MANN - N.5 - Alla Conquista Dell'America

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ALLA CONQUISTA DELL’AMERICA Domenica 9 aprile 2017 - ANNO II NUMERO 2 - Supplemento gratuito al numero odierno del “Roma” - Non vendibile separatamente

Accordo tra l’Archeologico di Napoli e il Paul Getty Museum per restaurare il Vaso di Altamura e promuovere la nostra arte

LA STORIA

UN AMORE RECIPROCO

IL TESTIMONIAL

La Costituzione Usa? Ispirata da Filangieri: le sue lettere a Franklin

Scrittori, cantanti, pittori e registi: quando gli States “parlavano” napoletano

Edoardo Bennato: «Quanti ricordi in quel Museo, un tesoro da riscoprire»


LA PRESENTAZIONE di Paolo Giulierini Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli ganizzare la stesura di un protocollo di collaborazione generale, di prossima ultimazione, tra il Mann e il Getty, che prevedrà azioni di varia natura: dal restauro di opere, alla reciprocità di prestiti e di mostre, alla condivisione e promozione della ricerca. Intanto, lo scorso 21 maggio 2016, è avvenuto il primo atto formale con la firma del prestito del celeberrimo cratere di Altamura del Mann che sarà restaurato ed esposto temporaneamente in America. La California in generale e Los l Museo Archeologico NazioAngeles nello specifico, sono innale di Napoli ha istituito da timamente connesmolti anni un profondo rapsi al Mann anche porto con il mondo artistico della dal fil rouge dell’arCalifornia, a partire dalle connes- te contemporanea. sioni con Jean Paul Getty che, nel Nel prossimo mese 1974, aprì il suo secondo museo di maggio infatti nella personale proprietà di Mali- il nostro museo bù in California, volendo ricreare ospiterà la mostra la Villa dei papiri di Ercolano, di Laddie John Dill, oggi Getty Villa, i cui originali appartenuto al mosono qui esposti. vimento culturale L’espansione successiva nell’atcaliforniano Light tuale versione del museo ha e Space, presente portato il Getty Museum tra le con le sue opere grandi “superpotenze” culturali nei maggiori musei mondiali. di arte contempoNel tempo il Mann ha iniziato a ranea americani. collaborare con il Getty, otteMa certo la liaison nendo prestigiosi restauri come con la vicenda delle statue bronzee pompeiane la Villa dei Papiri, dell’Apollo saettante, l’efebo di che idealmente Via dell’Abbondanza e la statua lega Napoli Ercoladi Tiberio. no e il Getty, della Di qui è venuta l’esigenza di orquale è prevista

Il vento caldo del Pacifico da Los Angeles a Napoli sulle ali dell’arte

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una grande mostra a Los Angeles nel 2019, è quella più profonda. Dietro a tutto ruota la volontà del Museo di assicurarsi rapporti di prima fascia a livello internazionale, costruendo nuovi ponti culturali e riconquistando quel primato di gigante dell’archeologia che gli compete. Il vento caldo del Pacifico spira sulla baia di Napoli.

L’Efebo di via dell’Abbondanza, 20 a.C. ritrovato a Pompei nel 1925 dall’archeologo Amedeo Maiuri


In copertina il particolare della facciata posteriore del cratere di Altamura, IV secolo a.C.

SOMMARIO

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DAL MANN AGLI USA QUANDO L’AMERICA PER PROMUOVERE CANTAVA IN DIALETTO PREZIOSI TESORI NAPOLETANO

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18 LA CAMPANIA CHE SEDUSSE HOLLYWOOD

26 EDOARDO BENNATO: “AL MUSEO VOLEVO FARE UN CONCERTO ROCK”

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LUCIO AMELIO, L’UOMO LA PASSIONE ALL’ARCHEOLOGICO CHE PORTÒ WARHOL PER LA CAMPANIA ARRIVANO I NEON E LA POP ART A NAPOLI RACCONTATA DI LADDIE JOHN DILL DALLE PENNE USA

30 I DIPENDENTI DEL MUSEO SI CONFESSANO

10 FILANGIERI ISPIRÒ LA COSTITUZIONE DEGLI STATI UNITI Domenica 9 aprile 2017- Anno II Numero 2 Supplemento gratuito al numero odierno del “Roma” - Non vendibile separatamente

Direttore Editoriale ANTONIO SASSO Direttore Responsabile PASQUALE CLEMENTE Vicedirettore ROBERTO PAOLO

Editore Società Cooperativa Nuovo Giornale Roma a r.l. 80121 Napoli - Via Chiatamone, 7 (Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche ed integrazioni) Registrazione Tribunale di Napoli n° 4608 del 31/01/1995 Registro Nazionale della Stampa n° 5521 Vol. 56 pag. 161 ISSN 1827-3475

Redazione Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli tel 081/18867900 www.ilroma.net Ideazione e Realizzazione ROBERTO PAOLO Progetto grafico MICHELE ANNUNZIATA Tipografia “La Buona Stampa srl” Viale delle Industrie, snc San Marco Evangelista (Caserta)


L’EDITORIALE di Roberto Paolo Vicedirettore del “Roma”

Tra Napoli e l’America un grande amore corrisposto

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apoli e l’America: fascino, sogno, speranza, emigrazione e dolore, folclore, letteratura e cinema, tarantella e rock and roll. Questo numero della rivista del Museo archeologico nazionale di Napoli è dedicato proprio al rapporto profondo che c’è tra queste due realtà, un grande amore separato da un oceano. Un amore corrisposto, reciproco, come tutti gli amori misterioso, passionale e appassionante. Un amore che parte da lontano, dall’ammirazione profonda che gli americani hanno sempre avuto per la cultura classica, e dunque per quel meraviglioso scrigno di gioielli archeologici che è la Campania. In questo solco si inscrive l’accordo Tra il Mann

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e il Jean Paul Getty Museum di Los Angeles che apre questo numero della rivista. Grandi opere d’arte restaurate negli Usa e poi riportate a Napoli dopo un periodo di esposizione “promozionale” oltreoceano. Ma l’occasione è ghiotta per andare a scavare nel legame tra questa città e l’altra sponda dell’Atlantico, risalendo al ‘700, quando i padri costituenti americani leggevano i testi scritti da un illuminista partenopeo, Gaetano Filangieri. Per poi passare all’800, quando dalla Campania in tanti si imbarcavano per emigrare negli Stati Uniti, in un viaggio senza ritorno, che ha fatto nascere tante indimenticabili canzoni. Il giornalista Francesco Durante ci spiega come l’influenza americana abbia ispirato e modificato la canzone napoletana, che in parte ha preso una sua autonoma strada proprio tra gli emigranti, lontano dalla Madre Patria. Sulla rotta contraria, intanto, frotte di scrittori sbarcavano a Napoli e si inebriavano dei suoi colori e dei suoi profumi, raccontandoli poi in memorabili

pagine: Melville, Mark Twain, Tennessee Williams, Gore Vidal, Francis Scott Fitzgerald, per dirne solo alcuni. Ma Napoli e la Campania hanno esercitato il loro fascino


L’esterno del Jean Paul Getty Museum a Los Angeles

innato anche su Hollywood, ispirando numerose pellicole, e sugli artisti contemporanei, primo fra tutti Andy Warhol, che al Vesuvio ha dedicato alcuni suoi capolavori (uno dei

quali esposto al Museo di Capodimonte). Come ogni numero, concludiamo anche questa rivista con la voce dei dipendenti del Museo Archeologico che ci raccontano in poche

battute cosa significa per loro lavorare al Mann, e l’intervista ad un testimonial di eccezione: questa volta tocca al grande Edoardo Bennato. Tarantella e rock and roll, appunto.

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TRA MANN E GETTY MUSEUM PATTO PER FAR RINASCERE I TESORI DELL’ARCHEOLOGIA Restauro e promozione: dopo le statue in bronzo ora tocca al Vaso di Altamura di Roberto Freda

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romuovere negli States i preziosi tesori esposti al Museo Archeologico di Napoli e restaurare con soldi e tecnologie statunitensi alcune delle più importanti opere d’arte conservate a Napoli ma biso-

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gnose di delicate “cure”. Sono i due principali obiettivi dell’accordo di collaborazione stipulato tra il Mann ed il Jean Paul Getty Museum di Los Angeles. Una convenzione che ha già permesso di riportare a nuova

vita tre meravigliose statue in bronzo provenienti dagli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano, e che attualmente è invece incentrata sul recupero del cosiddetto Vaso di Altamura, un colossale cratere a figure ros-


necessaria di restauro viene ri della struttura di Los Angeles trasferita in America per gli e della sua altra filiale a Malibu opportuni interventi, e poi resta decidano poi di volaper un certo periodo in espore oltre oceano per sizione nelle sale del museo visitare di persona californiano a pubblicizzare, il “nostro” Archeologico. Con la convenzione siglata nel 2016 tra il direttore del A destra, il lato Mann Paolo Giulieanteriore del vaso rini e il direttore del di Altamura Getty, Timoty Potts, è arrivato a Malibù, come dicevamo, l’enorme cratere di Altamura, detto anche Vaso dell’Inferno, in quanto se rinvenuto nei pressi sul classico fondo nero della cittadina pugliese. le figure rosse rappreUn ruolo centrale nello sentano scene e persosviluppo dei progetti naggi dell’Ade, il mondo è rivestito dall’Ufficio dei morti. È un vaso che restauro del Museo arrisale al IV secolo avanti cheologico partenopeo, Cristo, venuto alla luce composto da 22 operatori nei pressi di Altamura solo superspecializzati e diretto nei primi decenni dell’800, dalla dottoressa Luigia e rientra in un ciclo di vasi Melillo, che è anche la decorati con rappresencoordinatrice dei rapporti tazioni dell’Oltretomba di collaborazione con il Getty tipico dell’area centro-setMuseum. Collaborazione che tentrionale della attuale Puglia. rientra nel solco della fasciLa loro origine va ricercata nel nazione e del grande interesdiffondersi presso le famiglie se che da sempre il mondo nobili delle antiche Paucezia e greco-romano e le opere d’arte Daunia di culti e credenze reliantiche hanno suscitato negli giose misteriche fondate sulla statunitensi. Il museo creato convinzione dell’esistenza di un dal miliardario e petroliere Jean aldilà dove l’individuo poteva Paul Getty, scomparso nel 1976, come un testimoconquistare la beatitudine, sunon poteva essere da meno. nial, le tante bellezze custodite perando la morte terrena, non In sostanza l’accordo prevede nel museo di Napoli, con la in base alla propria condizione che, di volta in volta, un’opera speranza che molti tra i visitato- sociale, ma grazie ai meriti acA sinistra, Tiberio esposto al Getty Villa di Malibu

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La firma della convenzione tra il direttore del Mann, Paolo Giulierini, e il direttore del Getty Museum, Timoty Potts

quisiti in vita con i propri comportamenti nei confronti degli altri esseri umani e con la pra-

mento all’interno del quale siedono Ade e Persefone, dei degli Inferi. All’esterno dell’edificio sono invece rappresentate tutta una serie di figure mitologiche ed allegoriche, tra cui spiccano le Erinni vestite di pelli di pantera, Orfeo con la sua lira, la moglie di Eracle, Megara, tica dei riti dettati dalla propria con i due figli, gli Eraclidi, ucdottrina religiosa. cisi dal genitore-eroe in preda Al centro del vaso c’è un monu- alla follia, e poi i giudici infernali

E al Mann arrivano i neon di Laddie John Dill

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rinsaldare i rapporti storici tra Stati Uniti e Napoli, arriva al Museo Archeologico (dal 4 maggio al 3 luglio) la mostra personale dell’artista contemporaneo Laddie John Dill (nella foto) dal titolo “Antiquitas in Lux“, a cura di Ornella Falco e Cynthia Penna, organizzata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e dall’Associazione Culturale ART 1307. Il vernissage è previsto per giovedì 11 maggio alle 17,30 alla presenza dell’artista. La mostra gode del patrocinio del Consolato Generale degli Stati Uniti d’America e vede come sponsor tecnico F.A.R.T. mentre il catalogo è edito da Marchese Editore. Laddie John Dill è fra i principali esponenti del “Light and Space”, movimento artistico nato in California e storicizzato grazie all’intervento del Getty Museum, che fa della luce e della sua interazione con i materiali, i principali oggetti di indagine. Peculiarità dell’arte di Dill in quanto “Sperimentatore di Luce” è stata proprio la ricerca e l’introduzione di elementi “estremi” all’interno del mondo dell’arte, con l’utilizzo e la manipolazione di materiali non precipuamente devoluti all’uso artistico: tubi di neon, allumini industriali, cementi, terre che, fra le mani di Dill acquistano un’ineguagliabile poeticità. «Le due installazioni di sabbie, terre e neon concepite per il Museo Archeologico di Napoli – spiega la curatrice della mostra Cynthia Penna – sono specificamente create per rendere palpabile il senso di irrealtà dell’atmosfera in cui si viene immersi». Nel salone di ingresso del Museo, Dill pone una installazione che è l’elemento di rottura dell’aspettativa del visitatore: l’accesso, la stessa possibilità di avanzamento fisico dello spettatore nello spazio museale viene sbarrato da una composizione materica e nel contempo eterea e irreale fatta di terre, di sabbie e soprattutto di luce che rompe l’equilibrio dell’alternanza di bianchi e grigi dei marmi e delle opere esposte, rompendo di fatto l’equilibrio scenografico dell’insieme.

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Trittolemo, Aiaco e Radamante, più in basso si vede Sisifo, pungolato da una Furia affinché continui nell’insensata e vana opera di sospingere su per una collina un enorme macigno, ed altre ancora. Un intero, stupefacente mondo di abitanti del regno oscuro dell’Oltretomba che decora tutto il cratere. Prima del Vaso di Altamura, la collaborazione tra Mann e Getty Museum aveva visto protagonisti tre bronzi venuti alla luce dagli scavi di Pompei ed Ercolano e bisognosi di importanti e delicati restauri. La statua di Apollo Saettante era riemersa dalla lava già spezzata in tre frammenti, tra il 1817 e il 1818, ed è uno dei primi bronzi di grandi dimensioni rinvenuti a Pompei. Gli esami di endoscopia e radiografia e le analisi chimiche hanno permesso di ricostruire anche le tecniche utilizzate sia per la realizzazione della statua, nel secondo secolo avanti Cristo, sia poi dai primi restauratori che operarono su di essa nell’800 per rimettere insieme i pezzi e ricostruire in gesso alcune parti

La statua in bronzo di “Tiberio sacrificante” (37 d.C.) fu ritrovata durante gli scavi di Ercolano nel 1741

mancanti. Identico lavoro è stato effettuato sulla statua colossale in bronzo di Tiberio sacrificante, databile al 37 d.C., e ritrovata in pezzi ad Ercolano nel 1741, già oggetto di una prima ricostruzione nella Real Fonderia borbonica di Portici. Si tratta di una statua imponente, alta due metri e 46 centimetri, che fu costruita con la tecnica della cera persa mediante l’assemblaggio di circa sessanta sezioni fuse separatamente e poi unite in punti strategici con delle saldature. Il restauro è servito soprattutto a distribuire meglio il peso dei suoi 468 chili, che gravava quasi interamente su soli due punti di saldatura, grazie ad un nuovo supporto meccanico in alluminio inserito nella cavità interna della statua. Meno radicale l’intervento effettuato invece sull’Efebo di via dell’Abbondanza, risalente al 20 a.C. e riportato alla luce da Amedeo Maiuri a Pompei nel 1925. Qui ci si è limitati al consolidamento della base in bronzo, che non era quella originaria.

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Il napoletano che ispirò la Costituzione degli Usa

Gaetano Filangieri era in corrispondenza con Benjamin Franklin, che studiava i suoi libri

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ella costituzione americana c’è anche lo zampino di un napoletano. È Gaetano Filangieri, il giurista che condivideva i principi dell’Illuminismo e li aveva sviluppati nella sua opera più famosa, “La scienza della legislazione”. Era convinto che economia e politica si influenzassero reciprocamente (oggi ci pare un’ovvietà, ma affer-

marlo nel ’700 era una rivoluzione). Pensava che il mercato dovesse essere aperto al libero scambio e che lo Stato assoluto dovesse trasformarsi radicalmente in repubblica costituzionale. Ed è probabilmente proprio partendo dalla lettura dell’opera di Filangieri che Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Unici, elaborò alcune idee che saranno alla base della Costituzione americana. I due si scambiavano numerose lettere in cui si evince la reciproca ammirazione. L’America, con i suoi tredici stati abitati da immigrati, sembrava agli Europei il laboratorio politico ideale per sperimentare quell’ideale di democrazia che essi andavano teorizzando, ma che nei regimi assolutistici del Vecchio Continente non era di facile realizzazione. Il pensiero illuministico, dal canto suo, forniva agli americani la base teorica per costruire il nuovo modello di Stato che sarebbe nato con l’indipendenza dall’Inghilterra. A Napoli Filangieri non era solo. La città era un centro culturale di respiro europeo e ci

Benjamin Franklin, scienziato e politico, oltre ad inventare il parafulmine è stato tra i padri costituenti degli Stati Uniti

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La prima pagina della Costituzione americana

operavano menti assai brillanti. Come Antonio Genovesi con le sue rifessioni sulla pubblica felicità e Mario Pagano col suo progetto di Costituzione per la Repubblica partenopea. Benjamin Franklin era delegato della Pensilvania alla Convenzione di Philadelphia ed era letteralmente affascinato dai primi due volumi della “Scienza della legislazione”. Lo testimonia Luigi Pio, ambasciatore del Regno di Napoli in Francia, che racconta come Franklin condividesse l’attenzione posta da Filangieri sulla legislazione penale e sulla necessità di riformarla. Del resto non era il solo americano a riflettere sulle opere degli italiani: Thomas Jefferson, futuro presidente degli Stati Uniti, possedeva il trattato di Beccaria “Dei delitti e delle pene”. Che Franklin andasse elaborando le sue idee sullo Stato, anche rifacendosi alla lettura della Scienza della Legislazione, è documentato dal fatto che nella biblioteca del Congresso sono conservati i volumi dell’opera, che Franklin aveva ricevuto in dono dallo stesso Filangieri. Interessante notare che Franklin

abbia sottolineato i paragrafi riguardanti la inadeguatezza della fiscalità diretta e la maggiore equità di un sistema di tassazione proporzionale al reddito; l’importanza del libero scambio delle merci in un mercato non appesantito da dazi e protezionismi; il rifiuto di una legislazione penale fondata sulla paura delle pene piuttosto che sull’educazione alla legalità. Tutti principi che troveranno un’applicazione della Costituzione americana che verrà redatta nel 1787 ed entrerà in vigore nel 1789. Il debito di riconoscenza degli americani nei confronti del pensiero di Filangieri è provato dalla solerzia con cui lo stesso Franklin gli inviò una copia della Costituzione appena approvata. Una copia che egli però non riuscì ad apprezzare, perché giunse troppo tardi: la tisi se lo era portato via a 36 anni, nel 1788. arpa

Gaetano Filangieri, illuminista napoletano attivo nel ’700

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“Lacrime napulitane”, quando l’America cantava in dialetto partenopeo di Armida Parisi

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’nce ne costa lacreme st’Ammerica, a nuje napulitane…”. A lungo, per gli italiani, l’America è stata soltanto questo: lacrime. Quelle degli emigranti che partivano, quelle dei loro familiari, che restavano. Stati Uniti e America Latina furono le mete privilegiate dei circa venti milioni di persone che tra la fine dell’800 e gli anni Trenta del ’900 lasciarono il Paese in cerca di una chance di sopravvivenza e, perché no, di dignità. Ma chi era che versava queste “lacreme napulitane”? E soprattutto, una volta compiuto il viaggio, quanto durava la nostalgia? Ne parliamo con il giornalista Francesco Durante, che insegna “Cultura e letteratura degli Italiani d’America” all’Università Suor Orsola Benincasa. Erano molti i napoletani che emigravano? «I napoletani non erano moltissimi. Napoli era invece il punto di arrivo di migranti che venivano dal Sud. Ogni giorno allo scalo dell’Immacolatella arrivavano migliaia di persone pronte a imbarcarsi. Venivano dal Cilento, dagli Abruzzi, dal Molise, dalla Calabria e dalla Basilicata. Uno spettacolo impressionante che ha ispirato molte canzoni che raccontano l’emigrazione con toni lacrimevoli. Penso all’atto unico di Raffaele Viviani “Scalo marittimo” che ha per sottotitolo “’nterra a ’Mmaculatella” e che è ambientato proprio lì, nel porto di partenza per l’America. È in quest’opera che c’è il famoso coro in cui gli emigranti cantano “Simmo carne ’e maciello”. E ancora, “Santa Lucia luntana” e “Lacreme Napulitane”, che furono scritte a Napoli, mentre “Cartulina ’e Napule”, il fortunatissimo cavallo di battaglia di

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Gilda Mignonette, fu composta da napoletani non emigrati ma in tournée in America». Se di emigranti napoletani ce n’erano pochi, come mai le canzoni erano scritte in napoletano? «Il napoletano era la lingua in cui i meridionali si riconoscevano. Non mancano, anche in America, macchiette e spettacoli comici in altri dialetti del Sud, ma sono minoritari come le farse di Stenterello e Meneghino». Lei sottolinea sempre la differenza di punto di vista fra chi compone canzoni a Napoli e chi lo fa in America. «È vero, perché in quelle scritte qui prevale il tono lacrimevole, mentre in quelle americane no». Perché? «Le canzoni scritte in Italia traducevano in musica l’idea, allora dominante, che l’emigrazione fosse una vergogna nazionale che andasse scoraggiata. I governi italiani hanno impiegato tempo prima di capire che l’emigrazione non era un fenomeno negativo. La chiesa, dal canto suo, era contrarissima all’emigrazione perché temeva che gli emigranti sarebbero entrati nell’orbita protestante, cosa che in qualche caso avvenne». In America quindi si scrivevano canzoni diverse? «Sì, qui prevalgono i toni scherzosi. Infatti, chi emigrava poteva anche verificare quanto questa mossa fosse stata importante per la sua vita: i salari erano incomparabilmente migliori che in Italia e soprattutto l’ascensore sociale funzionava meglio. Quindi, per molti, l’emigrazione fu un’esperienza felice. Di fronte ai progressi materiali, la nostalgia scompariva e si faceva strada la capacità di guardare in maniera


Dalla Tammurriata al blues

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nato‘nu criaturo è nato niro, e ‘a mamma ‘o chiamma Giro, sissignore ‘o chiamma Giro…”. Versi nati di getto sull’onda emotiva di un episodio cui Eduardo Nicolardi assiste una mattina del 1945 all’Ospedale Loreto Mare. Una giovane napoletana aveva partorito un bambino con la pelle nera. Il parentado presente all’evento era sconvolto: come era potuto accadere? Il fatto era che da quando a Napoli erano arrivati gli americani, molte donne si erano date ai soldati. Erano davvero tante le “segnorine” che, vuoi per fame, vuoi con la speranza di cambiare vita, avevano intrecciato una relazione con un “alleato”. Ne erano derivate inevitabilmente delle gravidanze fuori dal matrimonio. Niente di più scandaloso, a quei tempi. Soprattutto se la pelle del neonato figurava come una denuncia eterna della relazione clandestina della madre. Il parapiglia che derivò da quell’evento fu tale che Nicolardi ne restò vivamente impressionato. Tanto che buttò giù di getto i versi di “Tammurriata nera” e poi chiese al suo consuocero, il musicista E. A. Mario, di musicarli. È una canzone memorabile, che presenta, con tragica leggerezza, lo sconvolgi-

mento morale in cui era caduta la città diventata quartier generale dell’esercito di occupazione. “Sigarette babà/Caramelle mammà/ Fischiette bambino/E due dollare ’e signurine”, è il ritornello della canzone: con pochi soldi e qualche regalino i militari si garantivano un momento di piacere. L’occupazione segnò anche il momento dell’apertura liberatoria alla musica americana, che il fascismo aveva volutamente tenuto lontana dal paese. Il boogie, il jazz, lo swing, il twist diedero una scossa alla linea melodica della canzone tradizionale e si imposero immediatamente fra i giovani. Con “Tu vuo’ fa’ l’americano” la canzone napoletana dimostrò ancora una volta la sua estrema versatilità, la sua capacità di accogliere le suggestioni del contemporaneo per adattarle alla propria tradizione. E su questa linea poi si mossero i giovani degli anni a venire. A cominciare da Peppino di Capri, che puntando su un sound ispirato al rock propone vecchi e nuovi successi, fino al mitico Pino Daniele (nella foto) che ha fatto colare nel blues la sua anima partenopea. arpa

comica, divertita agli emigranti». Come? «Per esempio, ci sono macchiette in cui i protagonisti sono degli emigranti ingenui, che appena arrivano “’nterra ‘a America” vengono spogliati di tutto. Non sanno la lingua non conoscono le abitudini del posto e quindi vanno incontro a una serie di equivoci. Nel repertorio comico, che è quello più ampio, ci sono soprattutto gli immigrati italiani che hanno fatto fortuna rimanendo però cafoni e si vantano della loro ricchezza materiale». Qualche autore? «Edoardo Migliaccio, il piu geniale fra gli interpreti, Tony Ferrazzano, Giuseppe de Laurentis. E soprattutto, Riccardo Cuordiferro, che è l’autore di “Core ’ngrato”. Un pezzo che è l’esempio concreto di come la canzone napoletana fosse vissuta dagli emigranti. “Core ‘ngrato” fu composta a New York da un im-

migrato calabrese e musicata da un napoletano, Salvatore Cardillo. È del 1911 ma ha una partitura ottocentesca e piace ancora oggi per questo, perché è una canzone fuori dal tempo». Come si spiega? «Gli immigrati cantano l’Italia che ricordano, che hanno lasciato. Conservano nella memoria una cosa che non c’è più. Quel mondo non esiste più. Rimane vivo nel ricordo, però. Ed è quello che vive in canzoni come “Core ‘ngrato”». Dicevamo del repertorio macchiettistico. «Le macchiette erano scritte per spettacoli che erano frequentati da un pubblico di immigrati e dovevano innanzitutto divertire. Quindi raccontavano il mondo presente, non quello lasciato. C’è allora tutto un repertorio di situazioni tipiche di quella realtà. Erano spettacoli molto partecipati con l’artista sul palco che interloquiva con gli operai presenti in sala.

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Francesco Durante, docente di “Cultura e letteratura degli Italiani d’America” all’Università Suor Orsola Benincasa

È la grande intuizione di Eduardo Migliaccio, che arriva in America dopo aver visto l’avanspettacolo al Salone Margherita. All’inizio si esibisce in macchiette napoletane, poi capisce che deve rappresentare il mondo del suo pubblico, gli italoamericani. La loro lingua è un esilarante miscuglio di inglese e dialetto partenopeo: e così in scena vanno lo “Sciummecco”, cioè lo shoe maker, il calzolaio, e l’Andertecco, ossia “L’undertaker”, l’impresario di pompe funebri. Molto spesso il pubblico era in grado di dare un nome e cognome a questi personaggi, che erano in sala a guardare lo spettacolo, per cui c’era una riconoscibilità molto forte». L’emigrante diventava dunque protagonista dello spettacolo. «Tutti gli emigranti sapevano di essere stati protagonisti di una grande avventura perché avevano fatto “quel” viaggio, avevano osato cambiare la loro vita in maniera radicale. Perciò meritavano di essere raccontati e raccontarsi. Ci rimangono infatti un sacco di libri di memorie». Abbiamo detto degli italiani che cantano l’America. Ma in che modo l’America guarda l’Italia? «Per tutta la prima parte dell’Ottocento l’ America è veramente italofila, lo è in maniera molto calorosa e segue con grande simpatia il nostro Risorgimento. Una simpatia che scolorisce quando, con l’emigrazione di massa di fine Ottocento, arriva l’Italia stracciona. Tuttavia le influenze reciproche sono fortissime. Pensiamo che il jazz a New Orleans nasce dall’incontro non solo con la musica afroamericana, ma anche con quella siciliana. La contaminazio-

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ne era molto forte e destava grande interesse nei contemporanei. Emergeva una nuova generazione di musicisti che si esibiva nei teatrini di New York e che negli anni diventa un must per la migliore intellighentia cittadina. Ci sono un sacco di giornalisti e scrittori che vanno a vedere questi spettacoli e ne scrivono perché sono interessati a vedere in presa diretta un mondo che sta nascendo». Poi le cose cambiano ancora. «Arriviamo agli immigrati di seconda generazione. Quelli che sono nati in America e si sono integrati. “That’s amore” fu composta da un americano di origini calabresi, Salvatore Guaragna, che si era americanizzato il nome in Harry Warren e che divenne uno dei più grandi musicisti di Broadway tra gli anni ’40 e ’50. Il testo, scritto dall’americano Jack Brooks, contamina l’inglese con il napoletano ed è una sincera manifestazione di simpatia per Napoli e per tutto quello che rappresenta nell’immaginario americano: amore, calore, pasta, pizza. La canzone, che chiudeva il film “The caddy”, era cantata da Dean Martin. Anch’egli figlio di immigrati meridionali: il suo vero nome era Dino Crocetti, ma lo aveva americanizzato per farsi strada nel mondo dello spettacolo». Cosa succhede quando scoppia la Guerra Mondiale? «I rapporti con l’Italia cambiano improvvisamente il 10 dicembre del 1941, con l’invasione del Giappone e la dichiarazione di guerra del nostro Paese agli Stati Uniti. È allora che finisce il periodo d’oro di Little Italy. Da quel giorno tutti gli italiani che non avevano la cittadinanza vengono presi e messi nei campi, in quanto possibili spie». E nel dopoguerra? «Napoli è la prima città d’Europa a essere liberata. Parte immediatamente quella nuova stagione che io chiamo “The magic of Italy”. È la riscoperta della magia dell’Italia, di una sua possibilità seduttiva come paese dell’amore, della dolcezza del clima, del cibo buono: di tutti quegli stereotipi che però all’epoca erano più credibili che adesso. È la stagione di film come “La baia di Napoli” con Sophia Loren e Clark Gable, di canzoni come “That’s


La sacerdotessa del rock innamorata di Napoli

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apoli è la mia prima città. L’adoro. Ogni volta che vi ritorno sono catturata dalla storia, dalla diversità, dalla grande bellezza, dalle bellissime chiese, da Caravaggio, dal porto. La gente è grande e tu ne senti la forza. È quello che mi piace quando cammino per le vie del centro. Le grandi città in cui ho vissuto e che ho visitato hanno perso gli odori originari, sono diventati dei luoghi di turismo usa e getta. È meraviglioso riscoprire ogni volta che Napoli ha mantenuto la propria personalità». Queste sono le parole di una delle più grandi cantanti rock della storia, Patti Smith (nella foto). Classe ’46, statunitense, questa donna ha rivoluzionato il mondo della musica, attraversando diversi generi musicali e contaminandoli sempre grazie alla sua impronta carica di grinta ed energia. Riconoscibile nei suoi più grandi successi come “Because the night”, “Gloria”, “People have the power” e i suoi più di trent’anni di carriera, “sacerdotessa maudit del rock”, così com’è stata ribattezzata nel tempo, ha dimostrato negli anni il suo immenso amore per la città di Napoli. Si è esibita ben sette volte in Campania, un record per una star internazionale del suo calibro, di cui tre, peraltro, soltanto negli ultimi cinque anni e due soltanto nel 2014. Napoli è stata la città designata dall’artista per cominciare il suo ultimo tour con date italiane, esibendosi l’8 dicembre scorso al Duel Beat

in formazione completa e il 9 nella suggestiva sede della basilica di San Giovanni Maggiore in chiave acustica. La più grande, certamente, resta quella del 9 dicembre, sold out. Un’esibizione molto discussa per la sua vicinanza al periodo natalizio e la sacralità del luogo scelto, oltre per il repertorio scelto, ma Patti Smith, come ha sempre fermamente dichiarato, profondamente religiosa, ama esibirsi nelle chiese, dove sente la vicinanza con Dio. Nonostante l’amore che la lega alla città, la cantante non è cieca di fronte ai problemi che l’affliggono e la caratterizzano. «Non posso parlare per i napoletani, credo che debbano farlo da soli. Ho un solo consiglio da dare loro. Non dimenticate che avete una voce. Fatela sentire», afferma, affidando ai cittadini la responsabilità della città e ricordando l’enorme bacino culturale di cui è patria e musa ispiratrice. Un grandissimo pregio, che molto spesso viene sottovalutato dai napoletani, tanto abituati ad averlo sotto gli occhi, per lasciare sbalorditi gli stranieri, tanto folgorati da tanta storica bellezza. Patti Smih tornerà presto a Napoli, anche perché lei stessa ha salutato la città dichiarando: «La tomba di Virgilio è un posto fantastico. Devo assolutamente ritornarvi». Alessandra Farro

amore” e “Mambo italiano”. L’italiano è percepito come un bonaccione, sentimentale e simpatico: è la faccia seduttiva e sexy dell’Italia. Che negli ultimi anni si è arricchita col glamour della moda. Si pensi al successo del musical “Nine”, i cui testi sono di un drammaturgo italoamericano che si chiama Mario Fratti: è un segno che l’Italia piace molto, anche oggi. E Napoli, a scorno di tutti i suoi problemi, continua a essere l’emblema dell’Italia. Quando si pensa a qualcosa di italiano, in America si pensa a Napoli. Almeno nella sua parte più consistente: il sole, gli spaghetti, la pizza. E soprattutto l’amore: nell’immaginario americano domina ancora il mito dell’a-

mante italiano, il latin lover, e dalle donne del Sud, con l’incarnato scuro e gli occhi neri, dalla sensualità provocatoria ma anche rigida. C’è proprio un’ossessione di carattere sessuale nei confronti degli italiani, quasi che la sensualità qui sia diffusa nell’aria. Partendo dall’idea che l’italiano sia un diavolo. Questo è il paese dove vive il Papa, ma è anche il più secolare del mondo, perché risente di un sostrato pagano che noi abbiamo dimenticato ma che ancora permane e che è tutto il contrario dello spiritualismo protestante. E lo abbiamo portato anche in America: è un vento di concretezza che ci contraddistingue e ci fa apprezzare».

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Da Mark Twain a Melville, gli scrittori Usa a Napoli

L’amore per la Campania testimoniato in tante pagine di letteratura Usa

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ntensa e indagatrice, la penna degli americani li segue nelle loro incursioni campane e partenopee. Che prendano appunti di viaggio, scrivano lettere, diari o reportage da inviare Oltreoceano, il loro guardo è tutt’altro che superficiale. Anzi, proprio perché straniero e distaccato, l’americano riesce a entrare nelle viscere di queste terre così arcaiche e a viverne il fascino. La sensibilità concre-

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ta degli scrittori d’Oltreoceano balza subito agli occhi: che si tratti di Mark Twain che fra le rovine di Pompei immagina un Tom Sawyer ante litteram; o del disincantato Melville che nei mille tabernacoli di Napoli coglie «la religione che apre le vie alla corruzione»; o di Fitzgerald, intento, fra una sbornia e l’altra, a dare le ultime rifiniture al “Grande Gatsby” mentre a Capri trascorre con l’inseparabile moglie Zelda, un soggiorno come sempre mondanissimo e scrive il racconto “Il ragazzo ricco”. Gore Vidal s’innamorò letteralmente della Costiera Amalfitana, tanto da scegliere di abitare sulle coste placide di Ravello. Lo scrittore vi giunse per la prima volta nel 1948 con Tennessee Williams; ritornò più volte nel paese fino al 1972, quando decise di acquistare La Rondinaia,

la splendida villa che, incastrata com’è nella roccia sospesa sul mare, sembra un nido di rondini, da cui il nome. Qui, per 33 anni consecutivi ha vissuto molti mesi all’anno, scrivendo gran parte dei suoi libri. «Considero come un segno di buona fortuna - ha scritto - il fatto che ora vivo a Ravello per un periodo dell’anno. Certamente i giardini, l’ambiente, l’architettura di questa antica città hanno una magica influenza particolarmente sugli stranieri (quei Goti che alla fine Roma civilizzò!)». Tantissimi i suoi ospiti americani: dalle star di Hollywood come Paul Newman con la moglie Jane Woodward, all’inventore della pop art Andy Warhol; fino a Hillary Clinton, quando era ancora la first lady statunitense.


A testimoniare l’interesse sempre vivo a Napoli per la cultura americana è il recente libro di Pier Luigi Razzano, “AmericaNa” (Intra Moenia), che racconta gli itinerari campani di dodici scrittori americani: James Fenimore Cooper, Herman Melville, Mark Twain, Henry James, John Dos Passos, Francis Scott Fitzgerald, William Faulkner, Truman Capote, John Steinbeck, John Fante, John Cheever, Gore Vidal. Si scopre così che William Faulkner, il cui realismo scandaloso turbò i lettori del suo “Santuario”, scrive il racconto “A Napoli si divorzia” ispirandosi ai bassifondi di Genova perché non aveva mai messo piede a Napoli prima di esservi chiamato a una conferenza quando era ormai un Premio Nobel. E che un giovanissimo Truman Capote, già mondano e raffinato ma non ancora giunto alla notorietà con le tenerezze sentimentali di “Colazione da Tiffany” e la cruda oggettività di “A sangue freddo”, giunge sull’Isola Verde per scrivere “Isola d’Ischia”, il non-fiction novel che vene pubblicato su “Mademoiselle” nel 1950. Ma l’attenzione degli americani per Napoli e i suoi dintorni, non si limita all’apprezzamento delle

Gore Vidal nella sua casa affacciata sulla Costiera Amalfitana

bellezze naturali. Anzi, proprio recentemente la narrativa di e su Napoli vive un momento speciale. Lo dimostra il successo dei libri di Elena Ferrante che ha dato vita alla saga dell’Amica geniale, e che attraverso gli occhi di una formidabile coppia di amiche, Lila e Lenù, racconta la trasformazione dell’anima della città dal dopoguerra ad oggi. Non c’è libreria, negli Usa, che non esponga in bella mostra i quattro romanzi della scrittrice misteriosa, che non si è mai mostrata in pubblico e si nasconde dietro uno psedonimo, e che solo recentemente si è scoperto essere Anita Raja. Tanto è

stato il successo dei “Neapolitan novels”, così è chiamata la serie dell’Amica geniale, che il Financial Times ha inserito Elena Ferrante nella sua lista delle “Women of 2015”, accanto al governatore della Federal Reserve Janet Yellen e alla first lady Michelle Obama. Di lei ha scritto meraviglie persino la temutissima critica letteraria del New York Times, Michiko Kakutani: «Elena e Lila, le due eroine della stupefacente tetralogia napoletana della Ferrante, sono una di quelle indimenticabili coppie della letteratura e del cinema che si definiscono a vicenda ed entrano nell’immaginario collettivo come un duo indivisibile. Come il principe Hal e Falstaff, Vladimir ed Estragon, Butch Cassidy e Sundance Nel cerchio Kidd, o Thelma e Hermann Mellville, Louise». l’autore di Moby Dick, Armida Parisi e a sinistra, Mark Twain

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Ciak, quando i divi di Hollywood giravano i loro film in Campania

Napoli era un’icona del cinema made in Usa, e anche recentemente è stata al centro delle pellicole di Julia Roberts e John Turturro 18

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Jude Law e Matt Damon in una scena ambientata nella galleria Umberto tratta dal film “Il talento di Mr. Rirpley”

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apoli nel cinema. Per gli americani l’occasione è sempre un viaggio. Che però diventa, immancabilmente, un percorso tra gli stereotipi. Vedi “La baia di Napoli” del 1969, con Sophia Loren e Clark Gable. In realtà il film è ambientato totalmente a Capri, a Napoli c’è solo l’arrivo del bell’avvocato americano che non tralascia di ricordare di esservi già stato con la Quinta Armata. Ribadita da subito la superiorità e la distanza dello yankee conquistatore, si lascia però travolgere dalla sensualità traboccante di umanità di Lucia-Sophia. Ad apparire in questo film non è la Napoli di quegli anni, ma “la Napoli degli americani”, come annotava Giuseppe Marotta nel recensirlo. È la stessa operazione che si

trova in “Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?” del 1972. Questa volta la vicenda si svolge a Ischia tra la coppia Jack Lemmon e Juliet Mills, che recitano nel ruolo di stranieri. L’isola non si limita a fare da sfondo suggestivo alla loro storia d’amore ma diventa quasi coprotagonista, in quanto complice, con i suoi scorci selvaggi e i suoi colori violentemente contrapposti, di un progressivo e piacevolissimo abbandono al piacere dei sensi. Napoli, fedele al suo stereotipo di “città della pizza”, ritorna in tempi più recenti in “Mangia, prega, ama”, con Julia Roberts. A dispetto di quanto avviene nel romanzo di Elizabeth Gilbert, nel film sono pochissime le sequenze dedicate alla città e alla sua tradizione culinaria: a imperare sono i luoghi comuni dei panni stesi ad asciugare e della delinquenza diffusa. Quella dei panni stesi pare essere proprio una presenza irrinunciabile nelle pellicole che parlano di Napoli, accanto alle immagini da cartolina, in primis il Vesuvio e il golfo che ne diventano un’icona immediatamente riconoscibile. Tanto che persino un cartone animato del 1954 non può tralasciarli. Si tratta del divertente cortometraggio della serie Tom & Jerry, che si può recuperare anche su youtube: in “Neapolitan Mouse” topi, gatti e cani, percorrono tutti i luoghi più caratteristici della città, teatro San Carlo compreso, senza dimenticare un riferimento allo stereotipo per eccellenza: il

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Tom e Jerry a Posillipo in un fotogramma di una puntata del cartoon ambientata a Napoli

topo napoletano non può che essere un romantico posteggiatore che canta “Oi Marì”. Un discorso del tutto diverso, invece, lo fa John Turturro in “Passione”. Sarà per le sue origini meridionali (papà pugliese e mamma siciliana), ma il suo sguardo sulla città è tutt’altro che bozzettistico. Basta fare attenzione alle parole con cui inizia il suo originale percorso nel sound partenopeo: «Napoli è una città sopravvissuta a terremoti, e ruzioni vulcaniche, invasioni straniere, crimine, corruzione, povertà, abbandono; ma nello stesso tempo ha prodotto una valanga di musica». Sarà questo il segreto della sua straordinaria vitalità? Turturro ne è convinto e convince anche lo spettatore più diffidente, che finisce col condividere l’affermazione apodittica del regista: «Ci sono paesi in cui vai una sola volta… e ti basta. Poi c’è Napoli».

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Mastroianni-Lemmon, così Scola celebrò il rapporto Napoli-Usa ap

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on ci sono solo le cineprese di Hollywood a filmare l’amore degli americani per Napoli e la Campania. Altri film, stavolta italiani, hanno toccato il tema. Forse il più importante di tutti è stato scritto e diretto proprio da un campano, il regista di origini irpine (era di Trevico) Ettore Scola. Parliamo di “Maccheroni” (prodotto da Del Laurentiis), uscito nelle sale nel 1985, con protagonisti due mattatori del cinema mondiale: Marcello Mastroianni e Jack Lemmon, il re della commedia made in Usa. La storia, nella cui sceneggiatura Scola fu affiancato da due maestri dello script, Ruggero Maccari e Furio Scarpelli, racconta di un manager statunitense che torna a Napoli per la prima volta 40 anni dopo esservi sbarcato al seguito dell’esercito a stelle e strisce. Qui incontra il fratello di una donna con cui, all’ombra del Vesuvio, aveva avuto una storia d’amore appassionante. Scopre così che l’intera famiglia della donna, ormai anziana, sposata, madre e nonna, in tutti questi anni aveva vissuto nel ricordo entusiastico e un po’ esagerato di quel soldato ameri-


Nella foto sopra, Marcello Mastroianni e Jack Lemmon in una scena del film “Maccheroni” nella Galleria Umberto. A sinistra i due attori sugli scogli di Mergellina. In basso con il regista Ettore Scola a Mappatella Beach

cano. Ricordo che non era mai svanito perché Mastroianni per anni aveva fatto recapitare alla sorella finte lettere firmate dall’americano e spedite da svariati paesi esotici. Sullo sfondo dei più incantevoli luoghi di Napoli, tra Mastroianni e Lemmon nasce una profonda amicizia, a tal punto che l’americano metterà da parte gli impegni di lavoro per aiutare il napoletano a salvare il figlio minacciato da una banda di strozzini. Ma non tutto andrà per il verso giusto e l’epilogo sarà drammatico. Anche se il finale a sorpresa inventato da Scola, facendo leva sulla scaramanzia e sul fatalismo tutto partenopeo, lascerà una

porta socchiusa alla speranza che anche la morte possa essere un gioco da cui risvegliarsi al momento opportuno. Indimenticabile la scena in cui i due amici ubriachi vagano per strada cantando una “oi Marì” rivisitata e condita di insulti ai danni della protagonista femminile della canzone.

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AMELIO E ANDY WARHOL, IL PADRE DELLA POP ART INNAMORATO DI NAPOLI 22

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“Vesuvius”, Andy Warhol 1985, una rivisitazione “pop” di uno dei simboli più noti di Napoli, l’opera è esposta al Museo di Capodimonte

Andy Warhol

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Lucio Amelio l’America non andava giù. Non gli piaceva la logica mercantile che metteva dietro ogni cosa. E soprattutto non gli piaceva l’idea di un’industria culturale che si imponesse come modello unico. Perciò, quando cominciò la sua avventura con l’arte, lo fece per motivi esistenziali. Prese due stanze al Parco Margherita e ne fece una casa-galleria. Lì avrebbe vissuto e ospitato mostre assecondando un’idea di fondo: non voleva che l’arte si riducesse

a una questione commerciale, il suo non era uno spazio costruito per far soldi ma per rispondere a un bisogno vitale. Negli anni Sessanta la Pop Art aveva invaso il mercato, la risposta dell’Italia fu l’Arte Povera e Lucio se ne innamorò e la sostenne. Da un comune sentire nacque l’amicizia con Beuys, l’artista tedesco che sosteneva che «l’arte non c’entra niente col mercato, serve solo a liberare l’uomo». Si trattava dunque di conciliare un’esigenza economica con la ne-

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cessità di salvaguardare questa idea di arte. È la vecchia impostazione umanistica che rifiuta una logica esclusivamente mercantile. È l’utopia dell’Elogio della follia contro il cinismo dell’america dream. Vecchia Europa versus America giovane. La fiera di Basilea diventa il centro della contrapposizione: «La trincea avanzata contro lo strapotere americano»,

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scriverà lo stesso Amelio. Non è che la Pop Art non gli interessasse, infatti con gli artisti manteneva rapporti cordiali: negli anni Settanta arrivarono a Napoli Raushemberg e Warhol, che gli fece pure il ritratto. Ma è nell’Ottanta che Amelio intuisce che è il momento giusto per l’incontro: Beuys e Warhol in mostra insieme. Si conoscono,


A sinistra Andy Warhol avvolto in una bandiera americana e, a fianco, il gallerista napoletano Lucio Amelio. Qui sopra i due con al centro Joseph Beuys in una conferenza stampa a Napoli. In basso alcune varianti delle numerose opere che Warhol dedicò al Vesuvio

si capiscono, scoprono di essere entrambi critici col sistema e di lavorare entrambi a un concetto allargato di arte. Ecco quindi la personale di Warhol, “Andy Warhol, Beuys by Warhol”, in cui l’americano dichiara che Napoli gli ricorda New York perché qui «nonostante tutto, la gente è felice». E poi il progetto “Terrae motus”, concepito subito dopo

il terremoto del 23 novembre 1980: Beuys e Warhol rispondono subito alla sollecitazione di Lucio Amelio, rispettivamente, con “Terremoto in Palazzo” e “Fate presto”, le due opere che sono il nucleo originario della collezione “Terrae motus” oggi conservata nella Reggia di Caserta. Armida Parisi

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L’INTERVISTA di Alessandro Savoia

IL TESTIMONIAL

Edoardo Bennato: «Al Museo volevo fare un concerto rock» L’artista partenopeo: «Sono molto legato al Mann, ci vengo spesso fin da quand’ero studente. Anche per sbirciare le nudità delle statue greche...»

«L

a mia fortuna più grande è quella di essere nato a Napoli». Ribelle e passionale, Edoardo Bennato è l’anello di congiunzione tra il rock made in Usa e le sonorità mediterranee. Con la sua musica è riuscito ad affascinare generazioni e popolazioni di tutto il mondo talvolta colpendo duro come un cazzotto allo stomaco talvolta riscaldando come la carezza di una madre. È da sempre in tour. Copena-

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ghen, Londra e Zurigo. Rio De Janeiro, Buenos Aires, Caraibi. Cuba, Jamaica, Santo Domingo. Ma il suo posto preferito resta sempre la sua città natale. Ed il Museo Archeologico gli porta alla mente ricordi di giovinezza. «Andando al Liceo Artistico, gioco forza il Museo Archeologico, è stato uno dei luoghi che ho frequentato in modo costante da ragazzo. L’ultima volta che ci sono stato è accaduto non più tardi di 5 mesi fa. Mi incontrai con un amico che, avendo a disposizione degli spazi all’interno del museo, voleva organizzare un concerto, una sorta di “Rock al museo”; non se ne fece nulla. Gli spiegai che i decibel, che si sviluppano necessariamente nel rock, avrebbero potuto nuocere alle meravigliose sculture provenienti


Edoardo Bennato all’Arena Flegrea

dalla Collezione Borghese». Ha un ricordo particolare che la lega al Museo? E all’omonimo “quartiere”? «Di ricordi ne avrei tanti, anche di aneddoti su quando, studente, visitavo con i miei compagni di scuola le sale museali, ma meglio non far riaffiorare i commenti dei miei compagni, talvolta da me condivisi, sulle figure femminili marmoree di epoca greco-romana». Di forte attrattiva per gli stranieri ma pochi napoletani lo visitano: come mai secondo lei? I cittadini devono “riap-

propriarsi” di questo luogo? «I miei concittadini dovrebbero, e lo dico senza retorica, riappropriarsi dell’intera città! Purtroppo, molto spesso, da noi impera il vittimismo, il fatalismo, l’assistenzialismo, per cui non ci facciamo carico di ciò che è il nostro patrimonio, il nostro “bene comune”. Ovviamente con i dovuti distinguo, conosco molti napoletani che sono propositivi e si danno da fare. Ma non è sufficiente. Dovremmo essere, se non tutti almeno la maggioranza, a prendere coscienza che, senza alcun merito

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L’INTERVISTA

IL TESTIMONIAL L’IDENTIKIT

E

doardo Bennato (1946) è stato uno dei più importanti cantautori napoletani. Ha cominciato la carriera giovanissimo insieme ai fratelli Eugenio e Giorgio, per poi trasferirsi brevemente a Milano (per studiare Architettura), dove diede avvio alla lunghissima e prolifica carriera solista. Ha inciso 19 album in studio, 9 live, 9 antologie e 2 colonne sonore. Nella sua carriera ha annoverato tantissimi successi, da “Un giorno credi” a “L’isola che non c’è”, da “Venderò” a “Il gatto e la volpe”, tutti al vertice delle classifiche italiane. Nato e cresciuto nel quartiere operaio di Bagnoli, in viale Campi Flegrei 55 c8luogo che ritorna in molte sue canzoni), il padre era operaio dell’Italsider, Bennato è rimasto sempre profondamente legato alla città di Napoli. Laureatosi in architettura con una tesi proprio sulla riqualificazione di Bagnoli e su una nuova rete metropolitana per l’intera città, ha pubblicat i suoi progetti sulla copertina e all’interno del suo album “Io che non sono l’imperatore”, del 1975.

da parte nostra, abbiamo ereditato quella che forse è la più bella città del mondo. Anzi senza forse!». Il Museo Getty di Los Angeles e l’Archeologico hanno stipulato un accordo per mostre e restauri: il rapporto tra Usa e Napoli è sempre stato forte? «Mi sembra un’ottima cosa anche se a volte, nel tempo, le politiche dell’”ufficio acquisti opere” - ammesso si chiami così - del Getty Museum sono state un po’ discutibili. Parlo di una certa approssimazione nella verifica della reale

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provenienza di alcune opere acquistate. Ma detto questo, ben vengano queste iniziative. Gli americani amano Napoli! Dall’arte intesa come cinema, musica e, perché no, cucina». Con “La mia città” ha dipinto Napoli, città che oggi come allora affascina chi viene a visitarla: come la ricorda da ragazzo e com’è oggi? «La “canzonetta” “La mia città” è un insieme di aggettivi - qualcuno mi ha fatto notare che sono 55 - che riguardano Napoli. La Nottata, di “ Eduardiana” memoria,


I napoletani dovrebbero riappropriarsi dell’intera città, a cominciare magari dall’Archeologico, invece qui da noi imperano molto spesso vittimismo, fatalismo, assistenzialismo, e non ci facciamo carico del nostro “bene comune”

sembra non passare mai. Il mio augurio ed auspicio è che Napoli “cambierà” se non sarò solo io a credere nel cambiamento». Quando si esibisce in Italia e all’estero nota ancora fame della nostra cultura? «Accade sempre, ogni volta che suono fuori dai confini italiani (in questo momento sono in Svizzera per diversi concerti) avverto che l’interesse, la curiosità per il nostro paese è alta». La cultura napoletana ha da sempre accolto le influenze degli altri paesi: è ancora così nel 2017? «L’accoglienza, in tutte le sue forme, è nel Dna di noi napoletani. Siamo fatti così. Per fortuna, aggiungo io! Siamo spugne che nei secoli hanno assorbito, nel bene e nel male, di tutto. Che mondo sarebbe senza noi napoletani?».

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LE VOCI DI DENTRO

I dipendenti del Museo

OLGA CENTANNI

MICHELE IACOBELLIS

MICHELE CUORVO

Guida turistica

Servizio educativo

Caposquadra pulizie

Il Toro Farnese ed Ercole Farnese sono le statue più richieste da un pubblico di adulti. I bambini invece prediligono la sezione egizia. Vedere le Mummie ed i vasi per loro è un viaggio nel tempo, li diverte molto.

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Lavorare qui mi dà anche l’opportunità di vedere tante mostre. Nel nostro piccolo contribuiamo a far sì che la mostra riesca al meglio tenendo in ordine le sale con pavimenti e finestre sempre puliti.

CIRO LIBERTI

ANTONIETTA PARENTE

GIUSEPPE D’ANGELO

Collaboratore Restauratore

Operatore tecnico

Custode Ales

Oltre il restauro ci occupiamo del trasporto delle opere all’estero. L’imballaggio è fondamentale ed è importante seguire tutte le fasi fino all’allestimento. Ricordo con piacere lo spostamento dell’Atlante Farnese di marmo nel 1981 a Siviglia.

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Nonostante ci lavoro da circa 40 anni, ogni giorno mi capita di scoprire qualcosa di nuovo. Oltre a pianificare le attività didattiche per i bambini, ci siamo occupati anche di formare gli insegnanti ideando 20 anni fa gli “Incontri di archeologia”.

Sono qui dal 1979 e mi occupo di tenere il calendario della sala conferenze, segnando tutti gli eventi in programma, curando le prenotazioni e tenendo al corrente il personale interno. Tra le mostre più interessanti ricordo quella ambre pompeiane.

Ho incontrato tante persone famose negli 11 anni di servizio. La cancelliera Merkel ad esempio si presentò con tante guardie del corpo ed era inavvicinabile. L’ultimo in ordine di tempo è stato Enrico Montesano, si è preso una pausa dalle prove per venire qui, si è messo a scherzare con noi.


Testi raccolti da Alessandro Savoia

SALVATORE FETTUCCIA

MARIATERESA OPERETTO

ILARIA BARONE

Custode Ales

Funzionaro restauratore conservatore di materiali ceramici, vitrei e organici

Assistente fruizione accoglienza vigilanza

Lavorare tutti i giorni a contatto con queste opere è un immenso piacere, ci sono reperti che gli altri guardano una sola volta o mai nella loro vita, sono fortunato. Già ho lavorato a Pompei con la stessa mansione, mi piace il contatto con il pubblico.

Il restauro che mi ha dato più soddisfazione è stato quello delle coppe di ossidiana da Stabia. A seguito del crollo di una vetrina si fecero in mille pezzi, si staccarono le parti in oro, i coralli e i lapislazzuli. Un lavoro durato un anno.

Lavoro qui dal 2000, il rapporto col pubblico mi dà tanto. Le iniziative che in questi anni mi hanno arricchito personalmente e fatto crescere personalmente sono stati sia i laboratori per bambini che le rassegne “Il cinema racconta la storia”.

UMBERTO MINICHIELLO

PASQUALE FESTINESE

VINCENZO DI MAURO

Funzionario restauratore

Assistente tecnico

Guida Turistica

È dal 1973 che lavoro qui. All’epoca studiavo Architettura ed ero al servizio educativo. Come restauratore ceramista ho avuto come mentore il dottor De Caro col quale ho lavorato tra le altre per “Sotto al Vulcano”, prima mostra che il museo portò all’estero tra Germania e Parigi.

Ho da sempre avuto una passione per la ceramica, mio padre insegnava a Capodimonte. Sono al Mann dal 1979, ho avuto un grande insegnante, il dottor Scognamiglio. Ricordo con piacere il lavoro fatto con una loutrophoros, vaso di ceramica, a figure rosse.

Mi inorgoglisce il fatto che quando vengono i turisti sia stranieri che italiani trovano una città diversa da come raccontata dai media, qui trovano un museo che è bandiera di questo cambiamento, in continua evoluzione. Un americano mi disse che qui sentiva “good vibes”. 02 2017

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La statua in bronzo di Apollo Saettante, ritrovata in tre frammenti tra il 1817 e il 1818 a Pompei


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