Franco Albini. La sostanza della forma - Istituto italiano di cultura Paris

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della ricerca di una legittimazione, al di fuori delle opere, sembrano delineare la figura di un artista solitario, estenuato e romantico: quasi uno straniero alla Camus, il quale, anziché vivere in Algeri o a Orano, vive a Milano. Forse però così non è. E per chi voglia sfruttare l’occasione per capire Albini, o anche solo per leggere le differenze e le discontinuità di un mondo tutt’altro che omogeneo, come fu quello della ricostruzione, vale la pena di non fermarsi a uno slogan. Cosa significa, in architettura, rifiutare l’appartenenza e l’identità? Il piano forse più complesso sul quale esercitare tale rifiuto è quello dell’edilizia pubblica. Albini lavora sui progetti e sulle opere di edilizia pubbliche dal 1935 a tutto il primo settennio dell’INA Casa. Lo fa prima del piano INA Casa. Ma è proprio il suo rapporto con l’INA Casa a offrire al visitatore di questa mostra parigina alcune chiavi di lettura privilegiate. I piani di edilizia pubblica portano – e vieppiù porteranno attraverso l’industrializzazione della costruzione in Francia – a privilegiare la ripetizione e la ricerca di riproducibilità, ancor più che la risposta ai bisogni sociali di abitazione. Sin dal padiglione permanente del 1935, ma ancor più a cavallo del 1945-46 e sino alla fine degli anni Cinquanta, Franco Albini sceglie la strada della sperimentazione. E lo fa anche quando due condizioni sembrano imporre vincoli assai rigidi all’attività progettuale, vale a dire le norme che l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, sotto la guida di Renato Bonelli, fornisce ai suoi progettisti, il considerare la variante su una base tipologica l’incipit della vera ricerca architettonica, che proprio a Milano la fortuna degli scritti di Irenio Diotallevi e Francesco Marescotti doveva enfatizzare. È impossibile ripercorrere in poche righe un cammino di ricerca tanto meditato da diventare in certi contesti addirittura ossessivo. Se un osservatore francese volesse guardare ai progetti e alle architetture di Albini per l’edilizia pubblica, potrebbe utilmente ricorrere a tre parole chiave: trascrizione, variazione, distribuzione. La trascrizione non è solo quella di modelli. Albini è un architetto fortemente internazionalizzato e indubbiamente nelle sue piante e nei suoi disegni si riscontrano evidenti trascrizioni mitteleuropee. Ma ancor più si riscontrano trascrizioni da esperienze artistiche. E per accorgersene è sufficiente guardare a alcuni particolari essenziali del lavoro di Albini, come le tavole di progetto, autentiche narrazioni che seguono una composizione che ha al centro la pianta, e come controcanto i particolari costruttivi. Trascrizioni esistono anche nel continuo elogio della cura che Albini mette proprio nei particolari. La lettura di questi

aspetti essenziali del suo lavoro di progettista è stata quasi sempre quella del grande artigiano e della bottega dell’artista. Forse però questa non è l’unica lettura possibile. L’elogio che Albini fa della cura nei particolari – come la lampada in cima a alcuni allestimenti che illumina un soffitto nero e toglie il limite allo spazio, per fare solo un esempio – corrisponde alla trascrizione dell’ossessione surrealista del vuoto. E questo è l’indizio più difficile, ma forse anche più autentico, per capire attraverso quali termini e quali scelte culturali si definisca l’appartenenza di Albini all’universo comunista, clandestino prima e post-resistenziale dopo. Anche in questo caso, la cultura architettonica francese negli anni della ricostruzione percorre altre strade. Albini (con Franca Helg) salva la sperimentazione che aveva segnato il suo incipit progettuale, e lo fa esaltando la variazione e la distribuzione, che costituiscono le altre due tracce essenziali del suo lavoro. La variazione a partire da un elemento che caratterizzerà una data opera la si ritrova nelle piante dell’edificio INA di Parma, come in quelle dei magazzini della Rinascente di Milano, negli allestimenti delle ville (dalla Pestarini alla Neuffer, per restare agli anni 1938-40), come in quello degli appartamenti dell’INA casa nei primi anni Cinquanta, o persino nella straordinaria ricerca distributiva degli spazi interni del Pirovano. È una sperimentazione guidata dalla regola del rendere leggibile il modulo da cui è parte, e di riportare la variazione al modulo con cambiamenti minimi, quasi fosse una variazione di tono musicale. Si tratta di un atteggiamento se si vuole fenomenologico, che trova peraltro importanti echi nella cultura filosofica milanese di quegli anni da Enzo Paci a Dino Formaggio. La variazione ha come obiettivo essenziale di esaltare le capacità dell’architetto di esercitare una creazione controllata e non anarchica della composizione spaziale e funzionale, che viene verificata in primo luogo attraverso il disegno e dalla grafica del progetto. Se il visitatore di questa mostra volesse entrare nel cuore del lavoro architettonico di Franco Albini, dovrebbe partire dal disegno e dalla presentazione grafica del progetto, dall’uso delle matite e delle chine, dalla capacità di esplorare le diverse soluzioni, a cominciare sempre dalla loro rappresentazione spaziale. Di nuovo una bottega artigiana, portata all’esasperazione quando il disegno interessa un mobile? Forse no. L’autocontrollo sul processo progettuale, con tutti i sistemi interni di verifica del percorso compiuto, sono stati quasi tutti distrutti dall’autore. E anche questa è una particolarità che andrebbe indagata. A noi resta solo l’opera e quel che l’autore vuole sia 12


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