Voci dal silenzio maggio 2014

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Valeria Gramolini Istituto Comprensivo Statale “E. Fermi� Mondolfo (PU) Scuola secondaria di I grado di Monte Porzio

VOCI DAL SILENZIO

Monte Porzio cultura


Progetto, elaborazione e impaginazione: Ing. David Guanciarossa Disegno di copertina: Alessia Brunelli II F

Finito di stampare nel mese di maggio 2014


Valeria Gramolini

VOCI DAL SILENZIO Senza Parole


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VALERIA GRAMOLINI Istituto Comprensivo Fermi - Mondolfo segreteria@istitutocomprensivofermi.it Associazione Monte Porzio cultura www.monteporziocultura.it monteporziocultura@monteporziocultura.it issuu.com/guancia.david/docs


Presentazione Questo volume è il risultato di un progetto proposto dalla Dott.ssa Valeria Gramolini all’Associazione Monte Porzio cultura, la quale ha subito creduto ed aderito, perché l’argomento trattato è stato spunto di riflessione per gli alunni della Scuola Secondaria di I grado di Monte Porzio. Inoltre è diventato un modo interessante per aprire una discussione/confronto tra gli alunni, gli alunni e gli insegnati e, non meno importante, tra gli alunni e le loro famiglie. In questo ambito poi gli alunni sono stati coinvolti nella preparazione delle illustrazioni da inserire nel volume; tutti i lavori faranno parte di una mostra organizzata dalla stessa scuola. Il risultato raggiunto, come potete vedere sfogliando il volume, è veramente interessante e questo è una soddisfazione per chi ha creduto al progetto, per chi ha collaborato e soprattutto per gli alunni che vedono premiato il loro impegno. Associazione Monte Porzio cultura Il presidente Ing. David Guanciarossa


Ho letto tutto d'un fiato la storia di Valeria Gramolini poi l'ho riletta attraverso i disegni elaborati dai ragazzi delle classi I e IIF della Scuola Secondaria di I Grado di Monte Porzio dell'Istituto Comprensivo che hanno lavorato con impegno sotto l'attenta e sollecita guida dei loro insegnanti, prof.sse Alessandra Oradei e Gioia Bucarelli e del prof. Valter Gambelli. Mi è piaciuta? Sì, tanto perché "Voci dal silenzio" mi ha parlato di una diversità che non viene risolta ma, accettata e mediata riportandomi alla mente un vecchio, amato ricordo. Fra il 1999 e il 2000, insegnavo in una scuolina nell'entroterra del Montefeltro, lontana da casa oltre 70 km; mentre facevo il mio viaggio in solitudine ascoltavo la radio. In quel periodo andava per la maggiore una canzone di un complesso sudamericano, Arabe de Palo, che diceva "Depende. Da che parte guardi il mondo tutto depende"... quanta saggezza nel ritornello di una canzoncina leggera, da ascoltare nel tempo libero eppure è proprio ciò che riesce più difficile: guardare il mondo nella consapevolezza che il proprio punto di vista è uno fra tanti e diverso da quello dei tanti altri che, come noi, osservano e vivono una stessa realtà. La storia del piccolo Giosuè poeticamente ma anche molto direttamente ci dice proprio di stare attenti che tanti sono i modi di essere, di vivere, di vedere ma che il difficile è esserne consapevoli e saperli accettare. In un contesto di vita ci sono tuttavia convenzioni, regole che rendono possibile la mediazione fra le tante differenze esistenti cioè le persone, tutte uguali in quanto tali ma nessuna identica all'altra. Grazie a queste regole è possibile convivere, ridurre i conflitti, creare relazioni positive allora dove sta l'inghippo? Tutto dipende dal non passare dalla convenzione, che è una regola necessaria per far coesistere le diversità, con la convenzionalità.


Che cos'è la convenzionalità? Esiste nel vocabolario? Non so, sicuramente è però presente laddove manca una buona intelligenza emotiva per cui la capacità, insita in ogni essere umano, di riconoscere e accogliere la diversità viene soffocata. La convenzionalità rappresenta l'irrigidimento delle necessarie convenzioni per cui chi non sta in quella regola, in quello standard è a-normale, sfugge al consueto e soprattutto mette in crisi il sistema, piccolo o grande che sia. Accade al piccolo amico del delicato racconto "Voci dal silenzio" ma è accaduto anche ai suoi saggi amici del popolo dei Mutaci nella loro travagliata storia di cambiamento. Le storie vissute dai personaggi di questo piccolo testo ci insegnano che saper riconoscere e accogliere la diversità negli altri richiede la capacità di saperla riconoscere e accettare dentro di noi per giungere alla semplice ma rivoluzionaria idea che gli altri siamo noi; solo così e solo allora si potrà vivere in pace con sé e con gli altri. Ma vivere in pace con sé e con gli altri non è forse l'essenza della tanto decantata cittadinanza attiva? Sì, affermo senza alcun dubbio che per essere cittadino attivo e aiutare ogni ragazzo ad avere l'opportunità di diventarlo per primi siamo noi adulti a dover acquisire la consapevolezza della diversità, di quanto la realtà ne sia impregnata e di quanto questo valore sia anche un grande sforzo e una fatica che comporta scelte, cambiamenti adattamenti continui, sempre lì pronta a sfidarci ma anche ad arricchire le nostre vite. Loretta Mattioli Dirigente Scolastico Istituto Comprensivo Statale "E. Fermi"


Introduzione Giosuè è privo della parola fin dalla nascita. Ciò procura molta sofferenza ai suoi genitori perché trovano sempre più difficile comunicare con il bambino, il quale viene escluso anche dai suoi coetanei che non riescono a capirlo. Diventa sempre più triste, ma un giorno, attraverso un documentario televisivo, la famiglia viene a conoscenza del fatto che c’è un luogo nel mondo in cui uomini e donne, pur vivendo senza parlare, riescono a comprendersi perfettamente. È il popolo dei Mutaci. Ecco che s’accende una speranza ... Giosuè ed i suoi partono alla volta di quelle terre lontane, dove, grazie alla mediazione del prof. Shulz, un antropologo che studia quel popolo così singolare da molti anni, si avvedono che è possibile intendersi anche senza parole. Assistono a qualcosa di straordinario: il passato di quella popolazione viene proiettato come un film sulla parete di una caverna mentre il prof. Schulz “traduce” in parole il loro pensiero. È così che Giosuè ed i suoi genitori apprendono la loro storia dolorosa. Le vicende che i Mutaci hanno vissuto nel corso di tanti secoli sono simili a quelle di tutti i popoli della terra: essi hanno attraversato epoche di guerra e di tregue illusorie in cui pochi dominavano molti, prima con la forza delle armi, poi con quella persuasiva delle parole. Vi fu anche un’epoca in cui maghi ed illusionisti deformavano la realtà facendo sembrare vere cose non vere. Tutti volevano controllare e plasmare il prossimo a proprio piacimento, approfittando dell’ingenuità e dell’ignoranza, finché chi era riuscito a sopravvivere alla spada non fu risparmiato dalla pazzia.


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Solo uno sparuto gruppetto di sopravvissuti, avendone avuto abbastanza, si allontanò dal nucleo principale e cercò la pace del silenzio. Si rifugiarono in una regione montuosa, selvaggia ed incontaminata e cominciarono a meditare sulla loro storia, chiedendosi il perché di tanta violenza e stupidità. Lo fecero smettendo di parlare gli uni con gli altri e cercando nella solitudine e nel silenzio un contatto con la propria anima, con la propria voce interiore, per chiederle, se fosse possibile vivere in modo diverso da quello, cioè facendosi meno male.... E la voce interiore prima sussurrò piano, poi gridò forte e divenne coscienza. La nuova consapevolezza si diede le sue leggi che recitavano così: → ascolta te stesso e va’ diritto alla verità delle cose; → usa il silenzio per sentire il tuo cuore e captare come un’antenna l’onda del mondo; → se non hai fretta e spegni il rumore potrai entrare in risonanza con gli altri, come un diapason che vibra quando sente la sua nota; → abbi cura della natura che è tua madre, tuo padre e tua dimora, godine i colori ed i suoni: essi ti raccontano le cose della vita senza mentire; → percorri la tua strada con fiducia ed intenzionato al bene: gli uomini non impugnano armi quando da te non temono nulla; → usa la tua intelligenza per capire, non per discriminare il bello o il brutto; → quando, attraverso il reciproco ascolto, ogni essere scoprirà di non essere diverso da un altro, avendo tutti gli stessi bisogni e le stesse emozioni, allora non ci saranno più confini, né l’erba del vicino sarà più bella della nostra.


I doni della terra saranno equamente condivisi e ameremo la semplicità più dell’opulenza, la libertà dal potere più che la zavorra del potere e avremo tempo, tanto tempo per essere migliori. I Mutaci dunque, o meglio ciò che ne restava, compresa la lezione della storia e giunti ad una nuova consapevolezza, iniziarono una nuova civiltà. Da sopravvissuti agli eventi catastrofici del loro mondo forse oggi vivono, nella loro realtà parallela, come uomini del passato ma serenamente, con un senso di appartenenza alla comunità che li riporta molto indietro nel tempo, quando le cose erano molto semplici. E chissà che prima o poi non debba essere questo il destino dell’umanità, un’umanità che ancora commette molti errori ed è capace di creare anche tanta infelicità.


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Benedetta Procopio cl. II F ... Giosuè è tanto bello ma, ahimè, non piange ...

Quando Giosuè nacque non emise neppure un vagito. Scivolò fuori dal ventre della madre col sorriso sulle labbra e le manine giunte, come quelle di un angioletto, ed a nulla valsero


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i colpetti sul sedere che l’infermiera gli diede per farlo piangere, com'è in uso dalle nostre parti. Lui rimase compostamente sereno, fisso in una sorta d'imperturbabile seraficità che lasciò di stucco tutti i presenti nella sala parto. Solo la madre, benché sofferente per la fatica di farlo nascere, ricambiò compiaciuta il suo sorriso mentre lo accoglieva fra le braccia, felice di vederlo, finalmente, dopo quei lunghi nove mesi d'attesa. Protesi l'uno verso l'altra si coccolarono tutta la notte, respiro contro respiro, cuore contro cuore. A guardarli sembravano appartenere ad un altro mondo, fatto di sussurri e silenzi, di luce e calore. Neanche il padre osò avvicinarsi, per non disturbare. Erano perfetti, di quella perfezione che non si può raccontare ma solo contemplare un po' inebetiti, come accade quando si è in preda allo stupore. Stupore che dura poco a dire il vero, perché la perfezione non ha diritto d'asilo sulla terra se non per brevi istanti, il tempo di una foto ricordo ... , e poi, la bruttura avanza. Nei corridoi dell'ospedale, fra il personale medico e paramedico, cominciò a serpeggiare la voce che fosse nato un bambino muto, o forse addirittura idiota. "Oh, poveri genitori...! Giosuè è tanto bello ma, ahimè, non piange!" bisbigliavano le infermiere rattristate. Anche i nonni, quando andavano a trovarli, non potevano fare a meno di mostrare un sorriso forzato per nascondere il turbamento ed il dispiacere di quella realtà che non sapevano accettare. Per non parlare poi del padre che, nervoso e preoccupato, non riusciva ad accostarsi alla moglie ed al bimbo e si aggirava per la stanza incapace di prendere in braccio il piccolino. Per fortuna i due non si facevano impressionare da tutta quella tensione e continuarono a scambiarsi sguardi e sorrisi


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incuranti di tutti. Tornati a casa Giosuè prese a fare la vita di tutti i bambini: prendeva il suo latte, imbrattava i pannolini, giocava con le farfalle del carillon sopra la culla ... Poi cominciò a mangiare pappine e frullati, a strisciare ed a gattonare ed a giocare con i pupazzetti, quindi guadagnò la stazione eretta, prese a fare la popò nel vasino, mise i dentini ed iniziò a combinare i guai che tutti i bambini della sua età sono capaci di combinare. Papà e mamma erano contenti di come cresceva il loro figlioletto, però non osavano affrontare la questione cruciale: perché Giosuè non parlava? Neppure un suono usciva dalla sua bocca. Non aveva voce: non strillava, non piangeva, non si arrabbiava, non articolava neppure un "ma ... , pa ..., ta .. , ", anche quando cadeva e si faceva male sembrava che non fosse successo niente. Si rimetteva in piedi e sorrideva. I suoi genitori non ce la facevano a mettersi a parlare di quella "cosa", ed anche parenti e vicini tacevano per non turbare quella finta felicità. Ma col passare del tempo la faccenda non poté più essere ignorata, non fosse stato altro che per l'ostinata pretesa delle nonne di fargli pronunciare almeno una parolina. "Dai Giosuè ... , vieni a prendere la pal..., la pal.;" diceva nonna Maria mentre giocava con lui. "Giosuè, Giosuè ... , guarda cosa ti ha portato nonna Antonietta, un ca ... , un ca ... ", ma Giosuè più che andare a prendere la palla o accarezzare il cagnolino di peluche non riusciva a fare, e quelle paroline appena suggerite restarono sempre a metà. Col tempo poi il bambino cominciò a manifestare evidenti segni di fastidio nel veder comparire le due nonne sull'uscio di casa. Le guardava esterrefatto ed anche un po' dispiaciuto per non riuscire a giocare così come loro


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avrebbero voluto. Anche la madre, a vederlo sempre più turbato, cominciò a rendersi conto che la questione doveva essere affrontata una buona volta, ed a mano a mano che quest'idea maturava dentro di lei, cresceva anche l'ansietà e la difficoltà di parlare con il figlioletto nel linguaggio dei gesti e degli sguardi, come aveva sempre fatto. Non riuscivano più ad intendersi. Il loro codice segreto non funzionava più perché tra i due s'era insinuata la tristezza per quella mancanza di "normalità" che tutto il mondo gli rimandava e che stava distruggendo la loro amorevole intesa.

Martina Luna Di Stefano cl. II F ... I bambini se ne andavano delusi e a poco a poco Giosuè fini per giocare in un angoletto tutto da solo ...

Che dire poi degli amichetti dell'asilo? Dopo l'iniziale curiosità per il piccolo che non parla, i bambini, che prima avevano cercato di stabilire un contatto con lui, se n'andavano delusi ed a poco a poco Giosuè finì per giocare in un angoletto tutto da solo.


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Mamma e papà decisero quindi di portare Giosuè a fare una visita specialistica, ma purtroppo vennero a sapere che non c'era nulla da fare. Nel cervello di Giosuè mancava tutto ciò che rende possibile emettere un suono qualsiasi, figuriamoci delle parole! "Non potrà mai parlare!" Così sentenziò tristemente l'esimio Professor Girolometti. Come possiamo immaginare la famigliola tornò a casa affranta. Non c'era nulla da fare. Non rimaneva altro che accettare il fatto. Certo, sarebbe stato faticoso per Giosuè affrontare la vita in quelle condizioni, ma loro lo avrebbero aiutato con la forza del loro amore e poi restavano sempre i gesti, gli sguardi, la scrittura, il linguaggio dei muti che avrebbero imparato anche loro ..., mille modi per comprendersi e condurre un'esistenza il più possibile "normale". Amareggiati ma comunque rincuorati dal bene profondo che li univa si accingevano a consumare il pasto della sera quando uno speaker televisivo annunciò un fatto sensazionale: in una lontana ed inesplorata regione dell'Asia centrale era stata scoperta l'esistenza di una popolazione davvero singolare, battezzata dagli antropologi che li stavano studiando "i Mutaci".


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Riccardo Anniballi cl. I F ... i Mutaci ... abitavano in strani cunicoli scavati nella roccia ... coltivavano i campi ... erano molto pacifici ...

I mutaci vivevano in condizioni simili a quelle dei nostri progenitori nel Medioevo; abitavano in strani cunicoli scavati nella roccia, ma caldi e confortevoli, coltivavano i campi, tessevano ed allevavano animali. Erano molto pacifici e non avevano il senso della proprietà. E' vero che ognuno abitava la sua parte di montagna con il suo piccolo nucleo famigliare, coltivava il suo campicello ed allevava il suo piccolo gregge, però si trattava di beni in uso e non in possesso, poiché tutto apparteneva a tutti. Era la comunità nel suo insieme che decretava la distribuzione dei beni tra le famiglie a seconda delle necessità e delle capacità lavorative dei singoli nuclei.


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Niente era fisso o dato una volta per sempre: la stessa abitazione, gli arredi, semplici ed essenziali, gli arnesi da lavoro, le terre ... erano affidate ai singoli solo temporaneamente e nessuno poteva dire di qualsiasi cosa "questo è mio". Anche la gestione della prole, per quanto propria, non era esclusivamente dei genitori. I bambini, e così i vecchi, potevano essere affidati alle cure di famiglie diverse da quelle d'appartenenza. Mangiavano e dormivano dove capitava e condividevano tutto con un profondo senso di comunione fraterna, sentendosi ogni volta pienamente responsabili sia dei beni che usavano sia degli altri membri del gruppo con cui entravano in relazione. L'unica cosa in qualche modo stabile era l'istituzione matrimoniale. Una volta che un uomo ed una donna si erano scelti lo erano per sempre, anche se per le esigenze della comunità si fossero trovati a vivere in ambienti diversi. Essi sapevano di appartenersi nella profondità del loro cuore, e quest'unità nello spirito era ufficialmente sancita da uno strano rito matrimoniale celebrato in una notte di luna piena. I due sposi erano accompagnati dall'intero villaggio nella sala delle "unioni" che si trovava nel punto più alto della montagna. La stanza, addobbata di fiori e profumata d'incensi dalle donne della comunità, era riscaldata da bracieri tenuti sempre accesi dagli anziani del villaggio, e le piccole finestre scavate nella roccia erano poste in modo tale da permettere alla luce della luna che vi penetrava di direzionarsi a mo’ di raggiera, i cui fasci si congiungevano proprio sopra il talamo nuziale, avvolgendolo di una luminosità calda e dorata. Qui gli sposi trascorrevano la loro prima sacra notte sotto la benedizione del cielo e dei fratelli che li vegliavano seduti sui fianchi della montagna e li accompagnavano con il brusìo


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sommesso di un canto senza parole. Il profondo rispetto e la considerazione per l'amore e la tenerezza coniugale che il popolo dei mutaci si trasmetteva da sempre ed il sostegno della comunità a questa reciproca appartenenza, rafforzava il legame tra uomo e donna, che diventavano oggetto d'amore per tutto il villaggio, e quando uno dei coniugi si ammalava o veniva meno, la potente energia del gruppo sosteneva il dolore della sofferenza o della mancanza. Gli antropologi erano assolutamente sbigottiti dalla potente carica d'amore che emanava questo popolo. Qui non c'erano tradimenti, segreti, rivalità. Una grande armonia regnava ovunque sovrana, e dolcezza, sorrisi e gratitudine erano il pane quotidiano di questa popolazione che non comunicava a parole né aveva un linguaggio scritto, ma si parlava attraverso gli impulsi del pensiero e della mente. Ebbene sì. I mutaci erano muti, proprio come il nostro Giosuè! Gli studiosi non sapevano ancora se erano sempre stati così o se un qualche accidente avesse reso le loro vite così singolari. Certo è che essi non avevano bisogno di parole. Era come se vivessero sprofondati in un'unica grande mente, come se facessero parte di un unico grande organismo che pulsava, viveva e respirava all'unisono. A che servivano dunque le parole quando tutto era così innocente e trasparente?


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III

Angelica Massaro cl. II F ... Allora ascoltò il fruscio delle foglie mosse dal vento, il respiro greve del barbagianni appoggiato su un ramo ...

Nel vedere quelle immagini e nel sentire quella storia la mamma ed il papà di Giosuè furono percorsi da un brivido di speranza. Era proprio così anche tra loro e quel bambino, di cui sapevano e percepivano tutto anche se non emetteva verbo, ma lì, nel luogo in cui vivevano, questo non era compreso. Si sentivano un po' mutaci anche loro, mutaci in esilio e con tanta voglia di andare in quel luogo in cui le chiacchiere ed i nomi delle cose non avevano poi così grande importanza. Qui, nel mondo governato dalla fretta e dall'economia, dal rumore e dai linguaggi multimediali, non c'era posto per quelle creature del silenzio che sapevano più quello che non veniva detto che quello che veniva urlato.


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Ebbene sarebbero partiti, andati alla ricerca di quel mondo in cui l'esistenza di Giosuè avrebbe acquistato un senso, una dignità che qui non poteva avere, assieme al diritto d'essere felice per ciò che era e non per ciò che avrebbe dovuto essere. Nel giro di pochi giorni tutto era pronto. Il papà aveva preso l'aspettativa e la mamma fatte le valigie. Giosuè, felice, intuiva che sarebbe andato in un posto in cui sarebbe potuto starsene zitto senza per questo sentirsi diverso o rifiutato. Quando, dopo un lungo viaggio, giunsero in quello strano luogo dove anche la natura selvaggia ed incontaminata sembrava più viva, vennero accolti dal prof. Schulz che li accompagnò nella stanza del cunicolo in cui avrebbero abitato. Non c'erano né porte né finestre, ma solo piccole aperture da cui filtrava una luce soffusa ed una brezza leggera e profumata. Stanchi, si addormentarono, mentre il tramonto lasciava il posto alla notte. Anche Giosuè si addormentò contento, ma, dopo qualche ora, un potente raggio dì luna insinuatosi in una fessura, colpì le sue palpebre e lo fece svegliare. Allora ascoltò: ascoltò il fruscio delle foglie mosse dal vento, il respiro greve del barbagianni appollaiato su un ramo, le note stridule della civetta e, in lontananza, gli inquietanti rumori della foresta. Gli piaceva quella sinfonia di suoni così diversa dalla "musica" che di solito sentiva nel suo appartamento in città. Né clacson di auto frettolose, né rombi di motorini, suoni di tv o radioline, brusche frenate sull'asfalto o liti di vicini... Non c'era un silenzio assoluto, ma rumori profondi e sconosciuti che non lo facevano trasalire ma lo riempivano di curiosità. A tratti s'interrompevano, allora Giosuè ascoltava il silenzio che s'interponeva tra un suono e l'altro. Stava col fiato sospeso, finché a poco a poco non riuscì a scoprire il ritmo di quelle


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alternanze e ad intuire la sequenza di quei suoni, dì quelle armonie così particolari che gli parlavano di altri mondi e di altre vite. Quell'attenzione così prolungata, quella lenta attesa di nuovi rumori lo facevano sentire immerso in qualcosa di molto grande, ma nello stesso tempo gli procuravano una sensazione nuova e gradita: Giosuè si stava accorgendo di esistere. All’improvviso sapeva chi era.

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Angelica Massaro cl. II F Mentre pensava alla sua profonda solitudine Giosué non poté fare a meno di mettersi a piangere.

Era un bambino che dormiva assieme alla sua mamma ed al suo papà, ma era anche un esserino solo nello sconfinato grembo dell'universo.


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Non se n'era mai accorto prima, nella sua bella casa piena di cose, di giocattoli, nonne, zie, vicini, tv e videogiochi, parole e frastuoni. Là, la sua attenzione era rivolta a ciò che era fuori di lui, qui, invece, non poteva fare a meno di osservare se stesso: il suo piccolo corpo, la pelle dorata sotto il chiarore della luna, le manine paffutelle, il battito del cuore, il respiro che gonfiava il petto ... Diverso da tutto e da tutti, e non solo perché non parlava. Era diverso comunque, unico, suo e di nessun altro. Questo pensiero comparso all'improvviso nella sua mente gli diede forza e coraggio. Scese dal letto piano piano per non svegliare i suoi genitori ed incominciò ad incamminarsi nella penombra. Non era per nulla spaventato ma trepidante di curiosità. Uscì dalla stanza e si avviò lungo il corridoio. Era lunghissimo e stretto, saliva e scendeva e qualche lucerna qua e là l'illuminava fiocamente. Ogni tanto una fessura aperta sulle pareti sabbiose gli mandava un fiotto d'aria o gettava un debole fascio di luce su quella semioscurità. Camminò a lungo prima d'imbattersi in un piccolo laghetto alla sua destra. Un rivolo d'acqua lucente scendeva silenzioso dal fianco della montagna. La toccò e la sua mano divenne iridescente. Non ne fu sorpreso. Era come se già il suo cuore sapesse che in quel luogo magico poteva succedere di tutto. Le pareti del corridoio gli parlavano, l'aria sussurrava bisbigli alle sue orecchie e lo invitavano a proseguire. "Giosuè, non ti fermare. Procedi sempre, anche se nessuno ode la tua voce, anche se nessuno conosce i tuoi pensieri. Il mondo è anche per te, non solo per quelli che sanno fare lunghi discorsi ed incantano le platee. Spesso dalle parole traspira menzogna. Ma dal silenzio e solo dal silenzio proviene


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la verità." Giosuè annuiva sorridendo. Non sapeva se quei bisbigli provenissero veramente da quelle possenti secolari mura o semplicemente da qualche angolino del suo cuore. Certo lo rinfrancavano e gli davano quel diritto d'esistere che mai e poi mai s'era sentito d'avere. A chi interessava veramente la sua esistenza? Forse ai suoi genitori che s'angustiavano perché non era un bambino come tutti gli altri? Che magari avrebbero desiderato che diventasse un personaggio importante? Ma come poteva lui, piccolo e muto dar voce a tutte le cose che aveva dentro? Certe volte anzi gli capitava di sentirsi ancora più piccolo, sommerso com'era da tutto il frastuono del mondo. Non poteva immaginare di avere anche lui qualcosa da dire, da raccontare, da esprimere. Si era abituato a credere che non ci fosse niente nella sua testolina. Tutti lo sopraffacevano: i suoi coetanei, i genitori, i nonni..., tutti lo riempivano di regali, di compassione, di parole tenere e rassicuranti. Gli si avvicinavano e lo inondavano della loro presenza. É vero, attendevano una risposta, un riscontro alle loro attenzioni, ma aspettavano troppo poco perché Giosuè riuscisse ad inventare il modo di rendersi visibile con i mezzi di cui disponeva. Se ne andavano via sempre troppo presto e lui, alla fine, smise di cercare le cose dentro. Guardava semplicemente il mondo che si spiegava vorticosamente davanti ai suoi occhi e sorrideva. Sorrideva sempre. Gioiva almeno di quella imperturbabile serenità con la quale affrontava le cose della vita e con cui riusciva a rinfrancare quanti, turbati ed ansiosi per qualche problema, incrociavano per caso i suoi occhi profondi e quieti. Ma ora che aveva scoperto di avere anche lui un universo


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che lo abitava si rendeva conto anche di essere profondamente infelice. Oh, quante cose avrebbe voluto dire o fare, quanti desideri aveva nascosto anche a se stesso, vinto dall'abitudine di non riuscire ad esternarli! Avrebbe sì voluto giocare con la piccola Desireè che si allontanò da lui rifugiandosi tra le braccia della madre dicendo delusa: "Ma non parla!" . Avrebbe voluto sì partecipare a tutti i giochi che i suoi compagni gli proponevano ed anzi ne aveva anche di nuovi da suggerire, ma come fare? Riusciva solo a far capire se era d'accordo o meno e poche altre cose ... Mentre pensava alla sua profonda solitudine Giosuè non poté fare a meno di mettersi a piangere. Ma ... , che strano! I suoi singhiozzi sembravano moltiplicarsi nel vuoto silenzioso di quel lungo corridoio. A poco a poco tutta l'aria risuonò del suo dolore ed un gemito prolungato e sommesso sembrava trasudare dalle pareti, come se quei muri desolati piangessero anch'essi assieme a lui, singhiozzassero e distillassero lacrime. Giosuè fu come sollevato in alto da quel suono che si uniformava al suo. Era dentro il suono, anzi, era il suono. Era il suono della sua voce singhiozzante che finalmente percepiva e lo scuoteva tutto, avvolgendolo in una specie di vortice. Era bello non sentirsi più soli. Neanche tra le braccia della madre s'era mai sentito così in compagnia. Giosuè chiuse gli occhi e si lasciò andare alla dolcezza di quella sensazione e piano piano si addormentò.






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Myriam De Costanzo cl. II F ... mille occhi accesi nel buio cunicolo lo stavano osservando ...

Quando si risvegliò trasalì dallo spavento. Mille occhi accesi nel buio cunicolo lo stavano osservando. Chi erano? Dove era finito? La paura ebbe breve durata. A poco a poco attorno a quegli occhi cominciarono a delinearsi i contorni di visi rassicuranti e sorridenti e, da qualche parte del suo essere, Giosuè percepiva parole come "Non temere ... , siamo tuoi amici... Noi abitiamo qui e come te non parliamo ma comunichiamo tra di noi con i nostri pensieri,..". Giosuè cominciò a sorridere. "Vedi..., ci stai comprendendo anche tu. Quello che conta non è ciò che si dice ma le intenzioni che si hanno nel cuore: quelle non mentono mai!"


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"Ma come fate?" pensò Giosuè. "Ci stai chiedendo come ci riusciamo, vero?" "Oh si." rifletté Giosuè, mettendosi a ridere tutto soddisfatto per essere stato compreso. "Bè, è una storia molto lunga", pensò il più vecchio del gruppo. "Per ora accontentati di sapere che siamo qui perché abbiamo sentito il tuo dolore. Anche se lo esprimi in una lingua che non è la nostra l'abbiamo capito ugualmente e siamo venuti a consolarti. Non amareggiarti, caro bambino! Vedi com'è facile intendersi quando ci si pone in ascolto? Certo non conosci la lingua del vento o dei fiori, ma ne comprendi ugualmente i messaggi. Parlano di bellezza e di potenza, come ogni cosa in natura. Anche la parola è bella e potente, ma noi abbiamo preferito sacrificarla per amore del silenzio che non tradisce", sentenziò Il vecchio. "Perché non gli facciamo vedere le nostre case?" , domandò il più piccolo. "Certo ... Vieni Giosuè", e così pensando lo presero per mano e lo condussero a visitare le loro abitazioni, spiegandogli come vivevano. Il bambino visitò le stanze chiuse nella montagna in cui abitavano quegli inconsueti ospiti. Erano ampie ed avvolte in una rassicurante penombra. Strani fasci di luce provenienti da qualche lontano pertugio scavato nella roccia gettavano guizzi di chiarore lunare in quelle zone che i mutaci avevano destinato ad ambienti di lavoro: le cucine, i laboratori di falegnameria e quelli in cui venivano costruiti gli utensili, le aule scolastiche, gli spazi del gioco dei bambini e quelli delle riunioni dei grandi. I luoghi invece destinati al sonno ed al riposo erano oscuri e posti lontano, in profondità. Qui la luce era quasi assente ma doveva esserci ugualmente qualche canale di collegamento con


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l'esterno perché l'aria era pulita e leggera. I soffitti erano altissimi, soprattutto quello della sala più grande, dove i mutaci si riunivano per feste e cerimonie. Era un luogo bellissimo, attraversato da piccoli ruscelli che formavano qua e là laghetti trasparentissimi. Lo stillicidio dell'acqua risuonava nell'ampia grotta creando sottili echi che si diffondevano nell'aria, originando una melodiosa sinfonia di note e suoni diversi ma straordinariamente armonici. Un'unica grande onda di luce scendeva dall'alto, rischiarando il centro della grotta come un potente riflettore. Tutte attorno rocce a forma di canne d'organo si ergevano eleganti e possenti dal suolo verso l'alto, e viceversa, scendevano dalle alte volte, creando una scenografia suggestiva e magica. I colori delle stalattiti e delle stalagmiti erano variegati e tenui, dal rosa al turchese, e la loro maestosa potenza ricordava a Giosuè le colonne di un tempio che aveva visto una volta in Sicilia con i suoi genitori. Erano lucenti e percorse da venature iridescenti rosa e verdi, come impreziosite da rubini e smeraldi. Giosuè era sbigottito ed estasiato ed il suo stupore, colto col pensiero dai mutaci, riempiva costoro di soddisfazione. Sì, era proprio un luogo meraviglioso! Ad un tratto l'attenzione del bambino fu catturata dall'imboccatura di una galleria profonda ed oscura. Un uomo del gruppo, avvertita la sua curiosità, gli comunicò telepaticamente che per il momento non gli avrebbero fatto visitare quell'ambiente. C'era tempo. E così lo riaccompagnarono verso la sua stanza, dove ancora i genitori stavano dormendo, e si accomiatarono da lui.


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VI

Noemi Olivieri cl. II F Giosué era perfettamente a suo agio tra di loro. Giocava finalmente con i bambini così come aveva sempre desiderato.

Giosuè prese posto nel letto e con l'animo ancora stupefatto si addormentò. L'indomani, al risveglio, avrebbe voluto raccontare a mamma ed a papà l'avventura della notte, ma, ancora una volta, dovette arrendersi alla sua impotenza. Quando il prof. Schulz li venne a chiamare per la colazione Giosuè fu molto contento, perché intuiva che di lì a poco anche i suoi genitori sarebbero venuti a conoscenza dell'incredibile mistero che lui già sapeva ma non poteva raccontare. L'antropologo che studiava da anni i mutaci, assieme a due di loro che Giosuè aveva visto la notte precedente e che gli lanciarono un complice sguardo d'intesa, li accompagnò a


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visitare i luoghi che lui aveva già visto e spiegò loro come quelle persone fossero in grado di comunicare telepaticamente. Visitarono anche l'esterno della montagna, i campi, le officine laboriose, le stalle ed il lontano cimitero lungo il fiume in cui i mutaci seppellivano i loro morti, tumulandoli sotto grosse pietre. A mano a mano che anche mamma e papà s'inoltravano in quel magico mondo sembravano trasformarsi anch'essi. I loro corpi, sempre un po' rigidi per la tensione della fretta e della preoccupazione si stavano rilassando. I loro volti erano distesi e sereni e pareva che cominciassero a guardare il loro figlioletto in modo diverso. Non si preoccupavano più di riversargli addosso fiumi di parole e di attenzioni ma lo guardavano sorridendo e quasi compiaciuti. Si stavano avvicinando all'intima realtà del loro bambino senza l'ansia di trasformarlo in qualcosa di perfetto e di socialmente accettabile. Cominciavano ad amarlo per ciò che era veramente e non per ciò che avrebbero desiderato che fosse. Finalmente, calati in quell'universo così silenzioso, in cui erano loro ed il prof. Schulz ad apparire diversi, non potevano far altro che considerare come le cose possono mutare di senso quando si cambia la prospettiva da cui si osservano. Finalmente si rendevano conto di quale grande sforzo dovesse fare Giosuè per essere compreso in una società densa di suoni, rumori e parole, di quanto fossero impositivi nel loro tentativo di farlo diventare come tutti gli altri bambini e del disagio che si prova a sentirsi così soli e diversi. Il soggiorno nella patria dei mutaci stava scardinando tutte le loro certezze. Quelle persone che comunicavano senza parole vivevano in profonda armonia l'uno con l'altro. Erano gentili, mai


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competitivi, sereni ed estremamente generosi con i propri simili, di cui comprendevano bisogni e desideri. Ed inoltre potevano fare a meno di tutte quelle comodità, oggetti ed ausili tecnologici di cui è ricco il nostro mondo! Si accontentavano della gioia che procuravano le piccole cose: una buona pietanza, un fiore che sboccia, un tramonto, un giorno di sole dopo uno di pioggia. Giosuè era perfettamente a suo agio tra di loro. Giocava finalmente con i bambini così come aveva sempre desiderato, non si sentiva mai sopraffatto e si muoveva con una sicurezza inimmaginabile nella società da cui proveniva. Era tra la sua gente, finalmente! Al contrario mamma e papà, pur felici di quel cambiamento, si sentivano un po' come pesci fuor d'acqua e nonostante facessero anch'essi ormai a meno di tante parole, non riuscivano a far propri quei silenzi, non comprendevano i mutaci come Giosuè, e tendevano ad isolarsi ed a chiacchierare con il prof. Schulz per riconfermare la loro identità di persone parlanti. Erano disorientati, tanto più che ora il bambino preferiva quasi più stare con quelle persone che con loro. I mutaci naturalmente si erano resi conto di ciò e se ne dispiacevano. Ma come insegnare a quelle persone il linguaggio del silenzio oltre a quello dei gesti con i quali comunicavano in ogni caso le questioni più semplici? Era giunto il momento della grande rivelazione. Sì, avrebbero dovuto comunicare anche a loro il segreto di quelle esistenze così felici. Questo decisero all'unanimità la sera del Gran Consiglio.


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VII

Martina Luna Di Stefano cl. II F ... il prof. Shulz prese a tradurre in parole quanto gli rimandavano col pensiero i suoi muti interlocutori ...

Il giorno successivo il prof. Schulz convocò la famigliola spiegando che sarebbe stato un giorno speciale. I mutaci intendevano fargli dono del mistero della loro conoscenza, però non avrebbero dovuto raccontare a nessuno quanto avrebbero visto. Mamma e papà promisero solennemente di rispettare quel divieto, quindi, silenziosi e composti, si avviarono verso la sala del Gran Consiglio dove i mutaci li attendevano. L'atmosfera era grave e profonda. L'uomo e la donna più vecchi si alzarono in piedi ed a turno interloquirono silenziosamente con il prof. Schulz che così tradusse in parole i loro pensieri:


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"Non basta tacere per comprendere in profondità ciò che c'è nel cuore di un uomo e trasmettergli ciò che c'è nel nostro. Anche i pensieri sono fatti di parole e desideri, ed anzi il pensiero è a volte più potente della parola e può condizionare la mente di un altro uomo più di mille parole. La lunga e dolorosa storia del nostro popolo ci ha insegnato che le parole possono fare molto male e ciò che vedremo tra poco lo dimostrerà. Ma esse sono solo un fatto esteriore. Vi sono altre parole che possono fare ancora più male. Sono quelle che diciamo a noi stessi. Se la nostra mente formula il pensiero "voglio possedere tutta la ricchezza del mondo" ecco che tutto il nostro comportamento diventa servo di quelle parole. Allora ciò che diremo ai nostri simili sarà conseguente a ciò che abbiamo detto a noi stessi. Li plageremo, li useremo per i nostri scopi, li inganneremo, finché il nostro desiderio non sarà soddisfatto. Questo è accaduto al nostro popolo ed il carico di dolore è stato così grande che, dopo esserci fatti tanto male, abbiamo deciso di costruire un mondo totalmente diverso, a cominciare da noi stessi. Abbiamo deciso di tacere l'uno con l'altro non solo nelle parole ma anche nelle intenzioni; soprattutto abbiamo deciso di tacere con noi stessi, cioè di pacificare i nostri cuori liberandoli dal desiderio di conquista e di potenza. Oramai da molto tempo non parliamo più il linguaggio del volere, ma quello dell'amore, ed è il cuore e non la mente il nostro veicolo. Da quando abbiamo fatto questa scelta la nostra esistenza si è colmata di gioia e credo abbiate potuto costatarlo. Ma ora andiamo e capirete meglio ... Seguiteci".


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VIII

Alessia Brunelli cl. II F A poco a poco la parete d'acqua cominciò a turbinare e si tinse all'improvviso di colori cangianti e fluttuanti e poi di immagini.

Si avviarono dunque verso quel misterioso ingresso che Giosuè aveva intravisto la notte del primo contatto con i mutaci. Spostata dai quattro uomini più robusti la pesante pietra che chiudeva l'accesso al segreto cunicolo il gruppo s'inoltrò in un lungo e stretto labirinto di corridoi e viuzze. Qui non c'erano prese d'aria e neppure fiotti di luce provenienti dall'esterno, ed i passi erano guidati dalle flebili fiammelle delle lucerne ad olio che alcuni mutaci recavano con sé. Dopo un faticoso ed impervio percorso tra strettoie e gallerie che si potevano attraversare solo strisciando, quel muto drappello giunse in un'ampia stanza dalle pareti altissime


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scavate nella roccia. Qui finalmente si respirava bene ed anzi l'aria era davvero salubre, come in cima ad una montagna. Ad un segno del piÚ anziano gli uomini e le donne si sedettero in circolo. L'attenzione di Giosuè intanto si spostò verso una delle pareti da cui scendeva quieta e lucente un'ampia e sottile vena d'acqua. Allora di nuovo il prof. Schulz prese a tradurre in parole quanto gli rimandavano col pensiero i suoi muti interlocutori: "Il popolo dei mutaci non fu sempre muto e pacifico. Come tutti gli uomini della terra anche noi, ad un certo momento del nostro sviluppo, maturammo la capacità di esprimerci con il linguaggio orale e scritto e come tutti gli abitanti del pianeta fummo presi dall'orgoglio per la nostra intelligenza e per il potere che ne derivava. Combattemmo con le popolazioni vicine per assoggettarle ed impadronirci delle loro ricchezze, facemmo razzie, bruciammo villaggi uccidemmo donne e bambini.

Noemi Olivieri cl. II F ... e di nuovo impugnavamo le armi e facevamo scorrere fiumi di sangue...


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Siamo anche noi figli e discendenti di uomini violenti e malvagi, che stavano quasi per autodistruggersi perché il desiderio di conquista cominciava a divorare le coscienze e li poneva addirittura gli uni contro gli altri. Finché finalmente capirono e ... capimmo." L'uomo che inviava i suoi pensieri al prof. Schulz fece un cenno alla sua gente. Allora tutti si presero per mano e direzionarono lo sguardo verso la parete che trasudava acqua. L'espressione dei volti era seria e profonda. Essi stavano pensando molto intensamente ed uno straordinario calore prese ad emanare dai loro corpi immobili, come se un invisibile cerchio d'energia percorresse quei corpi muti passando attraverso le mani strette le une alle altre. A poco a poco la parete d'acqua cominciò a turbinare e si tinse all'improvviso di colori cangianti e fluttuanti e poi d'immagini. I nostri amici erano esterrefatti. Come uno schermo cinematografico la parete rimandava sequenze e bagliori di combattimenti, di sangue, di devastanti violenze. Anche l'aria si riempì di suoni di battaglia, di grida di morte, di cozzare di ferraglie. Il prof. Schulz continuò: "Nella nostra mente giace la memoria storica del nostro popolo. Tenendoci per mano le energie del singolo si collegano a quelle degli altri e diventano così potenti da operare guarigioni e da trasformarsi in immagini. Quelle che state vedendo sono le tracce del nostro vissuto, passate di generazione in generazione attraverso il nostro patrimonio genetico. Esso ci rimanda il ricordo della violenza; ma anche quello del dolore e del pentimento, e la volontà di rinascita. Vedete, vi fu un tempo in cui capi e figure carismatiche s'imponevano con la forza persuasiva delle parole. Le nostre coscienze erano deboli e piene di passioni e bastava qualche


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discorso ben fatto ad infervorare i nostri cuori. Ci dicevano "dobbiamo sterminare i nostri vicini, altrimenti essi stermineranno noi", e senza riflettere obbedivamo ciecamente a quel richiamo. Ci dicevano "Se vogliamo crescere e prosperare e dare un futuro ai nostri figli dobbiamo assoggettare quella città", e di nuovo impugnavamo le armi e facevamo scorrere fiumi di sangue. Ci dicevano "se riusciamo a produrre più del nostro vicino e ad avere più cose di lui saremo felici" , e noi cominciammo ad alzare la spada contro i nostri stessi fratelli. Nessuno pensava con la propria testa, eravamo semplici esecutori dei desideri di altri che ci plagiavano con il potere della parola. Ed anche quando divenne scritta e fu trasferito su tavole e pergamene il giusto e l'ingiusto, ciò che è bene e ciò che è male, nulla cambiò. Solo in apparenza quelle parole parlavano di giustizia, ma la sostanza dei fatti era ben diversa." Mentre il prof. Schulz parlava sulla parete d'acqua si formavano sequenze di parole scritte e nell'aria si diffondeva, come se provenisse da lunghissime distanze, i1 suono della loro pronuncia: erano segni strani ed incomprensibili come strano era il linguaggio che li definiva, fatto di suoni aspirati e pronunciati con un ritmo alternato di passi veloci e lunghe pause. "Col tempo - proseguì il prof. Schulz - la nostra popolazione fu quasi decimata dalla sua stessa violenza. Ognuno, per sopravvivere, doveva far propri gli stessi sistemi di coloro che li governavano: la forza persuasiva delle parole, l'inganno, la menzogna, la prevaricazione e ritorcerla contro i propri fratelli, finché un giorno alcuni di noi cominciarono a ribellarsi, ma non apertamente. Sarebbe stato


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troppo rischioso. Lo fecero di nascosto, nel segreto delle loro menti. Impararono a non cedere più a quel richiamo, uscirono dalla suggestione, si chiusero in un assoluto mutismo e cominciarono ad esplorare se stessi, scoprendo il potere che viene dal silenzio e la forza misteriosa della concentrazione. Furono essi a salvarci con quei nuovi poteri che venivano dalla mente. Li chiamarono maghi, perché col tempo, affinando le loro conoscenze, divennero capaci di cose straordinarie. Essi seppero creare illusioni così strabilianti da rendere vana ogni altra forma di potere. Sapevano far crollare ponti, spostare nuvole, torcere spade, trasformare uomini in capre e piante in elefanti. Guardate, guardate ... !", esclamò il prof. Schulz. Lo schermo era inondato di prodigi e magie: donne volanti, draghi trasformati in pulcini, re e soldati sollevati in aria e catapultati come teneri fuscelli contro i fianchi delle montagne ... "I maghi liberarono il nostro popolo dal giogo dell'oppressione della violenza e della parola, ma purtroppo col tempo essi divennero i nostri nuovi oppressori. La gente non sapeva far più niente senza di loro e ad essi si rivolgevano per qualsiasi questione. Non erano finiti i desideri, erano solo cambiati. Tutti volevano per sé il potere silenzioso dei maghi, cioè quello di far apparire la realtà diversa da com'è. Non c'era più bisogno d'impugnare armi o di convincere il prossimo con la menzogna. Bastava saper creare un'illusione o agire sulla volontà dell'altro col potere della mente ed il gioco era fatto. Nel giro di qualche decennio il nostro popolo che aveva rinunciato alla parola ed alle armi continuava a voler plagiare il prossimo con la forza del pensiero, che ormai, con l'uso di


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tecniche sempre più sofisticate, era diventato ancora più invincibile. Finché anche stavolta la natura ci obbligò a cambiare direzione. Come potete vedere dalle immagini questo nuovo modo d'esistere condusse molti alla pazzia. Non si può vivere a lungo in un mondo pervaso da illusioni. Si finisce per perdere ogni contatto con la realtà e con la propria identità. Non si sanno più riconoscere le proprie genuine passioni, al contrario si rischia di far proprie le volontà degli altri. Essi dunque cominciarono a capire che ciò che andava distrutta non era tanto la parola quanto la volontà di potenza. Dovevano semplicemente tornare a chiedersi "Chi siamo veramente? Cosa fa il nostro benessere? Forse ridurre gli altri alla nostra mercé? Non è meglio liberarci di tutti quei desideri che ci spingono sempre a cercare di strappare qualcosa al nostro prossimo? Non è meglio vivere nella semplicità dei fatti? Nella semplice essenza della vita?" Così un piccolo gruppo di mutaci decise di allontanarsi dal ceppo d'origine, che nel giro di qualche decennio finì miseramente travolto dalla più totale follia e si estinse. I superstiti, continuando la pratica del silenzio, cominciarono ad attuare anche quella del non desiderio. La loro attenzione all'inizio fu semplicemente rivolta a se stessi. " Chi sono? Cosa voglio veramente?", si chiedevano. Così facendo si accorsero di essere semplicemente uomini tra altri uomini, creature deboli ed un po' sognanti, spaventati dalla vita perché sperano che sia diversa da com'è. La lunga pratica del silenzio e dell'ascolto del proprio cuore, delle proprie paure ed emozioni, acquietò il fermento della mente e così, pacificati con se stessi, furono in grado di vedere ciò che prima sfuggiva al loro sguardo. Prima cosa tra tutte la natura, amica e sorella e non serva.


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Cominciarono a rispettarla e ad amarla. Lo stesso avvenne con i loro simili. Guardando gli altri esseri senza più alcun desiderio di potenza nei loro confronti essi impararono ad udire le profonde vibrazioni che emanano da ogni creatura e compresero che l'oppressione nasce dalla paura di essere aggrediti, ma che, se si coltiva l'idea che non c'è nulla d'aggredire o da difendere, allora cala anche ogni resistenza ed ogni sopraffazione. Essi impararono a fidarsi gli uni degli altri e scoprirono la gioia della resa. La verità più profonda è che siamo tutti uguali e che la diversità è solo apparente. Percepirono tutto questo dopo un lungo allenamento all'ascolto che noi abbiamo ereditato ed affinato e che ci ha condotti a vivere nel modo in cui sapete. Oggi noi siamo in grado di avvertire i pensieri dei nostri fratelli quando ci chiedono aiuto, di sentire le loro emozioni, di cogliere i mutamenti della natura, di comunicare in profondità con gli altri esseri che praticano la nostra stessa via. É vero che ognuno di noi conserva ancora il suo specifico "IO" ma siamo in grado di dilatarlo e di metterlo in comune con quello degli altri, così come stiamo facendo ora, qui, mentre ci teniamo per mano e diventiamo un unico grande IO, un unico grande essere il cui scopo è rendervi partecipi del nostro mondo, della nostra gioiosa armonia. Potremmo, è vero, tornare a parlare, nulla ce lo impedisce, anzi sapremmo anche fare buon uso della parola ora che abbiamo compreso i suoi inganni. Forse un giorno lo faremo. Ma per il momento crediamo sia meglio coltivare ancora l'essenza del silenzio perché pensiamo che possa rivelarci molte cose che non conosciamo. Del resto, vedete, grazie al prof. Schulz, che ormai è uno di


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noi, siamo perfettamente in grado d'intenderci. Quanto a Gìosuè, bè, lui ci capisce da sempre, non è vero?" Il piccolo sorrise compiaciuto e guardò i suoi genitori che erano rimasti allibiti da quello che avevano visto ed udito. "Vi chiediamo solo di non diffondere il nostro segreto, almeno per ora. L'umanità non è ancora in grado di capire e farebbe un cattivo uso di questa conoscenza. Dovrà rendersi conto da sola, passando attraverso il dolore, che c'è un altro modo di vivere su questa terra diverso dalla violenza e dalla sopraffazione. Noi ci siamo riusciti ma l'abbiamo desiderato intensamente." Detto ciò l'anziano fece un segno ed i mutaci interruppero quel cerchio magico, mentre le immagini sulla parete d'acqua si dissolsero. Tutto tornò come prima. Allora il prof. Schulz chiese agli ospiti se avessero qualcosa da dire, ma essi non fiatavano. Erano comprensibilmente disorientati. Giosuè si alzò in piedi e rivolto all'assemblea formulò pensieri di ringraziamento. Tutti sorrisero. Infine andò verso i suoi genitori e li guardò intensamente, ma essi continuavano a non capire. Allora il prof. Schulz tradusse: "Vi ringrazio di essere come siete e di avermi portato qui, tra la mia gente. Vi prego di fare un ultimo sforzo. Lasciatevi insegnare il linguaggio del silenzio e poi torniamo nel nostro mondo, per donare ciò che abbiamo imparato a quelli che ne sentono il bisogno. I genitori annuirono commossi e silenziosi. Erano pronti per cominciare. Per cominciare a fondere il loro Io con quello degli altri, per cominciare a vivere nell'amore. Avrebbero solo dovuto lasciarsi andare fiduciosi al silenzio, dimenticando se stessi e la loro voglia di trasformare le cose. Allora le cose si sarebbero trasformate. A cominciare da loro stessi.


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IX

Alessia Brunelli cl. II F ... non ho mai visto gente più felice ed è per questo che vi racconto la loro storia ...

E così accadde. Quando fecero ritorno in patria parenti ed amici stentavano a riconoscerli, ma erano colpiti ed affascinati dalla loro semplice presenza. Essi non raccontarono che a pochi ciò che avevano visto e sentito in quel viaggio. Ripresero la vita di sempre ma ormai niente era più lo stesso. Ogni tanto si sentivano telepaticamente con i mutaci a cui raccontavano la fatica di vivere quasi tacendo in un mondo devastato dai rumori e dalle parole. Ma essi li incoraggiavano a proseguire, a cercare luoghi e persone in grado di comprendere quel messaggio d'amore. Così fecero. A poco a poco persone mute e non, ma potentemente intenzionate a scavare nel potere del silenzio, si


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avvicinarono a questa piccola e strana famiglia ricavandone un gran senso di pace. Ed io, che ho avuto modo di conoscerli, vi assicuro che non ho mai visto gente piÚ felice ed è per questo che vi racconto la loro storia. PerchÊ anche voi, come me, cominciate a credere anche alle cose impossibili.


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Postfazione Perché questo racconto Ho sentito l’esigenza di scrivere questa storia perché volevo affrontare il tema della incomunicabilità, oggi così diffusa benché (o forse proprio perché) siamo totalmente immersi in un mondo pieno di mezzi di comunicazione. È sempre più difficile trovare luoghi e tempi per scambiarsi idee e costruire relazioni vere e profonde. Ciò vale, oltre che per gli adulti, anche per i ragazzi i quali, sottoposti ad ogni genere di stimolazioni, sono sempre piuttosto irrequieti, eccitabili e poco concentrati (se li confrontiamo con le generazioni precedenti). Passando molto tempo al computer e comunicando più con messaggi telefonici che con rapporti diretti si perdono nei loro mondi virtuali a discapito di esperienze vere e tangibili, come ad esempio quelle con la natura o con la manualità. Abilissimi e velocissimi nella gestione di attrezzature tecnologiche ed annoiandosi mortalmente quando non ne dispongono trovano difficile approcciarsi alla realtà o risolvere qualche problema senza l’ausilio di apparecchiature elettroniche, che desiderano spasmodicamente non appena il mercato lancia l’ultimo esemplare. Ebbene, trovo che in tutto questo ci sia un che di preoccupante, un’induzione all’automatismo che non fa bene né al pensiero né alla riflessione, un segno distintivo della nostra epoca che sarebbe bene osservare in modo critico e non subire con cieca fiducia. Ho scritto questo racconto con la speranza che il suo contenuto potesse stimolare i ragazzi ad osservare i propri comportamenti ed a confrontarli con quelli dei protagonisti della storia, uomini e donne che hanno fatto del silenzio, della


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lentezza e della semplicità gli strumenti di una comunicazione profonda che non ha bisogno di apparecchiature elettroniche e che permette anche ad un bambino problematico di essere compreso e pienamente accettato, più di quanto non accada nel nostro mondo superficiale e distratto, dove non c’è mai tempo.... Volevo che essi provassero ad immaginare di vivere come i Mutaci, per scoprire se quelle esistenze frugali e povere di beni e tecnologia non fossero invece ricche di qualcosa d’altrettanto importante, che sarebbe bene preservare e non gettare alle ortiche. È sotto gli occhi di tutti che i valori che oggi vanno per la maggiore siano la bellezza, il successo, il denaro, l’individualismo, il rifiuto dell’imperfezione, la competitività ad oltranza. Tv, manifesti pubblicitari, internet ... li diffondono a piene mani condizionando tutti quanti a credere che la felicità sia legata al possesso delle cose. Ecco allora che tutti desideriamo far nostri quegli stili di vita con ovvie conseguenze psicologiche e comportamentali. Siamo insoddisfatti, frenetici, invidiosi, aggressivi, noncuranti del prossimo di cui non ci fidiamo, morbosamente attaccati a ciò che possediamo e che desideriamo accrescere. A parole condanniamo la guerra ma, di fatto, siamo perennemente in guerra con i nostri rivali e con la nostra “inettitudine”, quando non riusciamo ad essere abbastanza furbi. Ciò che spesso ci sfugge è che non siamo noi ad aver creato questi modelli di riferimento, ma è il mercato, il mondo degli affari, il business mondiale ad illuderci con i suoi miraggi e noi ci caschiamo in pieno. Ma a quale prezzo? Oltre il fatto che paghiamo sempre con moneta sonante i segni della nostra posizione sociale, per mantenere la quale molti sono disposti a vivere un’esistenza frenetica, magari


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svolgendo due o più lavori, c’è il costo non quantificabile di ciò che perdiamo e che alla fine diventa un costo collettivo. Ho voluto dunque proporre questa piccola storia per riflettere insieme sulla nostra civiltà e sui valori che si è data, considerando la scuola luogo d’eccellenza per affrontare l’argomento. Un racconto sull’avventura dell’uomo nel mondo, attraverso le diverse epoche che l’hanno contrassegnata, e, per ultima quella della realtà virtuale, forse la più pericolosa. Oggi l’offerta delle illusioni è sconfinata: dalle amicizie e dagli adescamenti sessuali che nascono sulla rete al fiume di informazioni o false notizie che l’attraversano, dalle devastanti droghe facilmente reperibili ai nuovi maghi che prevedono il futuro, dalla fascinazione dei divi musicali alla crescente follia del gioco d’azzardo.... Ritengo che oggi educare significhi anche “demistificare”, cioè fornire ai ragazzi gli strumenti non solo tecnologici ma anche di “pensiero filosofico” attraverso i quali filtrare quel bombardamento mediatico che induce comportamenti impulsivi e non riflessivi. Mi auguro che, per quanto minimale, questa lettura accompagnata dalle illustrazioni realizzate dai ragazzi, possa farli sentire protagonisti attivi di un momento di “meditazione”. Mi auguro anche che, pur se non condiviso, il messaggio che ho cercato di lanciare, sia stato soppesato come un punto di vista sulle vicende umane diverso ma ugualmente rispettabile. È stata la mia storia personale ad avvicinarsi al valore del silenzio quale momento indispensabile per riuscire a cogliere con maggior chiarezza certi eventi particolari e generali. Non sono andata in Amazzonia come sognavo da bambina,


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ma ho camminato a lungo da sola nei boschi e tra i monti, dormito sotto le stelle, ascoltato il fruscio del vento, il gorgoglìo dei ruscelli e il canto degli uccelli senza altro rumore se non il battito del mio cuore. Ho avuto paura, l’ho affrontata, l’ho accettata e spesso superata. Ho frequentato monasteri sperduti sui monti, incontrato lama tibetani e compreso lingue che non conoscevo; serpi, daini e cinghiali mi hanno attraversato la strada senza reciproci spaventi e sono stata molto più felice di fare quelle esperienze che di passare un pomeriggio in un centro commerciale perché lì mi sentivo viva. Ho capito, come i Mutaci, che è più importante la qualità dei rapporti umani che la quantità delle cose possedute, che collaborare riempie la vita mentre competere la svuota, che quando si va piano si vedono più cose, che rinunciando a conoscere qualcuno solo perché non è perfetto ci priva di grandi emozioni, che se tutti per un po’ facciamo silenzio possiamo affinare il nostro orecchio, così come fanno i cani che hanno un udito tanto sottile e raffinato da cogliere anche gli ultrasuoni. Sono abbastanza grande da sapere che si potrebbero fare cose meravigliose se solo passassimo più tempo a guardarci dentro. Quando il mare è agitato l’acqua è torbida, ma, non appena si acquieta, ecco che il fondo si rivela in tutto il suo splendore: pesci, conchiglie, sassolini colorati .... Ecco ciò che ci serve: quella quiete interiore che ci permetta di meravigliarsi della vera bellezza nascosta nel nostro cuore. Non aspettiamo di diventare dei sopravvissuti per trovarla!


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CLASSE IF

CLASSE IIF

AMORELLO SIMONE ANNIBALLI RICCARDO BRUSCHI ALICE CATALANO ANTONIO CHIAPPERINI GABRIELE DANGLLIA ALESSIO DEL BALZO RUITI SOFIA DENG YAN DONNINI GENNY FRANCESCONI JOANNA GASPARINI SARA GOFFI ALICE KALESHI ELTON LEONARDO ASIA MASSI MATILDE PAOLINI TOMMASO PIAGGESI KEVIN ROMAGNOLI RAFFAELE SILVESTRINI DANIEL VERGONI VERONICA

ANDREOTTOLA FRANCESCO BRUNELLI ALESSIA BUONANNO LUIGI CHEN JIA MING CHOUKRI WISSAL CORTESE GRETA DE COSTANZO MYRIAM DI STEFANO MARTINA LUNA FAKIRI AKRAM GIAMMATTEI LUCA GUAZZARONI JESSICA ILIES RAZVAN FLORIN MAGHNI KHAOULA MANCINI NICOLO’ MARCONI LORENZO MARTINO SIMONA MASSARO ANGELICA OLIVIERI NOEMI PELLEGRINO NICO PETRE MIHAI VICTOR PIERETTI MARZIO PROCOPIO BENEDETTA SANTUCCI MARIA SPERANZINI VITTORIO TITTI NICOLAS ZHAN JIA YU HONG ANGElA

Prof.ssa Alessandra Oradei (II F) Prof.ssa Gioia Bucarelli (I F) Prof. Walter Gambelli (I e II F) Anno scolastico 2013-2014


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