti: la disoccupazione giovanile e il Sud. Non abbiamo dimenticato l’arte, anzi, oltre alle tante recensioni da sfogliare ci sono le interviste esclusive allo storico frontmen degli Osanna, Lino Vairetti, e al fotografo campano Antonio Biasiucci. Insomma: questa storia, iniziata nel 2002, continua a vivere nelle penne di ogni giovane che sceglie di non cedere al silenzio-assenso, nella voglia di libertà di ognuno dei nostri lettori.

Periodico mensile fondato nel 2002 Registrato al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n° 678 Edito dal Centro Studi Officina Volturno Presidente Tommaso Morlando

Sede Operativa Piazza delle Feste, 19 Pinetamare - 81030 - Castel Volturno (CE)

Tel: 0823 18 31 649

E-mail: redazione@informareonline.com IBAN: IT 83 V030 6974 8731 0000 0001 835 Direttore Responsabile

Hanno collaborato

Antonio Casaccio

Alessandra Criscuolo Angelo Morlando Anna Copertino Antonietta Cancello Antonio Casaccio Benedetta Calise Clara Gesmundo Claudia Tramaglino Donato Di Stasio Fabio di Nunno Fernanda Esposito Francesco Cimmino Giorgia Scognamiglio Giuseppe Spada Joel Folda Lorenzo La Bella Lucrezia Varrella Ludovica Palumbo Luisa Del Prete Marco Cutillo Marianna Donadio Mariasole Fusco Mina Grasso Nicola Iannotta Pasquale Di Sauro Rossella Schender Saverio Di Giorno Simone Cerciello Teresa Coscia Vittoria Serino

Caporedattore

Carmelina D'Aniello Vicedirettore Web

Daniela Russo Vicedirettore

Marco Cutillo Caporedattore web

Donato Di Stasio Rapporti Istituzionali

Antonio Di Lauro Responsabile scientifico

Angelo Morlando Responsabile legale

Fabio Russo Graphic Communications

Giancarlo Palmese Web master

Nicola Ponticelli

© 2021. È vietata la riproduzione (anche parziale) di testi, grafica, foto, immagini e spazi

COPERTINA

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Il caso Palamara non è chiuso

LIBRI “L’acqua del lago non è mai dolce”: Giulia Caminito scrive la vita vera senza sconti

ATTUALITÀ

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Next Generation EU. Che fine hanno fatto giovani e Sud?

Nicholas Tolosa: arte che guarda negli occhi

Cherif Karamoko e il suo sogno di giocare a calcio

La storia di Napoli a fumetti

Stampa: Teraprint srl - www.teraprint.it Chiuso il: 30.03.2021 - Tiratura: 5.000 copie

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STORIE

FUMETTO

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pubblicitari realizzati all'interno del magazine.

ARTE

LIBRI

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Palmese GRAPHIC

La creatività come antidoto. Un manuale di Rosaria Iazzetta

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SOCIALE La paura fa 90 e tanti altri numeri!

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La storia di napoli a fumetti Ogni mese su Informare

Informare non è solo parole, ma anche immagini! Da questo mese, e per ogni mese, sarà possibile ripercorrere sul nostro giornale la storia della fondazione di Napoli raccontata a fumetti, dall’artista Joel Folda. Colori, disegni e parole perché si sa, anche l’occhio vuole la sua parte.

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COPERTINA

il caso palamara non è chiuso Non solo Palamara, la Giustizia è malata e va riformata di Saverio Di Giorno

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l dott. Luca Palamara è considerato un’anti-Penelope che tesse trame per preservare il “Potere per il potere”. Nelle sue parole trovano una logica le indagini crollate come castelli di carte o altre fermate per trasferimenti o punizioni; notizie che si diffondono come fulmini a ciel sereno e distruggono carriere. La Giustizia non è più la classica dea bendata, ma una signora vispa, troppo spesso facile, che osserva e decide di conseguenza. La risposta di Palamara a questo, dopo tutto, è la stessa che fu di Craxi: “Così fan tutti!”. Lui stesso si è definito “deus ex machina del Sistema”, conosce le armi che possono essere usate contro di lui per esporre il capro espiatorio alla folla senza che agli altri venga chiesto conto di nulla; ecco perché ora è attento a ricostruire la sua figura, il suo ruolo. Ora che rischia di rimanere il solo e unico responsabile. L’impressione è che il Sistema fagociti anche chi viene innalzato e, in questo caso, anche Lei. Una questione morale che avrebbe dovuto interessare tutta

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Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra PIERO CALAMANDREI

la Magistratura, è diventata “solo e semplicemente”: il Sistema Palamara. Lei, unico colpevole. Molti citati nel Suo libro sembrano cadere dalle nuvole. Si sente scaricato? In fondo, pare che chiunque abbia mire o ambizioni di carriera non può fare a meno di scendere a patti con il Sistema; quasi nessuno, però, replica o smentisce quello che Lei denuncia. Pare ci siano stati, inoltre, anche problemi nella lista numerosissima dei testimoni. «Beh, i numeri parlano da soli. Su 133 testimoni indicati lo scorso anno dalla difesa per l'udienza disciplinare a mio carico, ne sono stati ammessi soltanto 7. La richiesta della difesa era quella di audire magistrati, ministri, collaboratori del Presidente della Repubblica, funzionari ritenendoli pertinenti e attendibili. Immediatamente, però, si è messa in moto la macchina per cercare di disinnescare ed evitare che ci potessero essere testimonianze imbarazzanti. Il tutto a scapito della verità. Amo troppo la giustizia e la toga per potermi sentire scaricato. La mia battaglia per la verità è ancora in corso e il successo del libro scritto con Sallusti, molto al di là di qualsiasi pronostico ottimista, dimostra che oggi la Giustizia si è trasformata in un tema di massa come peraltro già si comprendeva dal referendum indetto dal partito radicale nel 1987. Se da gennaio “Il Sistema” è ancora primo in

classifica e regge e supera, in termini di vendite, il confronto di autori affermatissimi e molto conosciuti da anni come Carofiglio, Murgia, Verdone, Obama significa che gli italiani sono interessati a conoscere i meccanismi che fanno funzionare la macchina della giustizia». Palamara è uomo del Sud. Le sue origini sono calabresi e sa bene cosa significa fare una scalata sociale. Al Sud si fa carriera attraverso le grandi inchieste che aiutano nella notorietà, ma è proprio da qui che partono i grandi attacchi al potere, poi azzoppati; si pensi al caso De Magistris. Nel suo libro spesso si alternano i grandi centri di potere e le procure meridionali. Sono camere di compensazione? Trampolini di lancio? Per avere successo, soprattutto politico, bisogna fare i conti con il Sud ed è facile avere scheletri negli armadi. «Mio padre, Rocco Palamara, era un importante magistrato molto legato alla sua terra. Il nostro Paese di origine si chiama Santa Cristina d’Aspromonte. Negli anni Cinquanta mio padre prese una valigia di cartone e partì per Roma. Sono quasi sicuro che sia stata proprio la sua figura di uomo coerente e coraggioso a trasmettermi l’amore per la Calabria e la devozione verso le istituzioni. Nel 1988 infatti mio padre venne a mancare colpito da un infarto nella sala verde del Viminale, proprio mentre da magistrato sottoscriveva decisivi trattati internazionali che consentirono fra gli altri la celebrazione di importanti processi tra cui anche quello di Pizza Connection di Giovanni Falcone, figura spesso citata dal mio genitore come esempio di coraggio e indipendenza». Le indagini di De Magistris (quando era magistrato in Calabria) furono sottratte illecitamente come ormai dimostrato. Parte del suo quadro investigativo forse troverà conferma in nuove indagini quali “Rinascita-Scott”, ma rimangono inesplorate altre parti delicate. De Magistris indagava quando il sistema era nel pieno delle forze e la procura di Salerno intervenne. Sentito in merito dalla stampa Gioacchino Genchi (all’epoca collaboratore di De Magistris) si espresse definendo la procura di Salerno “una procura importante, appannaggio delle scelte del potere”. Importante perché vigila sulle procure calabresi, ma anche perché “camera di compensazione del sistema campano”. Palamara individua grandi responsabilità nella corrente Magistratura Democratica. Dopo anni, la Procura di Salerno interviene (insieme al CSM) di nuovo indicendo di avere 15 magi-


strati calabresi sotto indagine. Di molti non si sa quasi nulla. Viene trasferito d’urgenza il procuratore Facciolla che indagava sui personaggi e politici renziani, anche se ora molte accuse sono state archiviate. Visti i nomi coinvolti viene il dubbio che si tratti di uno dei casi di cui Palamara parla nel libro: di cecchini ad hoc. Viene trasferito anche il procuratore generale di Catanzaro Lupacchini. Magistrato che ha firmato indagini importanti dalla banda della Magliana, alla strage di Bologna, fino a importanti interrogatori con Cutolo. Era entrato in contrasto con Gratteri sui metodi di conduzione delle indagini. I due erano stati auditi al CSM, ma prima dell’audizione Gratteri si è incontrato con Palamara. Interrogato su Facciolla, Palamara spiega: «Il Sistema è un meccanismo autoreferenziale che prova a tutelarsi sempre da tutto e da tutti pur di preservare sé stesso. Il Sistema spesso ha utilizzato strumentalmente indagini per trovare alibi con cui trasferire taluni magistrati o insabbiare alcune notizie e renderne note di segrete. Certo, il Sistema per funzionare ha bisogno di un clima di interazione e sinergia strettissima tra chi fa le indagini chi può pubblicare o non pubblicare una notizia e magari qualcuno dei servizi che vigila e agisce sulla stessa lunghezza d'onda». Sull’incontro con Gratteri per la questione Lupacchini, Palamara preferisce essere vago... «Nella mia esperienza ultraventennale nelle istituzioni posso dire di avere incontrato moltissimi colleghi e magari anche in più di una occasione. Che non ci fossero rapporti idilliaci tra Gratteri e Lupacchini lo sapevano tutti. A fine 2019 il Csm decise di spostare Lupacchini dopo alcune battute sul modus operandi di Gratteri, su quella che lui aveva definito "evanescenza di alcune inchieste". Ricordo però a tutti che Gratteri vive sotto scorta da oltre trent'anni e la sua azione, al netto dei numeri esponenziali degli arresti, è stata decisiva per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulla percezione della invasività della criminalità organizzata». Ora Gratteri pare essere in lizza per una promozione alla procura di Milano. Una procura che Palamara ha definito spesso un monolite, un tempio. Non è la prima volta che Gratteri prova ad uscire dalla Calabria: Renzi lo propose come ministro, ma Napolitano disse no. Al momento è impegnato con il maxi-processo alla ‘ndrangheta che ha visto l’attenzione an-

che del governo. Un processo che tra l’altro sta andando speditissimo. Milano è pronta a Gratteri? O viceversa, finalmente Gratteri ha le carte in regola per uscire dalla Calabria (a lui non è mai dispiaciuto d’altra parte, o sbaglio?) visto che prima è stato fermato. Sono cambiati i famosi equilibri di cui parla spesso? «Credo che un nome come quello di Gratteri sia molto ingombrante per Milano. Ne avrebbe senza ombra di dubbio tutti i titoli. Non so, però, come il Sistema che ha espulso, ad esempio, il sottoscritto possa reagire rispetto al suo nome. Vedo, infatti, movimenti; quindi è prevedibile che alla sola idea in Lombardia si stiano già formando anticorpi contro la sua nomina. La domanda suggestiva da porsi oggi potrebbe essere la seguente: l’interesse che c’è per Milano è dettato esclusivamente dal prestigio che questa Procura ricopre anche per i fatti passati di Tangentopoli, o non ci sono invece delle motivazioni attuali per le quali questa Procura riveste un'importanza strategica e quindi il Sistema vuole impedire a Gratteri, che generalmente è poco incline al compromesso, di accedervi? Quali contenuti non devono essere percorsi, valorizzati, esplicitati e magari non devono finire sulla stampa? Cui prodest?». Palamara è sibillino ed è difficile capire quali messaggi voglia inviare e a chi. Dice e non dice. Un’ultima questione è la caduta del “Conte 2”. Viene il dubbio che uno dei motivi per cui sia caduto è la riforma della giustizia Bonafede. Qualche anno prima i ministri Boschi e Salvini si erano incontrati con altri procuratori in una cena romana e già avevano idee simili tra loro in materia di giustizia e lontanissime da quelle di Bonafede. È possibile che abbia avuto più peso di MES e altre cose? D’altra parte la prescrizione è un tema delicato che tocca gli interessi di molti. Nelle settimane convulse di Conte si parlò di giustizia a orologeria in merito all’indagine su Cesa. Che ne pensa? «Ho letto un libro molto interessante scritto circa una quindicina di anni fa da Fabrizio Cicchitto "L'uso politico della giustizia". Parla spesso di giustizia ad orologeria e la documenta con una dovizia di particolari molto inquietante. Ecco, io credo che dovremmo tornare ad una corretta

tripartizione dei poteri senza ingerenze di uno sugli altri. Capisco la reazione nei primi anni Cinquanta ad una Magistratura che non aveva affatto preso le distanze dal Fascismo e quindi alla volontà della politica di recuperare questo gap antidemocratico favorendo una magistratura militante con idee antifasciste ben chiare. Ma in seguito ci sono state distorsioni imperdonabili per le quali è necessario fare una profonda autocritica. Credo che la prescrizione sia un tema delicato. Non si può farla franca approfittando delle lungaggini processuali, ma allo stesso tempo non si può rimanere imputati a vita come concepito dall’ex ministro Bonafede. In questo modo il rischio è quello di eludere le garanzie difensive e di confliggere con il principio del giusto processo previsto nella nostra costituzione. Non dimentichiamo poi che sul versante penale permane il problema delle carceri più volte sanzionato a livello europeo nell’ambito del quale viene sottolineata la necessità di puntare su misure di prevenzione del reato e sulla funzione rieducativa della pena. Sulla caduta di Conte probabilmente hanno inciso una serie di congiunture. È complicato in una fase geopolitica internazionale complessa - dalla elezione di Biden negli Stati Uniti alla necessità della Ue di avere garanzie sul recovery found individuare una sola causa di caduta».

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A TTUALITÀ

di Clara Gesmundo

«Covid, finalmente c’è la luce in fondo al tunnel» La senatrice Maria Domenica Castellone (M5S) spiega l’attuale situazione pandemica e i limiti della Sanità

L'Europa ha dato all'Italia ingenti fondi anche per appianare il divario creatosi tra Nord e Sud

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ono sempre stata caparbia ed ho maturato la consapevolezza che una persona deve utilizzare tutte le capacità che possiede per sviluppare il proprio talento e la propria passione», è così che inizia il suo discorso Maria Domenica Castellone, laureata in medicina e chirurgia all’Università Federico II di Napoli, membro del Senato della Repubblica Italiana dal 2018, vicepresidente del gruppo MoVimento 5 Stelle. Abbiamo avuto l’occasione di intervistare la senatrice, che ha espresso il suo punto di vista sull’emergenza sanitaria causata dalla Covid 19 e ci ha raccontato quali sono state le più rilevanti iniziative intraprese durante questa legislatura. Trasferitasi negli Stati Uniti, dove ha vissuto per tre anni per completare il suo percorso di dottorato, la senatrice ha dedicato la sua vita alla ricerca oncologica; alcuni suoi lavori sono stati pubblicati su riviste scientifiche prestigiose, tra cui Science, una di quelle di maggior rilievo nel panorama scientifico internazionale. Nel 2018 decide di mettere le sue competenze al servizio della politica e si candida nel collegio uninominale di Giugliano; così inizia il suo percorso di impegno politico al Senato, in Commissione Igiene e Sanità. Le battaglie che ha portato avanti sono fortemente connesse alla sua storia ed alla sua formazione professionale: Mariolina Castellone è la prima firmataria della

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La senatrice Maria Domenica Castellone nella redazione di Informare

legge 29 del 22 Marzo 2019 “Istituzione e disciplina della Rete nazionale dei registri dei tumori e dei sistemi di sorveglianza e del referto epidemiologico per il controllo sanitario della popolazione”, approvata in tempi record. Una misura di importanza rilevante in un territorio in cui l’incidenza delle patologie tumorali è molto alta; ad oggi – vale la pena ricordare che – abbiamo 47 registri in Italia, che coprono il 70% della popolazione. Resta fuori da ogni tipo di censimento un 30% di malati oncologici che non sono ancora registrati. «È una legge fondamentale perché ci permette di avere una fotografia

dello stato di salute del Paese e di quali siano le maggiori cause di morte, così da poter attuare un programma di prevenzione primaria e secondaria» - spiega la senatrice. «Quando la pandemia ci ha investito un anno fa, il nostro servizio sanitario nazionale non era pronto ad affrontarla, a causa di una fragilità derivante da anni di tagli, mancati investimenti, depauperamento della medicina del territorio. Alla nostra sanità manca una governance lungimirante perché le nomine dei dirigenti della sanità andrebbero sottratte alla politica». La seconda legge depositata dalla senatrice prevede infatti la revisione dei criteri di nomina dei dirigenti di Asl ed Ospedali. Negli Stati Uniti ha potuto confrontarsi con un tipo di ricerca finanziata e libera che poteva sfociare anche in «esperimenti più innovativi e fuori dalle linee progettuali finanziate», ma che potevano rivelarsi geniali. Questo non accade in Italia dove vi sono pochissimi fondi per finanziare la ricerca ed è per questo che ha

cercato di sensibilizzare la classe politica ad intraprendere politiche volte ad evitare la migrazione all’estero dei nostri giovani talenti, troppo spesso costretti ad andare altrove per veder riconosciuto il proprio merito. «Nel nostro paese – ci informa la senatrice – per formare un dottore di ricerca spendiamo circa 400.000 euro, questi investimenti li regaliamo ai paesi che ospiteranno queste nostre eccellenze, e io non credo che un paese lungimirante possa permettersi questo. Nei settori che promuovono l’informazione e la cultura molti paesi hanno investito, mentre noi abbiamo tagliato». Per quanto riguarda la pandemia da Covid 19, la senatrice è ottimista e ci parla di una battaglia che siamo destinati a vincere: «La luce in fondo al tunnel ora riesco a vederla, e ci riesco perché i paesi che hanno vaccinato la maggior parte della popolazione stanno dimostrando una ripresa, come Israele, quindi siamo ancor più certi che la via d’uscita è il vaccino. La rapidità è fondamentale, ancor di più la fiducia di ogni cittadino nelle soluzioni indicate dalla scienza». Riguardo le politiche dei tagli alla Sanità perpetrate dai passati governi, la senatrice Castellone ha ribadito: «Per quanto riguarda la Sanità io sono fiduciosa, uno dei punti fondamentali del piano nazionale di ripresa e resilienza, la missione cinque, riguarda l’inclusione e la coesione, perché l’Europa ci ha dato ingenti fondi proprio per raggiungere tale obiettivo, appianando anche il divario NordSud. Non approfittare di quest’occasione sarebbe impensabile». Infine, il dibattito si è focalizzato sugli screzi tra M5S e Rosseau, una collaborazione che la Castellone ritiene essere “essenziale”. «La democrazia partecipata deve rimanere uno dei pilastri su cui il Movimento si basa, poiché l’idea di utilizzare strumenti digitali che servano ad informare e formare i cittadini è una nostra prerogativa di cui andiamo estremamente fieri».


L EGALITÀ

di Donato Di Stasio

Giugliano: traguardo importante per la lotta alla criminalità ambientale

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irmato il contratto per la nuova caserma dei Vigili del Fuoco. La lotta alla criminalità ambientale nell’area nord di Napoli compie un altro passo: nelle prossime settimane, al Centro remiero di Lago Patria, sarà inaugurata una nuova caserma dei Vigili del Fuoco, con lo scopo di offrire maggiore sicurezza ai cittadini di tutta l’area e contrastare il fenomeno dei roghi tossici, veri e propri disastri ambientali in crescendo negli ultimi anni. Il 10 marzo, presso il palazzo comunale di Giugliano, c’è stato l’atto che precede gli ultimi accorgimenti da fare per la completa operatività della caserma: la firma sul contratto di comodato d’uso gratuito del Centro remiero tra i vertici dell’amministrazione comunale giuglianese e il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Napoli. Un risultato atteso da tanti anni non solo dai cittadini giuglianesi, ma anche da quelli dell’intero hinterland napoletano e casertano che, dal giorno d'inaugurazione della nuova caserma, potranno contare su una maggiore tempestività e capacità d’intervento da parte dei Vigili del Fuoco per sventare un possibile incendio o rogo tossico. Un traguardo sicuramente importante per chi in questa terra, definita in tutta Italia “Terra dei Fuochi”, ha perso un padre o una madre, un fratello o

Da sx Adriano Castaldo, Cap. Andrea Coratza, Nicola Pirozzi, Ennio Aquilino, Salvatore Micillo

una sorella, un parente, dopo il legame verificato e dimostrato tra criminalità ambientale e malattie oncologiche. «Finalmente una bellissima giornata per dimostrare ancora una volta il nostro impegno contro la Terra dei Fuochi. In pochi mesi, in piena pandemia, l’amministrazione comunale ha raggiunto un obiettivo fondamentale per la nostra terra. La firma di questo contratto è un primo momento di luce in una città difficile da amministrare e con tanti problemi – queste le dichiarazioni prima della firma del contratto del sindaco di Giugliano, Nicola Pirozzi, che poi precisa – Quella del Centro remiero sarà una sede provvisoria di distaccamento. A fine anno ci sarà il decreto definitivo e prevediamo, nell’arco di un biennio, di completare i lavori di quella definitiva, in

accordo ovviamente con il governo nazionale. L’importante, però, è avere già una caserma dei Vigili del Fuoco operativa a Giugliano perché il percorso da fare è stato ormai tracciato». Soddisfazione e orgoglio, invece, nelle parole di Salvatore Micillo, deputato del MoVimento 5 Stelle e componente della Commissione Ambiente alla Camera, colui che, insieme al sottosegretario del Ministero dell’Interno, Carlo Sibilia, ha a lungo combattuto affinché la terza città della Campania avesse una caserma dei Vigili del Fuoco, per opporsi ai continui crimini ambientali di questa terra: «Una firma importantissima per Giugliano, ma io penso anche per tutto il territorio, perché non sarà una caserma che servirà solo a questo comune.

È un progetto che parte da lontano e che abbiamo voluto fortemente, un cambiamento che dovrà dare risultati positivi a breve, insieme a quelli che continua a dare la legge 68 dopo cinque anni dalla sua introduzione, con i tanti arresti e le persone denunciate. Ov viamente, è la rimozione dei rifiuti la cosa su cui andare ad operare. Rimuovere i rifiuti significa dare meno linfa a chi vuole incendiarli sulle nostre terre». «La rilevanza di questo territorio, sia per il problema della Terra dei Fuochi sia per l’ordinario servizio ai cittadini, necessitava assolutamente di una sede dei Vigili del Fuoco. Nell’avvicinamento al traguardo finale di una sede permanente, partiamo da un distaccamento temporaneo diurno, a cui saranno destinati i mezzi e il personale per garantire il soccorso in quest’area e per offrire un servizio più tempestivo ai cittadini. Ho ritenuto questo progetto assolutamente prioritario e devo dire che ho trovato fertile sponda nei vertici dell’amministrazione», dice Ennio Aquilino, Comandante provinciale dei Vigili del Fuoco di Napoli.

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A TTUALITÀ

Next Generation EU. Che fine hanno fatto giovani e Sud?

di Giorgia Scognamiglio

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Italia è destinataria di circa 200 miliardi di euro di risorse nell’ambito del Next Generation EU e, entro il 30 aprile 2021, dovrà presentare la bozza del Piano (PNRR) all’Unione europea. Un’opportunità per rilanciare il Paese e combattere le conseguenze della pandemia da Covid-19, ma anche per modificare la strategia di progresso. Sarebbe opportuno, però, definire l’idea di sviluppo che si intende raggiungere. Accrescimento delle competenze e delle prospettive occupazionali dei giovani, riequilibrio territoriale e sviluppo del Mezzogiorno sono considerate “priorità trasversali” all’interno del piano, cioè prive di interventi specifici, ma che si prevede beneficeranno di riflesso delle altre missioni. Tradotto, ci sono ma non si vedono. L’ultima bozza, consegnata al Parlamento dal governo Draghi, è risalente all’11 marzo. Quasi tutti i giornali hanno parlato di una “riscrittura”, più dettagliata rispetto all’ultima bozza del 12 gennaio. In realtà, come hanno chiarito i ministri Enrico Giovannini e Daniele Franco, il PNRR recapitato alle Camere è quello preparato dal precedente governo. Si sviluppa in sei missioni: “Rivoluzione verde e transizione ecologica” (69,8 miliardi); “Digitalizzazione, innovazione e cultura” (46,2 mld); “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” (32 mld); “Istruzione e ricerca” (28,5 mld); “Inclusione e coesione” (27,6 mld); “Salute” (19,7 mld). Visti i tempi stretti, nonostante le polemiche e le aspettative del “miracolo Draghi”, non c’è stato alcun cambiamento significativo. Oltre il 95% delle risorse a fondo perduto è stato destinato a copertura di progetti già in essere; le altre saranno a debito delle giovani generazioni, probabilmente senza che queste ne traggano benefici. La bozza non concede un “pilastro” al tema giovani e la trasversalità rende difficile stimare le risorse effettive messe in campo. Tuttavia, secondo lo studio condotto dalla Fondazione Bruno Visentini, soltanto il 2% è destinato ai giovani, di cui solo l’1,1% per

la connessione con il mondo lavorativo. Una percentuale per niente confortante, soprattutto se letta alla luce dei dati. Nel 2019, il tasso di disoccupazione giovanile in Italia era intorno al 22,2%, il doppio della media europea, con Sicilia e Campania che raggiungevano il 53,6%. Con la crisi scatenata dalla pandemia, il quadro è peggiorato: l’Istat evidenzia una disoccupazione giovanile in rapida crescita, che si attesta al 30,3%. Il Parlamento Europeo ne parla come la preoccupazione maggiore dopo la crisi da Covid-19. Non a caso, le ultime linee guida della Commissione (22 gennaio) avevano chiesto di fare delle politiche pubbliche giovanili non solo un obiettivo trasversale, ma presupposto e priorità assoluta del Next Generation EU. Inutile dire che altri Paesi europei, seppur con dati meno allarmanti, hanno destinato ai giovani molti più fondi, oltre a dedicarvici un paragrafo specifico: la Francia ha previsto investimenti pari a 15 miliardi per le politiche attive del lavoro e alla formazione, la Spagna il 17,6% e il Portogallo l’8,6%. Per l’Italia, invece, un Paese con la percentuale di over 65 più alta dell’Unione e le spese per le politiche attive più basse, i giovani continuano a non essere una priorità, nemmeno all’interno di un Fondo che - con il suo nome - vorrebbe mettere al centro proprio le giovani generazioni. Ma questo all’Italia sarà sfuggito, visto che i più si ostinano a chiamarlo Recovery Fund. Come per i giovani, alle regioni del Sud è riconosciuta una priorità orizzontale per “Ridurre i divari territoriali e liberare il potenziale inespresso di sviluppo del Mezzogiorno”. Dell’intero pacchetto finanziario, secondo le stime della Fondazione Bruno Visentini, solo il 38% sarebbe destinato a iniziative nel Mezzogiorno. Una percentuale che potrebbe includere anche i fondi nazionali per la coesione e quelli ordinari europei, che ci sarebbero stati comunque, con o senza Recovery Plan. Se il governo applicasse l’algoritmo utilizzato dalla Commissione per at-

tribuire le risorse ai Paesi membri (PIL medio pro capite; numero abitanti; tasso di disoccupazione di medio-periodo, reddito nazionale lordo pro-capite), al Mezzogiorno spetterebbe quasi il doppio, vista la disoccu-

pazione tre volte superiore al Nord e il Pil pro-capite di circa la metà. In fondo, è proprio per ridurre questo drammatico divario che l’Ue ha deciso di assegnare all’Italia il maggior numero di risorse, consapevole che, per ripartire, occorre camminare insieme. Inoltre, essendo una tematica orizzontale, la programmazione è piuttosto vaga. Uno dei principali interventi previsti (se non l’unico ben definito) mira a colmare il gap infrastrutturale Nord-Sud, con la conclusione dell’autostrada Napoli-Bari, la velocizzazione della tratta ferroviaria Salerno-Reggio Calabria e l’upgrading delle linee regionali. Interventi necessari, sicuramente, ma soltanto nel momento in cui gli abitanti del Sud – e in particolare le giovani generazioni - avranno la possibilità di scegliere se restare o partire. Si tratta sicuramente di un resoconto parziale, forse prematuro, basato su bozze e non su programmi definitivi. Ma a meno di una sorpresa finale, giovani e Sud dovranno continuare a lottare per essere parte dell’ambito sviluppo di cui tanto si parla.

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L EGALITÀ

di Anna Copertino

«perseverare oltre ogni minaccia»

“È

stata lesa la libertà morale di Nello Trocchia cui è stato impedito di svolgere il proprio lavoro di giornalista. Se è vero che la libertà di informazione, come afferma la Cedu, è il cane da guardia della democrazia, allora il presupposto essenziale della democrazia è l’informazione, ossia la conoscenza dei fatti”. È questo il passo più eloquente del capo di imputazione a carico dei quattro esponenti dei Casamonica per i quali è partito un processo che vede tra le parti offese costituite proprio Nello Trocchia, giornalista campano, classe ‘82. È di pubblica informazione il processo che sta per iniziare e che la vede parte offesa costituito parte civile: cosa sente di dirci? «A breve inizia un processo che mi vede come parte offesa e costituito come parte civile, unitamente al Sindacato dei Giornalisti della Campania e alla Federazione nazionale Stampa Italiana. Mi spiace che non si siano costituite parti civili la Rai, né gli altri aggrediti dai componenti della famiglia dei Casamonica, con atti che colpirono anche quattro poliziotti (non costituiti). Mi rendo conto che possono esserci tante difficoltà, anche importanti come io stesso mi trovo a vivere. Io come parte offesa ho sentito di dovermi costituire, ma comprendo chi magari abbia deciso diversamente. Anche in passato,

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Nello Trocchia

ho cercato di tutelarmi rispetto a minacce alla mia persona da parte della camorra casertana, nello specifico rispetto al clan Belforte. Attualmente ho, a tutela della mia persona, una vigilanza generica che è quella che le istituzioni preposte hanno ritenuto opportuna al mio caso, che ho accettato. Le questioni rispetto a clan della camorra o ai Casamonica sono pubbliche. Intanto io continuo a fare il mio mestiere, magari usando maggiore attenzione ad alcune zone piuttosto che altre, raccontando ciò che va reso pubblico contro le mafie, la camorra e la corruzione in genere». Cosa sente di poter consigliare ai giovani che decidono di fare il giornalismo alla Fava, alla Siani e alla Trocchia, non perché “figli

di” senza favoritismi o altro, ma perché veramente sentono questo mestiere? «Il mio consiglio è quello di perseverare. Se è appassionato e vuole raccontare gli angoli bui di questo paese e illuminarli a giorno, deve perseverare. Oltre alle tante minacce, querele per diffamazioni o risarcimento danni, il contesto nel quale si fa questo mestiere, è un contesto molto complicato, ma non vi è nulla di eroico, nulla di straordinario: è giusto che si sappia quello a cui si va incontro». Paura e coraggio: due facce della stessa medaglia. Cosa sono per Nello Trocchia? «La paura è un sentimento incontrollabile che arriva e poi va via. Dico sempre, anche agli studenti, che quando c’è la paura bisogna

soffiarci sopra vita, costruire una vita piena, pregna, densa che possa ridimensionare quelli che sono i tempi della paura. Il coraggio è qualcosa che ti devi dare, ma non vivi questo mestiere come un atto eroico, ma come un atto di normalità: sempre con i piedi per terra, ascoltando le persone ed il coraggio ti può arrivare a compensare la paura che puoi vivere». Nello Trocchia resta il ragazzo di provincia, nato a Nola; nel salutarla le chiedo se ha realizzato i suoi sogni di bambino? «Ricordo che 20 anni fa prendevo una nave per Palermo perché ero diretto a Cinisi. Ricordo che arrivato li, Giovanni Impastato, fratello di Peppino, mi mostrò la casa dove Peppino aveva vissuto. Ci riuscii dopo un’ora e mezzo e fu la mia prima soddisfazione, anche se il giorno successivo, al Convegno Antimafia venni rimbrottato da un partecipante perché non l’avevo citato. Avevo solo 18 anni e mi fu subito chiaro, che al di là della felicità, questo è un mestiere dove non si arriva mai da nessuna parte, tutti i giorni ci si mette in discussione, cercando ogni giorno la notizia ovunque, perché le notizie ci sono, ma bisogna saperle ascoltare e raccontare. Quindi posso dire che oggi mi sento realizzato, felice di continuare ad avere lo stesso approccio di quando ho iniziato 20 anni fa».

Avv. Fabio Russo Penalista - Foro di S. Maria C. V.

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A TTUALITÀ

di Vittoria Serino

La “scuola del fare” nella realtà del carcere Intervista alla prof.ssa Caccavale della Casa circondariale femminile di Pozzuoli

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o scorso 11 Marzo Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, ha pubblicato il suo XVII rapporto sulle condizioni di detenzione intitolato “Oltre il virus”. Lo scopo dell’intervento è quello di “guardare oltre e provare a ragionare con sguardo critico su cosa abbia insegnato la pandemia al sistema penitenziario”. In particolare Antigone ha indagato sulle conseguenze che ci sono state sul sistema scolastico delle carceri e i dati che ne sono emersi sono ben lungi dall’essere confortanti: tasso di abbandono scolastico alto, i nt e r r u z i o n e totale delle lezioni in seguito alla prima ondata, generale difficoltà nel reperire gli strumenti tecnologici adatti. Tuttavia in Campania esiste una realtà che sembra essersi sottratta a questo generale clima di rassegnazione: la scuola carceraria di Pozzuoli. Questa è una sede associata del centro provinciale per l’Istruzione degli adulti (CIPIA) di Napoli provincia 1, diretto dalla professoressa Francesca Napolitano e si compone di un corpo docenti

che opera da diversi anni in modo sinergico con la direzione e l’area educativa della struttura carceraria ospitante. Ma come opera nel concreto la scuola? Per capirlo abbiamo intervistato la prof.ssa. Olimpia Caccavale che, ormai da 16 anni, insegna italiano alle detenute della Casa circondariale femminile di Pozzuoli. Come ha reagito la scuola all’emergenza COVID19? «In realtà, ben prima che la DAD diventasse obbligatoria, la scuola si è attrezzata con un megaschermo interattivo e numerosi tablet (rigorosamente senza accesso a internet). Il corpo docenti ha quindi continuato a garanti-

re un’istruzione giornaliera alle detenute secondo percorsi di istruzione di primo livello (licenza media), alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana per le adulte straniere e secondo livello (diploma superiore)». L’approccio educativo verso le detenute è diverso da quello del sistema scolastico classico? «Sì, tendiamo a fornire una didattica soprattutto di tipo laboratoriale. Questo perché la nostra è una “scuola del fare” ed i progetti che proponiamo (dalle attività teatrali a quelle di scrittura creativa) sono funzionali a garantire il recupero delle relazioni interpersonali piuttosto che impartire una formazione meramente nozionistica. In un contesto del genere infatti, oltre allo studio delle materie curriculari, diventa di fondamentale importanza imparare

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a stare insieme, gestire i conflitti ed affrontare lavori di gruppo». Qual è il feedback delle alunne? «Il numero delle iscrizioni è fortunatamente abbastanza alto. Le alunne sono molto motivate e, anche se le ragioni che le spingono a iscriversi possono sembrare banali, in realtà sono questioni indispensabili per la vita fuori dal carcere. Ad esempio per molte detenute straniere conoscere l’italiano è sinonimo di sopravvivenza: serve per saper interagire con avvocati e guardie. Altre invece sono analfabete e frequentano le lezioni per imparare a firmare le carte per l’uscita. Durante l’intervista la professoressa ha sottolineato, inoltre, come la scuola non debba essere una coercizione bensì un diritto per chi, avendo percorso strade ai limiti della legalità, si è visto sottrarre la propria libertà. L’articolo 27 della Costituzione Italiana afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducare dunque, non punire: questo deve essere il senso della realtà detentiva. E, se da un lato la scuola mira a cambiare il futuro dei detenuti senza infierire sul loro passato, dall’altro aiuta tutti noi a capire il valore dell’educazione intesa come riscatto e ci avvicina a un mondo troppo spesso relegato ai margini.

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Avv. Dario Desiderio

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S TORIE

di Alessandra Criscuolo

Cherif Karamoko e il suo sogno di giocare a calcio

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a storia di Cherif Karamoko racconta una vita di guerra, sangue e dolore. Ha vissuto le esperienze più terribili che un ragazzo possa vivere: la perdita dei suoi genitori e quella di suo fratello durante uno di quei viaggi della speranza che troppo spesso finiscono in tragedia. Lo ha raccontato in un libro, “Salvati tu che hai un sogno” scritto insieme al giornalista Giulio De Feo, furono proprio queste le ultime parole del fratello mentre lo assicurava al salvagente, prima di sparire nelle gelide acque del Mediterraneo. Perché il sogno di Cherif era giocare a calcio e lo raccontava sempre a tutti, quando tirava calci al pallone nel piazzale della scuola o nel campo profughi di Villa, in provincia di Reggio Calabria, dov’è arrivato dopo il naufragio. «Io volevo studiare, volevo prepararmi, ma soprattutto volevo giocare a calcio» e quando venne trasferito al centro di Battaglia Terme, iniziò a imparare la lingua e andare a scuola. «Non ho mai smesso di allenarmi, anche quando i miei compagni mi dicevano: “perché corri tutto il giorno?”. Volevo essere in forma. A Battaglia organizzarono un torneo tra profughi, fui nominato miglior giocatore ed una collaboratrice del centro si mise in contatto con varie squadre per farmi ottenere un provino. Parlai con l’Abano, poi arrivammo fino al Padova. Mi dissero che era molto difficile inserirmi nel vivaio biancoscudato visto che non avevo mai giocato in

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nessuna squadra. Ma alla fine ottenni un allenamento di prova. Vedevo giocare i miei compagni e non mi sentivo all’altezza, ma alla fine di quell’allenamento il mister Centurioni mi disse che sarei potuto tornare. Per otto mesi non ho potuto giocare, ma non ho mai smesso di allenarmi e quando ho esordito con la Primavera contro il Parma ho provato un’emozione fortissima». Padova ha accolto questo ragazzo e in tanti si sono preoccupati di aiutarlo, i compagni gli sono sempre stati vicini come quando si sono accorti che giocava con le scarpe di alcuni numeri più piccole e gliene hanno regalato di giuste. «I piedi mi facevano male, alla sera quando tornavo a casa il dolore era forte ma non mi lamentavo perché volevo raggiungere il mio sogno e so che senza sacrificio non si ottiene niente». Il mister Centurioni ha sempre creduto nel talento di Cherif e lo

ha portato in prima squadra fino a farlo esordire. «Quando mi hanno detto che ero convocato sono tornato a casa e ho pianto. Ero anche in Ramadan, ho giocato solo un minuto, ma non lo scorderò mai. Il Padova mi ha accolto in maniera meravigliosa, la città è splendida e non ho mai avuto problemi. Mi sento padovano». Cherif indossa la maglia numero due, scelta pensando a lui e sua sorella, gli unici sopravvissuti della sua famiglia e comincia a giocare in serie B come centrocampista del Padova. Ma il suo sogno è stato interrotto dalla burocrazia: il permesso di soggiorno provvisorio è scaduto nel 2020 e non è stato ancora rinnovato. «Avevo fatto richiesta di permesso umanitario, ma è stato soppresso dai Decreti Sicurezza. Sto aspettando il ricorso da un anno, vado avanti a permessi provvisori che non mi permettono di giocare». Ma i permessi provvisori legano lo straniero al cen-

tro di accoglienza e questo gli impedirebbe di spostarsi in trasferta o di avere una casa propria. «Non posso trascurare gli allenamenti, ma a causa dell’emergenza sanitaria non ho potuto frequentare una squadra. Senza il lavoro non ho più potuto aiutare mia sorella, cosa che mi fa soffrire». Ma Cherif non molla! «Mi alleno ogni giorno, a casa e nel parco vicino anche se non posso giocare. Voglio essere pronto per quando potrò rientrare in squadra. Io ho un sogno e so che per realizzarlo c’è bisogno di sacrificio e forza di volontà». È questo il messaggio che vuole lanciare ai ragazzi che vorrebbero seguire questa strada, non tutti hanno i soldi per potersi permettere i campi di preparazione e spesso si lasciano demoralizzare dalle difficoltà. Purtroppo non sempre i veri talenti vanno avanti, spesso solo chi può permetterselo economicamente ci riesce. Ma la volontà di raggiungere i propri sogni deve essere la forza che ci spinge a raggiungerli. Fermiamoci a riflettere su quali e quante possibilità realmente diamo ai ragazzi nello sport, mentre il circo della Serie A non si è fermato, le piccole società hanno dovuto arrendersi alla pandemia e alla chiusura delle attività per le serie minori. Forse chiamate così proprio per le minori possibilità che vengono loro garantite. Buona fortuna Cherif, sicuramente riuscirai a realizzare i tuoi sogni.


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M EDICINA

di Benedetta Calise

Il femminicidio: un meccanismo a due

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el 2018 si stima che siano 8 milioni 816mila (43,6%) le donne fra i 14 e i 65 anni che nel corso della vita hanno subito forme di molestia sessuale e, inoltre, che siano 3 milioni 118mila le donne (15,4%) che le hanno subite negli ultimi tre anni. Questi dati servono a farci rendere conto di quanto il femminicidio, nonostante le proteste, le denunce e le associazioni nate per combatterlo, sia un fenomeno che non si spegne e macchia la nostra società. Partendo proprio dal termine femminicidio, esso, cosa che forse molti non sanno, non è solo l’atto di uccisione della donna, bensì la sua svalutazione psicologica, economica e sociale, in poche parole l’uccisione morale della donna da parte dell’uomo, che spinge essa all’isolamento totale. Per affrontare questa tematica abbiamo intervistato il dott. Davide Visioli, psichiatra nel quartiere Sanità di Napoli, il quale nel corso della sua carriera ha avuto a che fare con svariati casi di femminicidio ed ha potuto analizzarne a fondo le cause e le dinamiche definite da lui “culturali” e “psicologico relazionali”. Dott. Visioli, in che modo il contesto culturale determina il femminicidio? «Ci sono sicuramente dei condizionamenti culturali che agiscono nella dinamica del femminicidio. Esistono, infatti dei luoghi

nel mondo, come ad esempio in Medio Oriente, dove la donna è trattata come poco più che un oggetto, non può neppure lavorare o andare a scuola; atti come l’adulterio vengono addirittura puniti con la morte con grande ignominia. Parlando, invece, del nostro Paese, in Italia le donne hanno combattuto per i loro diritti con molti sacrifici, fronteggiando ogni giorno una grande disuguaglianza. Basta pensare che fino al 1981 vigeva ancora il codice d’onore, ciò significa che l’omicidio da parte di un uomo a causa dell’adulterio, non veniva punito con l’ergastolo bensì con una pena ridotta. Inoltre, fino a non molto tempo fa, persino il reato di stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona, per cui non punito gravemente. Tutto questo per dire che il contesto culturale è fondamentale per determinare il fenomeno».

Dott. Visioli, cosa scaturisce nella psiche umana per arrivare a compiere tali gesti? «Quando accadono questi fenomeni normalmente si tende ad attribuire al fautore dell’atto terribile l’immagine di un mostro e di una persona malata, inquadrato quindi come un problema di carattere psicopatologico cioè di malattia psichiatrica. In realtà questo può accadere, ma molto raramente. Nella maggior parte dei casi si tratta di un meccanismo a due. È come se, nella psiche umana, si creasse una lotta tra le due componenti: da una parte la donna che, per vincere la scarsa stima di sé, crea uno pseudo amore, sottomettendosi a qualsiasi comportamento dell’uomo senza alcuna ribellione. Così facendo, in qualche modo si sottomette volutamente. Dall’altro lato l’uomo, che quando arriva a compiere atti così gravi,

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è allo stesso modo mosso da una scarsissima stima di sé e del proprio valore. Per vincere questa insicurezza cerca il potere, l’autorità e il controllo, sottomettendo la donna. Si crea, così, una figura di uomo inflessibile ed invulnerabile che per mantenere questa immagine di sé stesso non può concedere alcuno spiffero al ruolo che si è creato; ogni qualvolta, quindi, un atteggiamento della donna mette in dubbio questa sua posizione, incomincia a generarsi il processo di violenza e di passivizzazione esasperata. È un gioco a due che finisce tragicamente». Come si può mettere fine a questo terribile meccanismo? «La prima cosa è la consapevolezza, parlando da un punto di vista prettamente psicologico, ognuno dei due dovrebbe rendersi conto e rinunciare a questo ideale che si è creato. La donna dovrebbe iniziare a vedere l’altro per quello che è, senza salvaguardare il suo pseudo amore. L’uomo, dall’altro lato, per salvaguardarsi dal commettere atti violenti, dovrebbe rinunciare al ruolo di essere onnipotente e lasciare da parte questo assetto paranoico. Ovviamente nella realtà poi la donna dovrebbe scappare a gambe levate e soprattutto denunciare, perché solo attraverso la denuncia e l’aiuto da parte della giustizia, la donna riesce ad uscire allo scoperto e finalmente essere libera».

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A TTUALITÀ

di Marianna Donadio

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olo in Italia sono circa 7000 i pazienti affetti da Thalassemia, una malattia ereditaria del sangue caratterizzata da un’anemia cronica, mentre si stima che i portatori sani arrivino a ben 3 milioni. La Thalassemia, detta anche Anemia Mediterranea o Morbo di Cooley, porta al malato un’alterazione genetica che non consente al suo midollo osseo di produrre emoglobina in quantità sufficiente. I pazienti thalassemici necessitano di sottoporsi periodicamente, ogni 15 giorni circa, a trasfusioni di sangue e, ogni giorno per 12 ore, di sottoporsi ad un farmaco ferrochelante che mantenga i livelli di ferro nell’organismo al di sotto della soglia di tossicità. Questo tipo di malattia, come suggerisce il nome, colpisce maggiormente nel bacino del Mediterraneo, in tutte quelle zone che un tempo si presentavano paludose. Essendo questa una patologia congenita al momento non esistono farmaci in grado di eliminarla, ma attraverso le cure oggi si possono controllare i sintomi, migliorando il più possibile la qualità di vita del paziente, e la ricerca può fare ancora grandi passi in avanti. È proprio per finanziare e sostenere questa ricerca che nasce la Fondazione Italiana “Leonardo Giambrone” per la Guarigione

FONDAZIONE GIAMBRONE: FINANZIARE LA RICERCA PER LA CURA DELLA THALASSEMIA dalla Talassemia e Drepanocitosi. Ne abbiamo parlato con la presidente, Dottoressa Angela Iacono. Come nasce la Fondazione “Giambrone” e di cosa si occupa? «La fondazione che io presiedo è nata nel ‘92 per volontà di alcuni genitori come me che erano stanchi delle prognosi infauste che riguardavano i propri figli. Così ognuno di noi si è autotassato ed è nata la Fondazione, con un obiettivo ben preciso: cambiare il volto della malattia, migliorare lo stato di vita dei nostri figli, vedere un futuro, vedere un orizzonte. Obiettivo che abbiamo perseguito con tenacia finanziando la ricerca. Migliorare lo stato di vita significa

infatti finanziare dei progetti clinici che portino ad un miglioramento generale; cosa che è stata fatta partendo dai chelanti; se prima non ne avevamo nessuno ora ce ne sono tre, in modo da poter modulare la terapia attraverso la lettura dei depositi di ferro negli organi. Nell’arco di questi anni siamo stati precursori di tante cose. Siamo stati precursori della terapia genica, siamo stati i primi a finanziare uno scienziato americano, Michel Sadelain dello Sloan-Kettering di New York, che ha fatto i suoi studi prima sui topi, poi sugli scimpanzé e poi sull’umano. I primi trapianti fatti da lui non hanno avuto l’esito sperato e definitivo, ma hanno allungato l’intervallo trasfusionale. Oggi posso dire con grande soddisfazione che una volta i pazienti thalassemici erano seguiti in pediatria, nei centri trasfusionali,

Dott.ssa Angela Iacono ed il Generale di Corpo d'Armata Giuseppenicola Tota

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ora abbiamo coniato la parola thalassemologo e quasi tutti i malati hanno avuto dei centri mirati». Per le cure di un thalassemico è necessaria una grande quantità di sangue. Le donazioni che arrivano sono sufficienti? «La thalassemia major, quella del trasfusione-dipendente, richiede una trasfusione ogni 12 giorni con due sacche di sangue. Ma la cultura della donazione purtroppo è diventata solo un sogno, un po’ perché un grosso numero di donatori ha raggiunto l’età off limits e non può più donare, un po’ perché non è stato fatto niente di quello che le altre nazioni fanno già nei banchi di scuola, ovvero alimentare la cultura della donazione, il senso civico, il trasporto del cittadino verso i propri simili che ne hanno bisogno. Questa è una colpa che attribuiamo al Miur. Abbiamo chiesto a vari presidi e la maggior parte ci ha accolto volentieri, ciò ci ha permesso di spiegare ai giovani la necessità di questo loro gesto d’amore. Un’altra notizia di cui sono orgogliosa è la stipula, a metà febbraio, di un protocollo d’intesa tra la nostra fondazione e il Comando delle Forze operative Sud dell’Esercito. Oltre a sostenere la lotta alla thalassemia, l’Esercito si è messo a disposizione per la donazione di sangue a sostegno dei pazienti. L’attestazione di solidarietà da parte dell’Esercito ci ha commosso».

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A TTUALITÀ

di Rossella Schender

La missione yemenita di Giulia Maistrelli

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6.601,98 km circa dalle nostre coste, in Yemen, si consuma un conflitto da ben cinque anni. Gli scontri interni al paese, la distruzione delle strutture sanitarie e la carenza di personale medico qualificato oltre che di medicinali e attrezzature mediche hanno contribuito al crollo del sistema sanitario. La mancanza di acqua pulita e l’insufficienza di vaccini danno ampio spazio alle epidemie infettive di diffondersi. Medici Senza Frontiere opera sul suolo yemenita – così come in altre parti del mondo – per fornire assistenza in più di 20 strutture sanitarie. Dal 2018 a Mocha, centro portuale sulla costa ovest dello Yemen a circa 70 km dalla front-line dove ci sono i combattimenti, è stato reso operativo un centro di emergenza trauma-chirurgico 24 ore su 24 dotato di una sala operatoria e un reparto maternità. Giulia Maistrelli, ostetrica e operatrice umanitaria di Medici Senza Frontiere dal 2018, è partita per una missione proprio a Mocha nel luglio del 2020 rientrando in Italia solo lo scorso gennaio. Mocha è una zona altamente militarizzata, vista la presenza di diverse fazioni, ci si sente un bersaglio? «Più che altro, dato che esplosioni e sparatorie sono all’ordine del giorno, il pericolo principale è quello di essere colpiti come danno collaterale. Le armi a lungo raggio sono molto pericolose, il 6 novembre 2019, infatti, l’ospedale di Mocha è stato gravemente danneggiato ostacolando così la nostra capacità di fornire assistenza. L’essere di Medici Senza Frontiere è però un fattore protettivo: la comunità ha molto a cuore il nostro intervento». Quali sono le problematiche più frequenti legate alla gravidanza? «Il centro ha un reparto maternità nato per offrire solo chirurgia d’urgenza ma, nel tempo, si è attrezzato per offrire anche cure per casi complicati, complicanze post-aborto, post-partum quali emorragie, patologie ipertensive della gravidanza, travagli prolun16

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gati o ostruiti. Le donne spaventate dalla situazione provano a partorire in casa e, nel momento in cui incombe un’urgenza, sono troppo distanti dall’ospedale e arrivano in situazioni critiche. A volte occorrono giorni pri-

ma che si presentino al centro e dobbiamo far fronte a rotture dell’utero, complicanza peggiore da travaglio ostruito, o alla mortalità neonatale. Tra le problematiche maggiori ci sono i rimedi casalinghi provati pur di non met-

tersi a rischio. Ho per questo voluto incontrare le ostetriche e levatrici tradizionali del posto e organizzato quattro settimane di training di emergenze ostetriche neonatali e donato dei kit d’emergenza dotati di rianimatori neonatali per poter rendere il loro lavoro più semplice. Il loro senso del dovere è stato un fattore molto importante, spesso devono gestire situazioni difficili senza corrente elettrica, acqua potabile, farmaci e attrezzature. Generalmente in ospedale queste emergenze richiedono un’equipe di medici ampia e una batteria di medicinali da ospedale di terzo livello». Qual è il rapporto instaurato con i medici locali? «Il team è estremamente competente e la maggior parte di medici, ostetriche e infermieri yemeniti non sono di Mocha ma si son spostati per lavorare con Medici Senza Frontiere. È stata la prima volta nella mia carriera che ho dovuto quasi litigare con lo staff perché prendessero dei giorni di riposo o tornassero a casa. Sono persone che sentono il lavoro in ospedale come una missione di vita, hanno sete di conoscenza e voglia di aiutare il prossimo. Questo mi ha fatto crescere molto anche sul campo personale». Come ci si muove per le attrezzature mediche, per le medicine? «Alcuni medicinali e attrezzature sono locali, quindi si comprano in blocco. Avevamo poi un ordine internazionale ogni 6 mesi, c’era un grosso lavoro di pianificazione e organizzazione semestrale per anticipare quelle che potevano essere le esigenze della metà anno successiva. A causa del Covid ci sono stati dei ritardi nelle consegne ed è capitato di avere delle carenze, di antibiotici o vaccini per esempio, ma mai di farmaci critici». Continuerai a lavorare con MSF? «Sì, mi sto indirizzando verso i progetti contro la violenza sessuale: credo fortemente nei progetti che possono avere un impatto sulla qualità di vita specialmente delle donne».


E STERI

di Lucrezia Varrella

Crisi bielorussa

parlano le donne di Supolka: “un aiuto concreto dall’UE”

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a crisi bielorussa si è aperta ufficialmente il 9 agosto 2020, quando alle ultime elezioni Alexander Lukashenko è stato riconfermato presidente, nonostante l’enorme consenso maturato dalla leader dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaya. Sospettando i brogli elettorali (poi confermati, tant’è che la posizione di Lukashenko non è stata legittimata dall’UE), i cittadini si sono uniti contro il regime, non solo sempre più repressivo, ma ora anche illegittimo, di Lukashenko. Hanno così avuto inizio le proteste pacifiche, durate per mesi, in cui fiumi di persone inondavano le città, mostrando profonda disapprovazione per le nefandezze del governo. Ben presto, il regime ha risposto con ingiustificata violenza: i fiori del cambiamento sono stati schiacciati dalle armi della repressione, le marce silenziose rotte da torture e percosse. Attualmente, in Bielorussia, l’opposizione politica è annientata, la libertà di stampa non esiste più, come dimostrano le numerose condanne a carico dei giornalisti, e il diritto di parola, di opinione, di associazione, sono di fatto criminalizzati. «I colori della protesta sono vietati» spiega Alina, una delle donne di Supolka, associazione bielorussi in Italia; «l’altro giorno indossavo una mascherina bianca e rossa, in metro, e ho pensato che se fossi

stata in Bielorussia sarebbe bastato questo per arrestarmi». Come Roman Bondarenko, un giovane pittore che per difendere dei nastri bianchi e rossi è stato caricato su una camionetta e non è più tornato indietro, perché picchiato a morte. Quindi, dopo 7 mesi, cosa è cambiato? «In questi mesi la lotta non si è mai fermata. Ma ha cambiato forma. Non ci sono più le marce pubbliche, la gente in piazza, perché i rischi sono troppi. La violenza della polizia è indiscriminata, passano e portano via chiunque, anziani e minorenni, e anche se non hai fatto niente, potresti passare anni in prigione». Attualmente, infatti, i prigionieri politici, accusati di aver minato l’ordine pubblico, sono circa 300 e tra loro ci sono molti studenti, considerati sovversivi. Lara continua: «In Bielorussia ci sono poche imprese private, le università, le scuole, le aziende, è

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tutto statale e quindi di Lukashenko. È facile controllare i lavoratori e capire chi non è dalla parte giusta. Tanti docenti universitari, ad esempio, sono stati licenziati perché hanno mostrato solidarietà agli studenti in protesta». È il caso di una di loro, Evelina, che insegnava all’Università. È in Italia da poco, parla solo russo, le altre la aiutano a tradurre, ci tengono alla sua testimonianza. «Ho creato un gruppo su Facebook per garantire le elezioni libere, già si prevedevano gli illeciti». Tanto è bastato perché la sua vita fosse in pericolo. «Sono venuti a cercarmi a casa. Poi è arrivata la lettera di licenziamento all’Università, avevo turbato gravemente l’ordine pubblico». In Italia, Evelina ha creato una scuola online per insegnare la cultura, l’identità e la lingua bielorussa, che nel suo paese, paradossalmente, è vietata.

«Ecco, quindi, cosa è cambiato e perché». Ora la lotta si è spostata sul dialogo con gli altri paesi d’Europa. Tikhanovskaya, dalla Lituania, è pronta ad aprire le trattative con il governo, appoggiata dall’UE e dalla maggioranza dei cittadini. Al momento, solo gli aiuti e le sanzioni comunitarie possono essere determinanti nella lotta alla tutela dei diritti e delle libertà che in Bielorussia sono stati annientati. «Spero che i cittadini europei, conosciuta la nostra storia, siano solidali con noi. Se inaspriamo le sanzioni, il regime resterà senza risorse e sarà costretto a negoziare. Alcune università italiane, come quelle di Cagliari e di Padova, si stanno mobilitando per aiutare gli studenti detenuti in condizioni terribili, gettati a terra, senza neanche un materasso. Per aver espresso un pensiero contrario. L’unico aiuto concreto può venire solo da voi. Noi nel frattempo non ci arrendiamo». Sorridono, il loro senso di unione è davvero sorprendente. «A volte mi sveglio di notte con lo stomaco attorcigliato» dice Tania «penso ai miei parenti lì e ho paura. Alcuni li ho persi, allora non chiamo nessuno, mi abituo alla mancanza. Mi chiedo se ce la faremo, un giorno. E mi dico sì, ce la faremo, perché ora sappiamo di essere uniti».

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L EGALITÀ

di Luisa Del Prete

Un osservatorio civico sui beni confiscati a Giugliano Intervista al consigliere comunale Francesco Cacciapuoti

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uesta è un’intervista a Francesco Cacciapuoti, consigliere comunale di Giugliano, per parlare di come sono andati questi primi 100 giorni e capire l’esperienza di un ragazzo che, fino ad ora, ha dimostrato un grande impegno nel sociale con l’associazione Polis e vedere da questa nuova esperienza come adesso lui, rispetto a prima che poteva solo testimoniare i problemi delle persone, invece può anche risolverli in prima persona. Quali sono le tue impressioni, difficoltà e sensazioni dopo i primi mesi da consigliere comunale? «È una grande sfida anche perché le responsabilità adesso sono altre: se prima si portavano le istanze dei cittadini all’interno delle istituzioni, adesso sono diventato uno degli ingranaggi delle istituzioni. Essere giovane ed essere consigliere con due deleghe importanti - una alle politiche giovanili, l’altra ai beni confiscati - non è una cosa semplice perché da una parte c’è un certo scetticismo, si domandano come fa un ragazzo di 26 anni a poter promuovere iniziative come l’osservatorio civico sui beni confiscati, ad essere portavoce di un organo consultivo giovanile come “Il forum dei giovani”, che non era scontato dopo vent’anni di silenzio totale su questo territorio. C’è bisogno, quindi, di lottare all’interno delle istituzioni anche contro questa sorta di “scetti-

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Da sx Francesco Cacciapuoti e i ragazzi di Polis Francesco Bombace, Gennaro Riccio e Valeria Cardillo

cismo”, considerando che molto spesso i giovani hanno più esperienze e più capacità di problem solving e di gestione del territorio, e sentono proprio la missione di dover cambiare il prima possibile perché noi erediteremo nel futuro prossimo quelli che sono i frutti della politica degli ultimi 20 anni». Quali sono i tuoi risultati raggiunti fino ad ora? «Per adesso siamo riusciti a partecipare ad un bando di sport e legalità che dava la possibilità di accedere ad un fondo di 700mila euro: siamo risultati idonei e a settembre/ottobre avremo risposte; inoltre, abbiamo dato la possibilità a molte associazioni del territorio di poter finalmente avere un Comune ed un’amministrazione non sorda, ma propositiva. Ho raccolto due proposte che mi sono state fatte da due gruppi di

12 giovani e le ho seguite affinché potessero partecipare al progetto Cantiere Giovani, che dava la possibilità di finanziare progetti. L’ultima iniziativa è una proposta mia e dell’associazione Polis per avere l’osservatorio civico sui beni confiscati: unico comune che si dota di un organo consultivo sui beni confiscati in tutto il Sud Italia e questo è un grande risultato raggiunto insieme a Libera, CGIL, Legambiente, che hanno avuto un ruolo fondamentale. Giugliano ha 133 beni confiscati ed abbiamo il desiderio profondo di poter creare in quei beni economie sociali capaci di essere anche dei moltiplicatori di risorse e di bloccare questa emorragia giovanile, che decide di andare all’estero a studiare ed impiegare le proprie capacità intellettuali ed il proprio sapere da un’altra parte. Un’altra cosa che farà l’osserva-

torio, molto complicata ma concretamente attuabile, è quello di usufruire dei beni sequestrati. Il Codice antimafia del 2017 ci concede la possibilità di usufruire dei beni sequestrati e utilizzare quel bene per poter fare una serie di attività istituzionali prima che sociali, perché il bene sequestrato brucia di più alla criminalità organizzata rispetto ad un bene confiscato, dato che non è ancora perso nelle mani della camorra». Credi che a Giugliano sia possibile sconfiggere la criminalità e far vincere la legalità? «Il cuore dice sì, la mente dice che è complicato. È una battaglia lunga, è un percorso che deve essere fatto piano piano perché la Camorra non ci mette nulla a riorganizzarsi, a riadattarsi a quelle che sono le contingenze. La Camorra si combatte solo nel campo del lavoro, nel campo dell’istruzione. Abbiamo la zona ASI che è una di quelle zone industriali che hanno un grosso potenziale, perché oltre ad essere vicina all’asse mediano, è vicina alla stazione del treno e potrebbe diventare un interporto, data la vicinanza al porto di Napoli che adesso è interessato ad un progetto di ZESS da 900 milioni di euro e che diventerà uno dei principali hotspot del Mediterraneo. Ma soprattutto un altro elemento è quello culturale: entrare nelle scuole, far capire che la Camorra è il male e che bisogna abituare alle pratiche di legalità quotidiane. Per me è sì».


T ERRITORIO

di Antonio Casaccio

Castel Volturno... quale futuro? Il piano regolatore (PUC) resta ancora una chimera

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l Comune di Castel Volturno resta un osservato speciale, in ambito nazionale, per la sua riqualificazione e l’avvio di progetti importanti che dovranno impattare sul tessuto sociale del territorio. Le risorse sono tante ed il momento pare propizio per iniziare un vero e proprio cambio di rotta per un comune-regno dell’abusivismo. Per farlo c’è bisogno di strumenti necessari (come il PUC) e di una politica competente, che sappia intercettare risorse e programmare investimenti vincenti. Ce la farà l’attuale amministrazione di centrodestra guidata dal sindaco Luigi Petrella ad essere protagonista di tale cambiamento? Per capirlo abbiamo intervistato il primo cittadino castellano sui progetti in essere e quelli ancora fermi in cantiere. Sindaco, in vista della stagione balneare, verrà confermata la convenzione per la gestione dei parcheggi? «Rinnoveremo la convenzione con Coppola, dovremmo avere una proroga almeno fino a dicembre». Da questa risposta emerge una domanda inerente i tempi per l’approvazione del PUC, uno strumento essenziale anche per un vero “piano parcheggi”. Ricordiamo, ad onor di cronaca, che tale strumento è assente dal 1945, trasformando così il territorio in un’area senza regole. Quali i tempi tecnici del PUC? C’è la volontà politica di poterlo finalmente adottare? «La volontà c’è. Dall’incontro che ho avuto con il redattore del PUC, l’arch. Gerundo, è emerso un tempo tecnico per l’approvazione di almeno un anno e mezzo. Non abbiamo finito, c’è bisogno di fare maggiori valutazioni sui vincoli per poi passare alla fase dell’osservazione, dove il

Sui condoni abbiamo difficoltà nella fase istruttoria interna al comune, ma con la dirigente si stanno cercando consulenze esterne e nuovo personale Piano verrà discusso in Consiglio comunale e verranno accolti i pareri dei cittadini, delle associazioni di categoria etc. Una volta avuto l’ok sul lato urbanistico, ci sarà bisogno di acquisire i quattro pareri necessari». La scorsa amministrazione, però, affermò di avere il PUC già pronto al quale mancava unicamente la firma del dirigente comunale Fiorillo… «Ripeto: chiesi a Gerundo i tempi tecnici per avere il PUC a Castel Volturno e mi disse che ci sarebbe stato bisogno ancora di un anno e mezzo (sono passati già due anni dall’insediamento di quest’amministrazione e finora oltre che fare una domanda al progettista nulla è stato fatto ndr.). C’era bisogno di incaricare un progettista e lo abbiamo fatto selezionando l’arch. Pirozzi, dati i tantissimi impegni di Fiorillo. Adesso dobbiamo creare l’ufficio di piano, dove devono esserci ulteriori progettisti per seguire l’iter necessario e partire». Arriviamo ai condoni, ci sono circa diecimila pratiche ancora bloccate. I cittadini hanno presentato le domande per avere la licenza in sanatoria, parliamo in gran parte pratiche della L.47/85, tra poco saranno quasi 40 anni. Ancora, l'approvazione di queste pratiche porterebbe risorse per il comune non indifferenti e darebbe finalmente ai cittadini la possibilità di avere una proprietà libera e commerciabile. C’è la volontà politica ed il coraggio per affrontare questa situazione? «Abbiamo difficoltà nella fase istruttoria interna al comune. La dirigente all’Ufficio urbanistica Chiara Follera è alla ricerca di una struttura esterna che possa aiutarci, inoltre, a lei vorremmo affiancare tre professionisti per finalizzare celermente la situazione “condoni”». Qual è il suo parere sul supercondominio che si vorrebbe realizzare all’interno di Pinetamare? «Credo sia molto interessante. Le aree pubbliche dovranno restare a diretta responsabilità

dell’ente, ma ben venga il supercondominio, anzi, auspico possano nascere anche in altre località del nostro comune». Sappiamo che durante le mareggiate il lungomare di Pinetamare, viene ricoperto dalla sabbia, un problema che crea grandi difficoltà alla viabilità. Purtroppo rileviamo un intervento lento di rimozione di questi detriti. Perché? «Lo schifo che c’è sul lungomare è colpa dei lidi. La rimozione dovrebbe essere a loro carico, ma il Comune ogni anno deve rimetterci 7/8mila euro per risolvere la problematica. Molti amano dar fiato alla bocca, mentre scaricano sul Comune quelle che in realtà sono loro responsabilità». Quali progetti sono stati già approvati e finanziati sul territorio? «Riguardo il ponte sul Volturno, abbiamo già firmato il contratto con la ditta che se ne occuperà. Nel giro di poche settimane partiranno i lavori. Per il ponte di Lago Patria abbiamo effettuato lo scostamento di bilancio da 470mila euro, inoltre, il dirigente Fiorillo ha già preparato la manifestazione d’interesse semplificata, individuando quattro ditte dalla white list della prefettura. Una procedura celere che dovrebbe permettere l’inizio dei lavori tra pochi mesi». Riguardo i lavori per la banchina nautica sul lungo fiume del Volturno presso la foce? «C’è stato un rallentamento dato che il progetto prevedeva dei piloni immersi nel fondale di 1.20m di diametro, per tale ragione abbiamo proceduto ad una rimodulazione del progetto originario. La banchina partirà dal ponte fino al Castello. Al culmine del percorso stiamo prevedendo un mercato del pesce». Più fonti hanno affermato la presenza costante e ufficiale di Domenico Giancotti, ex assessore all’Ambiente nell’amministrazione Scalzone (sciolta per camorra), all’interno del comune? Corrisponde al vero e in tal caso come giustifica questa presenza? «No, sul comune Giancotti non è presente. A me non interessa quello che fa il sig. Giancotti e con chi parla al bar». (Nota della redazione: specifichiamo che dopo questa intervista è stata diffusa dal giornale CasertaCE una foto del Giancotti all’interno del comune, al tavolo con alcuni consiglieri. Raggiunto al telefono dalla nostra testata, il sindaco, contrariamente a quanto detto in questa intervista, ha affermato che il Giancotti è in realtà rappresentante locale della Lega. Tutto ciò inficia la credibilità del sindaco Petrella, visto che a distanza di pochi giorni, è stato capace di smentire sé stesso! L’intervista è registrata!) Aprile 2021

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Speciale

Teatro San Carlo

SALOME di Richard Strauss

Continua il nostro sostegno al Teatro più bello del mondo di Angelo Morlando

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onostante le innumerevoli ed evidenti difficoltà del periodo, il Teatro San Carlo sta provando ad andare avanti. L’Istituzione è sacra, lo ricordiamo da sempre, pertanto, continueremo a sostenere le iniziative del Teatro più bello del Mondo. Di seguito l’introduzione ufficiale all’opera: “Il pubblico napoletano ha sempre amato le opere di Richard Strauss, presenti da un secolo al San Carlo più frequentemente che in altri teatri storici italiani. L’ultima Salome di Manfred Schweigkofler torna in scena dopo sette anni, affidata alla direzione di Juraij Valčuha. Il dramma in un solo atto, tratto quasi integralmente dalla pièce di Oscar Wilde, fu presentato al pubblico tedesco per la prima volta nel 1905 e conobbe subito un successo internazionale mai venuto meno. La forza drammaturgica del testo, ai suoi tempi scandaloso, è resa da una invenzione musicale mirabile che fissa l’episodio

di ambientazione biblica in un orizzonte senza tempo e sempre contemporaneo per lo spettatore, investito dalla potenza dei suoni come dalla bellezza raggelante della luna. L’epilogo è annunciato dalla scena più famosa, la lunga e sensuale danza di Salome che ottiene la promessa di Erode di poter possedere per la sua malata passione, la testa di Jochanaan, ossia Giovanni il Battista. L’organico orchestrale previsto dalla partitura è imponente e contribuisce a trascinare lo spettatore in un vortice ipnotico irresistibile”.

Dramma in un atto Libretto di Hedwig Lachmann, dal poema omonimo di Oscar Wilde Direttore | Juraj Valčuha Maestro del Coro | Gea Garatti Ansini Regia | Manfred Schweighofler Scene | Nicola Rubertelli Costumi | Katrin Dorigo Ruolo, Interprete Erode, Roberto Saccà Erodiade, Lioba Braun

Salome, Vida Miknevičiūtė Jochanaan, Johan Reuter Narraboth, Matthew Newlin Il paggio di Erodiade, Jurgita Adamonyte Cinque Giudei, Cristiano Olivieri, David Ferri Durà, Pietro Picone, Gregory Bonfatti, Antonio Feltracco Due Nazareni, Roberto Abbondanza, Christian Hübner Due Soldati, Seung Pil Choi, Roman Astakhov Un uomo della Cappadocia, Francesco Leone Uno Schiavo, Luciano Leoni Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo. Produzione del Teatro di San Carlo. Spettacolo in Tedesco con sovratitoli in Italiano e in Inglese Durata: 1 ora e 50 minuti circa, senza intervallo

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M USICA

di Francesco Cimmino

Lino Vairetti, 50 anni di Osanna

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ietro la maschera, l’uomo. Settantadue anni, cinquanta di carriera musicale alle spalle. Lino Vairetti e gli Osanna raggiungono una tappa importante e la celebrano con tre uscite straordinarie: il libro “L’Uomo: Sulle Note di un Veliero”, il DVD del rockumentary “Osannaples” e un nuovo LP -in stile anni ’70- “Il Diedro del Mediterraneo”. Sedersi di fronte ad una leggenda del rock progressive mondiale è un’emozione che ti fa squagliare il cuore così come la loro musica ti faceva squagliare le orecchie. L’energia di Lino è strabordante, la sua voglia di fare sempre cose nuove è di grande ispirazione. Osannaples, com’è nata l’idea? «Deborah Farina è una regista di rockumentary. Ha realizzato tempo fa un documentario su Fernando de Leo, il regista di Milano Calibro 9, il film cult di cui noi facemmo la colonna sonora con Luis Bacalov. In quel frangente si è innamorata di noi e ha voluto studiarci. Ha vissuto mesi nel mio archivio e così è nato Osannaples. Deborah sapeva cose di noi che nemmeno io ricordavo». Quindi si narra la vostra storia, la storia del prog... «Fondamentalmente noi siamo stati al centro della controcultura napoletana degli anni ’70. Sono stato un figlio dei fiori; nel dopoguerra i giovani avevano avviato un processo ribaltamento dei valori tradizionali. Si propagava come un virus, in parallelo con la musica. Noi non avevamo un diretto contatto con gli inglesi e gli americani. Ma magari qualcuno faceva un viaggio lì e poi al ritorno portava qualche novità. E tutti avevano voglia di rinnovarsi. Pensa che prima dei Beatles e dei Rolling Stones c’erano i solisti con i gruppi di accompagnamento; mentre l’idea di formare una band, cioè di dare un nome ad un’entità di gruppo è nata proprio grazie a questo movimento. Una rivoluzione, perché c’era la vo-

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Lino Vairetti

glia di stare insieme. Poi, anche nella musica, una parte del movimento è stata politicizzata e questo ha creato la rottura che ha portato ai moti del ’68. Lotte politiche, comunisti contro fascisti e chi aveva una certa sensibilità portava queste lotte nella propria musica. Noi avevamo qualcosa da dire e lo abbiamo fatto da subito, con il nostro primo album». Qual è il ricordo più intenso di quegli anni? «Sicuramente aver fatto “L’Uomo”, il disco d’esordio. Era un concept album, ciò significa che rifiutavamo la formula tradizionale della canzone di 3 minuti ed un brano poteva durare 5 secondi come 20 minuti. Durante il nostro primo concerto fuori dalla scena napoletana alle Terme di Caracalla successe l’impensabile. Danilo Rustici, il nostro hendrixiano chitarrista e segretario regionale del partito marxista-leninista, intonò l’inno bandiera rossa con la sua chitarra distorta e 40.000 pugni si innalzarono davanti a noi. Elio D’Anna, il fiatista del gruppo -più di destra!dinanzi a questa immagine dovette ricredersi: fu lui a suggerire di includere l’inno nel nostro primo disco! Quegli anni sono irripetibili. Quella musica ci appartiene perché per noi era spontanea, la sentivamo nella pelle e nelle ossa. Noi -con la PFM, gli Area e gli altri- l’abbiamo inventata,

mescolando al rock, la classica, il sinfonico, il jazz, il blues; tanti giovani oggi ci scimmiottano e sbagliano. Devono fare cose loro. La trap, il rap, vanno bene, ma devono avere qualcosa da dire». Il miglior musicista con cui hai suonato? «Il mio caro amico, che da poco ci ha lasciato, Danilo Rustici. Non era tecnico come il fratello Corrado, ma era geniale. Il suono della sua chitarra unico. Ho suonato con Carl Palmer, il batterista degli ELP, ma non mi ha emozionato come era capace di fare Danilo. Abbiamo fondato il gruppo insieme, all’inizio la nostra base era la casa di mia mamma. Era una sarta ed è stata lei a preparaci i nostri vestiti di scena; i famosi sai, un riferimento al teatro d’avanguardia. Sul palco volevamo spettacolarizzare la musica. Io, allievo di scultura all’Accademia, e il batterista Massimo Guarino, studente d’arte, decidemmo di dipingerci le facce ispirati da Picasso». Quanta Napoli c’è nella vostra musica? «All’inizio della nostra carriera fu Renzo Arbore a lanciarci, che ci definì pulcinella rock. Noi rimanemmo basiti, perché all’inizio c’era appunto quel desiderio di rifiutare il nostro territorio, ma questa definizione ci portò ad elaborare una riflessione. Nacque così l’opera rock “Palepoli”, dove per la prima volta usammo il napoletano, anche se, citando De Filippo, cantiamo “fuje ‘a chistu paese”. Poi a mano a mano ci rendemmo conto della storia millenaria di Napoli e iniziammo a studiare la cultura e le tradizioni popolari. “Suddance” è l’LP dedicato all’emarginazione in cui ci riappropriamo della nostra terra». Afrakà rockfestival, si farà ancora? «Voglio farlo qui a Castel Volturno. Vivo qui da quattro anni e voglio fare qualcosa per questo territorio. Negli anni ho portato ad Afragola i più importanti musicisti della scena prog mondiale. Mi sembra qualcosa di bello che possiamo fare insieme».


M USICA

di Rossella Schender

Roryror e il suo Cuore Nero

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urora Formosa, in arte Roryror, è una giovane cantautrice campana presentatasi alla scena musicale italiana l’8 marzo 2021 con il singolo Cuore Nero. Con una storia alle spalle simile a quella della straordinaria Nada, Aurora da bambina non aveva intenzione di studiare canto, nonostante nel nido familiare ci fosse chi la spingeva verso lo studio. Tra le voci di Jessie J e Christina Aguilera, la sua adolescenza è ricca di sonorità pop che le fanno immaginare un futuro musicale. Con il passare del tempo, quindi, dopo aver sostenuto delle lezioni private, decide di iscriversi all’Accademia “Centro della voce” che le permette, con un percorso che va avanti da circa sette anni, di studiare e comprendere al meglio le potenzialità della sua voce per poter così costruire il suo futuro. Parlami del tuo rapporto con la musica… «Cantare mi è sempre piaciuto e la musica mi ha da sempre accompagnata anche se, da bambina, ero restia allo studio: non mi piaceva che qualcuno potesse dirmi come dover cantare; così rifiutavo di prendere lezioni. Non ho mai creduto realmente nelle mie potenzialità, ho molte insicurezze sotto il punto di vista artistico. Con il passare del tempo poi, all’età di quattordici anni, ho iniziato a fare delle lezioni private con un’insegnante. Oggi frequento un’accademia a Napoli e ho

raggiunto un buon livello tecnico. Probabilmente il prossimo anno cambierò scuola per potermi preparare meglio con qualcuno che sappia formarmi sotto il punto di vista discografico». Qual è la storia dietro il tuo singolo, Cuore Nero? «La storia della canzone è quella di una ragazza che subiva violenze psicologiche dal suo compagno che poi l’hanno condotta a cambiare il suo modo di essere per compiacere questa persona subendo anche delle violenze verbali. Alla fine della canzone c’è il ritornello che cambia regi-

stro passando da una narrazione in terza persona a una in prima persona per far capire che, in fin dei conti, quella ragazza ero io e sono riuscita a liberarmi da queste catene, da questo “cuore nero incastrato in gola”, come dice la canzone». Il singolo è scritto da te, quindi la passione per la scrittura è nata in concomitanza col canto oppure successivamente per una necessità di esprimere qualcosa? «Ho sempre scritto canzoni, sin da quando ero piccola, però non avevo mai preso in considerazione l’opzione di essere una cantautri-

ce. Ho sempre pensato che fosse troppo difficile, non suonando alcuno strumento poi la questione si complica. Da un anno scrivo consapevole di star creando canzoni e credo che serva a un cantante saper scrivere. Oggi il mercato discografico ci dice che funziona solo chi scrive e si produce i pezzi da solo, essere solo un interprete non basta più. All’inizio quindi è stata una mera esigenza discografica quella di cimentarmi seriamente nella scrittura di un pezzo, poi ho capito quanto in realtà la mia storia potesse essere raccontata attraverso i versi delle canzoni». Hai pensato di iniziare a studiare qualche strumento? «Sì, assolutamente. Ho una tastiera a casa e ho fatto lezioni di solfeggio a scuola quindi gli accordi più o meno li conosco. Nello specifico conosco le triadi e, per creare delle basi, cerco canzoni che mi piacciono e dopo aver letto gli accordi li metto insieme. Non sono una compositrice, ma questo è il modo più semplice per arrivare a un’idea ben precisa in studio». Hai già dei nuovi progetti in ballo? «Ho una canzone quasi pronta, manca solo un’idea di ritornello che funzioni. Poi ci sono altri pezzi scritti e composti dal mio produttore, Enrico Rispoli, che ha scelto la mia voce per queste canzoni. Spero di continuare a far parlare di me e di portare la mia musica in giro».

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C ULTURA

ritorno alla morale Perchè ripensare la letteratura da un altro punto di vista

di Marco Cutillo

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ualcuno disse, un giorno qualunque di un anno qualunque, che la modernità non era altro che pezzi di un piatto rotto. Un qualcuno di cui non ricordo il nome e di cui neanche riesco a trovarlo, nonostante i potenti mezzi digitali a mia disposizione. E da adolescente io il mio tempo lo immaginavo così: frammentario, sgretolato, l’immagine di una statua distrutta. E sognavo – e lo sogno ancora – di scendere di casa e di fermarmi alla prima cartolibreria disponibile per chiedere: «Che per caso c’avete la colla?». Pezzo dopo pezzo avrei ricostruito l’effige di ciò che mi sembrava confuso. Ma voi lo immaginate un ragazzino non ancora in grado di comprarsi le sigarette da solo, che vuole riordinare il mondo? No? Neanche io. Fu così che capii di avere bisogno di maestri e iniziai a leggere Nietzsche. I baffi non mi sono mai cresciuti, ma un’ideuccia qua e là forse mi è rimasta. Nietzsche mi dava ragione e si spingeva anche oltre i miei ragionamenti. La verità non esiste, di conseguenza non esiste giusto o sbagliato e allora anche bene e male diventano concetti da superare. Ho creduto avesse ragione e ho provato a diventare liquido. Ma era più forte di me, io la statua la volevo vedere per intero, le rovine conservate al museo

non mi bastavano più. Allora ho cercato uno strumento, lo strumento dei maestri: ho scoperto la letteratura. Vabbè, non è che non la conoscessi, l’ho riscoperta. Nel senso che ho iniziato a leggere i libri da una prospettiva diversa. Che oggetto desueto il libro, non si adatta per niente alle forme informi. È troppo rigido, troppo preciso, pieno di virgole e punti, di argomentazioni. Mi accorsi che, in qualche modo strano e subdolo – sì, perché la letteratura è subdola. Tu leggi e pensi d’aver dimenticato e invece i ricordi si attivano quando meno te l’aspetti e ti tradiscono al parco mentre tieni per mano una ragazza e le fai: «’sta siepe mi copre la vista, mi sento Leopardi» -, mi orientavo nel mondo in maniera cosciente,

sbagliando perché continuavo e continuerò a sbagliare, ma in maniera cosciente. Epifania. Eureka! Avevo capito. Avevo trovato la colla e potevo rimettere i pezzi a loro posto. Mi parve d’aver trovato una guida che m’orientava senza dirmi quale strada seguire. Ero diventato il marinaio più abile che gli uomini avessero mai conosciuto, perché per tenere la rotta non seguivo solo la Stella Polare, ma tutti i puntini luminosi che stanno sopra di noi. Il reale e la sua complessità mi spaventavano di meno. Tra le pieghe più oscure di quegli oggetti fatti di parole – e carichi di polvere – si nascondeva il segreto per fare ordine: l’empatia. Vivevo vite che mai avrei potuto vivere, provavo emozioni che mai avrei potuto provare e mi pareva di capire che, nella confusione, ci fosse ancora spazio per la verità, per il giusto e lo sbagliato e allora anche il bene ed il male diventavano concetti da recuperare. Guardare alla letteratura cercando di trarne una morale non significa novecentescamente stabilire chi sono i buoni o chi sono i cattivi, ma significa acquisire la capacità di essere coscientemente buoni o cattivi. Questo è quello che ho imparato. E questo è il compito che ogni buon lettore dovrebbe prefiggersi.

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L IBRI

di Lucrezia Varrella

“L’acqua del lago non è mai dolce” Giulia Caminito scrive la vita vera senza sconti

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ono i primi anni del Duemila, Gaia è una bambina e vive in pochi metri quadri con tre fratelli, un padre disabile, “fulminato” ed una madre infaticabile, inesorabile, che entra in ogni cosa; nella casa sul lago di Bracciano, Gaia è adolescente, le è venuto un carattere duro, ha fatto l’abitudine al nulla della sua famiglia contro il tutto degli altri e annaffia una rabbia che germoglia in violenza. L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, tra i dodici finalisti del Premio Strega 2021, è una storia vivida e potente, che ricostruisce strade già battute con materiali sempre nuovi, trascinando il lettore dentro una scrittura ipnotica e quasi poetica, di innata originalità. L’acqua del lago non è mai dolce: il titolo sembra quasi una metafora della storia che il tuo libro racconta. Sei d’accordo? «Il lago è un luogo simbolo per me, il posto in cui sono cresciuta. In questo caso è sicuramente anche metafora della vita di una ragazzina che seguiamo dall’infanzia fino all’età adulta, che non riesce mai ad andare oltre un perimetro chiuso e paludoso, che inghiotte e trascina a fondo, come appunto quello di un lago, la cui acqua si dice dolce, ma in realtà ha un sapore non facile definire. Allo stesso modo Gaia trova difficilmente definizione, non sa chi è e cerca stessa». Per il personaggio di Antonia, la madre di Gaia, ti sei ispirata ad una storia vera. Ti andrebbe di raccontarcela? «Sì, per questo personaggio di madre molto forte, volitiva, ingombrante, mi sono ispirata ad una donna che conosco, che ha affrontato molte vicissitudini per l’assegnazione di una casa popolare: lei, come Antonia, si è trovata con un marito inabile al lavoro e quattro figli a carico più i nipoti, poiché una delle figlie è rimasta

incinta presto. In attesa dell’assegnazione, ha vissuto in uno scantinato a San Basilio; le è poi stata concessa una casa in una zona ricca della città, che ha scambiato con un’altra fuori Roma, come avviene nella storia. Anche la scena con cui apro il libro, in cui Antonia finge di essere un’avvocata per farsi ascoltare da una dirigente, me l’ha raccontata lei. Mi è sembrata una storia incredibile, ma anche molto interessante per raccontare il rapporto tra famiglia, casa e possesso nel nostro paese». La narrazione attraversa gran parte della vita di Gaia, eppure la protagonista non arriva alla propria affermazione nel mondo. Si può quindi definirlo un romanzo di formazione in senso classico oppure no? «Il modello che sottostà alla storia è quello del

romanzo di formazione, che esiste anche nei miei due libri precedenti, in cui c’erano però degli effettivi percorsi di crescita di alcuni personaggi, che da una situazione minoritaria trovavano poi il proprio modo di stare al mondo. Gaia invece sembra esserne incapace. C’è quindi un doppio binario: dal punto di vista del carattere non fa altro che peggiorarsi, indurirsi e rispondere sempre con maggiore aggressività, rimanendo in una situazione di squilibrio perenne, mentre dal punto di vista scolastico segue tutte le tappe, ma questo non le porta nessun riconoscimento pubblico o sociale e quindi neanche individuale». Temi predominanti del racconto sono la povertà, la disfunzione, la periferia. Quanto la condizione in cui Gaia cresce influisce sul suo modo arrabbiato di affrontare la vita? «Sicuramente la situazione di privazione genera il personaggio, ma anche il modo in cui la società reagisce all’individualità di Gaia e all’identità della famiglia influisce. Questo tentativo camaleontico di perdersi tra le identità altrui attraverso gli oggetti che gli altri possiedono le provoca una profondissima frustrazione. Anche i luoghi influenzano la sua prospettiva: lei parte da una periferia in cui la situazione svantaggiata della sua famiglia è abbastanza condivisa, ma poi si trova in un’altra periferia, al lato opposto della città, che invece unisce fasce di popolazione normale o con qualche difficoltà a persone ricchissime. È una cosa che io ho vissuto da adolescente e che ho voluto riportare proprio nel contrasto che si crea tra una ragazza che difficilmente può ottenere qualcosa di nuovo, che deve conquistarsi tutto e questo sfoggio di una ricchezza e di un possedere che le corrono sempre al lato».

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A RTE

di Mina Grasso

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Il restauro del “Gran Mosaico”

itrovato nel corso di scavi ottocenteschi a Pompei, nella Casa del Fauno, dove rappresentava una porzione molto ampia della pavimentazione, il Mosaico con “La Battaglia di Isso”, anche noto come Mosaico di Alessandro Magno, ritrae una scena di battaglia tra il Grande Conquistatore Macedone Alessandro Magno contro Dario III, Re di Persia. Il mosaico, romano, risale all’anno 100 a.C. ed è costituito da circa un milione e mezzo di piastrelle policrome minuscole, disposte in curve graduali, applicate con la tecnica dell’opus vermiculatum, ossia posizionate in maniera asimmetrica, seguendo il contorno delle immagini raffigurate. Il lavoro è realizzato utilizzando quattro colori, quelli tipici dei mosaici classici: bianco, giallo, rosso e blunero. Conservato dopo lo scavo e recuperato con un’operazione eccezionale, nel 1843 il mosaico venne ricollocato come pezzo unico nel Real Museo Borbonico, ora sede museale napoletana del MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, prima immenso Palazzo degli Studi di Napoli. L’opera rappresenta una delle bellezze del sito, orgoglio della collezione archeologica partenopea. Affascinano prima di ogni cosa le sue dimensioni: 5,12 x 2,71 metri se si esclude la cornice esterna, con la quale raggiunge i 5,82 x 3,13 metri. Ma anche il peso notevole e la piccola forma delle tessere. La fattura del mosaico pompeiano, come tutti i mosaici della Casa del Fauno, rivela una provenienza alessandrina, infatti molto probabilmente alessandrini erano gli artigiani che ne furono autori, e che omaggiarono il Conquistatore a seguito della leggenda che si andò costituendo proprio ad Alessandria all’indomani della morte del giovane Re. In questi giorni, al MANN con la supervisione dell’Istituto Centrale per il Restauro (ICR) e con attività diagnostiche promosse in rete

con l’Università del Molise (UNIMOL) ed il Center for Research on Archaeometry and Conservation Science (CRACS) si è avviato il necessario restauro del Mosaico di Alessandro. La direzione scientifica dei lavori è stata affidata al Professor Antonio De Simone, che con Amanda Piezzo, progettazione e direzione lavori, e Mariateresa Operetto, direzione operativa, concluderanno l’intervento il 18 aprile 2021. L’intervento di restauro è in corso in situ, come spiega il direttore del MANN Paolo Giulierini, mediante l’allestimento di un cantiere visibile per la messa in sicurezza della superficie prima della movimentazione. A seguire, il mosaico sarà rimosso dall’attuale collocazione e le lavorazioni saranno eseguite sulla superficie retrostante dell’opera: le tessere musive, in tale frangente, non saranno visibili perché coperte dal un tavolato ligneo di protezione che sarà apposto sul retro. A Museo aperto, il cantiere sarà reso visibile da parte del pubblico dei visitatori. Un significativo contributo al restauro è stato fornito da TIM, in collaborazione con NTT DATA che hanno messo a disposizione, in via sperimentale, un’applicazione che consente di visualizzare sul mosaico attraverso smart glasses i dati diagnostici prodotti dalle Università. Dai rilievi, attraverso le speciali lenti, tagli informativi individueranno avvallamenti e fessurazioni che saranno visualizzati in tempo reale con soluzioni di realtà virtuale e aumentata, e che saranno utili per eseguire il restauro, per-

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mettendo la messa in sicurezza del mosaico. Attendiamo, dunque, la riapertura dei Musei per osservare da vicino il cantiere, e la data del 18 aprile per una Battaglia di Isso, restaurata.


A RTE

di Ludovica Palumbo

Nicholas Tolosa: arte che guarda negli occhi

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icholas Tolosa è un giovane artista nato ad Eboli (SA) nel 1981. Diplomatosi presso un Liceo Artistico statale, ha in seguito studiato scenografia lavorando presso grandi teatri tra cui il “Mercadante” di Napoli. Si è specializzato poi in Arti Visive e Discipline dello spettacolo e attualmente, oltre a realizzare mostre, insegna la sua disciplina come docente. Ha cercato quindi grazie alla sua personalità fortemente eclettica, di studiare ed interessarsi ad ogni “ramo” che potesse anche solo lontanamente essere connesso con il mondo dell’arte. Il suo curriculum vanta anche la partecipazione all’Artexpo di Arezzo ed alla “Biennale Internazionale” di Firenze, oltre a progetti sul territorio che l’hanno portato ad essere così noto. Incuriositi dalla sua carriera, abbiamo chiesto a Nicholas, che si è dimostrato essere una persona molto disponibile ed alla mano, una breve intervista sulla sua vita e sui suoi progetti. Allora Nicholas, tutto il tuo percorso di studi è stato incentrato sull’arte, com’è nata questa devozione all’arte? «Sono nato in una famiglia di artisti, sia mia madre che mio padre sono nel mondo dell’arte quindi è quasi come se fosse nel mio DNA, trasmesso ereditariamente. La mia scelta è arrivata in modo del tutto naturale, ho seguito fedelmente la tradizione. L’unico rimpianto che ho è che, forse, anziché specializzarmi in scenografia, avrei preferito focalizzarmi più sull’arte pittorica, ma sai all’epoca si prediligeva ciò che più potesse garantirti un impiego e alla fine scelsi quella strada lì». Hai poi iniziato anche ad insegnare. Qual è il tuo obiettivo da educatore? «Già in Accademia tutto ciò che fai è sempre improntato sull’insegnamento. Fortunatamente, essendo il mondo dell’arte così precario, ho una professione stabile e riesco a portare avanti entrambi i percorsi

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quasi alla pari. Come insegnante cerco sempre di dare un’ampia visione dell’arte ai miei ragazzi portandola al di fuori della scuola stessa. Organizzo mostre, progetti spesso all’aperto, i cosiddetti musei diffusi, per portare il ‘’museo ai ragazzi’’ e non viceversa, creando quindi percorsi interattivi». Nelle tue opere hai spesso rappresentato soggetti che nella storia sono stati emarginati e considerati ‘’diversi’’. Che tipo di messaggio hai voluto trasmettere mostrando un bambino di colore che punta il dito verso l’osservatore. «Lavoro molto sul sociale, su tutte quelle

categorie che mi piace definire come ‘’periferie umane’’, concetto che rende bene la loro posizione all’interno della società globale. Queste persone vengono emarginate ed io le rappresento in modo più o meno esplicito come forma di denuncia». Hai quindi una visione dell’arte molto particolare, come la definiresti? «L’arte per me è esattamente ciò che ti spiegavo prima: un messaggio. Ha come obiettivo mettere tutti noi faccia a faccia con il mondo in cui viviamo, porre delle domande lasciando all’osservatore il compito di trovare delle risposte. Definirei la mia arte come un punto interrogativo, ecco come». Il mondo del cinema, dello spettacolo e dell’arte è uno tra i più colpiti a causa della diffusione del Covid-19. In che modo questo ha influito sui tuoi progetti e in che modo sei riuscito a rispondere a questa nuova realtà? «Fortunatamente grazie alla mia carriera da insegnante riesco a mantenere una stabilità economica che purtroppo hanno in pochi al giorno d’oggi. Molti progetti si sono interrotti, ma sono riuscito a realizzare la Personale alla chiesa di San Severo al Pendino lo scorso ottobre, giusto in tempo prima del secondo lockdown. Da poco una mia opera, ‘’Il re di Napoli’’, è entrata a far parte della collezione di San Gennaro, un’opera che riprende in pittura il busto argenteo del 1805. Avevo un progetto anche la scorsa primavera per il MAV di Ercolano, ma viste le situazioni ho paura che sarà nuovamente posticipato. Un progetto molto interessante perché riguarda la trasposizione in pittura degli ultimi calchi ritrovati a Pompei. Spero si possa tornare presto a lavorare in questi ambiti che trovo essenziali per la cultura soprattutto dei giovani, quindi quanto prima vorrei poter tornare a fare l’artista a pieno oltre che il professore».

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F OTOGRAFIA

di Mariasole Fusco

Viaggio nell’universo di antonio biasiucci

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ntonio Biasiucci, fotografo ed artista di origini casertane, indaga attraverso la lente di una macchina fotografica la complessità dell’universo umano, i suoi misteri e le sue memorie. La sua è una fotografia pura, che mira all’essenza dell’immagine, cogliendo e portando alla luce i contenuti più intimi dei propri soggetti, spesso tratti dalla semplicità dell’ambiente contadino. Attivo dai primi anni ’80, ha esposto le sue opere in musei di tutto il mondo, ottenendo diversi riconoscimenti nazionali e internazionali come: l’“European Kodak Panorama”, il “Premio Bastianelli” e il “Premio Cultura Sorrento”. L’artista ci ha raccontato in un’intervista alcuni aspetti particolari dei suoi lavori. Come si è avvicinato al mondo della fotografia? «Nasco in un contesto contadino, in un piccolo paese nella provincia di Caserta, Dragoni. Mio padre era fotografo di cerimonie ma io non ho mai amato quello che faceva. Ero un ragazzo che sognava la città. A 18 anni mi trasferisco a Napoli per gli studi universitari e mi rendo conto di aver problemi a relazionarmi con una metropoli, essendo cresciuto in un ambiente di campagna. Mi trovo in crisi e cerco di ricostruire la mia identità attraverso la fotografia: prendo una delle macchine di mio padre e cerco di immortalare quei paesaggi e quei valori della cultura contadina che mi riportavano alle

mie origini, cercando di rivisitare tutto ciò che avevo rinnegato. È così che nascono i miei primi progetti». Quali lavori in particolare hanno segnato il suo percorso? «Un lavoro che mi ha segnato molto è Vapori. Si tratta di foto scattate durante il rito dell’uccisione del maiale, rito che io detestavo. Nelle fotografie non si distingue nulla di quello che accade, l’uomo e la bestia si confondono. L’uomo sembra sostituirsi al maiale. In quest’opera c’è un mio primo tentativo di decontestualizzare completamente l’immagine, ponendola fuori dal tempo. Questo è un approccio alla fotografia che ho mantenuto nel corso degli anni». In cosa consiste il suo processo artistico? «Applico alla fotografia dei metodi prettamente teatrali, seguendo il metodo del regista Antonio

Neiwiller, con cui ho avuto modo di collaborare fino alla sua scomparsa. Da giovane assisto ad un suo spettacolo e ne rimango molto colpito. È uno spettacolo aperto, libero, che offre allo spettatore la possibilità di cogliere nella rappresentazione una parte di sé. Le azioni, ripetute per un lungo lasso di tempo, tendono a scarnificarsi, puntano all’essenza e si aprono ad interpretazioni. Sperimento questo metodo fotografando a ripetizione 5 vacche. All’inizio sono ancora vacche, ma pian piano si trasformano in altro. Diventano paesaggi, praterie, forme antropomorfe. Ho continuato a rifarmi a questo metodo negli anni. Scelgo un soggetto col quale intraprendo un lungo percorso e cerco di arrivare al mistero che esso racchiude. Paradossalmente l’immagine al termine di questo processo laborato-

riale si allontana da me, si libera». Cosa cerca di rappresentare attraverso la sua fotografia? «La mia ambizione, o utopia, è quella di ricostruire, utilizzando la fotografia, una sorta di storia degli uomini. Ognuno dei miei lavori, che andrebbero visti come un unico progetto, ne costituisce un tassello. Scelgo soggetti carichi di un valore metaforico ed emblematico, che in qualche modo rappresentino concetti fondamentali della cultura umana. Il pane che io fotografo, ad esempio, nasce dai 4 elementi, terra, aria, acqua, fuoco e può simboleggiare il mistero della creazione. Dietro ogni fotografia c’è sicuramente una memoria personale che diviene però universale, ogni fotografia mira ad un dialogo con l’altro». Quali progetti ha avuto modo di realizzare durante la pandemia? «Attualmente alcuni miei lavori sono esposti in una mostra a Palazzo Barberini a Roma, dal titolo “L’Italia in-attesa”. L’esposizione presenta le opere di 12 fotografi, invitati a raccontare attraverso immagini il periodo drammatico che il paese sta attraversando. Il mio è un lavoro sulle metafore, ho fotografato dei ceppi tagliati nei boschi che sembrano divenire figure antropomorfe che alludono al bosco che rinasce. L’auspicio è quello di una rinascita per tutti noi ma il ceppo tagliato allude allo stesso tempo a tutti quei morti senza nome che l’Italia registra ogni giorno».

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A PPROFONDIMENTO

di Fabio Di Nunno

UN ANNO EUROPEO DELLE FERROVIE L’Unione europea dedica il 2021 alle ferrovie e Informare parte dal Museo di Pietrarsa

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n anno europeo delle ferrovie per riflettere sugli obiettivi del Green Deal europeo (raggiungere la neutralità climatica entro il 2050), con particolare riferimento al settore dei trasporti, responsabile di ¼ delle emissioni di gas a effetto serra dell’Unione europea (UE), le cui emissioni vanno ridotte del 90% entro il 2050. Attualmente, i treni rappresentano lo 0,5% delle emissioni di gas serra prodotte dai trasporti nell’UE, mentre solo il 7% dei passeggeri e l’11% delle merci viaggiano su rotaia. Il 2021 è il primo anno nel corso del quale le norme del quarto pacchetto ferroviario saranno attuate, per creare uno spazio ferroviario europeo unico e integrato, con la rimozione degli ostacoli istituzionali, legali e tecnici che rimangono e sostenendo la crescita economica. Ma numerose sono le ricorrenze: il 20° anniversario del primo pacchetto ferroviario, il 175° anniversario del primo collegamento ferroviario tra Parigi e Bruxelles, come pure i 40 anni del TGV e i 30 anni dell’ICE. Informare inizia il proprio viaggio su rotaia dal Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa, con il suo direttore, Oreste Orvitti. «L’Anno europeo delle ferrovie è un’iniziativa volta a promuovere l’importanza del sistema ferroviario europeo in un’ottica di rispetto dell’ambiente e sviluppo sostenibile, ma è anche un’occasione per pensare alla valorizzazione del patrimonio storico delle ferrovie, che è la mission della Fondazione FS Italiane, fondata da Ferrovie dello Stato, RFI e Trenitalia. Tale patrimonio è costituito innanzitutto da locomotive e treni, ma anche da siti di esposizione, biblioteche con migliaia di volumi e milioni di immagini, consultabili anche online». Come nasce il Museo ferroviario di Pietrarsa? «Il più grande museo ferroviario d’Europa è ospitato in un complesso di 36.000 m², dei quali 20.000 di spazi aperti e giardini, con piante provenienti dai cinque continenti e curate dal Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È nel 1842 che Ferdinando II di Borbone decide di installarvi una fabbrica di locomotive a vapore, divenute officine per la loro riparazione fino al 1975. Due anni dopo si deciderà di trasformarle in museo ferroviario, inaugurato nel 1989. Il restauro conservativo portato avanti dalla Fondazione FS Italiane, con un investimento di 15 milioni di euro, ha reso il sito il luogo affascinante che oggi è possibile ammirare in tutto il suo splendore. Il Museo di Pietrarsa è divenuto il più grande centro congressuale del Sud Europa, con visitatori e clienti provenienti da tutto il mondo

per eventi di ogni genere: sfilate di moda, presentazione di vetture automobilistiche - storiche e moderne – convegni e perfino attività collegate alle Universiadi organizzate a Napoli nel 2019. Inoltre, è stato stipulato un protocollo che si inserisce nel grande progetto Pompei per realizzare un approdo per imbarcazioni con un pontile nelle acque antistanti il museo, e stiamo dialogando con Procida per attività connesse alla sua designazione di Capitale italiana della cultura 2022». Una volta superata la pandemia, quali sono i progetti per il futuro? «Pietrarsa è un polo museale dinamico dove è possibile effettuare non solo visite tradizionali, ma anche virtuali usando un tablet. Un treno del 1940 è stato digitalizzato e, sfruttando la tecnologia della realtà aumentata, i visitatori salgono a bordo vivendo la sensazione di un viaggio grazie a filmati che scorrono sui finestrini. Si può anche entrare nella cabina di guida dove un simulatore con tanto di istruttore li trasforma in macchinisti provetti. Nella sala cinematografica ci si può “muovere” con la riproduzione della famosa locomotiva Bayard del 1939, sedersi assieme al re ed alla regina di Napoli e partecipare al viaggio inaugurale della prima linea ferrata italiana, la Napoli - Portici. Speriamo di rilanciare le attività per la prossima estate, nel rispetto dei protocolli covid-19, aprendo il sito fino a sera tardi, magari con proiezioni cinematografiche all’aperto».

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C INEMA

di Antonietta Cancello

Antonio Orefice: giovane promessa del cinema

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ntonio Orefice è un attore emergente napoletano. Lo abbiamo visto interpretare ruoli in serie televisive come “Gomorra” e “Mare fuori”, oltre che recitare anche in spettacoli teatrali diretti da importanti registi come “La Paranza dei bambini” di R. Saviano e M. Gelardi e “Masaniello” di Tato Russo. Ha preso parte in numerosi film per il Cinema: “Bob & Marys” per la regia di Francesco Prisco, “Gramigna” per la regia di Sebastiano Rizzo e “Soldato Semplice” per la regia di Paolo Cevoli con un ruolo da coprotagonista. Come è cominciata la tua carriera da attore? «Avevo 7 anni quando ho calcato il primo palcoscenico presso il Teatro Bellini di Napoli. Recitavo piccole parti durante i saggi di fine anno che mia madre Annabella, insegnante di danza, presentava con gli allievi Ballerini della scuola di Ettore Squillace. Mi divertivo molto, l’emozione che provavo è ancora viva in me. Per me era solo un gioco e non avrei mai immaginato che, in seguito, recitare sarebbe diventato il mio lavoro». Quindi tutto è partito da quell’esperienza? «Direi di sì, ma la consapevolezza l’ho avuta da adolescente: facevo il garzone in un supermercato, portavo la spesa a casa delle

di Lorenzo La Bella

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ché non avevo il tempo di cambiarmi e venendo anche deriso dai miei compagni di corso che erano vestiti di tutto punto. Mi ero prefissato un obiettivo e lo dovevo assolutamente raggiungere: diventare un bravo attore». Sei soddisfatto di come si sta evolvendo la tua carriera? «Sono appena all’inizio, anche se ho interpretato tanti ruoli, ho tanto ancora da imparare». A cosa stai lavorando in questo momento difficile di pandemia? «Ho partecipato al film Carosello Carosone, ispirato alla vita del grande artista Renato Carosone, nel quale ho avuto il piacere di interpretare un suo amico. Il film è andato in onda proprio in questi giorni su Rai 1. Ho in cantiere anche un altro film con l’attore comico Giovanni Esposito: “Benvenuti in casa Esposito”. Con la speranza di vederlo presto al Cinema, mi auguro che tutto l’indotto del Cinema, del Teatro e tutti gli operatori dello spettacolo ricomincino a lavorare presto». Cosa consigli ai giovani che in questo momento difficile sono in ansia per il loro futuro? «Di avere fiducia in sé stessi, di credere ai propri sogni e di non mollare mai; prima o poi essi si avverano, come è successo a me».

Psycho-Pass e la trappola dell’ utopia

a parola utopia è spesso sinonimo di paradiso. Ma se vi è un’utopia che dovrebbe spaventarvi, questa è Psycho-Pass. Questo franchise di animazione giapponese è ambientato nel Giappone del 2112, una società isolazionista con confini e porti chiusi governata dall’intelligenza artificiale Sybil System. Esso misura i livelli di stress di ogni persona, analizzandone depressione, rabbia, ansia e assegnandovi un valore numerico, il coefficiente di criminalità o Psycho-Pass. Strumenti per rilevare lo Psycho-Pass sono 32

signore del quartiere; quell’esperienza è stata per me una vera palestra di vita, mi ha insegnato tanto. Ricordo con affetto ognuna di loro, le loro storie e le loro emozioni. Crescendo ho sentito l’esigenza di un cambiamento per il mio futuro e mi sono iscritto all’Accademia di recitazione “La Ribalta” di Napoli, dove ho conosciuto la mia agente Marianna De Martino. Ricordo che mi recavo ai corsi all’insaputa di tutti, vestito con la tuta del supermercato, poi-

presenti in ogni angolo, in ogni porta, in ogni telecamera, citofono, stanza. E appena ne viene rivelato uno troppo alto, la polizia corre ad arrestarne il proprietario. Lo fa con una pistola, il Dominator, che agisce in autonomia e ha il potere di paralizzare la vittima, che sia un criminale o un innocente, o di farla letteralmente esplodere a seconda dei valori dello Psycho-Pass. Ufficialmente, vi sono Ministeri, politici, burocrati, ma il potere è in mano al Sybil, che assegna carriere e istruzione alle persone in base a rigidi test attitudinali e scansioni del PsychoPass. Ufficialmente, tutti sono felici in questo sistema sicurissimo. Ma a volte gli innocenti vengono arrestati senza aver commesso alcun crimine, solo per un aumento del coefficiente di criminalità, e a volte qualcuno impazzisce tentando di sopprimere il proprio malessere per evitare di essere arrestato. I poliziotti, divisi tra Ispettori e Esecutori (que-

sti ultimi cittadini di seconda classe che entrano nella polizia per non passare la vita in galera a causa del proprio Psycho-Pass troppo alto) troppo spesso ascrivono alla logica del “noi e loro”, preferendo supportare questo sistema. Perché chi vive nell’utopia fa di tutto per preservarla. Inutile essere liberi. Lasciamo la giustizia ad una entità superiore. Il mondo di Psycho-Pass è ossessionato dal crimine e dal punire il crimine, che esso sia reale o immaginario. Una società digitalizzata dove le minacce di morte sono all’ordine del giorno, dove si inventano software di riconoscimento facciale per vittimizzare sempre le stesse comunità emarginate, dove il “noi e loro” regna sovrano proprio grazie ai demagoghi e ai social, dove il 10% della popolazione carceraria è imprigionata per errori giudiziari eppure il giustizialismo ogni volta raggiunge livelli spropositati, non è così lontana dal mondo di Psycho-Pass. Ma vogliamo davvero creare la sua utopia?


L IBRI

Tu sei l’ultimo Jedi

“Molto da apprendere ancora tu hai” di Angelo Morlando

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l libro di Daniel M. Jones non è solo per appassionati di Star Wars. Come al solito, le traduzioni in italiano dei testi inglesi lasciano a dir poco perplessi (non posso non citare anche “Do Androids Dream of Electric Sheep?” di Philip K. Dick, tradotto in “Il cacciatore di androidi”) infatti il titolo originale è: “Become the Force: 9 lessons on How to Live as a Jedish Master”. E ho detto tutto. Daniel M. Jones è affetto dalla sindrome di Asperger, è appassionato di Star Wars e ha fondato la Chiesa del Jedismo, che conta ormai oltre mezzo milione di “fedeli/credenti” in tutto il mondo. Che cosa avrà scritto mai? Secondo il mio parere, niente di eccezionale, ma lo ha scritto con passione e fede. In alcuni tratti sembra quasi una preghiera, pertanto: a chi ha fatto mai male fare una preghiera? Soprattutto se è rivolta verso il bene altrui. Dopo un interessante prologo, si sviluppano le nove lezioni. La prima lezione è “sull’intelligenza del discepolo”, infatti, “saperne un po’ di più, può illuminare la via”. La seconda insegna a come “dominare i pensieri”, in quanto “la paura è la via per il lato oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio, l’odio conduce alla sofferenza”. Nella terza lezione si affrontano le “questioni d’amore, di vita e di morte”,

di Anna Copertino

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aleria Papa è una giovane autrice napoletana, nota sui social come Valery Pope. Molto prolifica e con molta fantasia, ha uno stile intimista, semplice, sospeso tra misticismo e vita vera. Vincitrice del concorso letterario Racconti campani 2020, “Aurora, le lacrime di cala luna” segna il suo esordio nella narrativa. Ha vinto il Premio Nazionale di Letteratura Contemporanea VIII edizione 2020/21. Hai esordito alla grande. Te lo aspettavi? «Ammetto di no, ho partecipato ai primi concorsi come la dea bendata, ad occhi chiusi, e ogni esito positivo è stato un piacevole risultato». Come nasce “Aurora”? «Da un “Almeno provaci!”. Un

perché “se mi abbatti io diventerò più potente di quanto tu possa immaginare”. La quarta è incentrata sulla “Teoria della Forza” e bisogna dedicargli uno spazio maggiore: “La Forza è

quella che dà al Jedi la possanza. È un campo energetico creato da tutte le cose viventi. Ci circonda, ci penetra. Mantiene unita tutta la galassia”. Si prosegue con il “controllo delle emozioni e la gestione della rabbia” ed è il momento in cui ci vuole: “Pazienza, mio giovane Padawan”. Sesta lezione dedicata “all’autodifesa e alle arti marziali”, perché: “L’appartenenza che cerchi non è dietro di te. È davanti a te”. Si prosegue ancora con l’aiuto psicologico, la gestione dello stress e l’autocontrollo e poi con la salute e il benessere materiale, perché: “devi dare un nome alla tua paura prima di poterla sconfiggere”. Si conclude con la “comunicazione pacifica e l’interazione diplomatica” con la domanda delle domande: “Come distinguo il lato cattivo dal buono?”, ma il Maestro ha sempre una risposta: “Lo imparerai! Quando sei calmo e in pace”. Volutamente non ho riportato gli autori delle citazioni tra virgolette in grassetto che, ovviamente, sono tutti personaggi principali della saga. L’epilogo è estremamente positivo: “Non è la fine” e l’appendice finale che descrive “un nuovo cammino di fede” e delle profonde note sulla Forza, concludono un lavoro la cui lettura potrà procurare sicuramente benessere. Che la Forza sia con tutti Noi!

“AURORA, LE LACRIME DI CALA LUNA” giorno ho deciso di scrivere qualcosa che desideravo condividere con gli altri, senza tenerlo più solo per me. Quel pomeriggio di fine giugno, nacque l’incipit di Aurora». Parliamo di “Aurora, le lacrime di cala luna”, un noir intenso che racchiude il mondo tormentato della protagonista, tra ombre del passato e presente/futuro incerto. «Il titolo è stata una decisione conflittuale, ma alla fine, Aurora ha vinto. Per il resto, invece, le mani si muovevano quasi autonomamente. Aurora può apparire come una ragazza fragile, dal destino infausto, eppure è proprio il suo passato a fortificarla. La forza è nel suo DNA ed emergerà quando il presente comincerà a vacilla-

re. Gli amici e i nonni, però, saranno fondamentali per non perdere mai sé stessa». Quanto pensi che il destino influisca nella vita reale? E nella vita della tua protagonista? «Credo nel destino, ma non credo che qualcuno abbia già scelto per noi la strada da seguire. Il destino traccia un percorso e di fronte ai bivi, al momento della nostra decisione, smette di esistere. La vita è il risultato delle nostre scelte. Aurora sarà libera di scegliere la direzione della sua vita: se restare inerme e subire, oppure corazzarsi e affrontare ogni sfida». In questi mesi sei stata a contatto con i tuoi lettori. Cosa significa per te mantenere alto l’interesse per i futuri lavori e come vorresti sorprenderli?

«Avendo iniziato a scrivere per gioco, mi sento onorata a parlare con loro. Ringrazio sempre chi mi segue e mi scrive di quanto si sia legato ad Aurora e tutti gli altri personaggi. Mi sento in dovere di non deluderli, dando loro una lettura di qualità. Ci sarà più di un colpo di scena nel prossimo romanzo, spero di suscitare emozioni ancora più forti». Aprile 2021

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L IBRI

di Francesco Cimmino

La creatività come antidoto Un manuale di Rosaria Iazzetta

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n vendita dal 25 febbraio, ha avuto immediato successo, risultando bestseller in ben tre categorie di Amazon. «Sinceramente non mi aspettavo tutto questo successo – ci dice Rosaria Iazzetta, docente di scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli – ma credo abbia funzionato perché i tempi che stiamo vivendo non permettono di esprimerci come vogliamo. Stiamo rimandando la nostra espressività». Professoressa Iazzetta, che cos’è la creatività? «Io credo che sia una parte dell’organismo, come un muscolo, che se ben allenato può permettere di ottenere grandissimi risultati a tutti i livelli. Per troppo tempo si è pensato che i creativi fossero delle persone con caratteristiche particolari; invece è un bene comune, a disposizione di tutti. È la caratteristica che rende uniche le persone e ciò che ci fa fare la differenza. Per me è come una borsa degli attrezzi, sempre pronta lì all’occorrenza, ma se non la usiamo, i suoi ferri si arrugginiscono». Un antidoto, ma da cosa? «Viviamo un’Italia che sottovaluta la creatività di alcuni rispetto ad altri; sembra che soltanto ad alcuni sia permesso raggiungere risultati straordinari, mentre c’è chi è destinato a fare una vita esente da creatività. Per chi non ha potuto investire nella creatività -portatrice di successo- potrebbe essere un antidoto speciale contro fattori ambientali poco favorevoli. Quanto siamo vincolati all’ambiente sociale e culturale nel quale siamo immersi? Quanto è difficile affidarsi a delle risorse interiori se non si ha mai avuto modo di accedervi? Capita che chi cresce in una periferia tosta abbia un desiderio di riscatto molto più forte di chi cresce in un ambiente più confortevole. Il mio obiettivo è accendere quei cuori e por-

tarli al successo. La mancanza di bellezza nelle periferie, si traduce in una necessità di sopravvivenza, che spesso sfocia nell’arte». Casca a pennello questo estratto della prefazione scritta da Sigfried Gidieon de “Il linguaggio della visione” di Gyorgy Kepes, nel 1944: “Al pubblico e a coloro che la governano manca ancora l’educazione artistica, e cioè emozionale. Il gusto del pubblico viene formato dalla pubblicità e dagli oggetti di uso quotidiano. Da questi può essere educato o corrotto. L’arte è indispensabile ad una vita completa, non può essere ritenuta un bene di lusso o qualcosa di lontanissimo dalla vita vera”. Sembra non sia cambiato nulla. «Sono d’accordissimo, la politica ha creato grandi incoerenze. La bellezza non deve essere a disposizione solo di alcuni, ma di tutti. Ricordiamo che prima hanno iniziato a ridurre le ore di storia dell’arte e poi via via a strutturare le scuole in modo tale che gli alunni potessero sempre meno sviluppare una libertà creativa. Nell’Università, le ore di laboratorio sono sempre più teoriche e meno pratiche. A causa di complesse leggi sulla sicurezza, ci troviamo a dover insegnare in strutture non adeguate ai nostri insegnamenti e nonostante ciò non vediamo mai adeguamenti formali dei nostri laboratori. Quando non viene fatto un investimento in questo senso, la gente comincia a credere che la creatività non sia più un valore. E magari anziché scegliere di seguire una strada come quella dell’arte, iniziano una carriera da giurista; non per vocazione, ma per l’enorme divario dato dalla considerazione sociale». Cosa l’ha spinta a scrivere questo manuale? «Tre fattori sono stati determinanti. La volontà di essere una guida: quella guida che io non ho

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avuto la possibilità di incontrare durante la mia vita. L’esigenza territoriale: devo essere grata della grande complessità della realtà partenopea, nonostante vedo quanto sia difficile per un creativo delle arti visive affermarsi rispetto ad altre professionalità. Essere una docente ed un creativo: ho sempre pensato che il mio lavoro dovesse essere a disposizione degli altri». Sembra di parlare con Bruno Munari «Munari è stato un grandissimo. La didattica era fondamentale per lui, che si chiedeva quanto potesse fare la differenza il potenziale creativo nel sistema scolastico. L’Accademia delle Belle Arti di Napoli ha 3600 studenti. Se i musei e le istituzioni investissero su questo potenziale creativo, forse la Campania potrebbe essere salva dalla criminalità organizzata. Purtroppo in questo periodo di pandemia molti ragazzi hanno messo i loro sogni nel cassetto. Auspico che si torni alla normalità, perché si torni a credere nei sogni: quelli non ce li possono togliere!».

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S OCIALE

di Giuseppe Spada

La paura fa 90 e tanti altri numeri!

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ai paura? Sicuramente sì, tutti hanno paura. Ma di cosa? A questo è più difficile rispondere. Le paure si collegano ad aspetti emotivi e psicologici talmente intimi che anche se due soggetti condividono la stessa fobia non è detto che quest’ultima si palesi allo stesso modo e per gli stessi motivi. Dalle più singolari alle più comuni, su un campione di 45 persone sono emerse circa 29 paure diverse. Le più classiche sono: buio, topi, altezza, aghi, serpenti e insetti di vario genere. Ognuna delle suddette fobie, (e le tante altre che analizzeremo più avanti), ha un posticino caldo e umido nella nostra mente dove rintanarsi. Sono tanti i motivi per il quale possano trovarsi lì, nel caso della paura per i topi (musofobia) tre possono essere le cause: auto-concezione, ovvero la convinzione che quell’animale possa trovarsi e provenire solamente da posti sporchi; credenze popolari, credenze che spesso mettono questi piccoli roditori sul podio dei portatori di malattie e pestilenze e, infine, la fobia potrebbe derivare da traumi. Quest’ultima causa è in realtà riconducibile a qualsiasi tipo di terrore: un evento negativo correlato all’oggetto dei vostri timori, nella maggior parte dei casi accaduto durante l’infanzia, stigmatizza per sempre il suddetto oggetto. Tra le paure più particolari che è stato possibile annotare ci sono quella di partorire, dei gatti di razza Sphynx, degli oggetti sul fondo del mare (submechanophobia) ad esempio relitti di navi, dei movimenti periodici/meccanici come quello di una sedia a dondolo o di un’altalena, infine delle superfici piene di buchi o protuberanze (tripofobia). Troviamo poi le paure più preoccupanti, quelle correlate alla sfera più intima della personalità e sono quelle che definisco “paure di sé stessi”. In questa categoria rientrano: la paura di perdere il controllo delle cose, della solitudine, di

fallire nella propria vita o di non essere abbastanza per il prossimo. Queste paranoie sono frutto di un costante combattimento con la propria interiorità. Certo quel reverenziale timore nei confronti del destino e del futuro è cosa comune un po’ a tutti, molte persone però, dell’incertezza dell’avvenire se ne fanno una vera e propria ossessione. Questo, come tutto quello sopraelencato, non è per nulla sbagliato, poiché è una cosa più che legittima avere paura. Ciò che è fondamentale fare di fronte alle proprie paure riveste molta complessità: non lasciarsi bloccare da esse. Attenzione, non affrontarle, ma non lasciare che esse ci paralizzino. Per fare un esempio banale prendiamo in considerazione una paura molto comune: quella dei clown (coulrofobia). Questa paura esiste da sempre ma dal 1990, con la miniserie “It” la figura del creepy clown divenne virale e con essa la sua fobia. Ora, non è detto che se si soffra di tale timore si debba a tutti i costi cercare un pagliaccio per una specie di terapia d’urto, ma non dobbiamo precluderci la possibilità di andare al circo. Questo vale anche per quelle famose paure di sé stessi. Quando il timore è “non realizzarsi” non bisogna ossessivamente cercare il successo, ma neanche farci arrendere all’idea di una vita “comune”. Dobbiamo permettere a noi stessi di vivere normalmente la nostra esistenza rispettandone il naturale corso.

La paura della solitudine non ci deve indurre all’isolamento o alla spasmodica ricerca di compagnia e non ci deve nemmeno schiacciare nel caso di una vita senza amicizie o amori. La mia personale speranza è che, tra quelle elencate, voi abbiate potuto trovare anche la vostra paura, se così non fosse non preoccupatevi e anzi vantatevi di temere cose che nessuno considera pericolose, perché in quel caso avrete una versione più profonda di quello che vi sta intorno.

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S OCIALE

di Simone Cerciello

Cooperativa Aliter, una speranza concreta per i ragazzi autistici

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a Cooperativa Aliter, nata dall’insoddisfazione verso le istituzioni pubbliche, si prefissa come obiettivo quello di ampliare la disponibilità di interventi comportamentali per le persone affette da autismo e altri disturbi del neurosviluppo, implementando il metodo ABA. Per fare luce sulla questione e comprendere a pieno questa realtà, abbiamo intervistato il Direttore Clinico, la dott.ssa Carmen Mosca. Come è nata questa cooperativa e di cosa si occupa? «Nasce nel 2015 da un gruppo di genitori di ragazzi autistici e si occupa di fornire servizi e formazione. Il nostro motto è “la vostra vita, il nostro progetto-avanti tutta!”. Aliter nasce dall’esperienza fallimentare vissuta da noi genitori, che nei centri sanitari convenzionati non abbiamo mai trovato adeguata assistenza. Sono laureata in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva, fino ai primi miei 15 anni di professione la Neuropsicomotricità era l’unico trattamento che conoscevo. Nel 2002 nasce mio figlio, Mariano, diagnosticato con Sindrome dello spettro autistico, e i miei studi risultavano troppo limitati, infatti la NPI e la riabilitazione non hanno tutt’ora dimostrato validità scientifica e specificità negli interventi». In cosa consiste L’ABA? «L'ABA è una scienza naturale, che indaga la modalità con cui l’uomo apprende. Gli analisti del comportamento studiano il singolo soggetto, analizzano l’ambiente in cui vive, misurano i deficit o gli eccessi comportamentali, e derivano da queste analisi metodologie di insegnamento specifiche. Potremmo davvero definire l’ABA come la vera rivoluzione copernicana degli interventi abilitativi/riabilitativi». Dal 2017 avete attivato i PTRI, cosa sono e qual

è la loro peculiarità? «Dopo tanto studio da parte di mio marito, commercialista ed esperto di quanto era messo a disposizione dei nostri figli dalla Regione Campania, siamo giunti a questo validissimo strumento. I Piani Terapeutici Riabilitativi Individualizzati sono interventi di tipo socio sanitario, che coinvolgono ASL, ambiti territoriali, cooperative iscritte all’albo regionale dei cogestori e famiglie. Nascono nel 2012 e sono stati attivati al momento solo dalle ASL Napoli 2 e Napoli 3; purtroppo la ASL Napoli 1 nega da anni alle famiglie la concessione dei PTRI». Il vostro team da quali figure professionali è composto? «I nostri operatori sono psicologi, neuropsicomotricisti ed educatori, altamente formati però in ABA, per cui sono analisti del comportamento e terapisti comportamentali. I corsi di specializzazione li teniamo noi in sede e ci avvaliamo anche di professionisti esterni, come il dottor Michael Nicolosi, psicologo ed analista del comportamento, italiano di fama interna-

zionale, ricercatore della Queen’s University di Belfast e nostro direttore scientifico». Vi sentite sostenuti dalle istituzioni pubbliche o servirebbe un maggior apporto? «La nostra sede a Pomigliano d’Arco è un bene confiscato alla camorra, intitolato a Giancarlo Siani e concessoci dalla scorsa amministrazione comunale. Abbiamo sempre ottenuto interventi straordinari sulla struttura, anche se a noi è toccata la cospicua ristrutturazione totale del bene. Ma il supporto delle istituzioni che noi apprezzeremmo in primis sarebbe ottenere almeno i pagamenti che ci spettano per i servizi svolti (non solo a Pomigliano d'Arco) in qualità di erogatore di PTRI. Inoltre, data la durata limitata nel tempo di 3 anni di questi progetti sostenuti da Budget di salute, ci siamo attivati ormai da più di un anno per aprire un centro polifunzionale sul territorio di Pomigliano d’Arco, che avvantaggerebbe molto la nostra comunità. Per questo motivo abbiamo inoltrato anche al nuovo sindaco di Pomigliano, il professore Gianluca Del Mastro, la richiesta dei documenti di cui ancora necessitiamo: la conformità urbanistica e l’agibilità. Attendiamo fiduciosi, data la sensibilità mostrataci anche da questa nuova amministrazione!». Cosa si sente di consigliare alle famiglie che si trovano ad affrontare queste sfide? «Never give up, mai arrendersi. La diagnosi non è mai la fine della vita, ma devono affidarsi a professionisti di comprovata esperienza ed efficacia, e noi di Aliter lo abbiamo già ampiamente dimostrato. Il cambiamento e i miglioramenti arriveranno in maniera copiosa, solo se le famiglie lavoreranno come un’unica squadra con gli specialisti. È finito il tempo in cui i nostri figli erano chiusi nelle stanze di riabilitazione e noi genitori fuori ad aspettare senza strumenti per migliorare la loro vita, la nostra vita!».

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A MBIENTE

di Angelo Morlando

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Eco-democrazia: siamo pronti a scelte epocali? Una riflessione sulla base del nuovo libro di Sergio Messina

n un’emergenza pandemica sembra indispensabile che l’antropocentrismo prevalga sulla Natura, ma è altrettanto necessario affermare che tutto ciò è innaturale. L’essere umano è una piccola parte della Natura e l’attuale stato delle cose non può proseguire; la pandemia è stato solo un piccolo e breve segnale. Il peggio deve ancora venire? Il peggio per chi? Per la Natura non di certo, si libererebbe solo di una piccola sua parte, lasciando spazio a nuove esperienze di viventiNONumani. È il momento di svolte e scelte epocali, ma la politica è totalmente assente; gli Enti, invece di rappresentare i viventi, si barricano dietro una burocrazia morente; ci ritroviamo Istituzioni di uno Stato che non è mai stato presente nella “questione ambientale”. Ma quale questione? La Natura non ha alcuna questione, sono gli esseri umani che continuano a farsi questioni, convinti che con tante piccole iniziative si possa raggiungere un risultato; sì, un unico risultato: il fallimento. L’economia “green” è un contentino speranzoso che i ricchi hanno lasciato ai poveri, facendogli credere che stiamo producendo in modo totalmente compatibile con l’ambiente, quindi, tutti possono osservare, come asini volanti, che: dagli scarichi dei mezzi escono petali di rose; per riciclare i prodotti basta un tocco di bacchetta magica, mentre gli scarichi tossici/nocivi prodotti dai cicli di riciclo sono nascosti sotto al mantello del mago Green; il mare è come il cielo, sempre più blu di bottiglie blu, ma sempre più povero di altri esseri viventi. Ci hanno abituati a credere che la tutela della biodiversità sia un’azione di grandissimo pregio, ma stiamo semplicemente restituendo un privilegio, cioè ciò che abbiamo rubato impunemente ai viventiNONumani o ai diversamenteumani. Il sistema democratico basato sull’antropocentrismo ha fallito miseramente in tutte le sue versioni. È ora di una democrazia fondata sull’ecologia, come scrive nel suo stupendo libro Sergio Messina, ma le Istituzioni non hanno Costituzioni pronte a recepirla e, pertanto, spetta alla nostra libera scelta decidere “come” vogliamo vivere, preoccupandoci in seguito della qualità e della quantità. Migliori approfondimenti sul tema sono riportati nell’intervista all’autore di un libro che è uno studio sulle fondamenta ecologiche del diritto e della politica. Cercando di non uscire fuori tema e sperando di non uscire fuori di testa, mi è necessario proporvi il mio punto di vista, visto che al momento mi sento ancora un vivente in un territorio umanamente e urbanisticamente morente, almeno di speranze, cioè la nostra Castel Volturno. A livello locale, come nel resto della provincia di Caserta, nonostante la crisi, girano più Jeep e Range Rover che immigrati irregolari. Ovviamente per gli analfabeti socio38

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logici, alla guida delle Jeep ci sono gli immigrati irregolari, ma con la coppola e la lupara; perché, diciamolo con forza: siamo ormai sazi di legalità, basta legacci legati alla legalità. Come diceva il gemello di Proust: il vero viaggio per vivere senza problemi è quello con gli occhi chiusi, preferibilmente bendati. Mi dispiace per le tante persone divenute “perbene”, ma noi, mascalzoni latini, non abbiamo mai tenuto gli occhi così ben aperti.

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ul tema dell’eco-democrazia abbiamo intervistato Sergio Messina, avvocato e dottore di ricerca in filosofia del diritto che ha conseguito un Master in diritto dell’ambiente ed è stato visiting researcher presso la Strathclyde University of Glasgow. Oltre al testo “Eco-democrazia. Per una fondazione ecologica del diritto e della politica”, è autore anche di numerosi articoli sul tema. Di seguito l’intervista. Che importanza può avere il collegamento tra ecologia e filosofia in riferimento al mondo del diritto e della politica? «Il primo aspetto da considerare nella intera tematica ecologica è l’interdisciplinarietà, il tenere assieme (come in una collana che può rappresentare in una metafora l’unità della conoscenza) singole perle che costituiscono solo aspetti (sì importanti) di un “intero”, ma non riducibili ad oggetto di un mero sapere specialistico. Se guardiamo soltanto ai saperi “settoriali” perdiamo di vista le relazioni, i legami e le connessioni con l’intera biosfera. Ciò ha comportato la nascita, all’interno dello stesso sapere scientifico, di un nuovo metodo che non si basa più soltanto (come nello

sperimentalismo galileiano-newtoniano) sulla semplificazione del reale attraverso la sua scomposizione in rapporti lineari di causaeffetto, ma su una circolarità in base alla quale ogni conseguenza di un’azione umana o naturale retroagisce sulla sua causa fino a rendere complicato separare un fenomeno da un altro. In tale frangente è lo stesso sapere scientifico ad essere oggi incerto nelle sue previsioni in merito anche alle influenze che un dato comportamento può provocare su un intero sistema di riferimento, qual è nel nostro caso il Pianeta Terra. La sensibilità ambientale è un fenomeno tutto contemporaneo (sebbene non siano mai mancate nella storia dell’umanità episodi di attivismo, di denuncia e di sensibilizzazione che risalgono addirittura all’antichità, basti pensare a Teofrasto e a Ippocrate) ma è con la contemporaneità che è nata l’esigenza di revisionare i singoli ambiti disciplinari per renderli compatibili con un’ etica che si facesse carico non soltanto dei rapporti tra esseri umani (rispetto per l’integrità fisica, la proprietà, il patrimonio ecc.) ma delle sorti del pianeta quale precondizione per la sopravvivenza della stessa umanità. Per tale ragione, di riflesso, il mondo giuridico, anzitutto a livello internazionale, e in seguito progressivamente a livello nazionale (mediante Costituzioni e legislazioni che presentano differenze fondamentali che comunque è importante approfondire) ha iniziato ad adeguarsi all’esigenza di trovare un equilibrio tra modelli di sviluppo e tutela degli ecosistemi naturali, molto spesso (come è avvenuto in Italia) a partire da un bene comunque basilare che è quello della salute pubblica». Quale importanza in termini di priorità può avere la crisi ecologica in un tempo di pandemia come quello attuale? «Il Covid costituisce in maniera lampante lo svelamento della forza e allo stesso tempo della fragilità della natura che può manifestarsi anche in termini di effetti sconvolgenti. Ancora una chiara manifestazione di imprevedibilità e incertezza tanto dell’origine, quanto dell’esito di un determinato fenomeno come quello di tale virus così come di altri, la cui diffusione è stata determinata molto probabilmente soprattutto da un’eccessiva pressione sui sistemi naturali (deforestazione, inquinamento atmosferico, cambiamento climatico, riduzione della biodiversità ecc.). Basti pensare all’agevolazione del “salto di specie” che avviene da parte degli stessi virus allorquando si creano squilibri ambientali come l’abbattimento di intere aree forestali o al commercio di specie selvatiche prelevate dal loro habitat naturale per far posto a colture e allevamenti intensivi. Ma possiamo avvertire anche un collegamento significativo nell’inquinamento atmosferico che, oltre a cau-


sare decine di migliaia di morti l’anno in Italia (la maggior parte concentrata nel nord della penisola) e otto milioni nel mondo secondo, le stime dell’OMS, consente (per mezzo del particolato, prodotto per lo più da traffico automobilistico e industrie) di far permanere i virus nell’aria per un tempo maggiore. Le misure politiche sul confinamento sociale (soprattutto la parziale interruzione della produzione industriale e la forte limitazione del traffico automobilistico e aereo) della primavera dello scorso anno, hanno consentito una riduzione rilevante dell’inquinamento atmosferico in alcune aree del pianeta e l’abbattimento del 17% circa delle emissioni di CO2. Se la pandemia da un lato ha messo in ginocchio l’economia globale, dall’altro offre un’inedita possibilità per soluzioni che siano “a lungo termine”, ovvero non focalizzate soltanto su una immediata risposta sul piano sanitario ed economico lasciando impregiudicate le scelte sulle modalità con cui si producono, estraggono e consumano risorse». Se lo sono, in che modo e in che misura possono essere conciliabili gli interventi statali per il sostegno economico e quelli per la tutela ambientale ed ecologica? «La ragione e allo stesso tempo la risposta a questa domanda è tutta in un’endiadi che viene fuori dalle parole ambiente ed ecologia. Siamo abituati a separare gli ambiti e i contesti. Se dal punto di vista teorico è vero che la parola “ambiente” ed “ecologia” hanno significati diversi, sul piano pratico della crisi planetaria non esiste invece separazione tra l’ambiente dell’essere umano (es. infrastrutture, paesaggio, urbanistica, beni culturali ecc.) e la natura quale oggetto di studio della scienza ecologica. È qui che si annida il problema di una fede in una ”green economy” (da non confondere con l’economia ecologica) che senza abbandonare i presupposti della crescita crede o vuol far credere che sia possibile “disaccoppiare” attività produttive e impatto ambientale, senza però una complessiva valutazione “sistemica” sia sui limiti fisici del pianeta (nove per l’esattezza secondo un autorevole e affermato studio condotto undici anni fa sulla rivista Nature da un gruppo di scienziati di fama internazionale) sia sul consumo aggregato di risorse. In tale frangente tanto il Piano nazionale di ripresa e resilienza-la cui dotazione finanziaria ammonta a 69, 80 miliardi di euro- quanto il Green Deal europeo, pur costituendo una

preziosa occasione per ripensare e agire sui complessivi rapporti tra Stato, mercato e società civile, non sembrano in realtà adeguatamente affrontare il problema prioritario della ”impronta ecologica” globale poiché si concentrano soprattutto su come rilanciare la crescita economica con altri strumenti diminuendo sì la marcia, ma ignorando al contempo il motore che si sta bruciando. Non si tratta di rinnegare il complesso delle misure messe a punto dal Governo Conte per il Recovery Plan quanto di prendere atto che al momento le stesse dovrebbero essere concepite in modo più coerente dal punto di vista ecologico: tutela ambientale, ma grandi infrastrutture fortemente impattanti per favorire lo “sviluppo”; filiera agroalimentare sostenibile e al contempo competitiva con norme internazionali che vanno in una direzione inversa; incremento del turismo nei parchi e così via. Se a prima vista tutto ciò appare come una sfida allettante (e indubbiamente lo è) tali conciliazioni sono solo parzialmente possibili e realizzabili sul piano di un’autentica sostenibilità, soltanto se in ultima analisi è l’equilibrio ecologico a trionfare e non quello del mercato». Perché a questo punto insistere tanto su una “democrazia ecologica” rispetto, ad esempio, a soluzioni che propongono una sorta di “eco-dittatura”? «L’eco-democrazia è un concetto che riassume in sé un coagulo di possibili visioni e procedure dirette a veicolare e al contempo “testare” differenti concezioni sulla sostenibilità ambientale. Vi sono contesti geografici, culturali e politici, come in alcuni Stati del Sudamerica, dove è seguito un approccio biocentrico sia per l’economia che per il diritto consistente di base in una visione del “benessere” (buen vivir in lingua coloniale) allargato all’intera comunità degli esseri viventi, fino a ricomprendere la biosfera nella sua totalità. Un riconoscimento che ha trovato la sua identità giuridica grazie

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alla consacrazione dei “diritti della natura” in alcune Costituzioni come quelle di Ecuador e Bolivia. Ma al netto della praticabilità di un trapianto culturale del genere nella nostra realtà europea-che comporterebbe comunque una revisione anzitutto antropologica dei modi e degli stili di vita-occorrerebbe almeno iniziare davvero a riesaminare in un senso molto critico i due pilastri basilari della civiltà occidentale, ovvero la libertà e la proprietà, tenendo conto di conflitti di interesse e di potere che non si possono risolvere nelle mere procedure, ma con il rilancio di un’ecologia politica. Una politica dal basso portata avanti soprattutto da soggetti come movimenti, associazioni e in generale dalla società civile che ha fatto grandi passi, ma che per avanzare dovrebbe organizzarsi in strutture federative più solide in grado di influenzare per altro non solo il livello locale, ma arrivare a costituire un vero e proprio “sistema deliberativo”, anche sul piano internazionale, in grado quanto più possibile di indirizzare le politiche globali (oggi prevalentemente condizionate dai poteri selvaggi del capitalismo-finanziario) per costruire, prima ancora di inedite istituzioni, un nuovo senso comune».

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S PORT

di Alessandra Criscuolo

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Il tifoso, analisi di una passione

i si sofferma spesso a discutere della passione per la propria squadra del cuore, ma troppo poco si riflette davvero sulla figura del tifoso. Abbiamo provato a ragionare con l’aiuto del sociologo Romolo Giovanni Capuano che sull’argomento ha scritto il libro “Lo hanno visto tutti – Nella mente di un tifoso”, analizzando sentimenti e passioni dei tifosi di calcio. «Nel libro si cerca di applicare alla mente del tifoso alcune teorie della psicologia sociale molto note, ma che raramente sono state applicate nell’ambito calcistico. Molto spesso si cade nell’errore di considerare il calcio solo come un banale gioco, eppure le dinamiche politiche ed economiche che muovono e condizionano gli sport, ed in particolare il calcio, non lo possono più minimizzare a semplice gioco. Il calcio deve essere considerato un rituale collettivo a cui partecipano i giocatori in campo, gli interessi anche economici e soprattutto i tifosi». Ci stupiscono spesso le emozioni e gli atteggiamenti che scaturiscono dalla loro passione calcistica, il tifoso vive una forte identificazione con la propria squadra e gli avvenimenti che la coinvolgono. Di conseguenza, il pensiero che ne viene fuori è “tutto ciò che le accade, accade a me”. Vive una illusione di unicità, riporta alla sola dimensione di avversario il supporter di un’altra squadra, piange come di un insuccesso personale l’eventuale sconfitta sul campo e si indispettisce proiettando sull’avversario, ma anche nella propria quotidianità, il sentimento negativo. «Le conseguenze di questa identificazione portano a gioire vivendo una gloria riflessa e molto spesso anche a gongolare nonostante l’insuccesso, perché la propria identificazione arriva al punto di giustificarlo. Perché la propria squadra è comunque portatrice di sani valori quali la correttezza sul campo». Ci siamo chiesti se questa forte identificazione

abbia portato nel tempo ad un’esasperazione sfociata spesso nella violenza degli scontri tra falangi avversarie. «In realtà – ci spiega Capuano – siamo portati a ricordare il calcio di una volta come puro e sereno. Ma la violenza ha sempre accompagnato il calcio. Gli scontri tra tifosi ci sono sempre stati e spesso ci è scappato il morto. Solo che prima venivano percepiti come una naturale conseguenza di scontri tra tifosi rivali, veniva tollerata nella misura di una condanna morale che però non generava panico tra le folle. Eppure, la storia ci racconta che negli anni ’50 un arbitro sudamericano chiese un’assicurazione sulla vita ed un’eventuale scorta per il suo rientro a casa nel caso in cui la squadra di casa avesse perso!». Fino agli anni ’60 non vi era percezione di tifo organizzato, oggi è reso più visibile e quindi più corposo e massiccio come impatto per le persone che ne vengono a contatto. Con l’avvento della televisione e la diffusione delle immagini di cosa accade sul campo, con l’amplificazione dei mass media, la percezione del pubblico è cambiata. Oggi siamo diventati tutti molto più intolleranti alla violenza ed alle sue molteplici manifestazioni e la condanna è diventata un sentimento corale. L’organizzazione dei tifosi è cambiata anche per l’amplificazione social che il tifo vive, scatenando una contrapposizione identitaria. «La devozione del tifoso assorbe nello spazio sacro della maglia qualsiasi cosa o persona vi rientri». In questa dimensione, trovano spazio in molti casi i sentimenti di identità territoriali, magari con le conseguenti contrapposizioni storiche nord-sud Italia. Come anche quelle cittadine quando si ritrovano a convivere molteplici squadre avversarie. Come ogni aspetto della nostra vita quotidia-

na, anche il calcio è stato fagocitato e sconvolto dalla facilità con cui avviene il passaggio di informazioni e soprattutto dell’esternazione del proprio pensiero in merito. La visione delle immagini reiterata, porta il tifoso identitario a rielaborare secondo i propri sentimenti quello che vede. Come quando ci si ritrova ad aver visto “un’altra partita” rispetto al tifoso avversario e alle analisi tecniche. La realtà è che non esiste una singola identità del tifoso, diventano molteplici perché filtrate e analizzate personalmente del vissuto del singolo.

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di Fernanda Esposito

A TU PER TU CON LA CHEF STELLATA ROSANNA MARZIALE

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o conosciuto Rosanna Marziale anni fa, tenne un paio di lezioni ai ragazzi dell’Istituto alberghiero e successivamente del turistico, riuscì a tenere testa ai più scettici e affascinò senza sforzo docenti e studenti che per la prima volta erano a tu per tu con una chef. Tutt’ora non smette di sorprendere, con un curriculum d’eccezione e dopo aver conquistato l’ambita stella Michelin, sul suo sito, la chef casertana, si presenta così: «Sono Rosanna Marziale cuoca del ristorante Le Colonne e di San Bartolomeo Casa in Campagna. Io sono anche un contadino appassionato, un mangiatore sensuale, un bambino che si costruisce il suo catalogo di sapori, un vecchio fornaio, un pescatore di alici, un pastore, un mastro casaro… e tanto altro ancora». Ed è proprio così, Rosanna ha mille volti, in generale una vera artista-chef, creativa e sempre pronta a rimettersi in gioco. Come fa o ha fatto ad adattarsi alle nuove esigenze imposte dalla pandemia, come imprenditrice e come chef? «Siamo rispettosi delle regole per noi, per i nostri collaboratori e per i clienti, ma i cambiamenti di colore delle Regioni così repentini sono irrispettosi per chi come noi sta cercando di non perdere la stabilità mentale». Chef che caratteristiche dovrebbe avere una cucina contemporanea? «Una cucina contemporanea dovrebbe essere in linea con i nuovi stili di vita cercando però di non adattarsi troppo alle mode e di avere sempre presente le tradizioni e le coltivazioni locali». A chi si ispira Rosanna Marziale? «Mi ispiro soprattutto a quello che ha realizzato mio padre cercando di modernizzarlo e

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cercando nuovi stimoli nell’arte in generale, perché il cibo non è solo nutrimento per il nostro corpo». Quali sono gli elementi di innovazione nei suoi piatti? «L’elemento di innovazione è cercare di non distruggere la materia prima». L’ingrediente più importante nei suoi piatti? «Lo sanno tutti: la mozzarella di bufala Campana DOP». Che rapporto ha con il territorio? «Ho un rapporto molto forte, mi sento profondamente legata alla mia terra, sono figlia di questo territorio e cerco di rispettarlo e glorificarlo il più possibile». Per i clienti oggi andare al ristorante non è più semplicemente l’uscita del sabato sera, ma un’esperienza di degustazione, un’emozione.

Qual è il suo piatto più adatto per soddisfare questi nuovi bisogni e che al contempo la rappresenta meglio? «La pizza al contrario, ma anche la palla di mozzarella ripiena di pasta impanata e fritta». Quali sono le maggiori difficoltà che ha dovuto fronteggiare nella sua carriera e le più grandi soddisfazioni? «Di difficoltà ce ne sono state diverse, la più importante è stata la morte di mio padre. Per le soddisfazioni, anch’esse tantissime, ne cito una tra le più recenti: essere di ispirazione per le bimbe, grazie alla Mattel che ha realizzato una Barbie chef con le mie sembianze. Oggi Barbie lancia un messaggio importante: quello di far credere alle bambine di poter arrivare ovunque e questo mi gratifica molto, come professionista e come donna». Se non fosse diventata chef, cosa avrebbe voluto fare? «Avrei di sicuro avuto un’attività commerciale, ma in realtà, mi piace molto la fotografia e la pittura». Per chi vorrebbe cucinare se potesse scegliere un personaggio famoso? «Non ho dubbi: per Papa Francesco». Rosanna Marziale con la sua arte culinaria «fa parte della generazione di chef donne che sta rivoluzionando l’alta cucina». Se ne volete sapere di più visitate il suo sito rosannamarziale.it e scoprirete con gusto i suoi piatti forti e le nuove proposte, dalla Palla Ciok alla sua ricetta di Pasqua “Raw… ioli di bufalo e cacao”. Rosanna è un vero artista solista: «Le mie partiture sono le ricette - conclude la Marziale Come un pittore con i suoi quadri, mostrando una ricetta lo chef dice tutto, racconta la sua storia e dà voce alle sue identità… forse!».


C UCINA

di Pasquale Di Sauro

Lascia il lavoro in banca e diventa pizzaiolo Da Napoli, il Sogno Americano di Pasquale Di Maio

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ono un treno che non si ferma”. Inizia così la chiacchierata con Pasquale Di Maio. La metafora è calzante, il lungo viaggio parte da Posillipo, per poi passare da Mondragone fino agli Stati Uniti, precisamente Minneapolis in Minnesota, e non è ancora finito. Lì, oggi, il napoletano conduce la sua vita da pizzaiolo-imprenditore con grande successo. Piccolo particolare: Pasquale ha un passato da impiegato in banca, lascia il lavoro per il Sogno Americano, qui lo racconta per noi. Potremmo iniziare con “tratto da una storia vera”, la tua avventura è un film, come inizia il viaggio? «Comincia da ragazzo, la mia è una famiglia di ristoratori. Adolescente, in cerca di soldi per coprire le spese, lavoravo con loro e lì il colpo di fulmine per la cucina. Tuttavia seguii le orme di mio padre, era un bancario. Prima il diploma, poi la laurea, poi il lavoro in banca. Una carriera decennale con un posto in una filiale di Mondragone, vicino casa mia, quale miglior cosa poteva capitarmi? Invece fu la peggiore». Lavoro in banca, vicino casa, tutto perfetto… e invece ? «Non sono un tipo da ufficio, non amo i neon e le scrivanie, non ero soddisfatto. Feci un viaggio in America, raggiunsi mio zio in Minnesota, da quel momento tutto cambia. Viveva una vita da sogno, fu lui in modo scherzoso a propormi di ritornare un giorno se avessi voluto, ebbi la visione per le “grandi cose”, gli USA erano il mio unico pensiero». Poi cosa è successo? «Tornai l’anno successivo, conobbi una ragazza, sarebbe poi diventata mia moglie. Per tre anni Italia-Minnesota andata e ritorno tanto che le autorità statunitensi iniziarono a tenermi d’occhio per tutte le volte che timbravo il

passaporto (ride ndr). Mi decisi, in banca non volevo starci, tornai in Italia solo per le dimissioni. Così un nuovo inizio». Una nuova vita negli Stati Uniti. «Un anno in California, lavoravo in uno Yacht Club ma la mia passione era la pizza, volevo cucinare. Tornai in Minnesota per la scomparsa di mio zio. Iniziai a lavorare nel suo ristorante facendomi conoscere con il nome di "Gigi", cosi lo chiamavano. Era famoso, fu uno dei pionieri della cucina italiana a Minneapolis, in particolare di quella partenopea, alle strane richieste americane reagiva molto male. Oggi sono il titolare di tre catering: Vesuvio’s, pizza e cucina italiana, Chuckwagon, linea barbecue, e Special Events, tutto il gourmet. Grazie ai tre web site, riesco a seguire bene la clientela rispondendo a tutte le esigenze». La fortuna aiuta gli audaci, ma non basta per un salto del genere.

«La fortuna te la costruisci da solo. Sono partito con mille euro, sporcandomi le mani nei ristoranti. Ho “rubato” il mestiere e con i dollari messi da parte ho iniziato il mio business. Il successo è legato in modo particolare alla pizza, ma non nasce per caso. Dieci anni fa organizzai una festa col vicinato, comprai un forno e servì le mie prime pizze sperimentali. Un mese dopo una signora bussò alla porta chiedendomi di cucinarle al battesimo della figlia, fu un successo. Da lì l’idea: una licenza, un furgone e due pale per gli impasti. Con le feste facevo soldi. Introdussi la pizza nel menu del ristorante, da quel momento il business esplose. La pizza ne è il motore, è grazie alla pizza che i giornali parlano di me». Ti capita di tradirti accogliendo richieste “americane”? «Tutti i giorni (ride ndr). Scherzi a parte il 30% del mio fatturato è rappresentato dalla pizza “Hawaiana”: con l’ananas. Lo so, ma mi adeguo. La pizza qui va forte, ogni giorno sette forni accessi, ho anche un progetto in cantiere, una new opening, stay tuned». Vicepresidente dell’Associazione “Pizzaioli in Giro per il Mondo”. Un ruolo istituzionale. «Un onore. Organizziamo eventi, come le due crociere del pizzaiolo, a bordo delle quali abbiamo tenuto corsi, promosso scuole per colleghi che vogliono specializzarsi. Soprattutto offriamo la possibilità di imparare il mestiere. Serviamo il materiale del mondo pizza che i nostri iscritti possono acquistare. Abbiamo fondato l’Accademia PGM, che è già operativa anche online con tanto di video lezioni».

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“Le biglie fanno rumore”

Phlegraean Tales, storie e miti dei Campi Flegrei di Nicola Iannotta

L’Antologia poetica sull’infanzia de "Il Visionario Poesia" di Teresa Coscia

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Sentivamo di proporre un titolo capace di simboleggiare la voce dei bambini

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a poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve” recitava Troisi in uno dei suoi film più poetici di sempre, “Il Postino”, in un’epoca in cui l’unico modo per leggere poesia era affidarsi alla carta stampata. Oltre vent’anni dopo l’essenza dell’arte poetica non è affatto mutata, a differenza del mezzo utilizzato per trasmetterla, grazie al quale emergere è facile quasi quanto passare del tutto inosservati. Per questo nasce “Il Visionario Poesia”, un progetto nato con l’intento di pubblicare online e sui social, in maniera non periodica, opere di poeti sconosciuti o inediti, per diffondere maggiormente le voci poetiche contemporanee. È fresca di stampa la prima antologia poetica del Visionario, dal titolo “Le biglie fanno rumore”. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Mele, ideatore e fondatore del progetto, al quale è stato d’obbligo porre una domanda: cosa significasse il titolo della raccolta. «Il titolo “Le biglie fanno rumore” è stato scelto da Mirko Di Grazia, uno dei collaboratori del progetto nonché illustratore della raccolta. Sentivamo l’esigenza di proporre un titolo che tratteggiasse un’immagine capace di simboleggiare in maniera vivida la voce dei bambini». “Le biglie fanno rumore”, infatti, nasce come raccolta di poesie sull’infanzia, alla quale hanno preso parte poeti fra i più svariati.

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«Le biglie sono un gioco antico, da associare all’epoca dell’infanzia non solo per la loro fragilità. Spesso i bambini non vengono propriamente ascoltati dal mondo degli adulti, troppo impegnati e risucchiati dalla propria vita. Nonostante ciò, anche i bimbi hanno una voce, spesso associata al rumore di un capriccio per esempio, che tuttavia andrebbe ascoltata e assecondata». Una raccolta, insomma, mirata a porre l’accento su una delle età più delicate della vita di ciascuno, spesso messa a tacere dal frenetico e insofferente mondo degli adulti e parte di un progetto ben più grande. «L’intento di questo progetto de Il Visionario, oltre alla diffusione di poesia contemporanea in tutte le sue sfaccettature, è mostrare che la poesia può non essere fine a sé stessa e che anche un’arte così apparentemente astratta possa, nel suo piccolo, contribuire al miglioramento della società. Per questo ho ideato il progetto “Children”: il ricavato dalle vendite dell’antologia andrà in beneficenza alle Onlus impegnate a fornire un aiuto concreto alle realtà più degradate, prendendosi cura dei bambini per evitare loro ulteriori sfruttamenti e violenze». Ebbene sì, le biglie fanno rumore, ed è un dovere di ciascun adulto proteggerne le fragilità. Nel frattempo, riscopriamone il suono tramite le voci dei nostri poeti: in fondo, forse, non hanno mai smesso di giocarci.

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ievocare il Passato significa conoscere il Presente, avere maggiore consapevolezza della Storia e instaurare un rapporto più maturo con sé stessi e con ciò che ci circonda: continua il progetto Phlegraean Tales, storie e miti dei Campi Flegrei. Il mese scorso vi avevamo anticipato l’inizio di questo progetto, ideato e realizzato da quattro giovani ragazzi, profondamente legati alla loro terra. I Phlegraean Tales sono i racconti delle storie che compongono la tradizione culturale (orale e scritta) dei Campi Flegrei: ogni luogo, ogni monumento ha una sua storia da raccontarci, nota o meno nota che sia, ma comunque fondante della nostra identità occidentale, europea ed italiana. Il progetto è stato lanciato il 7 Marzo e ogni video verrà pubblicato sulle pagine web dedicate, con cadenza quindicinale. “Enea”, è il racconto d’origine dell’eroe troiano che ha dato il via all’opera e non poteva essere altrimenti. Abbiamo intervistato i quattro ragazzi: Matteo Biccari, Alberto Costagliola, Francesco Guardascione e Francesco Piciocchi per farci raccontare com’è nata la loro idea. Come nascono i Phlegraean Tales? «Il progetto nasce parallelamente alla crisi culturale che stiamo vivendo. La pandemia da Covid-19 ha svilito le strutture economiche e sociali del nostro mondo, ma anche e soprattutto gli interessi e le attività culturali. Nasce da qui l’esigenza di trovare mezzi alternativi per la fruizione di prodotti artistici e culturali, così da impedire lo svilimento totale dell’intelletto. In questo momento l’unica possibilità di fruizione sembra essere offerta dal web. Abbiamo deciso così di realizzare video-racconti che permettano al pubblico di conoscere le storie, le leggende e i miti fondanti della nostra identità. Ma c’è di più: nella realizzazione dei video abbiamo cercato di valorizzare la componente emoti-

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vo-affettiva delle storie, così da poter rendere al meglio l’anima delle stesse, allontanandoci in questo modo dai tagli documentaristici-storici che troppo spesso accompagnano i racconti dei monumenti e siti archeologici. In terzo luogo, volevamo produrre un oggetto artistico che desse risalto alla nostra terra e valorizzasse il nostro patrimonio naturalistico e culturale». Qual è il metodo di selezione e ricerca da voi seguito? «Ogni storia è legata a un particolare luogo, a un monumento e a un momento precisi. Ovviamente tanti sono i luoghi e tante sono le storie del nostro complesso archeologico. I luoghi ci parlano nel momento in cui hanno una storia fondante da raccontarci. Una storia è necessaria quando ci aiuta a decifrare più a fondo la nostra identità di uomini e cittadini dei Campi Flegrei. Dopo aver individuato un soggetto, la nostra ricerca è molto accurata: selezioniamo e confrontiamo le fonti, ascoltiamo le testimonianze letterarie più autorevoli e quelle tràdite dalla versione orale dei nostri avi. Il risultato di questo lavoro è Phlegraean Tales». La forma artistica dei racconti rievoca un po’ la figura antica degli aedi e dei cantastorie. Qual è la vostra idea a riguardo? «Il prodotto artistico che abbiamo realizzato fonde diverse forme d’arte. I Phlegraean Tales mescolano la recitazione, la musica e la fotografia. Si potrebbe parlare di un cantastorie moderno poiché alle parole e alla musica si aggiunge la fotografia: le riprese aeree realizzate dal nostro Francesco Piciocchi sono di supporto alla narrazione. Nel momento in cui le parole dell’attore si esplicano e sono accompagnate dalla musica, l’immaginazione dello spettatore plana sui luoghi raccontati, ed è lì che il video permette di visualizzare realmente dall’alto i luoghi. Sono le idee dell’immaginazione che prendono forma e si concretizzano nelle riprese del drone». Qualche anticipazione sui prossimi video? «Il prossimo video-racconto sarà “Don Pedro de Toledo”, guida di Napoli sotto Carlo V d’Asburgo. Cercheremo di raccontare le luci e le ombre della sua gestione di potere. In ultimo, ci teniamo a ringraziare il Teatro Sala Molière, luogo di studio e di formazione, fondamentale per la nostra crescita; Gianni Biccari per la supervisione della fotografia e Ugo Di Gennaro per l’audio e il suono».

L’importanza di donare il midollo osseo di Claudia Tramaglino

L

a donazione di midollo osseo è un gesto di grande altruismo che può salvare la vita di una persona; A tal proposito abbiamo intervistato Monica Costanzo, una delle fondatrici dell’associazione Gabry Little Hero. L’associazione si occupa proprio della diffusione della cultura alla donazione del midollo osseo. In cosa consiste il trapianto di midollo osseo? «Innanzitutto, il donatore deve avere tra i 18 e i 35 anni, pesare minimo 50 kg e godere di buona salute. Questi sono i parametri italiani per la donazione del midollo. Prima di poter donare viene prelevato un campione di sangue, per verificare l’idoneità alla donazione. Dopodiché si entra nel registro donatori e si riceve un codice gemello genetico di qualcun altro in una qualsiasi parte del mondo. Il trapianto avviene in due modi: o attraverso un prelievo dalle creste iliache, ovvero direttamente dal midollo osseo, oppure attraverso l’aferesi. Il metodo attualmente più utilizzato è quello dell’aferesi. Per una durata di tre o quattro ore, una serie di tubicini preleva il sangue che successivamente viene reinfuso dopo la rimozione di alcune sostanze. Ciò significa che il donatore non subisce nessun intervento. È il termine “trapianto di midollo osseo” a generare paura, poiché lo si associa a un trapianto di organi e quindi a un’operazione, quando in realtà è più simile a una donazione di sangue. A Napoli è possibile tipizzarsi al Secondo Policlinico, previa prenotazione». Com’è nata l’associazione? «Gabry è un bambino di tre anni che è nato con una sindrome rara, la SIFD. È una sindrome genetica che hanno venti persone in tutto il mondo e in Italia solo lui ne è affetto. Quando è nato era completamente sordo, cosa di cui i medici si sono subito resi conto, così come dei vari ritardi di movimento. Ciò accedeva poiché il suo sistema immunita-

rio non funzionava. Trovare la malattia è stato difficile, però i genitori sono stati relativamente fortunati a ricevere la diagnosi nei primi mesi di vita di Gabry. Non c’è una cura per questa malattia, ma almeno si capiva come aiutare Gabriele. Il trapianto di midollo osseo è stata una delle proposte fatte dai medici. Con il nuovo midollo, ricevuto nel 2019, Gabry adesso ha un sistema immunitario funzionante e può finalmente interagire con gli altri bambini e con il mondo che lo circonda. Da questa esperienza ci siamo resi conto di quanto poco si sappia della donazione del midollo e così abbiamo fondato l’associazione Gabry Little Hero nel giugno del 2020». Ci sono altri progetti di cui si occupa l’associazione? «Sì, ci sono vari progetti in corso tra cui la realizzazione di due parchi inclusivi, uno a Pozzuoli e uno a Seregno. Il progetto del parco di Pozzuoli è stato approvato dal comune e costerà oltre 200.000 euro, dei quali 65.000 finanziati dal comune. La nostra associazione si dedicherà alla realizzazione dell’area musicale. Per sostenere la realizzazione di questo parco si può fare una donazione o anche, partecipando alla campagna “Pasqua insieme”, acquistare una colomba o un uovo di Pasqua».

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