Il Barlume A2 N10

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IL BARLUME Anno 2 numero 10 - Ottobre 2008


EDITORIALE Costanza è un Bacon, dal vivo. Aggrondata sul suo catafalco che gabella per letto, con una copia di Les Echos davanti agli occhi e i Velvet Underground a far da tappeto sonoro. Rue Saint-Honoré la circonda, sua Maestà la Fotografia passeggia indolente per casa. L’unica buona ragione per farla sollevare da quel suo catafalco che gabella per letto. Una buona ragione che ci garantisce che Dio non la prenderà per il culo, almeno per questa vita. Tutta questa pioggia fitta per la strada, ma tra goccia e goccia non piove. Costanza, tra goccia e goccia, vede sua Maestà la Fotografia. Sembra che spiova. Alessandro si circonda delle mura di Lucca, un abbraccio che conforta nonostante il chiaroscuro della luce serale. Dentro alla libreria Baroni consulta un libro di filosofia medievale, per l’esattezza si tratta dell’esegesi del pensiero di un monaco francescano del XIV secolo, Guglielmo di Occam. Si chiede se sarà vero che Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora, è inutile fare con più ciò che si può fare con meno. I libri non gli hanno insegnato a vivere, certo non lo farà il topo Occam, potrebbe privarsene. Potrebbe, ma le parole sono setosamente seduttive, demiurgia d’amante che crea la sua amante sognata, sdraiata tra goccia e goccia. Tutta questa pioggia fitta per la strada, ma tra goccia e goccia non piove. Alessandro, tra goccia e goccia, vede alberi, canne di pistola, uomini senza volto né anima, donne con troppi volti e eccessi d’anima. Sembra che spiova. Costanza e Alessandro non si sono mai visti, non si sono mai parlati, non hanno mai fatto l’amore nella stessa città. Tutta questa pioggia fitta per la strada, due persone sono capaci di vedere tra goccia e goccia, di restituire la nuda bellezza del cuore trafitto. Sembra che spiova. Questo numero è ricco di due vite sconosciute l’una all’altra, due fili d’anima trafitta e impalpabile tra goccia e goccia, che s’incontrano su pagine anch’esse impalpabili. Solo Costanza e Alessandro a ristorare le nostre anime trafitte dalle gocce di pioggia. Nelle parole di Paloma: Se vuoi guarire devi curare gli altri e poi sorridi o piangi la fortuna che la tua sorte muta.

Buona lettura DePiCo

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I GIORNI DEL RACCOLTO Alessandro Pagni Martina aveva occhi grandi, dei soli distanti che illuminavano i suoi pensieri. Al mattino erano gusci di perla che faticavano a dischiudersi. Martina aveva un modo di ridere che era la gioia di una pioggia estiva e quel continuo tremolare di oceani nel suo sguardo come se avesse appena pianto. Martina sapeva capire ogni spostamento appena troppo brusco della mia anima, la più segreta inquietudine del mio umore e paziente lasciava che maturasse senza forzarmi, per poterla raccogliere nel momento migliore e darmi il giusto consiglio. Riuscivamo ad attraversare, giorno dopo giorno, la nostra esistenza senza alcuno sforzo, senza bisogno di dover dire in continuazione qualcosa per riempire i silenzi che per forza o per fortuna si creano in una storia. Parlo al passato, a ragion veduta, perché Martina non ha più quello sguardo, perché non ha più il suo sorriso. Martina adesso ha occhi gelidi e secchi, con alberi morti di vene rosse e un ghigno da lince. Fu quella notte del blackout totale, in cui tutti si erano chiesti se un lenzuolo nero avesse coperto il mondo temporaneamente. Stavamo percorrendo la strada alberata che porta alle ville fuori dal centro. Ricordo che stava cantando, seguendo la radio, un pezzo inutile, un ridicolo testo che ripeteva l’urgenza di trovare un senso alla vita anche se proprio, la vita, un senso non ce l’ha. Una di quelle cazzate che manda in orgasmo permanente i giovani e sofisticati imbecilli d’Italia. La stava cantando per farmi rabbia e lo faceva con quel suo sorriso immenso, privo di calcolo. E più mi adoperavo per abbassare il volume o cambiare stazione, più lei invigoriva i suoi assalti acustici. E rideva e io lottavo con la mano sul suo fianco per farle il solletico. A volte neppure ti accorgi di ciò che conta davvero. - Mi fa vomitare quella canzone di merda! – - VOGLIO TROVARE UN SEN…- Nooo! Fa schifo, basta!!! – - …E UN SENSO A QUESTA SITUAZIONE ANCHE SE QUEST…- Vedi, non torna un cazzo, suona pure male! – - …ESTA SITUAZ…Con una mano frugavo la sua ascella, il fianco,le pizzicavo il sedere, con l’altra facevo lo slalom col volante, mentre i lunghi cipressi coprivano le ombre. - …SENTI CHE BEL VENTO, NON…- La smetti? Fa schifo! FA SCHIFO!!! – - …DOMANI ARR…- Guarda, adesso ci siamo beccati anche i carabinieri. – PALETTA ROSSA. STOP. Sapevate che alcuni ragazzi rubano le palette con cui le Forze Dell’Ordine fanno accostare le autovetture per effettuare i controlli? Sapete che la paletta è un simbolo di riconoscimento ufficiale almeno quanto il distintivo? Inoltre, esistono anche i poliziotti in borghese, niente di strano, ovvio. Quante volte il telegiornale vi ha rimbambito con le storie sulle “baby gang”? Quanto piace ai giornalisti dare soprannomi pittoreschi alle notizie di banali orrori quotidiani. Avete mai considerato quanto può essere feroce un piccolo squalo? Ricordo distintamente ogni particolare, ricordo che uno di loro aveva circa 17 anni, gli altri pochi di più. Non siamo neppure scesi di macchina. Non c’è stato neppure il tempo che il vecchietto stempiato e avvinazzato della radio finisse la sua canzone di merda. Il Barlume - Anno 2 - Numero 10 - Ottobre 2008

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Ricordo i jeans con la scritta “RICH” sul culo, ricordo i cappellini ficcati a forza sulla zucca, il giubbotto con il pelo copioso intorno al cappuccio e gli sguardi da mafiosi consumati. Omologati, indistinguibili, interscambiabili. A 17 anni. A 18 o poco più. Ricordo una pistola infilata nella bocca e quel sapore acre del metallo. Dovevo avere gli occhi sgranati ed emettere suoni decisamente sgradevoli. L’unica cosa che riuscivo a considerare era la figura che stavo facendo con Martina. E non capivo accecato, sordo, un ebete mugolante e inerme, quanto fosse profondo il baratro che in quel momento ci divideva. Mi fece la grazia di farmelo comprendere il più grande di loro, un vecchio, un saggio, un veterano, appena venti anni. Mi portò, spingendomi in gola la canna della pistola, dall’altro lato della mia auto. Mi ci portò a calci e pugni nello stomaco e nei testicoli mentre il mio mugolio volgare strisciava tra l’indifferenza dei cipressi. Ci misero un po’ gli occhi ad adattarsi al nero della notte, ma lentamente comparvero le sagome di cinque, sei individui, non si capiva bene, ma quello che era chiaro è che stavano entrando uno a uno nel corpo di Martina, la stavano sventrando, tenendola immobile per facilitarsi a vicenda. Commentavano – sei messa bene puttana! – la colpivano forte sul viso – godi troia! Godi! – uno le schiacciava lo stomaco con un ginocchio mentre il successivo si dava il cambio. E urlavano, esultavano, si davano manate sulle spalle. Discutevano violentemente su chi fosse di diritto il prossimo. La pistola, il suo odore, il suo colpo in canna pronto a spegnere tutto, non volevo altro che svegliarmi, non essere lì, ma non avevo forza né intenzione, una statua di granito, di marmo, un niente messo lì a contemplare la fine di ogni cosa nel mio piccolo mondo perfetto. È lì che accadde, di fronte alla mia crisi, al mio non esserci, a qualsiasi schifoso motivo che non mi avesse dato la forza di divincolarmi, di ingoiare il proiettile, di scalciare e colpire alla rinfusa, pur di avere una minima reazione. Niente. Gambe di cemento, conati di lurido egoismo. Fu in quell’inferno, con la puzza di Marlboro dei loro giubbotti e il tramestio dei loro cazzi sporchi di sangue, che sentii il soffio di vento che congelò per sempre gli occhi di Martina, neri e stretti come entrate di sepolcri. Fu in quel momento, quando smise di cercare di gridare, quando lasciò la presa con i denti e si adagiò sulla sua croce, senza neppure chiedersi perché Dio l’avesse abbandonata, che sigillò il suo giuramento di morte. Ho un vuoto su ciò che è accaduto nelle ore successive, più che altro sono stati tutti passaggi automatici: scooter truccati che si allontanavano nel buio, telefonate brevi e secche, sirene, coperte, domande su domande, particolari, il mio schifoso naso che colava, i miei singhiozzi imbarazzati, scuse, mille scuse, scuse su scuse. Qualcosa, almeno morire, qualcosa lo potevo fare. Scuse su scuse. - Scusa. – Il silenzio, che dice molte più cose. Per giorni Martina è rimasta in silenzio ponderando le decisioni da prendere, come muoversi, come agire. A volte avere un piano preciso, calcolato nei minimi dettagli, uno scopo, un progetto chiaro per l’immediato futuro, può essere l’unico stimolo per continuare a vivere. La polizia non ha impiegato molto tempo a scoprire i colpevoli e ancora meno a capire che averli scoperti era stato assolutamente inutile, visto che la nutrita schiera di avvocati di cui si era fatta grassa la difesa, foraggiata dai soldini sonanti dei potenti e influenti genitori, teneva i ragazzi dentro una corazza robusta. Che poi, anche se non fossero stati influenti, sarebbe cambiato poco in un paese dove non contano dieci anni di denunce e uno stupro per preoccuparsi di difendere una persona da morte certa. Tutti sapevano ma nessuno poteva fare niente senza prove. Tanto più che Martina non aveva detto niente al momento del riconoscimento degli indiziati: si era limitata ad appuntare i loro visi, uno a uno, nella mente e a comunicarglielo con l’inverno di quei suoi Il Barlume - Anno 2 - Numero 10 - Ottobre 2008

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nuovi occhi. La mia testimonianza, a dire della difesa, è stata definita “poco attendibile” e sono stato giudicato “traumatizzato dai recenti fatti” per poter essere preso in considerazione. Dal giorno del processo mi sono chiuso in casa e ho passato le giornate in uno stato semi-vegetativo trascinandomi da una stanza all’altra senza una meta. Martina non ha più risposto alle mie telefonate, ma non credo che abbia, neppure per un attimo, cercato di dimenticare. Si può covare il male dentro per mesi, a volte anni, riuscendo pure, con concentrazione e grande padronanza, a sembrare guariti agli occhi degli altri. Ma ci sono giorni che non possono essere cancellati e azioni che non si possono perdonare in nessun modo. Destò il mio torpore una notizia un mese fa: da due anni non vedo più Martina, ma non faccio altro che pensare a lei; ho ripreso a lavorare e a uscire di casa, ma solo per ingannare il tempo della mia attesa. La notizia mi è giunta da una televisione accesa in un bar, mentre stavo facendo colazione con cornetto e cappuccino: un giovane di 19 anni, che due anni prima aveva subito un processo per violenze carnali, è stato trovato a testa in giù, inchiodato mani e piedi con le gambe divaricate, al muro della sua stanza, in mezzo tra il poster di Vieri e il vecchio calendario della Canalis. In terra una grossa pozza rossa, e al centro, il mezzo a un grumo di sangue secco, era stato bruciato il suo pene. Era morto dissanguato, mentre guardava capovolto andare in fumo la sua virilità. Quel giorno finalmente ho ricominciato a vivere. Era il segnale che aspettavo da mesi, senza mai spazientirmi. Vivere è avere uno scopo, ognuno ha il proprio. La mia esistenza non è cambiata molto apparentemente, ma l’attesa è diventata gioiosa: ho sgomberato completamente la parete di fronte al letto e ho cominciato a documentare accuratamente quelli che amo chiamare “i giorni del raccolto”, dopo il lungo silenzio. Ritagli di giornale, foto, fotocopie degli atti processuali, nomi e cognomi incontrati nel corso della nostra vicenda, hanno occupato un quarto della mia stanza quasi completamente. Ho lasciato solo una banda vuota al centro che verrà occupata, come ultimo tassello di un puzzle, da questo mio scritto. La polizia ha interrogato il padre di Martina, lei, sua madre, gli amici, io, tutti potenziali indiziati dell’efferato omicidio. Tutti con il loro scopo preciso per continuare a vivere. Suo padre scelse di dimenticare e fu creduto. Io ho scelto di aspettare e sono stato giudicato inoffensivo, come al solito. Lei ha messo in atto il suo piano: ha fatto in modo di sembrare rinata, l’ha fatto in modo assolutamente credibile, l’ho vista in TV, è stata bellissima e geniale, diabolica, ha detto che la FEDE l’ha aiutata a perdonarli. A perdonarli... capite? Ci hanno creduto tutti. Immagino i commenti delle nonnine davanti al televisore: - guarda che tesoro! Con tutto quello che ha passato povera bimba! Li ha perdonati, li ha perdonati! – Astuta, luciferina, non ha lasciato tracce, neppure la polizia ha messo minimamente in dubbio la sua innocenza. Ma a me non la racconta, io so la verità, quegli occhi lì non sono gli occhi di Martina. Il ghiaccio nero delle sue pupille non ha un tremore, un’onda, qualcosa che abbia una parvenza di umanità. La polizia ha seguito un’altra pista e si è spinta così al largo, come spesso accade, da non considerare con debita serietà il sacrosanto principio del “rasoio di Ockham”. Si è inventata un improbabile serial killer innamorato segretamente e non corrisposto di Martina, sconosciuto ad amici e familiari, che distrutto dal sopruso capitato al suo amore impossibile, si è trasformato in un vendicatore; in seguito la stampa ha rincarato la dose collegando i delitti e il presunto omicida ad una setta satanica feroce e sanguinaria che aveva scelto le vittime per un qualche macabro rito. C’è sempre una setta satanica o il terrorismo di mezzo quando non si riesce a guardare dentro gli Il Barlume - Anno 2 - Numero 10 - Ottobre 2008

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umani e la stampa si bagna le cosce con queste storie. Si sono accavallati i delitti, uno più spietato di quello precedente, con una spiccata fantasia che giudicare sadica sarebbe un eufemismo e, sempre onnipresente, come una firma, la brace di un pisello tagliato al cospetto del cadavere. Il countdown mortale ha arricchito, a ritmo vertiginoso, la parete della mia stanza di trafiletti e dossier speciali, i “giorni del raccolto” stanno giungendo al termine. La mattanza è arrivata a pochi chilometri da qui, appena due giorni fa: sulle alte sbarre appuntite del cancello della sua grande villa è stato trovato infilzato, per lungo, l’ultimo componente della giovane banda, il veterano, il saggio, il capo, l’allora ventenne adesso ridotto a uno spiedino con un palo di ferro lucido passato dal buco del culo e uscito dalla bocca, tagliando in due la scritta “Rich”. Stesso sapore della pistola, solo un po’ più forte. Se esiste un dio si renderà conto di quanto è increscioso perdere una delle proprie pecorelle. Rimane davvero poco tempo per terminare queste mie memorie, questione di ore, ma credo minuti. Stamattina ho trovato una rosa davanti alla porta. Non penso che sia una spasimante qualsiasi. Di rose così ce n’è una sola e io la conosco bene. È logico che sappia tutto questo, faccio parte del disegno: la parte più importante, l’epilogo. È notte inoltrata e sono solo, una candela e un quaderno. Fuori il temporale a intervalli irregolari illumina a giorno la stanza con un lampo e subito dopo un tuono mi scuote le viscere nel profondo. Dovreste vederlo ora il mio amore. La mia belva cieca, la furia vendicatrice che si riprende ciò che le è stato strappato via. Ha i capelli corti appena sotto la nuca, si è fatta un po’ di muscoli, mi piace immaginarla così, con gli addominali tesi e il mento lievemente squadrato, donna di una sensualità animale senza più compromessi. Dovreste vederla tutta vestita di nero, come un’ombra, mentre taglia gole come fossero di burro, dopo aver sentito piangere e urlare per le torture e le sevizie che si diverte ad infliggere alle sue vittime. Una donna nuova, rinata nel corpo di una iena. Dovreste vederla, io la immagino con la luna che si insinua tra le nuvole dietro di lei. Mette i brividi. E io, il suo sposo infernale, qui l’attendo, per l’ultimo sacrificio. È quasi eccitante. Morirò per la sua calda e delicata manina. Quasi bello. Ma tutto questo è solo tempo che mi concedo per ritardare ancora un po’ il mio appuntamento, in fondo in questi due anni non è cambiato assolutamente niente. Ero già morto, quella notte in cui mi sono preoccupato del sapore amaro della canna della pistola invece di capire il sacrilegio che si stava compiendo a pochi passi da me. Sono stato sordo, cieco, inerme, avrei dovuto lottare e morire per preservare il tempio del suo corpo, quel sacro scrigno che racchiudeva i segreti della mia felicità presente e passata. Scrivo queste pagine perché ci tengo che si sappia in giro che non sono una vittima. Poco fa un lampo fuori ha acceso di nuovo la stanza, è stato solo un flash, un attimo, ma è sufficiente. Quei due occhi stretti da iena mi fissavano dal vetro della finestra, a pochi centimetri da me. Lei è qui. Ma non è un problema, la stavo aspettando. Eccola sulla soglia della porta, intravedo la sagoma con la coda dell’occhio. Mi torna in mente la vecchia canzone di un poeta bellissimo: «…e nel vuoto della notte, quando hai freddo e sei perduto, è ancora Nancy che ti dice – Amore sono contenta che sei venuto – ». Alzo gli occhi e sorrido. - Sono contento che sei venuta. -

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