MERTENS NELLA STORIA DI NAPOLI

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Periodico edito dal "Centro Studi Officina Volturno"

ANNO XIX - NUMERO 225 - GENNAIO 2022

Copertina di Antonello Dell'Omo © | Ph. Ciro Sarpa

SCANSIONAMI

Gennaio 2022

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Editoriale

di Antonio Casaccio

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isfare le valigie di un anno passato non è mai semplice, bisogna districarsi tra le gioie e dolori ereditate da un anno che ci ha restituito una grande speranza. I vaccini hanno fatto calare drasticamente il numero di decessi per covid-19 e, il nostro Paese, ha raccolto quel dolore lacerante dando un esempio straordinario: l’Italia è tra i primi paesi europei per numero di vaccinati (oltre il 70% hanno completato il ciclo vaccinale). Per quanto si parli di NoVax e complotti vari, dobbiamo riconoscere ai nostri concittadini un senso di responsabilità che sta facendo la differenza e sta raccogliendo un plauso mondiale. Questa rinata speranza, però, non dev’essere confusa come la fine della lotta al covid e alle sue varianti; il numero di terapie intensive e ricoveri sono in costante crescita e ciò ci spinge ad una nuova assunzione di responsabilità: non dobbiamo anteporre la nostra voglia di libertà all’accesso alle cure per i nostri concittadini. Se l’Italia si affaccia al 2022 con la speranza del vaccino e dei fondi del Pnrr, anche “Informare” deve essere motivata per l’inizio del nuovo anno. Il Premio d’Eccellenza Città di Castel Volturno è stato un crocevia nella storia della nostra Redazione, tutti i giovani cronisti della testata si sono impegnati nella realizzazione di un evento straordinario, che ha mostrato all’Italia intera il volto solidale e unito di Castel Volturno, comune mortificato dalla cronaca, dalla camorra e dalla politica. Abbiamo riunito le migliori energie del territorio e ci siamo guardati negli occhi, gli stessi di Gino Strada (a cui è dedicato il premio) per ricordarci che solo facendo squadra possiamo cambiare i nostri territori. È stato l’anno in cui ci siamo stretti emozionati quando il Presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, ha

consegnato alla nostra Redazione l’onorificenza del Parlamento italiano, elogiando il lavoro giornalistico svolto in questi anni. Proprio mentre avevamo il cuore a mille, un’altra splendida notizia: l’inchiesta sulle acque contaminate di Fukushima, condotta dal nostro responsabile scientifico Angelo Morlando con l’Ambasciata Giapponese in Italia, è stata premiata all’European Award Investigative and Judicial Journalism, premio europeo tenutosi alla Reggia di Caserta. Le sorprese non finiscono ed è per questo che siamo felici di presentare ai nostri lettori la nostra sede operativa di Napoli, all’interno di un magnifico edificio di Piazzetta Nilo, cuore pulsante della città partenopea. Siamo grati al Professor Roberto Nicolucci, fondatore di Nicolucci Editore, che ci ha concesso uno spazio straordinario per implementare le nostre attività su Napoli. Proprio nel capoluogo campano, nel 2021, abbiamo raccolto la disponibilità delle sedi della Feltrinelli a diventare punto di distribuzione gratuito del magazine, un importante salto per far sì che il periodico viva nei punti culturali più ferventi. Il 2021 per il nostro giornale è stato l’anno della maturità, di una crescita professionale che ha investito ogni singolo giornalista; nel 2022 abbiamo il dovere di fare di più e di lanciare le nostre aspettative oltre ciò che immaginiamo. La prima pagina di questo nuovo percorso è stata dedicata volutamente a Dries Mertens che, grazie alla complicità di Informare, ha reso possibile la realizzazione del sogno di Pasqualino Esposito, nostro sostenitore e tifosissimo del Napoli e del calciatore. Indipendentemente dal futuro calcistico di Mertens, è e resterà nella storia del Calcio Napoli e della città. Ci sarà da lavorare sodo, ma siamo certi che la forza dei nostri ideali sia il motore adatto a spingerci verso nuovi traguardi. Sentiamo il dovere di non fermarci e siamo convinti che voi lettori sarete al nostro fianco, sostenendoci e seguendo le penne dei nostri giovani giornalisti; a voi tutti un augurio di buon 2022. Non fermatevi!

ATTUALITÀ

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L’intervista a Juan Cruz, fondatore e vicedirettore di El Paìs

MEDICINA

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L’analisi del Dott. Paolo Ascierto

POLITICA

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Orta di Atella: le dichiarazioni del sindaco e del vicesindaco

ANNO XIX - NUMERO 225 - GENNAIO 2022 Periodico mensile fondato nel 2002 Registrato al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n° 678 Edito dal Centro Studi Officina Volturno Presidente Tommaso Morlando

Sede Operativa Piazza delle Feste, 19 Pinetamare - 81030 - Castel Volturno (CE)

Tel: 0823 18 31 649

E-mail: redazione@informareonline.com IBAN: IT 83 V030 6974 8731 0000 0001 835 Direttore Responsabile

Hanno collaborato

Antonio Casaccio

Alessandra Criscuolo

Vicedirettore

Chiara Del Prete

Luisa Del Prete Caporedattore

Benedetta Guida Ciro Giso Clara Gesmundo Domenico Del Prete Fabio Di Nunno

Donato Di Stasio Responsabile scientifico

Angelo Morlando

Fabio Russo Francesco Cimmino Gennaro Alvino Gianrenzo Orbassano Giorgia Scognamiglio

Responsabile Culturale

Grazia Sposito Ilaria Ainora

Roberto Nicolucci

Iole Caserta Joel Folda

Responsabile legale

Fabio Russo Graphic Communications

Lucrezia Varrella Marianna Donadio Mariella Fiorentino Mesia Di Mauro

Giancarlo Palmese Filomena Cesaro Web master

Mina Grasso Nicola Iannotta Pasquale Di Sauro Pasquale Scialla Teresa Coscia

Nino Brando

Vittoria Serino

© 2021. È vietata la riproduzione (anche parziale) di testi, grafica, foto, immagini e spazi Palmese GRAPHIC

pubblicitari realizzati all'interno del magazine.

Stampa: Teraprint srl - www.teraprint.it Chiuso il: 30.12.2021 - Tiratura: 5.000 copie

TEATRO Le parole della Direttrice Artistica del Teatro Trianon Viviani Marisa Laurito

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CULTURA Intervista ad Assunta Tartaglione, neopresidente di Scabec

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SOCIALE Secondigliano, un’altra Napoli. I racconti di Maddalena Oliva

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www.informareonline.com Questa testata non fruisce di contributi statali Gennaio 2022

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Dries Mertens, COPERTINA

il belga napoletano di Alessandra Criscuolo | Ph. Ciro Sarpa

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sogni di Dries Mertens fino a nove anni fa erano semplici: avrebbe voluto giocare fino a quarant’anni, divertirsi giocando per poi smettere e tornare in Belgio a riposare e godersi i nipoti. Ma poi qualcosa è cambiato. È arrivato a Napoli. «Se penso che quando mi sveglio vedo il mare, so che il mio problema sarà ritornare in Belgio!» Il 25 agosto del 2013 fa il suo esordio in Serie A con la maglia del Napoli, entra in campo al posto di una leggenda come Marek Hamsik, firmando di fatto un patto con la storia. Dicono che l’abbia voluto a Napoli Benitez, in realtà era finito nel mirino di Riccardo Bigon già quando sulla panchina dei partenopei sedeva Mazzarri. Ma in quel ruolo, c’era un certo “Pocho” Lavezzi e non se ne fece niente. Furono proprio i cambiamenti di modulo previsti da Rafa Benitez a rimettere sul piatto il suo nome: serviva un esterno d’attacco e Dries sembrava perfetto. Fin da subito si è capito che non era un giocatore comune, estro e velocità in campo ed un soprannome: “Trilly” per il suo essere un folletto onnipresente. Ispirato proprio dal personaggio di Barry, per la spensieratezza e la leggerezza messe in campo dal nostro eterno aiutante di Peter Pan. Ma Mertens il suo cuore non l’ha portato solo in campo. È sceso in mezzo alla gente e ne ha vissuto le difficoltà: ha lavorato come volontario nei canili aiutando gli sfortunati randagi. Ha dedicato la notte ai senzatetto napoletani portando loro delle pizze margherita. Fa regolarmente visita ad Aurora, una bimba malata di cancro, e non è raro vederlo scorrazzare 4

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soprannome. Ciro Martinez era il nome che il gestore del Bowling scriveva sul tabellone per non farlo riconoscere, ma ovviamente non avrebbe potuto passare inosservato a lungo. Proprio uno di noi. Uno scugnizzo belga-napoletano: scegliere per lui il nome Ciro è stato semplice, adottarlo praticamente naturale. Da attaccante esterno in cerca di sicurezze, Ciro si è trasformato in bomber azzurro: con l’infortunio di Milik nel 2017 Sarri lo sposta al centro inventandolo falso nueve. Alla fine della stagione totalizzerà 34 reti di cui 28 in campionato, piazzandosi al secondo posto della classifica marcatori. Per la gioia dei tifosi che si godranno lo spettacolo del bel gioco aspettando l’esultanza dopo il gol, per le quali Dries è diventato famoso. Ogni volta rac-

sulla sua Vespa per le vie della città partenopea. Dries rappresenta l’animo pulito del calcio, la gioia di vivere lo sport come veicolo di solidarietà. Non si nega mai ai suoi fratelli napoletani, lui sa bene che il calcio a Napoli è una bella malattia: la dolce signora di quasi 80 anni che vive al piano di sopra gli porta caffè e complimenti quando gioca bene. Ma se la prestazione non è stata buona gli rifila qualche schiaffo! Lo sa bene anche Kat, sua moglie, che l’anno in cui Dries ha segnato 27 reti si è ritrovata in casa 27 camicie nuove, frutto di una scommessa tra suo marito ed il suo sarto ed amico Ciro,

Grazie alla sinergia tra Magazine Informare e SSC Napoli, Pasqualino Esposito (collaboratore del nostro giornale, affetto da una grave disabilità), è riuscito a coronare un suo grande sogno: incontrare “Ciro” Mertens.

che poi ha dovuto dire basta: perché Dries non si fermava più! Mertens ama vivere la città ed i tifosi come se fosse nato a Napoli, non esiste cena in pizzeria in cui non si trasformi in pizzaiolo ed intrattenitore. Ed è stata proprio la sua volontà di stare in mezzo alla gente, di uscire a divertirsi come tutti a dare origine al nuovo definitivo 5

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conta la storia di un affetto particolare della sua vita, come quelle dedicate a Tommaso, il magazziniere della squadra, suo grande amico. Oggi Ciro Mertens è il miglior attaccante azzurro: in otto stagioni ha collezionato 141 reti e non sembra aver alcuna intenzione di fermarsi. Ma non solo, il belga napoletano è un vero e proprio collante per lo spogliatoio azzurro, sempre presente per i compagni soprattutto quando ci sono difficoltà. Ha vissuto le altalenanti vicissitudini della squadra nelle stagioni più difficili, tra ammutinamenti e multe, e per quanto ci abbiano provato le sirene di mercato non sono mai riuscite a portarlo lontano. Dries ha legato a Napoli la sua vita, lui e sua moglie Kat vivono in un appartamento del Palazzo Donn’Anna e a breve nascerà il loro primo figlio. A quanto hanno raccontato, si chiamerà Ciro e sarà l’originale Ciro Mertens napoletano. Gennaio 2022

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COPERTINA

«Mertens nella storia del Napoli» L’analisi del momento e la storia del giornalista napoletano Carlo Alvino di Pasquale Di Sauro | Ph. Ciro Sarpa

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iornalista, tifoso del Napoli, Maradoniano. Carlo Alvino ci tiene a precisarlo: lo fa nella biografia del suo profilo Twitter, come per mettere subito le cose in chiaro. Napoletano doc, la sua voce e il suo volto accompagnano le vicende degli azzurri dai tempi di Diego. Ma Carlo, aldilà della sua fede calcistica sempre difesa e ribadita, ha una storia professionale di rilievo. In questa intervista rivela ricordi del passato, analisi del presente, riflessioni sul futuro. Carlo, si può affermare che la tua professione coniuga la passione con il lavoro? «Fin da bambino ho sognato di fare quello che faccio per questo mi reputo fortunato. Ho sempre voluto fare il giornalista, ma venivo ostacolato da tutti: famiglia, professori, da quelli a cui ho bussato le prime volte. La perseveranza e la testardaggine positiva alla fine pagano: quella era la mia strada. Parallelamente allo studio tentavo le mie prime esperienze e, ad oggi, questo lavoro mi regala tante soddisfazioni». Cosa significa per te fare il giornalista?

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«Credo che il giornalista debba esserlo sempre e a trecentosessanta gradi. L’etichetta di operatore dell’informazione settoriale non mi ha mai convinto. Se poi si è bravi nel coltivare la propria passione ben venga; ho scritto di cronaca, di politica, prima di sport. È utile sapersi districare in più campi, si comincia ad osservare la realtà da prospettive diverse». Da quanti anni svolgi la professione? «Dal 1984. Mi mandarono a Barcellona per capire se il Napoli prendeva Maradona, da quell’operazione è nata la mia carriera. Mi trovai in Spagna senza esperienza e senza conoscere i colleghi, all’epoca c’era molto nonnismo, per l’ultimo arrivato non era semplice. Bisognava sapersi porre nei confronti dei giornalisti più anziani, l’educazione mi ha aiutato». Un tuo ricordo di Maradona? «Per sette anni ho seguito e inseguito Maradona. Gli episodi sono tanti, ma del calciatore tutti sanno: dentro di me porto i ricordi del Diego uomo. Con lui avevo un ottimo rapporto, costruito sulla base di una fiducia reciproca,

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guadagnata con il rispetto dei ruoli e che non andava tradita. Una volta mi invitò a casa sua, pensai per un’intervista, ma scoprii che il motivo era un altro: aveva letto di bambini ricoverati per un virus particolare e voleva aiutarli, senza pubblicità, senza che la notizia passasse per la stampa. Per questo serviva il mio aiuto per organizzare l’incontro all’ospedale. Quando Maradona entrò nel reparto e svelò la sua identità provai una delle emozioni più belle della mia vita: c’era luce negli occhi di quei ragazzini. Non feci uno scatto per volere di Diego, ma è una scena che ancora oggi ho nella mente». L’umanità di Diego si calò perfettamente nella realtà napoletana dell’epoca, oggi può esistere un Maradona? «Ha incarnato al meglio la mentalità del napoletano in un momento difficile per la città. Un Diego oggi no, come non esiste in campo, uno come lui non c’è nemmeno fuori dal prato verde. Basti pensare a quando per aggettivare qualcosa di top si usa dire alla Maradona».

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Dries è entrato nel mood della città. Spero che una volta appesi gli scarpini al chiodo diventi una figura che possa rappresentare il club a livello internazionale Festa scudetto a Napoli, si rivedrebbero le scene di quarant’anni fa? «La prima volta è indimenticabile. Il primo scudetto è un unicum, quello resterà per sempre. Erano anche altri tempi quando il calcio veniva vissuto in maniera diversa. Oggi diventerebbe una festa televisiva, qualcuno invece di partecipare in piazza potrebbe pensare di guardare la diretta per non perdersi nulla». Calcio ieri e oggi, tra business e romanticismo, quale futuro? «Il calcio si è votato al dio denaro, tutto è in funzione del business. Se la passione continuerà ad essere mortificata, è destinato a morire. La voglia di far vincere il proprio campanile è linfa vitale. Il calcio si autoalimenta con la passione che si tramanda tra le generazioni. Perché un bambino tifa Napoli? I nonni trasmettono i valori identitari e di rappresentanza del tifo territoriale. Altrimenti si tiferebbe solo per chi vince. È vero che c’è stato un cambio d’epoca, non c’è più quell’attenzione sui novanta minuti. Ai miei tempi senza la tv, si era con la testa sulla radio senza staccarsi un attimo. Oggi capita di fare altre cose durante la partita. O si riaccende la passione oppure il calcio diventa sport di nicchia». C'è stata una scintilla Spalletti. Come immagini il prosieguo della stagione? «Il mister è un abile psicologo. Aldilà della bravura come tecnico, il suo primo grande lavoro a Napoli è stato entrare nella testa dei calciatori. Quest’anno la rosa è competitiva per l’obiettivo Champions League. Per lo scudetto credo ci siano due squadre meglio attrezzate come vastità di rosa, Inter e Juventus. Il Napoli dovrà essere bravo a restare in cima a marzo per poi sperare in un po' di fortuna. C’è anche il problema infortuni che hanno privato la squadra della sua ossatura. Senza i top diventa complicato anche stare sul pezzo». Dries Mertens, un pezzo di storia napoletana... «Dries è entrato nel mood della città. Che sia un grande calciatore lo testimoniano i numeri, ma è anche un uomo intelligente e umile quando sottolinea come il record di gol con la maglia azzurra sia una cosa e Maradona, la storia di Napoli, un’altra. Spero resti a lungo e che una volta appesi gli scarpini al chiodo diventi una figura che possa rappresentare il club a livello internazionale. Il goleador principe della storia del Napoli come ambasciatore, magari con una carica onorifica, così riceve anche un regalo: continuare a vivere all’ombra del Vesuvio».

Carlo Alvino, ospite della nostra Redazione

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A TTUALITÀ

Smartworking oltre l’emergenza? Il Sud dice sì Il Southworking rilancia il Mezzogiorno di Giorgia Scognamiglio

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ono tante, ormai troppe, le storie di chi, alla ricerca di migliori prospettive lavorative o formative, si è visto costretto a lasciare il Sud per trasferirsi nelle città del Centro-Nord o addirittura all’estero. È la legge non scritta del Meridione, terra infame che ti conquista e poi ti lascia andare. Ma se è vero che “dal letame nascono i fiori”, i cambiamenti progressivamente introdotti in questi due anni di emergenza sanitaria potrebbero cambiare definitivamente le carte in tavola. L’hanno chiamato South Working e potrebbe essere la nuova frontiera per fermare lo spopolamento e rilanciare il Sud. Fino al 2018 l’Italia era tra i Paesi europei che meno utilizzavano lo smart working. Una realtà quasi sconosciuta, eppure per fronteggiare l’emergenza da Covid-19, il mondo del lavoro ha dovuto reinventarsi. Moltissimi lavoratori hanno colto l’occasione per rientrare nella propria regione e svolgere da lì la propria attività. Secondo l’ultimo rapporto Svimez sarebbero 45 mila i lavoratori delle grandi imprese del Centro-Nord che dall’inizio della pandemia lavorano in smart working dal Sud. Se teniamo conto anche delle piccole e medie imprese, più difficili da rilevare, si stima che il fenomeno potrebbe riguardare circa due milioni di lavoratori meridionali. L’idea di poter restare in Campania, Calabria, Sicilia, Puglia o Basilicata pur avendo contratti con aziende che 8

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hanno sede altrove, in Italia o all’estero, piace e pure parecchio: in base ai dati del sondaggio realizzato dall’associazione “South Working – Lavorare dal Sud”, l’85,3% degli intervistati tornerebbe a vivere al Sud se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto. Si tratta perlopiù di lavoratori relativamente giovani, di età compresa tra i 25 e i 39 anni, impiegati in lavori a elevata qualificazione. I cervelli in fuga, insomma. La situazione non è molto diversa per gli studenti universitari: secondo il sondaggio svolto dal portale per studenti skuola.net almeno un fuorisede su cinque ha deciso di tornare “a casa”, mentre tantissimi sono gli studenti che impossibilitati a prendere parte alle lezioni “in presenza” per motivi personali o spesso economici (costo di vita più alto), preferirebbero che si affiancasse ai tradizionali strumenti della didattica universitaria in presenza la possibilità di accedere alle lezioni da remoto. E se non si trattasse solo di una situazione emergenziale? Se questa fosse l’occasione per superare, o per lo meno affiancare, le forme classiche di lavoro a favore di una modalità alternativa, più flessibile e intelligente? Non si può negare che, dopo anni in cui l’esodo è stato l’imperativo categorico per realizzarsi, lo smart working abbatta le distanze, dando la possibilità, anche a chi vive al Sud e nelle zone periferiche, di accedere alle opportunità di carriera (e

formazione) desiderate, senza essere costretti a lasciare la propria “casa”. Le implicazioni del rientro al Sud non si fermano ai benefici personali che possono derivare banalmente dalla possibilità di scegliere dove vivere e intrattenere i rapporti interpersonali. A migliorare sarebbe sì la qualità della vita dei lavoratori, delle famiglie, ma anche dei territori. Il Southworking potrebbe riuscire lì dove le agevolazioni fiscali da anni hanno affannato. Un’occasione per mettere fine all’asportazione di capitale umano qualificato, iniziata ormai da un ventennio, che compromette irreversibilmente lo sviluppo del Meridione e delle aree periferiche del Paese. Un’interessante opportunità per mettere fine allo spopolamento del Sud e ridurre il divario economico-sociale, creando un rapporto più equilibrato fra le regioni italiane. Uno stimolo agli investimenti, a intervenire sulla carenza dei servizi, sul digital divide e la creazione di spazi di lavoro comuni. E perché no, un pretesto per fare impresa al Sud. A emergenza conclusa molte aziende potrebbero chiedere ai loro dipendenti di rientrare in sede. La vera sfida è andare oltre la logica emergenziale, trasformando quelli che sono stati cambiamenti necessari in innovazione e regolamentando le nuove modalità. Di certo non si torna indietro (si spera), ma le condizioni saranno tutte da vedere.


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A TTUALITÀ

«Oggi c'è una crisi d'informazione nel giornalismo» La nostra intervista a Juan Cruz, fondatore e vicedirettore di El PaÍs

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di Ciro Giso

acque sotto il regime franchista, ultima dittatura fascista d'Europa. Aveva solo 13 anni quando iniziò a scrivere, meno di 30 quando fondò El Pais, oggi primo giornale in Spagna. Juan Cruz col tempo è diventato un simbolo del giornalismo spagnolo ed europeo, soprattutto un esempio da seguire per la sua professionalità e tenacia. Lo abbiamo intervistato al Cinema Plaza nell'ultimo incontro di Situazione Critica, festival arrivato alla sua ventunesima edizione, con argomento il giornalismo in Spagna tra ieri e oggi. Lei ha vissuto parte della sua vita sotto la dittatura franchista, com'era la vita sotto il regime?

«Era di notte. Tutto era di notte, grigio, plumbeo. La libertà era qualcosa che sognavi, ma senza nemmeno sapere di star sognando la libertà: lo facevamo inconsapevolmente. La Spagna era un paese noioso, senza illusioni. Ma noi non sapevamo che era così: non avevamo idea della nostra situazione, si viveva in un'incoscienza collettiva. La dittatura faceva addormentare i cittadini». Questo sonno collettivo era indotto direttamente dal potere o indirettamente dal fatto che voi, già nati sotto la dittatura, non sapevate cosa fosse la libertà? «Noi sapevamo solo quello che vedevamo, facevamo quello che ci dicevano. Nella dittatura c'è

un momento in cui tu pensi che la vita è un'altra cosa, ma questo momento arriva tardi, quando inizi a leggere e informarti, quando inizi a vedere i giornali, i quotidiani. Quando inizi ad ascoltare emittenti clandestine che trasmettevano dall'Inghilterra, dalla Francia, o dalla Romania. Ascoltavamo Radio Spagna Indipendente, detta la “Pirenaica”, che trasmetteva notizie censurate dal regime. La mancanza di libertà non si comprende finché non si conosce realmente la libertà, e noi non l'avevamo mai conosciuta. Perché la prima cosa che fa la dittatura è silenziare: lo ha fatto in Cile come in Argentina. Rovinare la libertà, abolire la libertà di dire».

Avv. Fabio Russo Penalista - Foro di S. Maria C. V.

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nata nello stesso periodo o il francese “Le Monde”. Siamo stati anche partner con questi due giornali. All'inizio per El Pais sono stato il primo corrispondente da Londra. La prima volta che sono stato in Italia, nel '72, ho visto come nelle notizie internazionali si parlasse sempre di Londra... ma cos'ha? L'Italia invece era un paese così prossimo alla Spagna, un nostro vicino. L'Italia fu il primo paese d'Europa che io ho visto come un'ambizione, un'ispirazione. Noi spagnoli volevamo essere più europei, più aperti». Ora il giornalismo in Spagna è libero o c'è ancora la censura? «Il giornalismo in Spagna, come nel resto del mondo, è “cattivo”, inquinato. Non per una questione politica, perfino la monarchia spagnola ormai è povera e viene attaccata ogni giorno. PiuttoJuan Cruz - vicedirettore di El Pais sto c'è un problema di qualità professionale: c'è troppa opinione, troppa deduzione da parte dello stesso giornalista, e mancanza di energia per investigare e fare informazione. Nella domanda giornalistica, oggi, c'è una crisi di inforProprio dopo la caduta del Franchismo è nato mazione. Il giornalista crede che la sua opinioEl Pais, nel 1976: che clima si respirava duranne sia un fatto, questo è un problema in Spagna te la transizione democratica? come in altri paesi. L'informazione è diventata «C'era un clima di re-inaugurazione della vita. opinione, il giornalismo di oggi è una disgraInfatti una delle grandi canzoni prima della zia». caduta della dittatura si chiamava “All'alba” di Secondo lei i social media hanno contribuito a Luis Eduardo Aute (1975). Era un omaggio agli rovinare il giornalismo? ultimi fucilati per ordine del dittatore Franci«L'obiettivo ultimo dei social è quello di rovinasco Franco. Anche il papa si dichiarò contro re il giornalismo. Se non hai dei buoni giornali, queste esecuzioni». la gente andrà a cercare l'informazione nelle Oggi è il primo giornale in Spagna per tiratureti sociali. È una vittoria per i social network: ra, ma come è nata l'idea de El Pais? hanno tolto al giornalista il valore dell'infor«El Pais è stata un'iniziativa borghese, non era mazione. Se tu distruggi il giornalismo, lasci un giornale rivoluzionario. Voleva essere come il campo aperto a situazioni dittatoriali come i giornali europei, come “La Repubblica” che è quelle di Trump, Orban, Bolsonaro: si finisce

Penso che un giovane giornalista, oggi, deve stare dietro la notizia, deve cercare di avere la prima sull'informazione. E non essere tentato dall'opinione. per dargli un'arma, la vecchia arma dell'informazione. Più di quaranta anni fa ho sentito Eugenio Scalfari dire: “Il giornalista è gente che dice alla gente cosa succede alla gente”. Il problema è che oggi la gente non c'è più, esistono solo i social». Oggi la libertà sembra essere sempre più al repentaglio in certe parti del mondo, stiamo davvero perdendo la nostra memoria? «Non credo che sia possibile perdere la memoria. Forse possiamo perderla come individui, ma la società intera non la perderà mai. Anche se solo una persona ricorda, la memoria si perpetua: è una catena. In Spagna ad esempio, quando si cominciava ad affrontare il tema della memoria e del passato, si diceva “Ricordalo tu per ricordarlo agli altri”. Credo che la memoria non si possa perdere mai. Ma c'è qualcuno che vorrebbe farcela perdere. Siamo tutti malati della dimenticanza istantanea, dimentichiamo subito quello che può turbare la nostra tranquillità. Però ricordare è rispettare gli altri: tutti, anche quelli più distanti. È chiaro che il ricordo, per essere collettivo, debba partire dall'individuo. Non si deve mai dire “nessuno ricorda, perciò non ricordo nemmeno io”. Perché ricordare è un atto di amore». In conclusione, lei ha iniziato a scrivere da giovanissimo, ha fondato il giornale più letto in Spagna e ora ne è vicedirettore: ha un messaggio per i giovani giornalisti che vogliono intraprendere questa carriera? «Penso che un giovane giornalista, oggi, deve stare dietro la notizia, deve cercare di avere la prima sull'informazione. E non essere tentato dall'opinione che, ripeto, è una malattia molto grave per questo mestiere. Giornalismo, sempre!».

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A TTUALITÀ

L’Egitto spara con armi Made in Italy

Il portavoce di AMNESTY Italia, Riccardo Noury, analizza i rapporti tra i due Paesi di Pasquale Scialla e Mesia Di Mauro

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al golpe militare nel 2013, l’Egitto di al-Sisi è sotto la lente d’ingrandimento mondiale per la pedissequa violazione dei diritti umani. In particolare, ha suscitato molto clamore l’atteggiamento italiano nei confronti dello Stato Faraonico, soprattutto alla luce dei casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, si è sempre esposto per evidenziare le violazioni egiziane e l’incoerenza italiana. L’Italia, infatti, ha uno stretto legame commerciale con l’Egitto, basti pensare che nel 2015 le esportazioni italiane hanno fruttato circa 3 miliardi di dollari al nostro Paese. Ad oggi, circa 130 aziende italiane operano nel territorio

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egiziano. Un altro importante settore di scambio è quello militare: infatti, dal 2013 in poi, il Bel Paese ha esportato fucili, pistole e sofisticate tecnologie di sorveglianza, spesso utilizzate da al-Sisi per la repressione interna. Secondo AMNESTY, qual è attualmente la situazione dei diritti umani in Egitto? «Attualmente la situazione egiziana rimane ancora molto preoccupante, nonostante alcuni sviluppi positivi da verificare. In Egitto vi sono 60.000 prigionieri politici e l’abolizione dello stato d’emergenza il 25 ottobre non ha risolto nulla, dato che i processi nei tribunali d’emergenza vanno avanti. Ci sono, però, degli spiragli di speranza: nel 2022, infatti, l’Egitto ospiterà

il COP27 e ci sarà lo spostamento provvisorio della capitale dal Cairo ad un’altra città. Al momento il giudizio è sospeso, resteremo a guardare». Secondo il rapporto AMNESTY, nel 2020 in Egitto il numero delle esecuzioni è più che triplicato. Come definirebbe l’attuale politica messa in atto da al-Sisi? «È una politica di completo diniego dei diritti umani, in cui la pena di morte è uno degli aspetti più gravi degli ultimi anni. Dal 2013 in poi, al-Sisi ha fatto ampio uso della pena capitale e, anche in questo momento, quasi tutti i processi termineranno con l’esecuzione dei detenuti. Questo si colloca in un quadro di spari-


zioni, torture, tribunali d’emergenza e leggi liberticide». Secondo l’OPAL (Osservatorio Permanente delle Armi Leggere), l’Italia è uno dei maggiori esportatori di armi e attrezzature di sicurezza in Egitto. Crede che la responsabilità di questa drammatica situazione in Egitto risieda anche in Europa? «Non c’è dubbio, quello delle armi è uno degli aspetti, insieme ad altri, che hanno dominato i rapporti bilaterali tra Italia ed Egitto, come il colpo di stato di al-Sisi nel 2013. L’Italia è rimasta inerme nel vedere il soccombere dei diritti umani, rispetto ad altre considerazioni come la lotta al terrorismo e il contrasto all’immigrazione. Alla base di ciò vi sono gli interessi economici, soprattutto quelli riguardanti gli idrocarburi. L’Italia, come altri paesi europei, ha fatto la sua parte». Uno degli eventi che ha messo sotto la lente d’ingrandimento la situazione dei diritti umani in Egitto è stato il caso Regeni. Quali sono state, se ci sono state, le conseguenze nei rapporti tra Italia ed Egitto? «Le conseguenze sono state nulle. Basti vedere come è andata la prima udienza, che si è fermata per una responsabilità completa della magistra-

Riccardo Noury, portavoce di AMNESTY Italia

Abdel Fattah al-Sisi, attuale presidente della Repubblica egiziana

tura egiziana, la quale non ha fornito gli indirizzi degli imputati. La Procura di Roma ha fatto indubbiamente un grande lavoro, ma al momento ci troviamo in un punto morto, dato che il processo non è ancora partito. Questo è un enorme rammarico, dato che la verità e la giustizia non devono essere negoziate, devono essere garantite. Se c’è una storia che ha

mostrato la timidezza e l’incoerenza italiana nei rapporti bilaterali con l’Egitto, questa è stata quella di Giulio Regeni». Considerando che il processo Regeni non ha ancora avuto fine, secondo lei cosa avrebbe potuto fare l’Italia per arrivare alla verità? «L’Italia avrebbe dovuto avere un approccio più deciso, ad esempio pretendendo che gli imputati sapessero del processo che si stava avviando nei loro confronti. Negli ultimi anni abbiamo visto una politica molto supina e accondiscendente nei confronti dell’Egitto; emblematico il caso del 14 agosto 2017 quando l'Italia decise di rimandare l’ambasciatore in Egitto, confidando erroneamente nel silenzio mediatico generale». È di pochi giorni la notizia della scarcerazione di Patrick Zaki e fra circa un mese ci sarà il processo per la condanna definitiva. Personalmente, cosa si aspetta che accadrà? «C’è molta cautela e prudenza poiché la scarcerazione di Zaki è provvisoria, infatti, Patrick è imputato in un tribunale d’emergenza che emette condanne non appellabili, rischiando una condanna fino a cinque anni. Ci sono altri esiti possibili, come una piena assoluzione, quella a cui tutti auspichiamo. In generale, in questi mesi c’è stato un generale disprezzo dei diritti della difesa, poiché tutte le richieste fatte durante l’udienza per la convalida della detenzione preventiva sono state rifiutate». AMNESTY ha avuto un ruolo cruciale nelle campagne per Patrick Zaki e Giulio Regeni. Come definirebbe la risposta del popolo italiano a questa mobilitazione? «È stata una risposta straordinaria! Sono state le campagne più intense di questo secolo, che hanno abbracciato vari mondi, tra cui quello dell’informazione pubblica e della società civile, oltre al Parlamento. Quello che è mancato è stata una risposta dall’alto a questa mobilitazione dal basso».

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OCIALE S ULTURA

Secondigliano un’altra Napoli

L’abbandono e i disagi del quartiere napoletano nel racconto di Maddalena Oliva di Gennaro Alvino

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ra le ceneri si alza flebile un grido, una voce che ancor come tuono rimbomba tra le eccentriche notti autunnali d'una campagna solitaria. Così dal vuoto assoluto può ergersi una luce che guida la polvere a toccare nuove mete, a raggiungere finalmente con mano la libertà, il rispetto e l'autoconsapevolezza. Come faro nella burrascosa notte di tempesta nasce "Secondigliano, un'altra Napoli", tenutosi sabato 4 dicembre a Piazza Luigi di Nocera, nel cuore pulsante di Secondigliano. È proprio tra le ceneri di una periferia lontana che si innalza un grido d'aiuto, "dove morti e bambini convivono per strada" è il sottotitolo della manifestazione. Enormi problemi gravitano come spettri intorno all'intero apparato sociale di Secondigliano, che vive un abbandono scolastico che riguarda un bambino su due e che nelle ultime elezioni ha visto la partecipazione del solo 42% degli aventi diritto. Prende vita una nuova iniziativa, un evento promosso da Maddalena Oliva, vicedirettrice de "Il Fatto Quotidiano" che riunisce a Secondigliano il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico, il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi ed il Procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo. All'appello prende parte anche Vincenzo Strino della Associazione Larsec, protagonista assoluta di questa manifestazione. Larsec è una realtà che da 7 anni opera sul territorio di Secondigliano offrendo una speranza e tendendo una mano verso una cittadina ormai esausta del suo irrequieto vivere. «L'idea nasce da un reportage che abbiamo fatto col mio giornale FQ MillenniuM partendo dalla considerazione che questo è il quartiere con il più grande tasso di astensione alle ulti-

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me elezioni della città di Napoli – afferma Maddalena Oliva - Abbiamo deciso allora di visitare due quartieri "estremi" cioè Barriera a Torino e Secondigliano a Napoli per raccontare questa bassa partecipazione alla vita politica ed elettorale della città. Arrivati qui è come se i fatti di cronaca ci fossero entrati dentro: pochi giorni prima era stato ucciso un ragazzo di 19 anni e non abbiamo voluto far finta di nulla. Abbiamo deciso così di organizzare qualcosa sul territorio per rispondere a questo senso di abbandono» spiega la vicedirettrice del Fatto ai microfoni Gaetano Manfredi di Informare Magazine. «Ho voluto immergermi in questa realtà e mi ha aiutato tanto non essere nata a Napoli così da avere uno sguardo neutro; sono rimasta molto colpita dall'enorme bellezza di questa città e dalla sua grande vitalità. E sono due caratteristiche che ho trovato anche qui a Secondigliano. È però importante - spiega ancora- dare una continuità per far sì che sia una prima pietra su cui costruire e non un evento isolato da ricordare. C'è un grande bisogno di sostegno per far sentire queste persone non abbandonate». Non sono mancate poi le parole da parte del-

le istituzioni e soprattutto dal presidente della Camera Roberto Fico: «La nostra presenza qui significa non solo accendere un riflettore su un'associazione [Larsec] che sta facendo un grande lavoro, ma anche per dire che essendo napoletani siamo anche di Secondigliano ed io sono convinto che qui si può costruire un ottimo futuro. Lo Stato c'è, il punto è avere un'organizzazione strutturale per far sì che ci siano progetti per cambiare le cose con investimenti e risorse mirate». E dopo le rassicurazioni della terza carica dello Stato interviene anche il Primo Cittadino di Napoli, Gaetano Manfredi: «Essere qui significa portare la presenza della città e delle istituzioni in un quartiere molto importante per Napoli; dobbiamo ascoltare i bisogni dei cittadini e soprattutto dei giovani. Mi auguro che questo sia un primo passo per realizzare dei progetti concreti sul territorio per migliorare la qualità dei servizi e creare condizioni migliori per i giovani a partire dall'educazione e dalla formazione».

Maddalena Oliva


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M EDICINA

«Il Covid ha causato ritardo nella diagnosi di malattie oncologiche» L’analisi del dott. Paolo Ascierto di Pasquale Scialla

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in dai primi giorni di lockdown, ogni cittadino campano ha seguito con orgoglio e speranza l’operato quotidiano e le prime sperimentazioni terapeutiche del dott. Paolo Antonio Ascierto. L’eminente oncologo, nato in provincia di Benevento, è il direttore dell’Unità di Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Nazionale Tumori G. Pascale di Napoli. Grazie alla sua disponibilità, abbiamo potuto approfondire come è cambiata, in questi ultimi anni, la ricerca e la prevenzione oncologica, oltre agli ultimi sviluppi riguardanti le terapie anti-Covid.

Che impatto ha avuto il Covid sugli screening e sulle visite oncologiche? «Possiamo dire, con dati alla mano, che il Covid ha influenzato in maniera importante l’accesso dei pazienti in strutture ospedaliere o ambulatoriale, portando ad una riduzione del numero di screening e di controlli, che purtroppo in alcuni casi può aver portato ad un ritardo nella diagnosi e quindi nell’avvio di quelli iter diagnostico-terapeutico in cui la tempistica alcune volte è cruciale». Pochi giorni fa si è tenuto a Napoli il meeting “Immunotherapy Bridge”. La ricerca oncologi-

ca come procede in un periodo tanto complicato? «Per fortuna la ricerca oncologica non si è mai fermata, anzi, abbiamo fatto tesoro di tutto ciò che questo periodo ci ha e ci sta insegnando. Uno degli ultimi risultati venuto fuori, da dati di pratica clinica (e non da studi clinici), è che la terapia immunologica in pazienti affetti da tumori della pelle, sembra rendere i pazienti più resistenti al Covid». Tornando al Covid, crede che ci stiamo avviando ad un futuro in cui saremo costretti a fronteggiare altri virus?

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«Questa non è una cosa facile da poter prevedere. Se si riferisce, invece, alle varianti legate al Covid-19, credo che così come nel nostro presente le avremo nel futuro, ma con maggiori armi a disposizioni per poterle combattere». Lei è coordinatore della sperimentazione del vaccino Takis. Ad oggi, quali sono i risultati sperimentali del siero? E quando crede possa essere approvato? «A settembre di quest’anno sono stati comunicati i risultati preliminari dello studio clinico di fase I condotto in Italia con COVID-eVax (il primo vaccino a DNA contro COVID-19 a raggiungere la fase di sviluppo clinico in Europa). Questo vaccino è risultato ben tollerato e ha indotto una risposta immunitaria (anticorpale e/o cellulare) a tutte le dosi testate (0.5 mg, 1 mg e 2 mg, somministrate in doppia dose). La migliore risposta è stata osservata nel gruppo trattato al dosaggio più alto, con l’induzione di una risposta immunitaria fino al 90% dei volontari. Pertanto, possiamo ritenerli dati preliminarmente favorevoli; tuttavia, poiché abbiamo, grazie alla campagna vaccinale nazionale, un alto numero di vaccinati sarà difficile riuscire ad effettuare la fase II dello studio». La sua celebre cura col Tocilizumab ha avuto evidenze scientifiche a livello internazionale. Al momento state sperimentando nuove cure terapeutiche? «I farmaci in via di sperimentazione sono tanti e io, presso la struttura da me diretta, mi occupo prevalentemente di immunoterapia nell’ambito di studi sperimentali sia nel melanoma che in altre neoplasie solide. I passi avanti ci sono, stiamo avendo ottimi risultati con numerose molecole che ci fanno ben sperare per il futuro». Secondo l’ultimo report dell’ISS e della Procura di Napoli, nella Terra dei Fuochi stiamo pagando un enorme disastro sanitario. Crede che nell’ultimo periodo qualcosa stia cambiando? Oppure siamo in una situazione di stallo? «Io credo che qualcosa stia cambiando. In oncologia noi ci serviamo del registro tumori per analizzare il territorio. È chiaro che questo strumento non dà risposte immediate, ma si tratta di un’analisi di

Dott. Paolo Antonio Ascierto

vari anni, ma è ciò che a noi serve». Nonostante siano vari i fattori che incidono sulla guarigione, rispetto al passato quanto è diventato curabile un tumore? «In questo momento noi abbiamo una serie di trattamenti che ci fanno ben sperare, poiché fortunatamente la ricerca è andata avanti. Basti pensare che dal melanoma riesce a guarire circa il 50% degli ammalati, grazie all’immunoterapia. Ora, rispetto a 10 anni, abbiamo molte più armi per combattere tumori e neoplasie».

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P OLITICA

Niente più ombre su Orta di Atella

Le dichiarazioni del Sindaco Vincenzo Gaudino e del Vicesindaco Vincenzo Tosti di Luisa Del Prete Ph Domenico Del Prete

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a storia di Orta di Atella, realtà in provincia di Caserta, è quella di un Comune fallito. A detta delle statistiche “il Comune più giovane d’Italia”, ma che non offre alcun servizio affinché questi giovani riescano a diventare una comunità. Un comune reduce da due anni di commissariamento in quanto la precedente amministrazione, guidata dall’ex Sindaco Andrea Villano, fu eletta nel giugno del 2018 e poi sciolta nel novembre 2019 per infiltrazione mafiosa. Finalmente dopo due lunghi anni in cui il paese è stato abbandonato a sé stesso, una nuova amministrazione guidata dal Sindaco Vincenzo Gaudino e dal Vicesindaco Vincenzo Tosti, eletta nel novembre 2021, sta iniziando a far luce su quelle che sono le ombre del passato, avendo come obiettivo principale la rinascita di Orta di Atella. Dopo due anni di commissariamento e di continua sfiducia alle precedenti amministrazioni, Orta di Atella può definirsi come quello che in America chiamano “Failed State”. Come mai la scelta di candidarsi in un paese così difficile? «Più che una scelta, io l’ho sentito come un dovere nei confronti di tutta la città di Orta. Abbiamo sentito di dover fare qualcosa per il bene della comunità. Siamo consapevoli che ogni problema ad Orta di Atella è più spigoloso in quanto le casse comunali ci danno poca libertà di iniziativa ma oggi, con un presupposto diver18

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so e grazie ai finanziamenti futuri del PNRR e della Regione, stiamo organizzando un’amministrazione in grado di intercettare questi fondi e sfruttarli al meglio per il bene comune. Abbia-

mo già acquisito un fondo di 320 mila euro che il governo Conte ha messo a disposizione per opere pubbliche nei Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Continuiamo ad andare avanti,

da dx: Vincenzo Gaudino e Vincenzo Tosti, sindaco e vicesindaco di Orta di Atella


con realismo» dichiara il Sindaco Gaudino. Quali sono le priorità e gli obiettivi di questa amministrazione? «Le priorità sono tante: a partire dalle politiche sociali, dall’assicurazione dei servizi fino alle fasce più disagiate (disabili ed anziani), per poi arrivare ai giovani ed alle scuole e allo sport. Abbiamo il problema del Campo Sportivo e del Palazzetto dello Sport: per quanto riguarda il Campo Sportivo dobbiamo fare interventi di più rilevante entità rispetto al Palazzetto dello Sport che può essere riportato all’agibilità con interventi strutturali poiché manca un’idoneità dell’impianto fin dal momento della sua realizzazione. Noi siamo il Paese più giovane d'Italia, ma non ci sono asili nido; quindi, anche la creazione di questi è nell’agenda amministrativa e, in relazione anche ai fondi del PNRR, anche la creazione di un Polo di Istruzione Secondaria in quanto ad Orta c’è solo la scuola media e non è accet-

di questo, dico sempre che c’è nell’aria questo retaggio di colpire l’avversario politico con qualcosa che non è politico. Quando parlo di “retaggio” intendo che ci sono attualmente dei consiglieri che potrebbero raccontare le loro esperienze passate, le ritorsioni che hanno subito anche attraverso delle iniziative di precedenti amministrazioni comunali. Queste sono cose durissime: oggi “le minacce”, possono essere considerate un argomento conosciuto da tutti; ma tanti anni fa si cercava anche di isolare le persone, ovvero colpire isolandole, in modo tale da renderle politicamente non incisive e mandando un messaggio che faceva intendere che “non conveniva mettersi contro di loro”. Lettere intimidatorie, diffamatorie e tutto ciò che può buttare fango sulla persona: questo è metodo mafioso ovvero il delinquente che, attraverso questi mezzi, cerca di descriverti come delinquente. Il “Sistema” è stato creato quando Orta era un piccolo paese di 11mila abitanti e tutti conoscevano tutti. Quando ci si è resi conto che si stava deragliando e andando verso il criminale, alcune persone hanno fatto una scelta ed hanno combattuto questo sistema, venendo trattate, attraverso anche delle campagne di stampa, come loro stessi dei camorristi, scena che può somigliare alle accuse di “camorrista” che ha ricevuto Don Peppe Diana dopo la sua morte. Tutto questo fa parte della storia di questo Paese che dovrà essere scritta perché noi dobbiamo usci-

tabile in un Comune di queste dimensioni» afferma Gaudino. «Orta di Atella è un po’ diverso dagli altri Comuni nei paraggi perché negli anni passati c’è stata un’esplosione di cemento che ha portato ad una crescita smisurata, con la creazione re dal sistema» afferdi una città nella città: persoma il Sindaco Gaudino. ne che sono nate e vissute ad «La camorra – conOrta e quelli che ci sono venuti ad abitare successivamente, tinua il Vicesindaco ma non integrandosi mai del tutto. Orta ha delle potenzialità Tosti – come prima enormi perché questa Città nella Città deve essere messa incosa cerca di far allonsieme e la diversità che c’è, deve diventare una ricchezza che tanare le persone dalla guarda nella stessa direzione» conclude il Vicesindaco Tosti. politica, quella vera. Un Paese che ha numerose criticità ambientali e che deve Nel momento in cui far fronte al grande problema dei rifiuti. L’amministrazione abbiamo deciso di iniMasseria del Barone, Casapuzzano frazione di Orta di Atella come si muove a proposito di ciò? ziare questo percorso «Abbiamo affrontato due anni di Covid dove sono morte tantissime pereravamo consapevoli che questo Paese viene da una situazione di totale sone, ma qua ad Orta la gente muore da sempre di tumori e leucemie e disastro e sappiamo che ci sono ancora gli interessi mafiosi: perché quello non sono cose inventate, ma parlano i dati scientifici. C’è consapevolezza che ha subito l’assessora Belardo, lo subiremo tutti man mano. Quando in questo Paese e l’ambiente è uno dei pilastri fondamentali di questa amabbiamo accettato la carica pubblica già lo sapevamo, ma noi vogliamo ministrazione. “Terra dei fuochi” è lo sversamento industriale che porta metterci in gioco con tutta la forza ed il coraggio possibile. Noi non ci ad un reato d’impresa. Produzioni in nero e dunque materiale che viene fermiamo, anzi siamo ancora più motivati nel continuare perché vuol dire smaltito illegalmente: sicuramente noi avremo un’attenzione particolare che siamo sulla strada giusta e perché forse hanno paura che, nelle stanze al territorio ed abbiamo già messo in atto delle iniziative per ottenere un di questo Comune, apriamo qualche armadio che non dobbiamo aprire. certo tipo di controlli. Dobbiamo tener conto che tutto quello che fareChi ha paura non siamo noi e, nonostante le intimidazioni, non ci arrenmo, lo faremo per il territorio ortese, ma facendo anche rete con quelli diamo». che sono i Sindaci dei Comuni limitrofi, afflitti dal medesimo problema, e Come intendete affrontare il fenomeno della criminalità? mettendoci anche in contatto con la Regione ed il Governo centrale. Noi «Parlandone con le istituzioni. Noi riteniamo che qui, nel Paese, c’è ancora ci metteremo tutto il nostro» tuona il Vicesindaco Tosti. nell’aria la volontà di qualcuno di condizionare la svolta di questa ammiNel primo consiglio comunale è stato detto che sono già arrivate le prinistrazione, lo percepiamo e ne parleremo con le autorità competenti per me minacce nei confronti di questa amministrazione: quali sono state poi decidere cosa fare. Noi non pubblicizzeremo queste cose sui social, le reazioni? ma le iniziative ci saranno. Non ci fanno paura, siamo stanchi di sembrare «Io dico che ad Orta di Atella c’è ancora un metodo mafioso e quando parlo noi dei criminali» conclude il Sindaco Vincenzo Gaudino. Gennaio 2022

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P OLITICA

CASTEL MORRONE,

TRA STORIA E RINASCITA

Il neo sindaco Cristoforo Villano detta la linea per la nuova amministrazione di Nicola Iannotta

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bbenché tu veda le mie idee piene di timori non creder che i miei sentimenti si sieno cangiati. Questo non temerlo mai. Muteranno i tempi ma ciò che nel mio cuore stava scritto … non si cancellerà se non quando il tutto sarà effettuato”. Così l’eroe Pilade Bronzetti scriveva all’amico E. Ghiroldi nel gennaio del 1857. Giovane e non ancora venticinquenne, Bronzetti sembrava quasi reclamare perdono per la sua imperfetta sicurezza ed esperienza nell’arte militare, ma chiedeva all’amico di non confondere tale sua acerbità con una scarsa fermezza di propositi e di intenzioni. Le sue idee erano solide, sicure e reclamavano di essere affermate. Bronzetti voleva dare l’Italia agli italiani, una nazione ad un popolo senza nazione. Il suo spirito patriottico, risorgimentale e romantico era pronto a sacrificarsi per questo: nessun compromesso sarebbe stato accettato. Pochi anni passarono dalla confessione scritta all’amico a quella epocale data in cui quel figlio di Mantova, ma già uomo italiano, si sacrificò sulle colline di Castel Morrone per permettere alla desiderata patria di sorgere. Le parole di Pilade Bronzetti signoreggiano all’entrata della casa comunale di quel paese in cui perse la vita, Castel Morrone. Riaccendono il ricordo di quel cruento giorno di battaglia del 1° ottobre 1860, giorno in cui il maggiore Bronzetti perse la vita, sacrificandosi, con l’intento di ritardare le azioni delle forze borboniche e permettere agli alleati garibaldini di riorganizzare la difesa e il contrattacco che avrebbe portato alla vittoria della celebre battaglia del Volturno. Mantova generò l’uomo, Castel Morrone diede gloria eterna all’eroe. Castel Morrone, terra antichissima di storia, ha visto sfilare sulle sue colline eserciti di etruschi, sanniti e romani. Ha accolto Annibale e i cartaginesi durante i celebri “Ozi di Capua”. Infine, è stato luogo decisivo per la vittoria garibaldina del Volturno che avrebbe portato alla

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torio. Io amo la mia terra. Nel ruolo di sindaco mi assumo le mie responsabilità e accetto le sfide con grande voglia, cercando di mostrare la determinazione giusta per risolvere le problematicità che vanno affrontate». Quali sono le sfide che l’amministrazione ha accettato e quali saranno le linee guida che si seguiranno nel corso del tempo? «La maggior sfida che abbiamo accettato è quella del cambiamento. Vogliamo che a Castel Morrone soffi un nuovo vento che porti con sé un rinnovamento. La prima cosa da cambiare è l’approccio che si ha con la casa comunale: bisogna capire che la casa comunale è un bene di tutti i cittadini, è aperta a tutti. Non voglio che si venga qui solo per ottemperare a qualche obbligo, ma desidero che questo luogo diventi un centro di incontro e di confronto. È importante dare un segnale di ritrovata coesione e amicizia fra tutti i cittadini. Il secondo passo è quello di sistemare tutto ciò che deve essere sistemato, a cominciare dai servizi essenziali. Per fare ciò c’è bisogno di una macchina amministrativa efficace e noi stiamo lavorando per realizzarla». Cristoforo Villano - Sindaco di Castelmorrone I fondi del PNRR quanto possono essere importanti per risollevare le sorti di questo comune? nascita del nuovo Regno d’Italia. Oggi, la terra «È la panacea di tutti i mali. Oggi come oggi i di Morrone è un luogo di naturale e imparapiccoli comuni come il nostro se non ricevono gonabile bellezza, che sorge a 10 km a nord di finanziamenti importanti non possono risolleCaserta. Il suo piccolo comune attraversa una varsi da soli. Dobbiamo credere fortemente nel fase di riorganizzazione e ricostruzione, cerca PNRR». di risollevare la propria sorte. «Castel Morrone Cosa vuole augurare ai cittadini del suo paese è un centro importante il cui valore dovrà ritore ai lettori di Informare per il nuovo anno? nare ad essere conosciuto e riconosciuto» - ci «Auguro innanzitutto un periodo di benessere dice il nuovo sindaco del paese, il Dott. Cristoper tutti. Mi auguro poi che il cittadino morforo Villano. ronese possa vedere nel nuovo anno una luce Dott. Villano, lei è un figlio di Castel Morrodiversa e possa credere in un paese migliore. ne. Ci può dire cosa significa essere cittadino Noi siamo qui per dare una speranza ai nostri morronese e qual è il suo rapporto col terriconcittadini e crediamo farlo mediante una sitorio? nergia tra cittadino e amministrazione. Faccio «Identificarsi come cittadino morronese vuol a tutti i lettori di Informare un augurio per un dire prima di tutto voler bene a questo terribuon 2022».


D IRITTI

ALLA SCOPERTA DI NOI STESSI

I DIRITTI UMANI IN PILLOLE “Un diritto non è ciò che qualcuno ti concede, è ciò che nessuno può toglierti” (Ramsey Clark) di Benedetta Guida e Mariella Fiorentino

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uello dei diritti umani è un argomento vasto e di un’importanza troppo spesso sottovalutata. Per questa ragione lo scopo di tale rubrica è di divulgarne la conoscenza per garantirne la difesa. In ogni numero verificheremo come ciascun diritto si manifesta nella vita quotidiana – per esempio nella scuola, nel lavoro, nelle relazioni sociali e familiari – e non è appannaggio solo degli operatori della Giustizia. Un avvocato, un giudice, un appartenente alle Forze dell’Ordine vengono interpellati solo da chi ritiene di essere stato leso in un proprio diritto. Da qui l’importanza di conoscere quali siano nostri diritti in quanto esseri umani, proprio per poter ricorrere alla giusta tutela. Cominceremo dicendo che i diritti umani, essendo il prodotto della civiltà, sono mutevoli e soggetti a continua evoluzione legata alle esigenze sociali: la conquista di nuovi valori e l’acquisizione di una maggiore sensibilità verso determinati aspetti della vita sono alla base della nascita di nuovi diritti. Si pensi, ad esempio, al diritto alla trasparenza e alla veridicità delle informazioni: esso è il frutto delle varie esigenze di tutela che sono sorte

nella moderna società dell’informazione. A differenza di quanto si pensi, i diritti umani fanno il loro debutto storico in epoca abbastanza recente: per poter parlare di diritti con una tensione universalistica - e quindi di diritti di tutti gli esseri in quanto tali - dobbiamo rivolgerci ai sanguinosissimi conflitti del secolo scorso, le guerre mondiali, e, in particolare, alla Seconda, il più aspro conflitto che la storia umana ricordi. Al termine di essa, la presa di coscienza da parte degli Stati delle atrocità e barbarie che erano state perpetuate, determinò la necessità di intervenire ponendo garanzie affinché un orrore tale non si ripetesse mai più in futuro. Nel 1948 venne quindi adottata dall’ONU la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, il cui Preambolo parla da sé, recitando: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti

di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità” - per queste ragioni la Dichiarazione vuole essere il punto di partenza, il primo mattoncino per la costruzione di un mondo migliore - “un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno”. Nei successivi 30 articoli sono contenuti i diritti di solidarietà, tra i quali il diritto alla vita, il diritto all’integrità fisica, il diritto di voto, di opinione, il divieto di tortura e di schiavitù. Per quanto riguarda l’Europa, questo tipo di diritti sin dal 1950 sono elencati e garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e, in maniera tangente anche se non esclusiva, anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), detta Carta di Nizza, risalente al 2000. La società attuale vede emergere nuove categorie di diritti; diritti di nuova generazione, quelli che pur non essendo ancora compiutamente definiti e garantiti dagli ordinamenti, vengono sempre più avvertiti dalla sensibilità contemporanea come meritevoli di tutela. Esempi possono essere i diritti dell’ambiente come ecosistema ed anche come diritto ad un ambiente salubre, all’integrità del patrimonio genetico a fronte dei progressi della ricerca biologica, il diritto alle cure palliative (ossia l’accesso a tutti i trattamenti, inclusi i trattamenti che permettano al malato di evitare inutili sofferenze), il diritto al multiculturalismo o i diritti conseguenti al formarsi di nuove pretese di protezione dalle nuove tecnologie. Avere cognizione e consapevolezza di quali siano effettivamente i propri diritti inalienabili è imprescindibile: conoscerli è il primo passo per poterli difendere e il ruolo di ciascuno è di assicurarsi che vengano rispettati, anche attraverso la pretesa nei confronti delle istituzioni. Per questa ragione, oggetto dei prossimi numeri saranno i diritti umani già codificati ed anche tutti quei diritti che pur non essendolo ancora, si presentano meritevoli di attenzione, perché vanno conosciuti, divulgati e difesi. Perché noi siamo i nostri diritti inalienabili.

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NCHIESTA

La Valle nel Virus

L’inchiesta di Gessica Costanzo sull’evoluzione del Covid-19 a Bergamo

di Lucrezia Varrella

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Gessica Costanzo

ono trascorsi quasi due anni da quando, in Italia, abbiamo capito che il Covid-19 era tra noi. Abbiamo temuto, cambiato abitudini, abbiamo pianto, sperato, imparato a conviverci. C’è un prima del Covid e c’è un dopo. Per tutti. Eppure, in Val Seriana, a Bergamo, il dopo è stato più lacerante che altrove: le bare sui carri armati che si allungano per le strade della città sono istantanee di un’epoca che entra con prepotenza negli annali della storia. Si diceva un’apocalisse, un caso funesto. Gessica Costanzo, giornalista di Valseriananews, grazie al suo lavoro sul territorio, è riuscita a raccogliere informazioni e testimonianze, confluite in una corposa inchiesta e nel libro “La valle nel virus”, che mostrano ben altre responsabilità. Com’è nata l’esigenza di raccogliere testimonianze sull’evoluzione del virus a Bergamo? «È nata quando ad inizio marzo hanno cominciato a contattarmi sia il personale sanitario, sia i parenti delle persone che iniziavano a morire. Ho capito che le comunicazioni ufficiali (“è solo un’influenza” - “quello di Bergamo non è un focolaio”) non corrispondevano alla realtà: ambulanze tutto il giorno e persone che morivano. Ho chiesto alle istituzioni, ma le risposte non sono mai arrivate, quindi, ho deciso di stare dalla parte dei cittadini e scrivere tutto quello che scoprivo. È stato lo scrittore Davide Sapienza, amico di lunga data, anche lui residente in Val Seriana, a dirmi “dobbiamo fare un libro”, mettere nero su bianco. Volevamo farlo subito, senza aspettare che la realtà del momento fosse modificata dal filtro del tempo». Il 23 febbraio 2020 appare un post Facebook

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del Pronto soccorso di Alzano Lombardo che annuncia la sua chiusura... un contenuto che viene subito cancellato. Perché secondo te c’è stata questa tendenza ad insabbiare il contagio? «Indubbiamente c’è stata molta sottovalutazione. È mancata però anche trasparenza da parte delle istituzioni; e tutto ciò è gravissimo. La Val Seriana è una delle zone più produttive del Paese, in ambito tessile e meccanico, così come il resto della provincia di Bergamo, e non poteva essere bloccata. È grave che le istituzioni non abbiano preso fin da subito le decisioni adeguate in merito alla salute pubblica: quel post, che ho screenshottato per mandarlo al mio collega ed è quindi stato depositato in Procura, mostra che non abbiamo saputo del virus dall’Asl o dalla Regione, ma sempre in via non ufficiale. Quando noi giornalisti facevamo domande ci veniva detto di non scrivere, di aspettare, probabilmente per paura, ma anche per incapacità di gestione». C’è il dubbio che le morti potessero essere evitate? «Certo che potevano essere evitate. Durante marzo 2020 il tasso di mortalità ha raggiunto il 1000%, alcune famiglie hanno perso più persone contemporaneamente. Immagina la ferita di una comunità piccola, che vive di vicinanza e di volontariato, in cui sono morti il parroco, il sindaco: quando siamo usciti a maggio non avevamo nulla da festeggiare, incontrare le persone voleva dire avere a che fare con il lutto. Rimarrà sempre il dubbio che se il focolaio fosse stato contenuto, molte persone sarebbero vive. Mio zio è morto perché non c’erano più

respiratori, è stato accudito in casa da mio cugino, che non riesce ancora a parlare di questa cosa». Questo ha infatti mostrato anche una grave falla nel sistema sanitario italiano e soprattutto lombardo, considerato il migliore del Paese. «La sanità lombarda è sicuramente eccellente dal punto di vista delle specializzazioni e della ricerca. Ma in medicina generale sono stati tolti molti mezzi, dai posti letto ai medici di base. Questo ha contribuito a creare una congestione che è venuta fuori durante l’emergenza. Vedendo le immagini della Cina, non ti nascondo che ero tranquilla, pensavo “siamo in Lombardia, cosa potrà mai succedere?”. E, invece, è successo tutto. È importante che si impari dal passato, è questa la cosa a cui tengo di più dell’inchiesta, oltre ovviamente alla speranza che vengano attribuite le responsabilità». A proposito dell’inchiesta, a che punto è? «L’inchiesta è stata aperta ad aprile 2020; a gennaio si chiuderà la prima fase istruttoria, ci sono sei indagati legati all’azienda ospedaliera di Alzano Lombardo e alla Regione. I capi di imputazione sono epidemia colposa e falso. Altri due capitoli riguardano la mancata zona rossa prima del lockdown nazionale, quindi le responsabilità di Regione e Governo, con la perizia di Crisanti, e la mancanza di un piano pandemico, che invece interessa tutta Italia. I prossimi mesi saranno decisivi. Vorrei che il messaggio oltrepassi i confini di Bergamo, perché è successo qui ma poteva succedere ovunque».


P OLITICA

VALORIZZARE I BENI CULTURALI IN CAMPANIA Il nostro patrimonio culturale secondo Assunta Tartaglione, neopresidente di Scabec di Fabio Di Nunno

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el corso degli ultimi due anni caratterizzati dalla pandemia di Covid-19, ci si è resi conto di quanto i beni culturali e la loro fruizione siano essenziali alla nostra comunità, sia dal punto di vista sociale che da quello economico. In Campania, dove il patrimonio culturale, paesaggistico, archeologico ed enogastronomico è incredibilmente variegato e diffuso, la Società Campana Beni Culturali (Scabec), società in house della Regione Campania, è impegnata nella promozione di tale sconfinato patrimonio. Da circa 20 anni, Scabec realizza progetti che mirano a valorizzare i luoghi della cultura della Campania: parchi archeologici e musei, castelli e dimore storiche, chiese e complessi monastici, percorsi sotterranei e grotte naturali, beni materiali e immateriali del Patrimonio Unesco come l’Arte del Pizzaiuolo Napoletano e la Dieta Mediterranea. Per questo, Scabec interviene nella progettazione e organizzazione di un’iniziativa fino alle azioni di marketing e comunicazione che includono attività di ufficio stampa, predisposizione di campagne pubblicitarie, gestione dei social media, relazioni con stakeholder privati e pubblici. Assunta Tartaglione, neo presidente di Scabec, racconta ad Informare la sua visione per la fruizione dei beni culturali in Campania. Quali sono i punti di forza e di debolezza nella fruizione e valorizzazione dei beni culturali in Campania? «Il Covid-19 ha cambiato completamente le

modalità di promozione e fruizione del patrimonio culturale. Persino i siti dei grandi numeri come il parco archeologico di Pompei hanno subito l’inevitabile fermo dei flussi turistici e

Assunta Tartaglione - Presidente Scabec

stanno pensando a nuove forme di valorizzazione. Il nostro punto di forza resta l’incredibile offerta diffusa su tutto il territorio: la Campania

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è una regione da record in questo senso, con ben dieci riconoscimenti dell’UNESCO come patrimonio materiale e immateriale dell’Umanità. Grandissimi attrattori (da Pompei alla Reggia di Caserta, dalla Costiera amalfitana ai Templi di Paestum o al centro storico di Napoli) affiancati da centinaia di piccole realtà e borghi del buon vivere che ne fanno una destinazione culturale con un enorme potenziale di sviluppo. È questo il nostro punto di forza e di partenza. La “debolezza” – se così vogliamo chiamarla e su cui stiamo lavorando - è la messa in rete di tutte queste realtà, in modo da creare un sistema in grado di produrre anche ricchezza sui territori e crescita sociale». Quali sono i principali progetti di Scabec? «Da oltre 15 anni il progetto di punta è ancora Campania>Artecard, il pass che offre ingressi museali e trasporto pubblico e che ha sviluppato una piattaforma digitale che è diventata l’organo di promozione di tutta l’offerta culturale campana. Accanto a questo ci sono alcuni appuntamenti ormai diventati stabili come l’importante rassegna di musica lirica e classica che si svolge d’estate alla Reggia di Caserta, dal titolo “Estate da Re” o “Campania by night”, la rassegna che promuove la fruizione dei siti culturali, in particolare quelli archeologici, di sera, con spettacoli ed eventi. Ma non solo: sono state realizzate decine di mostre e allestimenti museali, abbiamo un importante segmento della Digitalizzazione su cui stiamo sviluppando progetti di grandissimo profilo, dalla Via dei Musei di Napoli alla Stanza delle Meraviglie al Trianon, solo per fare due esempi». Quali sono le sue priorità come neo-presidente di Scabec? «Mi ha fatto piacere iniziare la mia presidenza con una iniziativa a Pompei, che racchiude un po’ tutti gli elementi di un’azione virtuosa: L'Arte bus è nato, infatti, dalla collaborazione tra istituzioni (il MIC, la Regione, i Comuni, la Scabec e Eav) per collegare gli scavi di Pompei con gli altri siti archeologici periferici del parco. Con una sola azione si è dato vita nello stesso momento a una collaborazione istituzionale, alla valorizzazione dei siti, alla promozione del territorio e alla creazione di una rete a disposizione dello sviluppo turistico, grazie a un servizio che rende accessibile queste realtà più piccole. Insomma un lavoro di squadra. E credo che quello dell’accessibilità culturale sia un tema importante su cui la Scabec potrà continuare a dare il suo contributo».

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he la donna debba percepire, a parità di lavoro svolto, la stessa retribuzione di un uomo è scritto nella nostra Costituzione: anno 1948. Si tratta di un principio fondamentale, che trova ulteriore riconoscimento a livello sovranazionale, nel Trattato di Roma: anno 1957. A distanza di oltre cinquant’anni, il divario tra uomo e donna non accenna a colmarsi. È questo l’assunto da cui muove la Commissione europea, che il 4 marzo 2021 ha formulato una proposta di direttiva al Parlamento europeo e al Consiglio volta a consolidare il principio della parità retributiva tra uomo e donna. L’Italia, di certo, non brilla per virtù. Anzi. Secondo i dati ISTAT la retribuzione oraria sarebbe pari a 15,2 euro per le donne e a 16,2 euro per gli uomini, con un differenziale retributivo più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). L’urgenza di dare sostanza ad un diritto riconosciuto solo sul piano formale è stata avvertita dal legislatore italiano. La legge del 5 novembre 2021, n. 162 è, infatti, il tentativo di orientare le scelte economiche e occupazionali delle imprese, di modo che il genere cessi di costituire un fattore di divaricazione sul piano lavorativo e, in specie, salariale. Esaminiamo il dettato normativo insieme all’Avvocata Edna Borrata, componente del direttivo Nazionale Pari Opportunità del Movimento Forense per l’Avvocatura Indipendente Autonoma e Libera. In che modo il legislatore è intervenuto, con la legge del 2021, a modificare il codice delle pari opportunità del 2005? «La legge interviene su molteplici fronti. Modifica ruolo e funzioni delle consigliere di pari opportunità in rapporto al Parlamento; amplia la nozione di discriminazione diretta e indiretta; prevede che le imprese oltre i 50 dipendenti (e non più al di sopra di 100 dipendenti) siano tenute a redigere un rapporto, almeno ogni due anni, sulla situazione del personale maschile e femminile, ivi compresi gli aspetti retributivi; introduce - e ne incentiva il conseguimento attraverso meccanismi di premialità - la certificazione della parità di genere che attesta le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere; estende le misure di equilibrio di genere previste dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria anche alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni non quotate in mercati regolamentati».

Il legislatore finalmente interviene a colmare il divario salariale tra uomo e donna Anche se la strada per la parità retributiva è ancora lunga di Ilaria Ainora

L'avvocata Edna Borrata

Quali fattispecie viene a ricomprendere la nozione di discriminazione così come estesa dal legislatore? «Per effetto delle modifiche apportate all’art. 25 del codice delle pari opportunità, la tutela da atti di natura discriminatoria, posti in essere dal datore di lavoro, si estende alla fase di selezione del personale. Ancora, possono integrare un comportamento di natura discriminatoria anche gli atti di natura organizzativa del lavoro o incidenti sull’orario di lavoro. Anche gli orari di lavoro possono, infatti, disincentivare l’occupazione femminile, in specie se tali da rendere inconciliabile il lavoro con le esigenze di cura della famiglia».

In che cosa consiste il meccanismo premiale introdotto dalla riforma e che impatto avrà, a suo avviso, sulle imprese del Mezzogiorno? «Dal 2022, alle aziende private in possesso della certificazione della parità di genere al 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento viene riconosciuto un esonero contributivo. È un chiaro incentivo a riformulare le politiche occupazionali in un’ottica di parità di genere. Tuttavia, per comprendere al meglio la portata della riforma, occorre attendere l’adozione dei decreti attuativi. La riforma è giovanissima, ma non è di poco conto. È stato decisivo l’apporto di molte parlamentari, rappresentative sia della maggioranza che della minoranza. Senza dubbio, si tratta di un intervento da accogliere con favore. È, da un lato, sintomatico della consapevolezza raggiunta dalle donne del loro ruolo sul piano professionale, oltre che sociale; d’altra parte, è il tentativo di sensibilizzare ulteriormente la collettività. Va da sé che la strada per la parità retributiva è ancora lunga e tortuosa, soprattutto per gli audaci che tentano di percorrerla nel tratto che attraversa il sud Italia. Il riconoscimento dell’eguaglianza tra uomini e donne sul piano salariale passa attraverso un cambiamento culturale, di difficile genesi e sviluppo in un ambiente come il Mezzogiorno. Quando la disparità di genere è così radicata da palesarsi finanche nel linguaggio, la penna del legislatore rischia di spiegare il suo tratto sul vuoto e le sue parole, per quanto lungimiranti e garantiste, di perdersi nel vento».

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FiloDiretto, il tramite tra Davide e Golia Intervista all’avvocata Clara Orlando di Vittoria Serino

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iloDiretto è un’Associazione a tutela dei consumatori che offre una consulenza legale, esperta e gratuita, per problemi di telefonia. Entrando nella sede nel centro di Napoli ciò che subito salta agli occhi è un telefono rosso di quelli che ormai non si usano più, a rotelle, diventato il logo dell’associazione. L’avv. Clara Orlando, fondatrice di FiloDiretto, ci spiega che la scelta non è casuale, tutt’altro: «L’idea nacque una notte d’Agosto del 2019, in una sorta di moto di disobbedienza verso un tipo di assistenza asettica, fredda, operativa soltanto per moduli prestampati. Prima, infatti, lavoravo in un’altra associazione che riceveva i contatti online tramite un sistema per cui nessuno di noi aveva la minima idea di chi fosse la persona dall’altro lato del computer. Quella metodologia di lavoro, così impersonale, mi ha fatto pensare che qualcosa potesse e doveva essere cambiato, così ho creato la mia associazione in cui le persone, chiamandomi, sanno che c’è sempre una persona cui possono fare riferimento anche solo per una semplice consulenza legale. È un telefono col filo il simbolo di Filodiretto perché “io sono qua e tu sai dove sto”». L’associazione sembra dunque essere in netta controtendenza rispetto a un’evoluzione della tecnologia che, se da un lato ha effettivamente velocizzato certe procedure, dall’altro ha finito per creare una sorta di automatismo nelle stesse... e a pagarne le conseguenze sono i consumatori. Non di rado, infatti, capita che nel concludere telematicamente un contratto con un operatore telefonico, questi abbia fatto uso di un linguaggio equivoco, condizionando il contenuto finale del contratto. Ecco perché

abbiamo contattato l’Avv. Orlando per entrare nei dettagli dei servizi offerti dall’associazione. Avv. Orlando, a questo riguardo lei crede che esistano dei modi attraverso cui il consumatore può tutelarsi? «Certo, un primo passo sarebbe scegliere di andare in uno store apposito piuttosto che servirsi di un call-center; laddove questo non fosse possibile si può comunque richiedere la registrazione telefonica per essere sicuri del contratto sottoscritto». Riscontrate problematiche più frequenti di altre? «Sì, i problemi più frequenti sono originati dalle decisioni prese unilateralmente dal gestore, come ad esempio i servizi aggiunti al piano tariffario attivati senza la richiesta del cliente.

Abbiamo fatto inserire a questo scopo il doppio click obbligatorio a conferma di eventuali servizi aggiunti e ciò ha reso più difficile incorrere in questi rischi. Quando l’operatore cambia unilateralmente le condizioni generali del contratto, l’unica via attraverso cui è possibile venirne a conoscenza è la presa visione e lettura in toto delle fatture evitando cioè l’errore di leggere soltanto pagine iniziali, perché molto spesso le comunicazioni più importanti sono scritte a caratteri minuscoli (il cd. “corpo 8”) e sono poste alla fine». Il Codice dei consumatori all’articolo 20 definisce scorretta ogni pratica commerciale che “è contraria alla diligenza professionale, ed è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio al quale è diretta”: cosa bisogna fare in questi casi? «Quando notiamo delle pratiche commercialmente scorrette subito provvediamo a sottolinearle all’Antitrust che sanziona direttamente l’operatore così che l’utente possa avvalersi di quella delibera per chiedere un rimborso. Una sanzione dell’Antitrust consente quindi all’utente di agire impugnando la singola fattura». L’essenziale gratuità del servizio è inoltre il punto di forza dell’associazione e contro coloro che ritengono che lavorare nel campo della telefonia significhi condannarsi a un’attività distaccata e indifferente, l’avvocato risponde leggendoci una mail ricevuta da un cliente: «Filodiretto mi ha restituito il sorriso quando, risolvendomi un problema di rete, è riuscita a non farmi sentire solo». «Sono affermazioni come queste che ti danno il senso di ciò che per noi vuol dire fare questo lavoro che prescinde dalla telefonia, tecnologia, social, velocità. È la dimensione umana quello che amiamo» - conclude l’Avv. Orlando. Gennaio 2022

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CRITICA D'ARTE

L’antro magico Giovan Battista Recco: Interno di cucina di Roberto Nicolucci

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agia, alchimia, alambicchi, provette, fumi colorati e odori penetranti. E poi ecco la magia, la pietra filosofale, quella che trasforma il vil minerale in oro. Dov’è questo antro dell’alchimista? Certo, ci piacerebbe portarvi al cospetto di Melquíades gitano, fra i piccoli pesci d’oro di Aureliano Buendía, ma invece per noi italiani allevati nella religione del maccherone e del sugo, dell’olio, delle verdure e delle carni varie, dei pesci e dei crostacei, siamo in cucina! Fra Seicento e Settecento essa diventa addirittura un topos pittorico e letterario. La celebrazione di questo tempio esoterico la trovate nella natura morta napoletana, gli Interni di cucina di Giovan Battista Recco, uno dei più importanti passaggi di quell’autentica scuola che è la natura morta napoletana, la quale parte dal caravaggismo, come il dipinto in questione,

e attraverso contributi fiamminghi e forse spagnoli giunge ad elaborare un compiuto codice barocco. Come in tutti gli antri alchemici vi sono quelli ordinati, e nel loro ordine un po’ inquietante, ci sono anche quelli dominati da una confusione indescrivibile, in cui oggetti e corpi, animali o vegetali si mescolano a tegami, pentole ed attrezzi vari, e poi troviamo quelli dove domina la figura dell’alchimista, cuoco o cuoca che sia. L'autore ha mostrato tutto ciò in tre diversi laboratori, tutti ritratti da Giovan Battista Recco, esponente di un’ampia famiglia di pittori napoletani del Seicento; fra gli altri membri ricordiamo il fratello Giacomo e il nipote Giuseppe che per una strana ironia della sorte fino a qualche decennio fa erano i soli veramente noti alla critica d’arte. Ma a volte, anche agli artisti, come succede a Venere, capita di nascere da una conchiglia, da un’ostrica per la precisione.

E già! Perché un cesto di ostriche sarà il primo dipinto sicuramente attribuito, in quanto firmato per esteso, da Giovan Battista Recco. È questo, quindi, il maestro ritrovato e riconosciuto, che ci guida nei vari laboratori. Nell'immagine in alto è riportato uno dei tre capolavori che si trova a Capodimonte, dove finalmente ci troviamo di fronte all’ordinato ripiano di cucina con tegami, piatti decorati, pani, formaggi e una testa di caprone che veramente rimanda ad un immaginario esoterico, il tutto perfettamente disposto con virtuosismo pittorico in cui anche l’equilibrio precario dei coltelli, poggiati sul bordo del ripiano, sembrano fissare il momento prima che cominci il sacro esperimento. Immaginiamo di passare in quella cucina, in quel laboratorio esoterico, dopo l’esperimento, dopo l’elaborazione misteriosa e misterica del cibo, come in un antro alchemico dopo l’esplosione di polveri e fluidi: veniamo catapultati adesso in uno degli interni di cucina; questa volta trattasi di una collezione privata di Cremona, già in Collezione Astarita, dove nulla più è in ordine, pentole e calamari, sedie e ceste, polli lugubri e tristi salami in ordine sparso; è una buia caverna dai contorni indefiniti e inquietanti, vietata ai profani, a chi non è iniziato ai segreti dell’arte culinaria, un luogo pericoloso, magico e inesplicabile. Invitiamo il lettore di Informare a trovare l'immagine. È il vero manifesto della pittura, una cucina dove solo il pennello-mestolo dell’artista-cuoco può mettere ordine e creare sapori, luci e colori. Gennaio 2022

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L’ANIMA DEL PROG Gli Osanna festeggiano una straordinaria triplice uscita

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di Francesco Cimmino

'uomo, la terra, il cielo, il mare / Creare, creare, ovunque creare / Il sole, la luce, il freddo, il calore / L'amore, l'amore, ovunque l'amore» così cantavano gli Osanna nel primo album uscito il 10 agosto 1971, ed oggi, festeggiando i 50 anni di attività raccolgono in questi giorni le soddisfazioni della loro triplice uscita: CD-DVD-LIBRO. Abbiamo ospitato in redazione il leader storico del gruppo Lino Vairetti, per farci raccontare come sta andando. Lino, qual è il segreto della vostra longevità? «Sicuramente la passione, perché c’è ancora determinazione e voglia di raccontare, caratteristiche che fanno parte del mio DNA. Parlo al singolare perché purtroppo sono l’unico elemento superstite del gruppo originale. Essendo io il cantante e leader sono riuscito a portare avanti il discorso Osanna, anche all’estero. La

furbizia di far suonare con me David Jackson dei Van Der Graaf Generator, mi ha dato la possibilità di suonare in Messico, Giappone, USA, Brasile, Corea e affiancare Carl Palmer nel suo tour internazionale. Quando siamo andati in Giappone nel 2010 sono rimasto colpito dalla mia faccia in prima pagina su tutti i giornali – lì siamo davvero famosi – e la notizia che mio figlio Irving suonasse con me era una bomba». Immaginiamo un mondo senza Osanna e Lino Vairetti, come sarebbe stato il neapolitan power? «Beh, sarebbe presuntuoso fare certi ragionamenti. Però c’è da dire che noi siamo stati i precursori di questo - detto alla Marengo – Napule’s Power. L’abbandono della forma canzone, il rockeggiamento progressive, la politicizzazione dei testi e la contaminazione con la tradizione napoletana hanno dato il via ad una stagione

in cui sono poi comparsi i Napoli Centrale, Pino Daniele, Alan Sorrenti, Tony Esposito, Tullio de Piscopo e tanti altri. Oggi non abbiamo voluto abbandonare la nostra identità e nel nuovo disco, la nostra appartenenza politica si sente tutta. Io sono un uomo di sinistra e preferisco continuare ad espormi». Infatti, il CD “Il Dietro del Mediterraneo”, dal gusto “seventies”, propone temi sociali importanti, come nel brano omonimo dove si parla di migrazioni… «Il brano, recitato da me sulle note della composizione del maestro arpista Vincenzo Zitiello, vuole tracciare un quadro di quel Mediterraneo creatore di culture meravigliose, oggi teatro di guerre, omicidi e migrazioni, frutto dell’atteggiamento passivo della nostra società». Quindi, come è stata finora l’accoglienza tra i fan del nuovo disco?

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china da scrivere” per aver messo in luce l’uomo dietro la maschera. Viene raccontata la mia storia ricamata tra gli eventi che hanno caratterizzato la mia vita e quella degli Osanna, tra arti figurative, performance teatrali e musica». Cosa si devono aspettare i fan dal 2022? «Porteremo avanti il discorso degli ultimi 50 anni. La pandemia ci ha fermato, ma riprenderemo il tour internazionale in Giappone, Brasile, USA: quindi tanti concerti e tanta musica. Poi stiamo già costruendo i prossimi dischi. Ho chiesto al mio gruppo di straordinari musicisti, dopo aver esplorato il mondo del prog, di scrivere musica, una sorta di “Osanna evolution”. Io invece voglio un attimo staccarmi dal prog e fare un album più cantautorale firmato Lino Vairetti, dove inserirò anche le cover dei brani che mi hanno più segnato».

«Eccezionale. È un concept album composto da tutti brani inediti ed è un omaggio ai propri miti e agli amici musicisti che non ci sono più, come Danilo Rustici. Si possono sentire le sonorità del passato, con riecheggiamenti ai Procol Harum, i King Crimson o a noi stessi; suonato con tecnologie moderne e da giovani musicisti. Per questo ringrazio tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione, come il nostro Sound Engineer Alfonso La Verghetta». Dovunque si leggono pareri positivi per il docufilm “Osannaples” di M. Deborah Farina. Alcune scene, come quella di El Tor nella caverna, ricordano le atmosfere del prog degli anni ’70... «Sì, il prog è anche psichedelia. Il germe del colera che si diffuse a Napoli nel 1973 veniva chiamato El Tor; personificato, divenne il protagonista di una mia opera rock. L’ho voluto ricordare perché simboleggia un principio (da sessantottino) in cui ancora credo: per scardinare un sistema non si può agire da soli, ma lottare insieme agli altri. Il film è autoprodotto e sta riscuotendo enorme successo: dopo aver partecipato ad alcuni festival ha anche vinto dei premi». Mentre il libro “L’uomo. Sulle note di un veliero”, scritto da Franco Vassia, che impatto ha avuto? «Il libro anche sta andando molto bene. Ha vinto il premio “Mac-

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«Senza la tradizione, non si può andare oltre» Intervista a Marisa Laurito, Direttrice Artistica del Teatro Trianon Viviani di Luisa Del Prete

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agli esordi con la compagnia teatrale di Eduardo De Filippo fino ai nostri giorni, Marisa Laurito continua ad essere un punto di riferimento per il teatro napoletano e per la valorizzazione della cultura partenopea in tutta Italia e nel mondo. Grazie al nuovo incarico come Direttrice artistica del Teatro Trianon Viviani di Napoli, continua ancora ad emozionare una città che è per lei una costante fonte di ispirazione. Un bilancio dell’attività del Trianon post pandemia? «Il bilancio per me è molto positivo perché noi non ci siamo mai fermati: anche durante la pandemia abbiamo prodotto tre spettacoli e sei concerti. Alcune cose sono state trasmesse in Rai ed altre in streaming: siamo molto felici del nostro operato. Il Trianon, con il progetto di diventare “Teatro della Canzone Napoletana”, ha

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preso una direzione precisa; una cosa che non c’era a Napoli e che era necessaria perché noi abbiamo un repertorio straordinario. Proprio per questo la programmazione di quest’anno si incentra principalmente sulla nostra storia e le nostre tradizioni teatrali e musicali». Molti registi e attori internazionali hanno avuto da ridire su com’è stato trattato il Teatro ed i lavoratori dello spettacolo nel periodo della pandemia; a te che impressione ha fatto il Teatro del post-Covid? Secondo te è stato valorizzato a pieno? «È una cosa molto complicata di cui parlare perché ci sono i Teatri pubblici che hanno avuto più forza perché avevano delle sovvenzioni; altri Teatri privati che hanno avuto dei ristori, ma devo dire che su come si sono comportati alcuni teatri privati perché questi ristori non li hanno presi in produzione, ma se li sono tenuti

per non so cosa. La pandemia è una guerra ed in tempi di guerra si cerca di salvare il salvabile e personalmente non mi sento di dare addosso ai nostri politici per quello che hanno fatto o non hanno fatto anche perché bisognerebbe avere una grande professionalità in merito per capire com’erano le situazioni». Per te com’è questa esperienza al Trianon? Cosa ti sta trasmettendo professionalmente? «È un successo e tutto quello che diventa un successo dà una grande gioia. Il tutto accompagnato anche da una grande fatica come ogni volta che si ricomincia da capo. Io l’idea di avere un Teatro della Canzone Napoletana ce l’ho da circa 40 anni, sapevo che a Napoli mancava, volevo che accadesse una cosa del genere e ci sono riuscita, anche grazie al sostegno della Regione Campania. Tutto questo insieme all’apertura della Stanza delle meraviglie ed a


che tempo prima è stato presentato un altro film sui De Filippo, per la regia di Martone, quali sono le differenze e l’importanza del ricordo? «I due progetti sono stati presentati casualmente in tempi ravvicinati: uno che parlava dei De Filippo con Scarpetta ed un altro dei De Filippo dopo Scarpetta. Sono felice che si scateni tutto questo anche se, a mio avviso, è sempre troppo poco perché i grandi personaggi della storia dell’arte italiana non sono mai abbastanza ricordati. Noi in Italia abbiamo un grande difetto: non amiamo a sufficienza le nostre star. Ricordare quelli che hanno dato tanto allo spettacolo e alla cultura, vuol dire farli conoscere ai giovani e far capire che si parte da una storia per poi svirgolare ed andare oltre. Ma se non si conosce la tradizione, non si può andare oltre». Marisa Laurito - Direttrice del Teatro Trianon Viviani di Napoli Hai iniziato la tua carriera breve apriremo al primo piano del Teatro il più da attrice con la compagnia grande archivio della storia della musica napodi Eduardo: dai suoi occhi, letana. Questo lo dovevo a Napoli e lo sentivo come si è evoluto il Teatro fortemente perché è una cosa giusta». eduardiano nei nostri giorni? Uno sguardo alla nuova stagione del Trianon... Nelle stagioni dei più grandi «La stagione è piena di cose interessanti. Tenteatri vediamo continuamendo sempre a dare spazio a tutti ed ho creato te riprodotte le opere di De tre fasce: una di giovani, perché devono poter Filippo; dunque, quali sono gli avere un teatro dove esibirsi ed io li porterò aspetti positivi e quelli negaogni anno per tutti gli anni della mia direzione tivi? artistica; una di Big, ovvero di star che portano «L’aspetto positivo è quello di non solo la tradizione, ma anche il richiamo del continuare a recitare Eduardo: pubblico, a partire da Peppe Barra fino a Serè molto importante perché è villo; poi ci sono anche degli spettacoli teatrali uno dei più grandi autori del musicali di giovani, un “Natale in casa Cupiello” ‘900 e non va assolutamente fatto con i burattini da Lello Serao, fino ad una dimenticato. L’aspetto negaprimavera ricca di concerti e di altre sfide. Per tivo lo dico con una frase di concludere, il mese di maggio sarà completaEduardo che mi divertiva molmente dedicato ai De Filippo». to: “Mi raccomando, quando “I Fratelli De Filippo” è il nuovo film nella quanon ci sarò più, non mi migliole reciti per la regia di Sergio Rubini. Qualrate”. Molto spesso così non è,

Tendo sempre a dare spazio a tutti, particolarmente ai giovani, perché devono poter avere un teatro dove esibirsi ed io li porterò ogni anno per tutti gli anni della mia direzione artistica purtroppo, perché alcuni registi vogliono essere originali e modificare alcune cose: su molte cose sono d’accordo, su altre proprio no. La cosa più importante, però, è che si continui a portarlo in scena, così come Pirandello e Shakespeare, Eduardo è uno dei migliori drammaturghi al mondo e come tale va trattato».

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«A Teatro c’è l’imperfezione, c’è la vita» Carlo Buccirosso racconta il mestiere dell’attore di Luisa Del Prete

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uando si pensa alla commedia napoletana contemporanea, non si può non pensare ad uno dei volti più celebri: Carlo Buccirosso. Noto interprete cinematografico, da film come “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino a “Noi e la giulia” di Edoardo Leo (per la quale ha ricevuto il David di Donatello come Miglior attore non protagonista), ma soprattutto attore e regista teatrale da “…E fuori nevica” a “I compromessi sposi” fino al recentissimo “Due vedovi allegri” in scena al Teatro Augusteo di Napoli dal 23 dicembre 2021 al 16 gennaio 2022. Scritto, diretto ed interpretato da Buccirosso e, a fargli da spalla, un altro volto noto dello spettacolo italiano: Biagio Izzo. Una carriera che ha un peso molto importante e che porta con sé un bagaglio di testi ed interpretazioni che arricchiscono e fanno evolvere sempre di più la tradizione della Commedia napoletana. In occasione dello spettacolo all’Augusteo, abbiamo avuto la possibilità di intervistarlo, non solo sulla nuova commedia, ma soprattutto sul Teatro contemporaneo napoletano che conserva la tradizione ma, allo stesso tempo, ha una storia ancora tutta da scrivere. Due vedovi allegri e non solo: due volti tra i più importanti del panorama teatrale italiano. Da dove nasce questo binomio? Cosa vi aspettate da questo spettacolo? «Già da qualche anno io e Biagio ci incontravamo nei vari teatri ed ho sempre pensato che sia giusto che, alle volte, dei “beniamini” si uniscano. Lo fanno molto spesso anche al cinema ed a teatro è una cosa altrettanto bella. Ho scritto il personaggio per Biagio praticamente cucendo-

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glielo addosso, come ho fatto per tutti gli altri attori, e facendo arrivare il mio con un po’ di ritardo; di uno spettacolo penso sempre a curare prima gli altri personaggi e poi il mio lo aggiusto man mano che la commedia va avanti. La simbiosi nasce dalla voglia di dare dieci motivi in più alla gente per venire a teatro: con tutte queste restrizioni, tra vari obblighi e mascherine, è come se si volesse allontanare il pubblico

sempre di più. Ad ottobre, con la mia compagnia, ho portato in scena uno spettacolo che è andato molto bene con circa 900/1000 spettatori ogni sera, ma la mia voglia era quella di vedere la sala piena unendo due pubblici diversi: il mio e quello di Biagio. Ho pensato che il Teatro doveva avere una scossa ed è nata tra noi due un’ottima complicità con un solo obiettivo comune: far sorridere tutti i nostri spettatori; per

Luisa Del Prete e Carlo Buccirosso


que un peso importantissimo da portare alle spalle di tutti gli antenati di quest’arte napoletana. Quanto si è evoluto il Teatro e quanto è importante rispettare la tradizione? «Per me è fondamentale: la “tradizione” è una parola che non dimentico mai e che porto sempre in scena. Riguardo all’evoluzione, ho qualche dubbio perché sono sempre i classici che vanno avanti e vengono riproposti dai vari teatri. La tradizione è molto bella e ricca, ma in contemporanea non ci sono “grandi testi nuovi”. Io scrivo testi molto moderni, parlo del sociale, e credo che il pubblico abbia voglia di ascoltare cose nuove e di emozionarsi davanti a storie diverse; ma allo stesso tempo che parlino dei problemi reali e di una famiglia nella vita di tutti i giorni. Quella di “Due vedovi allegri” è una di queste». Sei un attore che da anni lavora sia nel settore cinematografico che in quello teatrale. Ci sono molti attori che rendono bene a teatro e molto meno al cinema e viceversa, mentre pochi riescono a tenere stabile questo rapporto. Qual è il segreto nel riuscire a non tentennare mai in questo passaggio cinema-teatro e restare sempre costante? «La misura è la cosa più importante: se si riesce a tenerla anche a teatro, dopo non si fa fatica perché il passaggio al cinema è tuto lì. Il teatro è un quadro di lontananza, quindi l’attore è molto più libero nella sua gestualità di esprimersi, mentre nel cinema è molto più vicino, inquadrato, e si nota qualsiasi gesto che l’attore compie. Invece se già a teatro si riesce ad essere più misurati, il passaggio con il cinema diventa

me questa è l’unione vera». In questo periodo così difficile, ma in cui il Teatro è così necessario per staccare la spina da una realtà in cui ogni giorno veniamo bombardati di notizie, quanto è importante resistere? «È molto importante perché è una forma di cultura e di trasmissione di sensazioni davvero unica. Entri in sala, ascolti una storia e provi delle emozioni. L’argomento che trattiamo in questo spettacolo è davvero importantissimo e molto toccante, mi sono dovuto documentare a fondo per poterne parlare al pubblico perché è molto delicato». Come mai hai deciso di trattare questa tematica? «Perché ne sapevo molto poco e volevo capire. Da agosto ho iniziato a documentarmi, parlando con medici ed esperti del campo e studiando sono riuscito non solo a saperne qualcosa in più, ma soprattutto a trasmetterlo al pubblico, cercando di non toccare la sensibilità di nessuno». Il genere che tratti è principalmente quello della Commedia: vi è dun-

Carlo Buccirosso e Biagio Izzo in scena al Teatro Augusteo

molto più semplice. Ci sono attori che a teatro non riescono a trattenersi e dunque il passaggio al cinema è complicatissimo. A teatro “regna l’anarchia” perché quando si apre il sipario nessuno può fermarti se la scena è venuta male. Al cinema è tutto incredibilmente perfetto, mentre a teatro c’è l’imperfezione, c’è la vita».

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F OTOGRAFIA

LA GENOVA BELLISSIMA ED EMARGINATA DI LISETTA CARMI

Ai Magazzini Fotografici una mostra per raccontare Genova, i Travestiti e la conoscenza con la fotografia Di Gianrenzo Orbassano

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o fotografato per capire”. Da questo incipit bisogna approcciare alla fotografia neorealista di Lisetta Carmi, tra i massimi interpreti della fotografia sociale della seconda metà del Novecento. Genova, la sua casa, è protagonista dei suoi scatti: una città raccontata con gioia e curiosità tra gli anni Sessanta e Settanta. Attraverso la fotografia, l’artista mostra gli esseri umani di quella città in pieno fermento culturale e artistico. Lisetta riesce a narrare attraverso la fotografia uno spaccato di società di un Paese in contraddizione nel quale troviamo volti e storie di emarginazione come quella dei Travestiti: la comunità da dove iniziare a godere della sua ricerca. Un incontro realizzato per trasformare la paura in conoscenza, per capire, capirsi e accettare. Aprire gli occhi verso orizzonti più ampi, la mostra della bella ed emarginata città di Genova che include le foto della comunità dei Travestiti dei caruggi, è possibile visitarla ai Magazzini Fotografici di Napoli dal 2 dicembre al 6 marzo 2021. «Riuscire a portare a Magazzini Fotografici una mostra così importante è per me un grande traguardo (…) È un viaggio intimo, un incontro con la “sua” Genova. Osservando questo spaccato di vita genovese, il visitatore potrà scoprire le non poche analogie che legano la città natale della fotografa alla nostra Napoli». Così presenta il progetto la curatrice della mostra e fondatrice di Magazzini Fotografici, Yvonne De Rosa. Una grande relazione stringe queste due città, Napoli e Genova, celebrata con la mostra della Carmi nel capoluogo partenopeo. La redazione di Magazine Informare è stata presente all’inaugurazione dove ha incontrato il curatore Giovanni Battista Martini con il quale ha voluto interloquire per scoprire il personaggio di Lisetta Carmi. Quando sono state scattate le fotografie raffiguranti la comunità dei travestiti? «Il lavoro comincia il 31 dicembre del 1965, quando lei fu invitata ad una festa di Capodanno in una casa dove vivevano alcune persone appartenenti a quel mondo. La comunità si era formata a Genova, nel ghetto ebraico del centro storico. In vicoli, detti “caruggi” si rifugiavano e si sentivano protetti: in quegli anni subivano pesantissime discriminazioni. Stando in questo quartiere, formarono un loro gruppo in cui non sentirsi costantemente emarginati». Queste persone emarginate come si mantenevano economicamente? «Sopravvivevano grazie alla prostituzione. Purtroppo, non c’erano altri sbocchi. Nessuno di loro poteva diventare un commesso o lavorare in un ufficio. La società glielo impediva. C’era un tabù, nessuno accettava questo desiderio di cambiamento che una persona giustamente può sentire». Qual era la posizione di Lisetta Carmi a proposito? «Dal momento che arriva a conoscere la realtà dei travestiti, cerca di capire le motivazioni di queste persone. Con la sua fotografia ha provato a far conoscere questa comunità. È stato poi pubblicato un libro, nel 1972, dove si raccontano le storie e le origini di queste persone, attraverso delle interviste». Quali sono state le reazioni dopo la pubblicazione del libro? «Non è stato facile trovare un editore. Grandi case editrici non hanno accolto la proposta. Solo tramite un amico fotografo, Luciano D’Alessandro, si trova un finanziatore: il Signor Sergio Donnabella che investe dieci milioni di lire per realizzare finalmente il libro, sotto l’edizione SD di Roma. La pubblicazione trova il totale muro da parte degli stessi librai che si vergognavano ad esporla. Lisetta stessa andava nelle librerie a controllare l’esposizione». Il racconto di Giovanni Battista Martini è uno spaccato di un passato che molto ha a che fare con le problematiche di oggi riguardanti il tema dell’orgoglio trans. Se è vero che c’è una presa di coscienza e apertura, allo stesso modo ci ritroviamo in un presente ancora complicato per le comunità raccontate. Come recitava la copertina del mese di dicembre del nostro Magazine: i diritti non devono essere concessioni. I diritti sono riconosciuti in ambito internazionale e comprendono garanzie a tutela dell'incolumità fisica e della sicurezza dell'individuo. Essi vietano la discriminazione e salvaguardano le libertà dell’essere umano. Forse a tanti servirebbe capire fino in fondo la frase con cui abbiamo iniziato il nostro racconto della mostra di Lisetta Carmi: «Ho fotografato per capire». Un monito per la vita di tutti i giorni. Gennaio 2022

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IL POLMONE VERDE DEL MONDO ATTRAVERSO LA FOTOGRAFIA Al MAXXI di Roma, la mostra Amazonia di Sebastião Salgado di Mina Grasso

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L’allestimento si sviluppa in spazi che ricordano le ocas, abitazioni tipiche indigene, dove dominano i colori del grigio scuro scelto per le pareti, in contrasto con il color ocra delle case. I temi scelti descrivono da una parte il paesaggio boschivo e dall’altra i popoli con alcuni ritratti di donne e uomini indigeni. La visita ai temi ambientali è accompagnata dal suono del poema sinfonico Erosao (Origem do Rio Amazonas) di Heitor Villa Lobos, mentre per i ritratti di uomini e di donne indigeni la musica in sottofondo è quella del musicista brasiliano Rodolfo Stroeter. A questa si somma anche Jean-Michel Jarre, ispirata ai suoni autentici della foresta. La mostra è anche accompagnata da un palinsesto di incontri con esperti, che vertono sul tema del cambiamento climatico e sulle devastanti conseguenze dello sfruttamento della Terra. Sebastião Ribeiro Salgado Júnior è un fotografo brasiliano, classe 1944, vive a Parigi ed è da sempre orientato verso la documentazione della condizione umana nelle diverse

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uecento scatti immersi nel buio e sospesi ad altezze diverse, per avvolgere il visitatore e raccontare un’Amazzonia vergine e incontaminata, uno spazio essenziale e consistente, dalla natura rigogliosa e bisognosa di protezione, una regione colossale grande quanto quattordici volte il territorio Italiano. Una mostra che vuole porre l’attenzione del mondo sulla necessità della tutela di questa area. Scatti in bianco e nero, frutto di una campagna durata circa sette anni, durante i quali il fotografo ha viaggiato con un’equipe di 12 persone e che mostrano la parte viva dell’Amazzonia, quella non toccata da incendi e devastazioni (circa il 18% del territorio), dunque la gran parte del paesaggio amazzonico. Il progetto del fotografo Sebastião Salgado e della curatrice e sua compagna di vita Lélia Wanick Salgado è in mostra al Museo MAXXI di Roma fino al 13 febbraio 2022. La mostra, raccontata anche in un catalogo, è stata prodotta dal MAXXI|Museo nazionale delle arti del XXI secolo in collaborazione con le edizioni Contrasto.

aree geografiche. La curatrice Lélia Wanick Salgado spiega in un’intervista al MAXXI che «il progetto con Sebastião è quello di chiedersi: Cos’è l’Amazzonia, con gli esseri viventi tutti, animali e uomini, con i paesaggi, la luce, l’umidità che crea nuvole meravigliose che si trasformano talvolta in veri e propri fiumi volanti che poi, ricadono nella foresta sotto forma di pioggia». Ecco che in mostra si cammina tra le foto sospese ad altezze volutamente differenti, per avvolgerci nel mondo dell’Amazzonia mentre gli scatti mostrano vedute aeree, foreste, nuvole dense che preannunciano piogge torrenziali, paesaggi fluviali e fiumi volanti che nascono dalla importante evaporazione di acqua. Ancora vette e bassopiani, aironi bianchi e poi popolazioni, come quelle dell’etnia Zo’. Ritratti di uomini e donne con copricapi in piume o intenti a bruciare resina per i rituali, indigeni con i disegni sui volti che indicano se le giovani donne sono o no impegnate in amore, oppure con pitture corporali realizzate per le feste o collane bianche di conchiglie che passano da un lato all’altro del naso. L’Amazzonia dunque, in un progetto creativo, molto articolato, che comunica attraverso gli occhi di un maestro della fotografia, la fondamentale importanza del polmone verde per il mondo intero.

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A RTE

TRA BEAUTY E CINEMA, COLORI E TRASFORMISMO CON EMANUELA ROSA di Chiara Del Prete |

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reatività e passione si abbracciano nei lavori di Emanuela Rosa, sostenitrice sorridente dell’ars gratia artis. Si forma come autodidatta, esegue ritratti su commissione, espone al Comicon, è consulente di armocromia e meraviglia con i suoi lavori di body e face painting. In arte Emmarosart, carpisce il brio che le procura trasformare il proprio volto e decide di addentrarsi nel mondo make-up beauty e cinematografico all’Accademia Liliana Paduano, dove padroneggia palette e protesi scultoree. Cambia l’approccio dal make-up estetico a quello prostetico? «Il trucco correttivo estetico punta a valorizzare gli aspetti migliori e a nascondere i difetti. C’è tutta una tecnica di base da seguire. Quindi si può spaziare con la creatività, con i colori, con le forme ma bisogna attenersi a delle regole correttive. Il trucco cinematografico come quello per la moda è più artistico, c’è molto più estro e affinità con il disegno e la pittura». Nel trucco cinematografico i prodotti utilizzati sono diversi? «È necessaria una grande conoscenza dei materiali utilizzati perché sono difficili e si rischia, nel caso di protesi attaccate male, di causare abrasioni alla pelle dell’attore. Silicone, latex, gesso, protesi fatte a mano, sono strumenti che richiedono talento scultoreo. Il trucco cinematografico è un’unione di mestieri, c’è una componente creativa perché si modellano personaggi fantastici da creare in

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maniera reale e infine c’è la parte di trucco correttivo e beauty per un risultato realistico». L’aggiornamento è parte indispensabile del mestiere? «Sì, nel trucco beauty con Instagram nascono forme nuove di trucco che devi imparare per stare al passo. Nell’ambito del cinema, invece, si cresce con la tecnologia. Gli effetti speciali vanno di pari passo con green screen, macchine fotografiche di ultima generazione, effetti ottenibili con Photoshop. Il make-up si interseca con l’aspetto tecnologico registico per ottenere in video l’effetto più verosimile possibile». In cosa si contraddistingue il trucco moda? «È artistico, prende le regole del trucco correttivo e le stravolge. Fondamentali nel trucco moda sono le basi luminose, le modelle devono essere super naturali con la pelle perfetta. Bisogna saper giocare coi colori e saper riflettere l’espressione artistica dello stilista nonché della collezione. Il capo truccatore concorda il trucco con lo stilista e si coordina con gli altri truccatori. L’aspetto interessante è che tutte le modelle sono diverse, ma il trucco da sfilata prevede che si faccia lo stesso make-up su ognuna, quindi, è super challenging. Poi nel backstage di una sfilata come in un servizio fotografico, c’è tanta adrenalina e pressione». Sei anche consulente di armocromia, abbraccia anche il mondo make-up? «L’armocromia ha molto a che vedere con il

emmarosart

trucco, con l’hair style ed il costume perché è un’analisi del colore. Per un trucco beauty dobbiamo fare un’analisi e capire quali colori possano valorizzare al meglio. Lo stesso capita ai parrucchieri per decidere un colore di capelli». Come spiegheresti l’armocromia a chi non la conosce? «È a tutti gli effetti un’analisi, studia i colori che possediamo intrinsecamente su volto, occhi, capelli e labbra per capire quali nuance possano meglio valorizzare la persona. La pelle non è banalmente color carne ma è fatta da colori sottocutanei dati dal carotene e l’emoglobina, a seconda di quei colori si può avere un sottotono freddo o caldo. L’armocromia sceglie la palette di colori che meglio riescono ad esaltare i colori che già ci appartengono». Come si svolge una consulenza di armocromia? «Ogni armocromista ha una sua palette di drappi, tessuti colorati, con cui aiuta il cliente a capire se possiede un sottotono freddo, un sottotono caldo, se è intenso o luminoso. La consulenza si svolge allo specchio e a capelli raccolti, viso struccato si appongono i drappi sotto al viso. Si parla di stagioni per una convenzione a cui associare rispettivi colori». Cosa diresti a chi è scettico a riguardo? «Ognuno è libero di vestirsi come vuole, l’abito come il trucco è un’espressione della personalità ed è giusto che rispecchi l’essere. Consiglierei di provare e di verificare se i drappi rivelano quello che constatiamo noi armocromisti».


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Informare Magazine: inaugurata la sede operativa di Napoli di Simone Cerciello

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ei primi giorni di dicembre, come da tradizione, si è tenuta la riunione redazionale di fine anno con i giovani collaboratori della nostra testata per fare il punto sul 2021 e per parlare dei progetti futuri. Un anno ricco di soddisfazioni, ma che non ci fanno poggiare sugli allori, bensì ci spingono a tenere botta ed a dare sempre di più per portare avanti il nostro Magazine. L’incontro è stato moderato dal Professor Roberto Nicolucci, Tommaso Morlando, editore del giornale, e Antonio Casaccio, direttore responsabile. Presente anche il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, Ottavio Lucarelli che, ancora una volta, ha risposto positivamente alle iniziative del nostro giornale, mostrando vicinanza e fiducia nei confronti di tutti i giovani aspiranti giornalisti di Informare. Quella di quest’anno però non è stata una semplice riunione, bensì potrebbe rappresentare una vera e propria pietra miliare nel percorso di crescita di Informare Magazine. Siamo infatti lieti di annunciare con grande orgoglio che, a partire dal nuovo anno, parte del Palazzo di Sangro di Vietri a Napoli (Piazzetta Nilo), location della riunione, diverrà ufficialmente la nuova sede operativa del nostro giornale, la quale si affiancherà a quella storica di Piazza delle Feste a Castel Volturno. Il Salotto

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Da sx Antonio Casaccio, Ottavio Lucarelli, Tommaso Morlando e Roberto Nicolucci

Culturale “Le Zifere”, appartamento di 400 mq risalente al XVI secolo ed interamente restaurato dal Professor Nicolucci, non solo ospiterà la nuova sede operativa di Magazine Informare, ma sarà anche il cuore di tutti gli eventi di stampo culturale che prenderanno vita da gennaio 2022. Una struttura del ‘500 all’interno della quale è praticamente impossibile non lasciarsi trascinare dalla storia e dalla cultura intrinseche in ogni stanza o corridoio. Doveroso a questo punto è il ringraziamento nei confronti di chi ha reso possibile tutto ciò, una persona che ha da subito sposato la nostra

causa, entrando col cuore e con la mente nella famiglia di Informare: Roberto Nicolucci, fondatore della Roberto Nicolucci editore e del Salotto letterario “Le Zifere” (luogo che ha ospitato l’evento). Dallo scorso mese, inoltre, il Professor Nicolucci è il nuovo Responsabile culturale di Informare Magazine: una grande risorsa per speciali ed approfondimenti che riguardano l’arte, la cultura e tutte le bellezze del nostro territorio, ma non solo. Un’importante riunione di sinergie: dalla vicinanza del Presidente Lucarelli a quella del Professor Nicolucci fino alla grande forza ed ener-


La redazione di Magazine Informare

della storia di Informare, ma di certo non un punto di arrivo. Cambiano i palcoscenici e aumentano i volti dei ragazzi e delle personalità che si uniscono alla nostra causa, una mission che resterà sempre e comunque la medesima: un’informazione libera, a forte senso di legalità, che promuoverà sempre le eccellenze umane ed imprenditoriali che si distinguono in un contesto territoriale difficile.

gia di tutti i collaboratori presenti e sempre attivi nel collaborare con lo stesso scopo: fare un’informazione pulita. Dunque questa giornata rappresenta sicuramente una delle tappe più importanti

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STRUZIONE

MEDICAL HUMANITIES

lo studio che rivoluzionerà il rapporto tra scienze umane e medicina di Luisa Del Prete

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uando parliamo di Medical Humanities intendiamo lo studio delle discipline umanistiche applicate alla medicina. Un rapporto che pone le origini già negli anni ’80 in America e che, da alcuni anni, sta iniziando ad evolversi in Italia attraverso centri di studi specifici e Master che ne permettono l’approfondimento. Questo binomio è stato fortemente voluto dalle scienze mediche, che volevano mezzi come l’arte, il cinema, la letteratura e tutte le altre scienze umane per ampliare il loro campo ed essere utili nella cura. L’insegnamento sostanziale delle Medical Humanities è che queste realtà non sono divise, bensì possono i nt e r s c a m b i a r s i tra di loro, anche raggiungendo dei risultati eccellenti come, ad esempio, l’importazione della poesia per fini terapeutici nel caso delle malattie neurodegenerative: quando il paziente perde la capacità di parlare, con la poesia si riesce a rallentare il degrado. Nel corso del tempo si è sempre di più settorializzato, diventando così una vera e propria scienza in via di sviluppo. Ci siamo confrontati con la Professoressa Paola Villani, Direttrice del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Coordinatrice Scientifica del Master in Medical Humanities presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli: un’esperta del settore che farà chiarezza su questa nuova scienza tutta da scoprire. Quello delle Medical Humanities è un settore del tutto innovativo

in Italia, ma molto seguito invece all’estero. Qui sono pochi i centri e solo due le Università che si stanno mobilitando in questo ambito, ma è importante che si tuteli ed incentivi questo svi-

si tratta di un’evoluzione del trattamento di cura, da quello che era un approccio prevalentemente ippocrateo si stava correndo il rischio di passare ad un approccio totalmente tecnologico, che faceva scomparire

luppo, in virtù della cura. «L’importanza dello studio di queste discipline - afferma la Prof.ssa Villani - fortunatamente sta emergendo in Italia. Si tratta di una svolta culturale soprattutto in tutto quello che riguarda il comparto “salute-benessere”. Si sta comprendendo che qualcosa deve cambiare sia nel rapporto tra personale sanitario e paziente, sia nel personale stesso:

quella che era la figura del medico originale. E ci tengo a sottolineare che “si stava per correre” questo rischio perché, prima negli Stati Uniti e poi anche qui in Italia, ci si è resi conto che la componente umana è diventata indispensabile: bisogna imparare a saper leggere non solo dentro le cartelle cliniche e i referti, ma anche dentro le persone. Le neuroscienze ci hanno dimostrato che i procedi-

Paola Villani

menti mentali di comprensione e di conoscenza, ma anche di motivazione e superamento del trauma sono strettamente correlate alla narrazione di esso. Noi non studiamo dei metodi di comunicazione tra medico-paziente, bensì altro: studiamo il meccanismo che muove le riparazioni dei traumi. La costruzione e la riparazione del trauma avvengono attraverso la narrazione». Uno studio consigliato non solo al personale del settore sanitario, ma anche a specialisti di molteplici settori in quanto pone obiettivi nella formazione psicopedagogica di ogni professionista. «Con lo studio delle Medical Humanities, si formano esperti in scienze umane in relazione ai rapporti di cura: possiamo intendere sia rapporti nel settore sanitario, ma anche in quello psicopedagogico. Le competenze sono proprio quelle che permettono una conoscenza ed un’elaborazione del sé ed un’introduzione al funzionamento del cervello umano e delle narrazioni. Queste sono le due traiettorie: da un lato i meccanismi celebrali e dall’altra quelli narrativi. È fortemente consigliato lo studio, attraverso il Master, di questo settore perché migliora non solo sé stessi, attraverso la “palestra del sé”, ma anche tutte quelle relazioni che riguardano non solo l’ambito sanitario, ma anche tutti gli ambiti di relazione del professionista specializzato con il prossimo». Gennaio 2022

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La foglia di fico - Storie di alberi, donne, uomini Recensione del libro di Antonio Pascale con illustrazioni di Stefano Faravelli di Angelo Morlando

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ntonio Pascale è scrittore, saggista, autore teatrale e televisivo e ispettore presso il Mipaaf (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali). In sintesi è un appassionato conoscitore della Natura nel suo senso più ampio. Nel libro “La foglia di fico” l’autore racconta dieci storie il cui epicentro iniziale è una pianta/vegetale (cactus, faggio, ciliegio, tiglio, pino, agrumi, olivo, quercia e leccio, fico e grano). In ogni racconto s’intrecciano storie di esseri umani. Nelle ultime due pagine vi è anche una nutrita bibliografia/sitografia ovvero “crediti scientifici”, perché gli studi/documenti/atti citati nel libro sono tutti verificabili. Cito l’introduzione, perché ritengo che meglio riesca a sintetizzare i contenuti dell’opera: “Cosa racconta questo libro? Di un uomo che

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più vive più dimentica, più desidera, più si abbatte, più legge e apprende, più si ritrova confuso e impaurito: un po' come tutti. Per questo cerca qualcosa di stabile, dei punti di orientamento ben visibili. Solo che lui, a differenza di tanti, si rivolge alle piante, costruendo una sorta di romanzo atipico, in cui ogni puntata è come un viaggio (nell’infanzia, nel tempo, con le donne). In fondo, queste magnifiche creature sono qui da molto prima di noi e saranno le ultime a morire. Le piante son odei fari, racchiudono simboli millenari, essenziali, nitidi, Riescono a sfidare le avversità e quindi ci offrono un modello di resistenza, perché con tenacia mettono in mostra la potenza delle contraddizioni: il desiderio di vivere e amare (espresso dal ciliegio) che può procurare frustrazione e insicurezza; la forza (della quercia) che si può abbandonare all’istante, buttandoci nello sconforto; la democrazia come processo di adattamento tra profondità e superficie (l’olivo); la necessità di un rito di passaggio (grano), di un viaggio che comprenda una morte per rinascere. Questo libro è un oroscopo, un sismografo, una mac-

china del tempo, oltre che una sorta di botanica dei sentimenti. D’altra parte le piante sono uno strumento d’eccezione per affrontare la nostra misteriosa, divertente, intricata natura; somigliano a noi più di quanto avremmo mai creduto. Al mondo esistono gli esperti di piante ed esistono gli scrittori: poi esiste Antonio Pascale, appassionato conoscitore della natura, uno dei narratori più apprezzati della sua generazione. Come nessun altro sa interrogare gli alberi, ascoltandone la storia e l’intrinseca bellezza”. Mi sento di condividere tutto. Scrittura asciutta, veloce, diretta. Essendo cresciuto a Castel Volturno, la storia che più mi ha appassionato è “La quercia e il leccio – La forza della vita e la maledizione della forza”. Non me ne vogliano il pino e la pineta della nostra meravigliosa costa, ma stanno bene nelle cartoline della città di Napoli; li ho sempre sentiti estranei. Di fronte al nostro leccio, invece, mi sono sempre sentito accolto e protetto. Nel racconto finalmente si svela anche il motivo per il quale erroneamente si considera il leccio un “porta sfortuna”. Spero nel prossimo futuro di incontrare Antonio Pascale e intervistarlo, ma la prima domanda sarà scontata: “Oh! ‘Amma fa’ ‘na cazzata?”.


Perdonaci padre, ma forse sappiamo quel che facciamo Commossi dal gesto di generosità del vescovo emerito Raffaele Nogaro di Angelo Morlando

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ono certo che non sarà felicissimo di questo articolo, ma sono altrettanto certo che comprenderà le mie/nostre motivazioni. Da circa due anni, quasi tutti i mesi ho il privilegio di consegnare il mensile Informare direttamente nelle mani del vescovo emerito di Caserta, padre Raffaele Nogaro. Ho già raccontato dei nostri incontri, dei commenti al nostro mensile, delle recensioni ai suoi testi e ovviamente ho tenuto sempre riservate le nostre conversazioni. Poco prima di Natale, sono passato da lui per la consueta consegna e fortunatamente abbiamo avuto un po’ più di tempo rispetto al solito e sono riuscito ad illustrare tutti i principali articoli, soprattutto quelli inerenti alla nostra

Castel Volturno, e sono riuscito anche a leggergli qualche passaggio principale. All’improvviso padre Nogaro ha fatto allontanare la persona che lo accudisce, ha tirato fuori il libretto degli assegni e ne ha firmato uno a favore della nostra associazione. Non posso nascondere la profonda commozione che ho provato e ancora una volta il prosieguo della nostra conversazione resterà riservato. Non posso nascondere con altrettanta sincerità che ho avuto ben chiaro da subito che non potevo non accettare la donazione di padre Nogaro, ma mi era altrettanto chiaro il percorso successivo. Ancora con le lacrime agli occhi sono ritornato a casa, ho fotografato l’assegno e l’ho inviato a mio padre. In genere Tommaso mi risponde subito, questa volta ho

dovuto attendere almeno qualche minuto. La risposta è stata quasi ovvia: commozione e gratitudine. Stessa reazione da parte del nostro direttore Antonio Casaccio. Non ne abbiamo parlato più fino a che non ci siamo incontrati da vicino. La domanda: “che vuoi fare?” è stata ovviamente retorica. In conclusione, padre Nogaro perdonaci, ma non abbiamo ritenuto possibile incassare l’assegno che ci hai donato, perché siamo certi che possa avere ancora molta più Forza, come tutte le azioni che hai sempre fatto. Abbiamo incorniciato l’assegno e lo abbiamo messo in bella vista nella nostra Redazione. Sono certo che mi/ci capirai, perché immagina quante altre persone riusciremo a coinvolgere raccontando questa bellissima storia.

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TVCO: UN PUNTO SUL MONDO DELLA DISTRIBUZIONE CINEMATOGRAFICA

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uante ne sappiamo sul cinema? Se le mansioni di registi, sceneggiatori e attori ci sono mediamente chiare, l’aspetto della distribuzione rimane un ambito oscuro anche ai più interessati al mondo dell’audiovisivo. Allo scopo di fare luce su questo profilo abbiamo intervistato Vincenzo Mosca, fondatore e amministratore delegato della TVCO, una casa di distribuzione e produzione indipendente. Quando e come nasce il progetto TVCO? Di cosa si occupa? «La TVCO nasce nel 2006 ed è una società che si occupa di distribuzione internazionale, di diritti cinematografici e audiovisivi. Noi rappresentiamo film italiani ed europei per le vendite all'estero, ovvero cediamo le licenze di sfruttamento di un film in un altro paese. Essere una casa di distribuzione non vuol dire occuparsi di distribuzione cinematografica in sala; vuol dire praticamente essere degli esportatori. Noi rappresentiamo i film, i registi, gli autori e i produttori di quei film all’estero. Se un film, realizzato in Italia o in un altro paese ci piace, negoziamo l’ingresso in catalogo e lo portiamo in tutti i mercati del mondo, presentandolo ai festival. Io ho iniziato la mia carriera lavorando nella Rai nelle vendite internazionali, proseguendo poi con altre aziende anche all’estero. Ho lavorato in Spagna, Francia e a Roma

come direttore commerciale della Lux Vide, quindi alla fine è stata quasi un’evoluzione naturale quella di provare a cimentarmi sul mercato autonomamente e ormai sono 15 anni che siamo qui». Che rilevanza ha la distribuzione internazionale nell’industria cinematografica? «La distribuzione internazionale è uno degli elementi chiave per la conoscenza del cinema, senza di noi il cinema non viaggia. È però una delle parti della filiera industriale meno conosciuta, specialmente dai giovani che vogliono avvicinarsi al cinema. Nessuno gli insegna che esiste questo aspetto molto interessante che è fatto di grandi sfide, di grandi stimoli, di viaggi, di lingue straniere da parlare, da imparare e di uno sguardo veramente ampio, dando loro la possibilità di avere a che fare con tutti i paesi del mondo». La TVCO offre ampio spazio e margini di crescita ai giovani artisti emergenti. Cosa vuol dire per loro avere questo tipo di op-

portunità? «Tutto! Se riesci a trovare la giusta chiave per entrare nell'ambito di una società come la mia, che si occupa di diritti internazionali, hai la possibilità di poter presentare film a festival e a distributori esteri, presso Netflix e i cinema di tutti i Paesi. Per un giovane è un momento importante perché una delle cose più deboli in Italia è proprio l'internazionalizzazione. Quando riesci a creare un soggetto o un'idea che può funzionare e a noi piace, ne vediamo il potenziale e diventa una grossa opportunità. Essendo una piccola società, riusciamo a mantenere una quantità umana di titoli, in modo da non da perdere il contatto con il produttore, che è la cosa più importante. Abbiamo quindi anche un ruolo nella crescita dei filmmaker, li accompagniamo a crescere internazionalmente quindi entriamo in quota sui loro film». Quanto sono diffuse a livello nazionale società come la vostra? «In Italia ci sono una ventina

di società come questa che si occupano di distribuzione internazionale, ma non sono in molti ad offrire lo stesso sostegno alla fascia di mercato di giovani e giovanissimi alla quale noi ci stiamo rivolgendo. Il talento fa gola a tutti, quindi quando lo individui cerchi di farlo crescere, ma è chiaro che prima di trovare quello esplosivo devi anche cercarlo. Noi questo stiamo facendo; cerchiamo di andare al di là del talento evidente e di farlo venire fuori. Nonostante questo non siamo dei formatori, restiamo aziende che fanno profitto». Oltre alla distribuzione vi occupate anche di produzione, che tipo di film proponete? «Il film più recente è «La santa piccola» di Silvia Brunelli, un’emergente e giovane regista italiana. Il film è stato girato alla Sanità e prodotto con la Biennale College di Venezia. È quello che in gergo si chiama “film d’autore”; un film indipendente con un budget molto basso, ma sponsorizzato e prodotto dalla Biennale e da noi insieme ad un’altra società. Noi cerchiamo film che possano vendere e che siano interessanti per un ampio pubblico, quindi sicuramente i film drama, o che parlino di aspetti sociali e che abbiano un senso universale a prescindere dall’ambiente da cui vengono. Nel nostro catalogo, infatti, abbiamo film provenienti da tutto il mondo».

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Mohamed Kenawi:

dall’Egitto per filmare l’Italia di Iolanda Caserta

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paesi arabi e l’Italia sono due realtà completamente opposte, sia per lo stile di vita che si conduce sia per la cultura. Dal punto di vista cinematografico, ci siamo mai chiesti in che modo si disegnano l’un l’altro? Mohamen Kenawi è un autore, produttore e regista egiziano indipendente. Nel 2006 ha fondato a Roma la sua casa di produzione chiamata Domino Film, con la quale attualmente realizza tutti i suoi lavori. Nei suoi progetti in Italia, Kenawi cerca di trovare un punto in comune tra il mondo arabo e quello italiano, sperando che un giorno queste due parti possano completarsi a vicenda. È proprio tramite i suoi documentari che abbiamo cercato di rispondere al nostro quesito. Quali sono i topic principali su cui basa i suoi lavori? «Personalmente, vivendo sia in Medio Oriente che in Europa, mi sento legato ad entrambe le parti. Le mie idee partono da integrazione, cul-

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Mohamed Kenawi

tura, sociale, sempre incentrandomi sul mondo mediorientale o europeo. Anche le questioni sociali e umane mi affascinano, come il caso del Tam Tam Basket. I ragazzi della squadra non sono arabi, ma nonostante ciò ho abbracciato la loro storia e la loro lotta, motivo per il quale ho portato a termine il documentario. Ciò che mi preme sottolineare è che questa storia probabilmente mi sarebbe interessata anche se fossero stati filippini o di qualsiasi altra nazionalità. Avrei fatto volentieri questo viaggio per far conoscere al mondo le sfide del Tam Tam». Guardando i suoi progetti, è semplice intuire come il regista si ponga di rispondere ad una o più domande nel corso delle riprese. Un esempio, è sicuramente “Vesuvian Love Story”. «Il tema di questo lavoro è perlopiù sociale e

umano. La domanda principale è come mai la gente ha deciso di vivere qui, è consapevole del pericolo di abitare sotto un vulcano? Nonostante ciò, è soddisfatta della propria vita? Ogni vesuviano risponde a modo proprio a queste curiosità. È proprio questo che è alla base di tutto: la curiosità, che deve includere anche me». La Campania è molto presente nei suoi lavori, o più in generale il sud Italia: c’è una spiegazione? «Ultimamente mi sto focalizzando più sulla Campania, ma è solo un puro caso. Ammetto che sono sempre stato più interessato al sud Italia, forse perché culturalmente mi sento più vicino alla popolazione. È molto simile al mondo arabo per caratteri ed umori. Qui mi sento davvero a mio agio: il sud mi ricorda casa». Può anticiparci qualche nuovo arrivo tra i suoi lavori? «Nell’ultimo periodo sono stato molto impegnato a Napoli, stiamo filmando un documentario su Diego Armando Maradona. Di nuovo, anche qui una domanda: come mai la gente di Napoli è rimasta legata in maniera quasi “morbosa” ad una persona che non è nata qui? Amare un simbolo del proprio paese non è strano, è facile capirlo, come Totò o Pino Daniele. Ma l’idolo Maradona non è di Napoli, quindi perché? Mi interessa molto capire qual è il segreto di questo amore incondizionato. Ovviamente, non si parla di calcio o di sport, il tutto gira intorno alla gente di strada e ai loro sentimenti».

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AVERSA, XMAS SOCCER 2021

re squadre di calcio, un torneo tutto da giocare e una sola partita da vincere: la salvaguardia e la difesa dei diritti dei bambini. Allo stadio A. Bisceglia di Aversa si è disputata la Xmas Soccer 2021, evento organizzato da Unicef, Caritas e Mappa della Solidarietà (gruppo di associazioni attive sul territorio di Aversa, unitesi per fare rete). La partita del cuore è stata fortemente voluta da tutti i soggetti in campo: scuole, autorità politiche, civili e religiose, istituzioni, associazioni, e dall’Unicef, la cui presidente provinciale, Cecilia Amodio, ha voluto sottolineare il fine dell’organizzazione: «Oggi, esercitiamo un diritto bellissimo, sancito nella Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: il diritto di essere protagonisti. Nulla è più importante per un ragazzo che essere protagonista sul suo territorio e costruire eventi che possano allargare gli orizzonti e portare ad una visione globale della vita. Ecco, il senso del concetto di solidarietà. Essere solidali per i ragazzi significa essere capaci di perseguire uno sviluppo economico, certo importante per il futuro, che sappia però procedere parallelamente ad uno sviluppo sociale e al riconoscimento del principio d’equità, ovvero al dare un po’ di più ha chi ha meno. Oggi la partita del cuore consente proprio questo, che si dia un grande sostegno a quei bambini affetti da malnutrizione, perché bisogna sapere che ogni anno muoiono circa due milioni e mezzo di bambini per malnutrizione. I ragazzi di Aversa hanno supportato il progetto Unicef, e di questo io sono veramente grata a tutta l’organizzazione, e ad Antonio Portaro in particolare che si è tanto impegnato per rendere possibile questa giornata». La partita ha rappresentato un’occasione di riunione, un momento di divulgazione e riflessione su tematiche esistenti e profondamente

Anche “Informare” in campo per la solidarietà

di Nicola Iannotta

incisive, come la povertà, la malnutrizione e la mancanza di diritti basilari. Problematiche che purtroppo colpiscono molti paesi del mondo. La riflessione è stata la prima spinta che ha permesso di agire, così l’evento ha mostrato anche come insieme si può e si deve essere d’aiuto. Lo sport ritorna ad essere un gioco e un mezzo per stare insieme e divertirsi: tre squadre composte da giocatoti misti, di ogni età e di ogni sesso, si sono affrontate e si sono esibite per perseguire l’obiettivo comune della ricerca di fondi da devolvere in donazione all’Unicef. Una giornata ridente dove persone provenienti da ogni centro della Campania hanno voluto dare il proprio contributo, partecipando, giocando e portando in campo la coesione. Amici, conoscenti, persone mai incontratesi prima: tutti o sono scesi in campo per giocare o hanno offerto il loro sostegno dagli spalti.

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L’agonismo non si è mai confuso con l’aggressiva rivalità: tutta la bellezza e lo spirito di questa giornata hanno brillato come un emblema in un momento, quando successivamente ad un brutto intervento, due giocatori di squadre opposte si sono rialzati da terra, insieme, e dandosi la mano amichevolmente hanno accennato ad un’intesa, consapevoli di essere parte di un’unica grande squadra in campo per il prossimo. «La cosa più importante era cercare di essere d’aiuto, oggi questo è stato fatto e sono felice di aver visto le squadre, le persone sugli spalti, gli organizzatori, uniti per raggiungere questo obiettivo» – dice Nicola Diomaiuta del centro Narciso & Seta Beauty e sponsorizzatore dell’evento. Una giornata conclusasi dunque con la vittoria dell’unione. Così si è espresso Antonio Portaro, organizzatore dell’evento: «Il presupposto di questo Natale solidare era quello di educare in campo alla solidarietà. Cooperare insieme così da raggiungere una ragguardevole cifra che possa essere d’aiuto per chi ne ha bisogno». «Momenti come questo – ha aggiunto Mariano Scuotri, consigliere comunale di Aversa – non soltanto sottolineano l’importanza dello sport ma ci fanno ricordare che le cose più belle e le cose più grandi si costruiscono insieme».

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a missione della Fondazione Cannavaro - Ferrara è quella di portare un raggio di sole dove a volte non arriva. Ci siamo riusciti in tanti anni di lavoro, speriamo di farlo ancora per il futuro». Le parole sono di Paolo Cannavaro e il raggio di sole è ancora una volta arrivato, si chiama “Charity Christmas Padel by Givova”. Un evento sportivo benefico tenutosi in due giornate – il 13 e il 14 dicembre – presso l’Azul Padel di Napoli e che ha visto sfidarsi a colpi di racchetta, la Nazionale Cantanti, la Nazionale Attori, la Padel Artisti e una rappresentanza della Fondazione. Tutti riuniti per un solo obiettivo, contribuire al finanziamento delle iniziative promosse dall’associazione di Ciro Ferrara e dei fratelli Cannavaro. La “Fcf Onlus” opera per contrastare le diverse forme di disagio infantile della città e della provincia di Napoli. Fabio, Paolo e Ciro sono i protagonisti degli oltre sessanta progetti sociali sostenuti in sedici anni di attività. Azioni concrete, mirate all’inclusione, educazione, istruzione, formazione al lavoro e tutto ciò che necessitano le persone in stato di bisogno. La prima edizione del torneo, tra emozione e divertimento, ha visto scendere in campo diversi volti noti dello spettacolo e dello sport, tra questi: Diego Maradona Junior, Franco Oppini, Luca Capuano, Stefano Masciarelli e tanti altri, presenti per l’occasione. Ad alzare il trofeo la Fondazione Cannavaro Ferrara che al tie-break della finalissima è riuscita a battere la Padel Artisti. Ciro Ferrara e Paolo Cannavaro a rotazione con Lorenza Sarcinelli, hanno avuto la meglio su Jonis Bascir e Gilles Rocca a rotazione con Mino Taveri. Ma la vera vittoria era già arrivata prima che i giochi iniziassero. Il punto più importante è stato messo a segno da Titti Quaggia, vicepresidente de “La Partita del Cuore – Umanità Senza Confini Onlus”, la quale consegnando alla “Fcf Onlus” un assegno da 10.000 euro, fa trionfare la beneficenza, vera protagonista del Charity Christmas Padel. Durante la conferenza stampa, si sono poi succeduti gli interventi dei rappresentanti

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dei vari team partecipanti alla manifestazione, tutti uniti dal fil rouge della solidarietà. Fondamentale per l’organizzazione dell’evento è stato lo sponsor Givova. A rappresentare il brand napoletano Giovanni Acanfora e Pina Lodovico, presidente e amministratore unico, orgogliosi di supportare la causa per rendere possibile l’abbraccio più bello, quello per cui tutti i personaggi erano stati invitati, quello da donare ai più deboli. Vincenzo Ferrara per la “Fcf Onlus”, a tal proposito in un discorso di ringraziamento per la sinergia creatasi ha fatto sapere: «Da sedici anni i fratelli Cannavaro e Ciro Ferrara hanno voluto questa associazione sul territorio

per aiutare minori a rischio e famiglie napoletane in difficoltà economiche. Organizziamo eventi, sponsorizzazioni e bandi pubblici per la raccolta fondi. Quest’anno tra i tanti progetti c’è anche la ristrutturazione del parco comunale “Ciaravolo” del quartiere La Loggetta di Napoli con l’acquisto di arredi ludici e sportivi». Tra i protagonisti anche Francesco Cicchella, l’attore napoletano ha voluto sottolineare l’importanza di ritrovarsi dopo due anni di pandemia per una nobile finalità: «I bambini sono la più grande risorsa, è fondamentale che abbiano opportunità di scelta. In questa città spesso non è semplice, chi può è obbligato moralmente a dare un contributo. Organizzazioni come le nostre sempre in prima linea quando si tratta di aiutare». Chiuso il torneo, Ciro Ferrara e Paolo Cannavaro vittoriosi hanno ritirato il trofeo, l’ex capitano azzurro ha infine precisato: «Oggi vince la solidarietà. Come Fondazione sono anni che andiamo avanti, la città ci è sempre stata vicina, portare artisti, cantanti e attori a Napoli, in questa cornice, per questo fine, è stato fantastico, siamo davvero contenti». La raccolta fondi continua, avverrà in modalità diretta attraverso un’asta sulla piattaforma online CharityStar con le maglie dell'evento, autografate in due posizioni diverse e personalizzate con il nome dei giocatori. Ma già molto è stato fatto durante la doppia giornata che ha rafforzato l’importante binomio sport-sociale. «Abbiamo deciso pur vivendo lontani da Napoli di restituire alla nostra città la fortuna che avevamo ricevuto nel corso degli anni. Abbiamo pensato di istituire questa fondazione che sostiene progetti a favore di bambini sul territorio campano, in particolare su quello napoletano» afferma così Ferrara.

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JUNIOR DOMITIA: ATTRAVERSO GLI OCCHI DEL NUMERO 23! di Clara Gesmundo

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ggiornamenti sulla nostra amata Junior Domitia, continuando così il nostro viaggio all’interno della squadra, per conoscere al meglio i calcettisti azzurri. Questi ultimi ci rivelano curiosità interessanti, passioni e un attaccamento alla maglia che spesso va anche al di fuori del contesto sportivo. Parliamo di Alessandro Palumbo il numero 23. I nostri lettori ti conoscono solo ora, chi è Alessandro? «Sono un “ragazzo” di 32 anni che vive di calcio. Lavoro come istruttore in una scuola calcio di Caserta, alleno le leve 2009 e 2007 in campo a 11. Amo la musica e in particolar modo mi piace suonare strumenti a percussione (djambe e cajon su tutti)». Che ruolo hai in squadra? «Parlando di tattica, sono un giocatore universale, il mister mi adopera come laterale ma all’occorrenza mi ha fatto giocare anche come centrale difensivo. Per quanto riguarda il mio

Alessandro Palumbo

ruolo all’interno dello spogliatoio invece, cerco sempre di dare una mano e di spronare i ragazzi più giovani essendo uno dei più “anziani” del gruppo». Come ti avvicini al calcio e in particolare al Calcio a 5? «Mi sono avvicinato al calcio all’età di 12 anni,

dopo una breve esperienza nel ciclismo, facendo tutto il settore giovanile per poi approdare nelle prime squadre dei paesi limitrofi a dove abito. 10 anni fa conobbi un allenatore molto bravo, (oggi è il presidente della scuola calcio dove lavoro), che mi propose di iniziare questa disciplina. Ad oggi posso realmente dire di essere stato fortunato ad accogliere in maniera positiva questo suo invito, per le esperienze vissute e per le persone che ho conosciuto». La scorsa vittoria è stata trionfale, come lo è stata la tua esultanza nel baciare la maglia. Raccontaci meglio come è andata. «L’ultima partita è andata alla grande, abbiamo conseguito una vittoria importante in chiave classifica, ma soprattutto abbiamo fatto un grande lavoro collettivo. La mia esultanza è un po’ il manifesto del gruppo, ho indicato lo scudo del team e ho abbracciato il presidente che è sempre il nostro primo tifoso ed estimatore».

IL TAM TAM SCENDE IN CAMPO… IN NAZIONALE! di Clara Gesmundo

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oi di Informare seguiamo da tempo il mondo “Tam Tam”, connubio di sport e valori trasmessi dal coach Massimo Antonelli e portati avanti dai ragazzi che ne fanno parte. Come noi, molti hanno preso a cuore la squadra, la società che porta in campo messaggi che vanno oltre una prestazione sportiva. Dopo la grande notizia in cui si annunciava che il Tam Tam Basket avrebbe potuto prendere parte al Campionato Nazionale, abbiamo chiesto a Massimo Antonelli di raccontarci le “news” sulla questione. I nostri lettori vorranno sicuramente sapere: quali sono i pensieri del coach Antonelli a seguito della grande notizia ricevuta alcune settimane fa? «Noi di Tam Tam possiamo contare sull’affetto di tanti amici che ci sostengono nelle lotte per i diritti per far giocare i nostri ragazzi. Quando sai che tanta gente sta dalla tua parte, pensi sempre che le cose possano andare a lieto fine. E così è stato, siamo riusciti ad ottenere la deroga per giocare il campionato di eccellenza. Ma mai potevamo pensare che il nostro caso fosse seguito con interesse dal presidente della Camera Roberto Fico e dal presidente

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Mario Draghi che si sono espressi a favore della risoluzione del “caso Tam Tam”, colgo l’occasione per ringraziarli pubblicamente». Ovviamente siamo curiosi di sapere quali sono gli aggiornamenti: come sta andando il campionato? «Abbiamo vinto la battaglia sui diritti, ma purtroppo le battaglie sul campo le perdiamo. Infatti le nostre 2 squadre l’Under 19 e 17 nei rispettivi campionati di eccellenza stanno fa-

cendo grande fatica a competere alla pari con le squadre avversarie. Manchiamo di esperienza e abitudine a giocare con un’intensità maggiore che invece necessitano questi campionati nazionali. I ragazzi però, stanno capendo sempre di più il livello di gioco e l’agonismo che bisogna esprimere. Ai campionati regionali eravamo molto più competitivi». Come vivono il fatto di doversi confrontare con altre squadre in nazionale, sia sotto il punto di vista sportivo che psicologico «I ragazzi si stanno un po’ demoralizzando. Il nostro compito è quello di far capire loro che l’impegno deve essere maggiore, costante, di conseguenza prima o poi i risultati individuali e di squadra arriveranno. Abbiamo una palestra tutta per noi: il loro desiderio di emergere ed il tempo saranno i veri compagni di quest’altra avventura». Noi non possiamo far altro che augurare al coach e ai ragazzi buona fortuna, è solo l’inizio e come gli viene spesso ripetuto: costanza, determinazione e allenamento sono gli ingredienti vincenti…ma noi lo sappiamo che indipendentemente dal risultato di gioco, Tam Tam ha vinto!


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Giacomo Barba, la cultura per cambiare le nostre vite “Non dite a Romeo che Giulietta mi piace” è il terzo romanzo dello scrittore napoletano

di Fabio Russo

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rent’anni fa, tra i banchi di scuola dell’Istituto Francesco Coppola di Pinetamare, condividevo con lui la passione per la scrittura, ma anche per la musica, il cinema, i fumetti. L’arte in genere era il collante che unì la nostra amicizia. Notai subito il talento di una “penna” formidabile. A 14 anni Giacomo Barba maneggiava uno stile narrativo già forbito ed interessante. In lui si fondevano, in un armonioso equilibrio, i temi della letteratura più classica da un lato e un linguaggio spregiudicato ed ironico dall’altro, qualità che possiede ancora. Oggi è un professore di lingue straniere, che con trasporto tramanda ai suoi alunni la cultura del “bello”, ma continua parallelamente il suo percorso di scrittore. “Non dite a Romeo che Giulietta mi piace” (Giovane Holden Edizioni) è il suo terzo romanzo. Che ricordo hai di Castel Volturno? «Ho un ricordo estremamente vivido di quella che potrei definire un’enorme opportunità sprecata. Ecco perché quando devo ambientare storie di ragazzi, Castel Volturno si rimaterializza davanti a me e diventa il “set imperfetto” per storie adolescenziali e post adolescenziali, anche perché rispecchia lo stato d’animo di quegli anni di individui in via di formazione che combattono da un lato tra il

sogno che tutto sia possibile, che ci sia ancora tutta la vita davanti e che le cose perfette siano raggiungibili e dall’altro con la miseria, con l’irrealizzabilità e la pochezza di quello che ti viene messo a disposizione dal mondo che ti circonda. Ricordo in prossimità della scuola che abbiamo frequentato gli scheletri di quella che era stata la bellezza di Castel Volturno, quei locali commerciali abbandonati dove noi ragazzi ci avventuravamo come fossimo Indiana Jones e Peter Pan. Quei posti con quella grandezza ricaduta, con quel fascino malato fatto di grandi possibilità andate sprecate, per noi erano delle calamite. Non ci rendevamo conto che ci attiravano perché rispecchiavano esattamente ciò che avevamo dentro». Parlami della genesi del tuo ultimo libro. Quanto c’è di autobiografico? «Nel libro c’è tanto di autobiografico, in particolare le mie opinioni rispetto a quella che considero la trinità degli adolescenti, ovvero tre macrotemi assolutamente devastanti che sono la grande amicizia, il grande amore che ci fa tremare i polsi ed infine il sogno nel cassetto. Esiste un momento della nostra vita dove dobbiamo gestire il terremoto provocato da queste entità.

Ed ecco perché a fare da sfondo alla problematicità di questi tre temi c’è, nel caso di questo libro, proprio la letteratura, in particolar modo quello che uno dei più grandi scrittori (Shakespeare ndr) ha da dire su questi aspetti della vita». Come definisci il tuo genere letterario? «Quest’ultimo romanzo, “Non dite a Romeo che Giulietta mi piace”, è sicuramente un romanzo di formazione, un genere letterario di cui secondo me tutti sentiamo la mancanza, oggi si tende generalmente a rendere le storie che ci vengono proposte necessariamente scioccanti. Siamo così presi dalla voglia di rappresentare qualcosa di nuovo che non reputiamo più interessanti l’analisi e il racconto di quelle faccende che riguardano tutti. Prima la letteratura era più interessata ad analizzare questi problemi. Sto pensando a “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, “Due di Due” di Andrea di Carlo Improvvisamente questa tematica sembra non aver più interessato la letteratura, e gli autori si sono dati alla rappresentazione delle tinte più estreme della fascia adolescenziale e post adolescenziale. Quindi questo romanzo vuole andare un po’ più verso il passato riproponendo l’interesse verso quel momento in cui tutto diventa difficile nella vita dei ragazzi».

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