Il Barlume A04 N02

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IL BARLUME

Anno 4 - Numero 2 - Febbraio 2010


EDITORIALE Forse brillanti solo in determinati momenti e il più delle volte neanche una macchina fotografica a immortalare la nostra gloria. Poco male, più brilli che brillanti. Forse la felicità starebbe in una macchina che non congela momenti ma negazioni, e che risparmi la vergogna delle divise di ordinanza. Forse la sbornia di immagini dà la nausea più dell'otto volante a Monaco e guardare è diventata una questione di abitudine, pratica quotidiana che meriterebbe di essere sostituita con la masturbazione. E forse ti buchi con la naftalina. Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus, bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla, bibit velox, bibit piger, bibit albus, bibit niger, dice il poeta. L'importante è cosa, diciamo noi. Perché bere è un po' come morire. O era "partire"? Bere è un po' come partire? Mah, boh, adesso non ce lo ricordiamo, sarà perché abbiamo bevuto troppo. Siamo entrati in un bar e abbiamo detto: "siamo Barlume, il Barlume". E quello si è messo ad agitare tre Martini. Non è questo il vizio che ci ucciderà, ma è il vizio che scorre fra le pagine di questo numero. Buona lettura DePiCo

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Doveva essere facile. Una cazzata, sulla carta, come pisciare all'aria aperta senza doversi preoccupare di fare centro. C'erano dentro tutti stavolta, ci credete? Convinti che fosse la volta buona. C'era Zucchero, quell'idiota sempre a masticare gomme, c'era Brandy, l'effemminato borsaiolo del centro, Ananas, la palla di lardo cinese e io, Rum, il capo della più sfigata banda di criminali della storia. La banda Zombie, convinti che ci avrebbero ricordati per anni, che magari avrebbero fatto dei film su di noi, qualcosa tipo gli Intoccabili, i buoni che fanno i cattivi, merda simile. Be, guardateci adesso. Tutti e quattro riversi a terra con quella bocca di fuoco puntata contro, un tipo che ci grida qualcosa e un altro che ride. Sembriamo proprio una banda di stronzi con i sederi verso l'alto. Doveva essere una corsa in discesa. Quel maledetto emporio di arabi che vendeva di tutto, dai film porno ai crocefissi e che, su richiesta, ti falsificava anche il buco del culo. Un bel giro di soldi sottobanco e solo due arabi del cazzo a guardia del tesoro. Pane per i denti del gruppo Zombie. Ed eccoci entrare spavaldi, riuscite a vederci? Io che abbatto la porta con un calcio, Ananas che grida di non fare i furbi, Zucchero che sottolinea il concetto colpedo Ali Babà in viso e Brandy che scivola dietro il bancone per fare il prelievo. Tutto perfetto. Il colpo del secolo. Il passaporto per lasciare questa vita da perdenti che ci ha cullato per troppi anni. Ed è allora che tutto va a puttane. Mentre Brandy alza la piccola cassaforte esultando, Zucchero che tira un calcio a Moammhed per sfizio, Ananas che gongola pregustando ricchezze amene e io sulla porta a fare il palo. E' allora che il secondo arabo sbuca da dietro una tendina gridando parole incomprensibili. E in mano ha quel cazzo di kalashnikov. Un kalashnikov. Che noi tipo usiamo le fionde per incutere paura, quando va bene. È allora che Zucchero smette di ridere, che Brandy molla il bottino e che Ananas si caga sotto, e non è una metafora. Un mare di merda gli gonfia i pantaloni. E' allora che capisco che il gruppo Zombie è stata la strada sbagliata della mia vita, anche se era un fottuto senso unico. Il resto è un quarto d'ora di noi a terra a prendere calci e sputi, riuscite a immaginare? Con la merda di Ananas e le lacrime di Brandy, il silenzio di Zucchero e gli schizzi di sangue. E io, Rum, a maledire Dio e tutti i santi e a sperare che qualcuno prema quel cazzo di grilletto. Non so se rendo l'idea. F a b io R ic c i

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La via è invasa di cani morti, distribuiti in file ordinate. Schiene contro pance, zampe anteriori in alto, zampe posteriori in basso, come conigli spellati. In una fila ci sono almeno venti cani. Le file sono compatte, a distanza di circa venti centimetri l’una dall’altra. Molto precise. La strada sarà lunga circa un chilometro. Non è possibile evitare di schiacciarli. Cerco di viaggiare al minimo, sento lo scricchiolio delle ossa e l’ottusità della carne sotto le ruote. Sembra non finire mai. Lungo i marciapiedi si stanno organizzando squadre di spazzini con maschere e guanti di pelle, enormi badili. Le case sono di pietra. Nessuna finestra accesa. Leggera foschia, ovvia, miserabile. Odore di carne bruciata. Devo arrivare alla fine del paese per proseguire oltre. Nessuno fa caso alla mia macchina. Gli spazzini esitano. Li guardo davanti a me, poi ai lati del marciapiede, continuo a guardarli dallo specchietto retrovisore. Vanno avanti e indietro. Nessuno scende lo scalino che li separa dalla strada. L’ultima fila di cani mi coglie di sorpresa. Scendo dal tappeto di carne. Mentre mi allontano il primo spazzino abbassa il badile sull’asfalto. Accanto all’ultima casa, l’insegna di un bar. Mi fermo. Ho bisogno di riprendermi. All’interno mi sorprende l’eleganza dell’arredamento. Mi siedo su uno sgabello, ordino un B52. Tutto il bar si ferma: il barista, i clienti al banco, i clienti ai tavoli, la cameriera, i tavoli e le sedie vuote, le pareti e i poster, qualsiasi cosa mi osserva. Il silenzio dura un bel po’. Non ricordo il nome del paese. L a u r a B u c c ia r e lli

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- Io non credo proprio. - Non credi proprio, che cosa? - Non credo proprio. In Dio. Non ci credo. - E? - E niente. E' un fatto. - Rilevante? - Rilevante. - Perché? - Perché questo fa di me una cattiva persona. - Chi te l'ha detto? - Un venditore di mozzarelle. - Un? - Un venditore di mozzarelle. Ubriaco. - Ubriaco? - Pieno zeppo di Chapel Hill fatti con troppo Whisky. Al matrimonio della figlia. Ha preso in disparte la mia fidanzata e le ha detto "come puoi sposare un senza Dio? Quelli picchiano le donne!". - E tu picchi le donne? - Ovvio, no. Ma non c'entra. Se lo dice la Bibbia, che sono cattivo, non ci credo, ma se lo dice lui è un altro paio di maniche. - E perché? - Beh, perché son buone. - Cosa? - Le mozzarelle. E m id io P ic a r ie llo

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Varanasi… la santa, la città della vita e della morte. Il caldo la rende invivibile, non si riesce a uscire dall’albergo se non all’alba e al tramonto…giornate oziose e sonnolente, il Gange è in secca…lo vedo dal balcone della terrazza, con la vista annebbiata dal caldo potrei confonderlo con una baia marina. Una strana baia, lurida e brulicante di corpi. Ho voglia di un mojito. L’odore di bruciato, di carne bruciata, arriva direttamente dalle gradinate giù in basso alle mie narici, pizzica e nausea, cerco di allontanare il pensiero blasfemo di un barbecue…inutilmente. Tento di sopperire alla mancanza di zucchero di canna con del miele, ma il tentativo è vanificato da una costellazione di formiche fluttuanti nel nettare dorato. La calma surreale del pomeriggio è interrotta bruscamente dal trottare delle scimmie sul tetto che spudorate scivolano oltre la gronda per rubare ai tavoli dei turisti intorpiditi dall’afa. All’improvviso un soffio di vento pare risvegliarci tutti, ma è troppo breve, serve solo a ricordarci quanto l’aria sia torrida e a slacciare e a buttare sul tetto la pesante tenda che proteggeva dal sole. Lui si arrampica sulla balaustra tarlata, in bilico si sporge per recuperarla…ha le spalle larghe, una camicia azzurra, ondeggia e d’un tratto la nostra terrazza prende il largo, scivola sulle acque di un fiume, di un mare, lento e solenne. La tenda è la vela di poppa, il balcone, l’albero maestro, lui un marinaio. Ora c’è un vento violento che ci scuote fino a farci tremare, non sono più vele, ma lenzuola, che s’alzano, scivolano, stringono, accarezzano. Avevo sempre pensato che quest’aria surriscaldata e umida mi avrebbe tenuto lontano da qualsiasi amplesso…mi sbagliavo. Inevitabile, come tutto del resto, in questo punto si mondo. Ora si, che ho voglia di un mojito Fuori ormai è buio, si accendono i fuochi per la puja serale, si accordano gli strumenti, si adescano i turisti. Lo abbraccio, lo amo, ma soprattutto amo questa città. In cielo aquiloni, in cuore fuochi d’artificio. N o e m i P e n n a ti

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Sento arrivare le gocce anche se ancora non sono cadute a terra. Poi si rovescia il catino e il cielo comincia a fare gavettoni con le strade. Una signora risparmia agonia alla permanente nuova nuova, litiga col muro alle sue spalle e si infila nel bar di fronte. Chissà con che scusa consumerà un caffè. C’è chi corre con il giornale in testa urlando ai taxi e chi, chinato, schiva acqua e preghiere con lo scooter radendo il porfido. La bionda intona un requiem di pozzanghera alle scarpe di Prada ed entra al Caino giusto in tempo per la sfilata dei primi Martini sul bancone di marmo. Inizia la carneficina, saranno matadas con stecchini ed affogate molte olive questa sera. Gli autobus intanto scappano senza fermarsi. Le macchine schizzano. Anche nel vero senso della parola, cazzo... Allora entro anch'io al Caino. L'acqua mette una gran fretta, per questo prendo una birra ed esco. Quel che resta di un uomo, prostrato a terra, invoca una moneta e aspetta che cada dal cielo. “Oggi Dio non ha spicci, vecchio”. Allora ne lascio cadere una io nel bicchiere vuoto di una Milano da bere. A n d r e a N a ig e r

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Verso il muro di silenzio, proprio davanti al bancone del bar pi첫 affollato, ascoltava con gli occhi solo i fruscii dei fiori finti sfregati dall'elica del ventilatore; nient'altro... o forse, a tratti, anche il passare sporco di una banconota sulle dita di qualcun altro e ancora lo sguisciare via anemico di uno scontrino... E rimanevano poi soli, a lungo, i bicchieri, come le auto davanti al rosso o, semplicemente, polvere fra i solchi di un vinile. G iu lio A ld in u c c i

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Di sotto i topi erano appena usciti dal buio della cucina. Nel cortile, tra la nebbia, le solite imprecazioni razziste di quei maledetti ragazzini irrompevano attraverso il portone di ingresso. Hayley si stava masturbando in bagno. Le luci basse dei lampioni, come ogni sera, spingevano l’odore marcio di spazzatura attraverso le finestre ingiallite. Ero stanco, gli occhi mi bruciavano, l’apatia mi rendeva infermo. Così decisi di non sbirciare dalla serratura. Poi Hayley raggiunse l’orgasmo. Mi alzai dal letto. Con una mano afferrrai l’ultima bottiglia di Jack Daniel’s rimasta; con l’altra mano presi la mazza da baseball di Mike. Scesi le scale di corsa mentre un puzzo tremendo di animale morto oscurò per un attimo la mia lucidità. Entrambi i topi erano rimasti intrappolati, il collo spezzato sulla tagliola. In frigo c’era ancora un po’ di Coca Cola. Sarebbe stato il mio ultimo drink a base di Jack. Aprii il portone di casa all’impovviso. Quegli stupidi adolescenti Londinesi erano ancora là, stesi in terra, ubriachi e sorridenti. Finito il lavoro, sputai sui loro corpi insanguinati. Erano le tre di notte. Sapevo che non sarei mai più potuto tornare indietro. Salii in camera a prepare le valigie tra pensieri suicidi. In fondo non ne potevo più di quella vita. F e d e r ic o P a r r i

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Le foto di questo mese non sono

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Mensile fondato e diretto da: Costanza Maremmi c.maremmi@barlumismo.org Denni Romoli d.romoli@barlusmismo.org Emidio Picariello e.picariello@barlumismo.org

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