Spigolature 2

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Hanno Collaborato: Sauro Esposti Pietro Bedini David Guanciarossa Mauro Zandri Luca Gemignani POESIE Pietro Bedini Graziella Savelli Amedeo Paolini Valeria Gramolini Enrico Vergoni

Ideazione e coordinamento generale Ing. David Guanciarossa Editing dell’opera Ing. David Guanciarossa Grafica di copertina Ing. David Guanciarossa Segretaria di redazione Sabrina Grossi, Giuliana Olivieri Fotografie Archivio Comune Monte Porzio Archivio Parrocchiale Archivio Ivo Serra Archivi personali degli autori Internet


SPI GOL ATURE 2 Fatti e personaggi Monte Porzio – Castelvecchio e ...

2015

Associazione Monte Por zio cultura


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L ibr o pubblicato a cur a dell’Associazione M ont e Por zio Cult ur a. St ampat o in I t alia – 1a edizione 2015


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Sommario Presentazione

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Pietro Bedini – Tempesta di ricordi

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I tre parroci

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I quattro compari

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Le comari

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Il baco da seta

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Le fave – la melica – la canapa – il granoturco

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La settimana santa

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La fiera dei mestieri

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Reminiscenze – ovvero .... quando accadeva

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Serate d’ na volta

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Piano regolatore d ‘na volta

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E quegli odori .....

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Paese molto pulito

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Cinema a Castelvecchio

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Cosa si mangiava?

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Mietilega

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Il gatto di casa

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Passaggio del fronte

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Franco Carloni

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I fratelli Guidi Emidio e Olinto

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Il Cav. Umberto De Marchi

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Il generale

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Corrado Minucci - Corrado d’la Fortunata

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Ernesto Guidi

117

La Peppa d’ Tegamin

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Mario Paolini detto Becapesc’

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Il poeta del “Montale”

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Storia del fiume

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Valeria Gramolini – Risvegli

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Valeria Gramolini “...ricordi...?”

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Graziella Savelli – Il tino

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Graziella Savelli – Dall’uva al vino

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Pietro Bedini - Noi che . . .

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Amedeo Paolini – Addio alla scuola

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Amedeo Paolini – L’aria di Signorella

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Enrico Vergoni – Ragazzi di Monte Porzio

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Battistrangola, antico retaggio egizio

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Raganella – trozzula, trenula

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Mestieri perduti nel tempo

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Origini della sericoltura (o bachicoltura)

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Lavoro agricolo

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La tavola ai tempi del fascismo

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La casa: passato e presente

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Eventi meteorologici

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Il pane del boia

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Il giorno pi첫 corto che ci sia?

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Presentazione

"Spigolature" vuol dire raccogliere le spighe rimaste dopo la mietitura ma anche, ed è questo il senso di questo volume, raccogliere le spighe migliori. Infatti era intenzione da parte dell'”Associazione Monte Porzio cultura” raccogliere alcune tra le notizie curiose, tra i personaggi che hanno caratterizzato la vita del paese sia di Monte Porzio che di Castelvecchio. Alcuni personaggi di Monte Porzio sono già stati trattati nel primo volume di Spigolature edito nel 2012, qui il discorso si fa più ampio, come è giusto che sia. Singolarmente questi personaggi e queste storie probabilmente non fanno notizia, ma collocati tutti insieme in uno stesso volume danno colore alla vita. Vengono descritte alcune tradizioni ormai dimenticate ma che è giusto far conoscere alle nuove generazioni che non hanno vissuto quel periodo storico difficile che ha posto le basi del benessere attuale. Si parla del passaggio del fronte nella seconda guerra mondiale, vengono descritte le origini di alcuni strumenti curiosi, ci sono poesie anche in forma dialettale e tanto altro. La scelta dell’ordine dei racconti è stata fatta con i seguenti


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criteri: dopo una poesia introduttiva, sono presenti storie di tradizioni e vita di Monte Porzio e Castelvecchio seguiti dai personaggi di entrambi i paesi. Le poesie sono state scritte da autori dei nostri paesi. L’appendice contiene ricerche storiche sulle varie attivitĂ e tradizioni antiche di cui in parte si è raccontato. Concludo ringraziando quanti hanno collaborato per la buona riuscita del progetto e quanti si accingeranno a percorrere insieme a noi questa parte della nostra storia. Associazione Monte Porzio cultura Il presidente Ing. David Guanciarossa


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La settimana santa

Per i Cattolici l’anno solare è composto di feste religiose più o meno importanti ma collegate sempre ad avvenimenti particolarmente significativi, riconducibili alla vita dei Santi, alla rievocazione di fatti, di racconti evangelici vissuti da Gesù Cristo. Due sono le ricorrenze che vengono particolarmente ricordate e festeggiate con maggiore enfasi e partecipazione dei fedeli: il Natale e la Pasqua di Resurrezione. Ambedue le ricorrenze sono precedute da un periodo di intensa preparazione spirituale. Abbiamo così che, per il Natale si ha un periodo di attesa e preparazione chiamato “Avvento” (venuta) e si conclude poi con una novena che termina con la nascita di Cristo. La Pasqua ha una preparazione più pregnante e intensa. Inizia con un atto di sottomissione, di penitenza ed un richiamo alla realtà della vita terrena con il rito “delle ceneri”, una funzione nella quale si cosparge il capo dei fedeli con le ceneri, richiamandoli alla realtà della vita con la formula “eri polvere e polvere ritornerai”. Il giorno delle ceneri dà inizio alla Quaresima (40 giorni), periodo di digiuno e penitenza, durante il quale e fino al Sabato Santo, tutti i quadri e le statue degli altari venivano coperti con un telo viola in segno di lutto. In questi 40 giorni si inizia a riflettere sulle vicende terrene del Cristo.


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Ogni venerdì si celebra la “Via Crucis” in ricordo della Passione. In 14 stazioni si rievocano le vicende dolorose del Cristo, dal Getsemani alla croce alla Resurrezione. La Settimana Santa inizia con la Domenica delle Palme che ricorda l’entrata a Gerusalemme del Cristo. Si manifesta con una Processione dei fanciulli con le palme e rami d’ulivo. I primi tre giorni sono normali, non ci sono rievocazioni particolari; il centro della Liturgia parte con il Giovedì Santo: il ricordo dell’Ultima Cena, l’istituzione dell’Eucarestia, la lavanda dei piedi e infine il silenzio delle campane per indicare il lutto di tutta la chiesa e della comunità cristiana fino a Pasqua. Ma tutti gli avvenimenti che si ricordano in quei quattro giorni, non hanno solo un significato di cronaca ma assumono valori più profondi sia di carattere intimo di fede, sia riferito alla partecipazione dei fedeli alle rievocazioni. Il credente avvertiva dentro di sé il grande impatto spirituale delle celebrazioni sia perché veniva precedentemente spiegato il contenuto di ogni atto e sia perché ognuno di quegli atti aveva un riferimento nel Vangelo secondo il rito celebrato prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II, nel 1965. Il Giovedì Santo è il primo giorno Monte Porzio-Chiesa Parrocchiale, altare prima del in cui viene rappresentata l’inizio della Concilio Vaticano II Passione. Al mattino con la Messa si ricorda l’istituzione dell’Eucarestia, si leggono i testi sacri, si distribuisce la Comunio-


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ne ai fedeli, si lascia il Tabernacolo aperto, nell’altare maggiore come disposto prima del Concilio Vaticano II 10, la Pisside 11 con le ostie consacrate viene trasferita dall’altare maggiore alla cappella del S.S. Crocefisso, allestita appositamente con fiori e piante speciali (veccia 12) ceri e luminarie varie per rappresentare il Sepolcro. Una scenografia suggestiva poiché di fronte all’altare maggiore spoglio, senza luci, con il Tabernacolo aperto e vuoto, con tutte le cappelle ricoperte di un telo viola, c’era la sensazione vera di un momento tragico e doloroso, rispetto alla cappella del S.S. Crocefisso che rappresentava la vita, la resurrezione, l’anelito al soprannaturale. Un contrasto stridente: un luogo scarno, francescano, scuro, vuoto che avevi di fronte sembrava dirti che senza Colui che è non c’è luce, non c’è vita, non c’è pace e amore; mentre in quella cappella per il credente c’era vita, gioia, luce, pace e serenità. 10

Rinnovamento della liturgia cattolica di rito latino avviato dal Concilio Vaticano II e portato a termine da papa Paolo VI, prima, e, in misura minore, da papa Giovanni Paolo II, poi. Un mutamento molto visibile e non previsto dalla costituzione Sacrosanctum Concilium fu la mutata posizione del sacerdote rivolto con il volto verso i fedeli ("versus populum") e non più verso oriente ("ad Deum"), secondo l'antica tradizione, in cui celebrante e i fedeli mantengono la stessa direzione. La diffusione del mutamento della direzione del celebrante ha causato interventi architettonici in moltissime chiese, paradossalmente passati sotto il nome di "adeguamenti liturgici conciliari" nonostante non siano richiesti in nessun documento del Concilio; essi compresero, tra l'altro, la demolizione o il rimaneggiamento degli altari antichi per disporvi la sede del celebrante e l'altare "versus populum", e lo smantellamento delle balaustre di fronte all'altare (banchi della comunione), causando non di rado gravi danni al patrimonio storico-architettonico.

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Nella liturgia cattolica, vaso di argento o di altro metallo, dorato all'interno, con coperchio, nel quale si conservano le particole consacrate. SIN. Ciborio 12 Pianta

annuale seminata all’inizio della quaresima. Per favorire la germinazione , i semi interrati venivano tenuti al caldo nelle stalle e poi in ambienti poco luminosi, così i germogli crescevano bianchi e rigogliosi (si usava dire “sei bianco come una veccia”) e il Giovedì Santo venivano esposti nella cappella del Crocifisso.


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Queste sensazioni le sentivi dentro di te ed eri fortemente preso e avvolto in questa atmosfera. Ma il giovedì Santo non finiva qui. Le campane venivano “legate 13”, ossia non suonavano più per tre giorni. I fedeli venivano avvisati dei tempi della Liturgia con due strumenti tipici della Battistrangola Raganella Settimana Santa chiamati “battistrangola 14” e “raganella”. La prima non era altro che una tavola di legno massiccio di quercia con un foro all’inizio che fungeva da manico e due tondini di ferro opportunamente sagomati che girandoli a destra e a sinistra, battevano su di un bullone provocando un suono cupo, legnoso, non certamente gioioso. La “raganella” era costituita da un cilindro dentato dove poggiava una lingua flessibile che girandola velocemente metteva un suono stridulo, stonato e anche fastidioso. Tutto questo era accompagnato dal grido di giovani e adolescenti per far sapere se era ora della Messa del mattutino o mezzogiorno. (Alla messa…….alla messa! È mezzogiorno …….. è 13 In

pratica, al tempo, venivano legate tra di loro, le corde delle campane che poi venivano posizionate in modo tale che non si potessero toccare.

14 Questo strumento con forme simili e con nomi diversi venivano utilizzato, per lo stesso scopo, in molte parti d’Italia.


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mezzogiorno! Mattutino ……… mattutino!). L’avviso della Messa era ripetuto tre volte, così pure il mattutino e il suono di mezzogiorno Seguivano poi altri due eventi: la lavanda dei piedi eseguita dal Vescovo di Senigallia Mons. Umberto Ravetta, poi dal Parroco. La liturgia voleva ricordare quello che Cristo fece agli apostoli. Infatti ai 12 componenti della Confraternita del S.S. Sacramento, vestiti con camice bianco, cordone e cappa rossa venivano lavati e baciati i piedi. Infine l’adorazione del Sepolcro durante tutta la notte del Giovedì e il Venerdì. I fedeli vegliavano il Sepolcro a turni di 2 o 3 ore ciascuno. Il venerdì Santo che ricorda come è noto, la morte di Cristo sulla Croce, inizia al mattino con la lettura della Passione e con un rito (chiamato impropriamente Messa) che il detto paesano dice che “non aveva né principio né fine”. La liturgia consisteva in canti e rievocazioni di brani evangelici e culminava in un rito che rappresentava la flagellazione di Cristo. I celebranti con i chierichetti, collocati nella prima fila delle panche davanti all’altare maggiore, muniti di bacchette di ulivo, quando il celebrante pronunciava la frase stabilita, si spegnevano tutte le luci, facendo penetrare il solo riverbero delle luci che provenivano dal Sepolcro illuminato, creando in tal modo un contrasto che aumentava a dismisura il clima già teso per la commozione dovuta a tutta la cerimonia. Questa fase della liturgia si concludeva con il battere le bacchette di ulivo per alcuni secondi sulle panche per indicare il momento della flagellazione subita dal Cristo, che il popolo di Gerusalemme ha voluto condannare seppure innocente.


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La funzione serale aveva uno svolgimento particolare, come pure particolare era la scenografia che richiamava la tragicità dell’evento che si voleva ricordare. Intanto l’orario della manifestazione era collocato alla fine della giornata e all’inizio delle ore serali quando già il sole era tramontato e incominciava a scendere il buio. Tale disposizione era complice di tutta la Liturgia che si svolgeva in un crescendo di pathos. Ed era la scenografia a rendere più drammatico l’evento. Monte Porzio – giornalino parrocchiale 1979 L’altare maggiore dedicato a San Michele Arcangelo, disadorno da ogni paramento o addobbo (il cappellano Don Gualberto Paladini, con il consenso del Parroco, Don Carlo Tomasetti aveva ideato la scenografia): riproduce il Calvario con tre Croci; una di colore nero, sormontata da un panno bianco che veniva poi portata a spalle da una persona anonima, a piedi nudi lungo le vie del paese, doveva rappresentare il tragitto della Passione con la Croce di Cristo posto sulle sue spalle fino al Calvario. Le altre due rappresentavano i due ladroni, opera dei fratelli Guidi. Il tutto cosparso di piante tipiche e canne di bambù che rendevano la scena, se vuoi, ancora più tragica. 15 Le luci soffuse davano un senso di tragicità e di drammaticità 15 Ai piedi dell’altare e del Calvario veniva collocato il baldacchino con la statua raffigurante il Cristo morto e dietro quella della Madonna Addolorata.


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sconcertanti che coinvolgevano spiritualmente e psicologicamente chi celebrava la funzione e i fedeli che partecipavano. Insomma in questa atmosfera si celebravano le scene della Passione. Infine la processione per le vie del paese, con la presenza di una banda musicale almeno nella prime edizioni. Apriva la processione la Croce portata a spalle dal cireneo, vestito con una tunica color crema, incappucciato in modo da renderlo irriconoscibile, scalzo, oppure con calzari leggeri; ai lati, altri due personaggi, anch’essi incappucciati, con due ceri, avanti a loro un suonatore di tamburo che ritmava il tempo del cammino della processione. Venivano poi le Confraternite: quella del S.S. Sacramento, quella della Madonna Addolorata, quella del Carmine, ognuna con il proprio vessillo. Alcuni di essi portavano dei bastoni con una mazza in cima, altri dei candelabri con un cero acceso. Seguivano i chierichetti, infine il celebrante con stola e Pivià16 le viola e, sotto il baldacchino portato a spalla da sei uomini, veniva il corpo del Cristo morto. Questa statua che rappresentava appunto il corpo del Cristo morto fu donata dal maestro d’arte Gaetano Ginevri Latoni. L’effige era collocata nella chiesa dell’Assunta situata in Piazza Garibaldi, in mezzo ai palazzi gentilizi di cui il Ginevri era un cultore e amava abbellirla con statue e quadri. Nella notte fra il Giovedì santo e il Venerdì, la statua veniva trasportata nella chiesa parrocchiale per la funzione notturna della processione. Dietro il feretro veniva la statua della Madonna Addolorata. 16 Paramento sacro costituito da un lungo mantello aperto davanti e trattenuto sul petto da un fermaglio.


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Chiudeva la processione il seguito dei fedeli. Giunti in chiesa, la processione si chiudeva con l’omelia del Celebrante e il bacio dell’effige del Cristo morto. La partecipazione a questa manifestazione religiosa, che voleva rappresentare e ricordare i passi più drammatici della Passione, era seguita con grande commozione e intensità spirituale da tutta la comunità parrocchiale. Il Sabato Santo era il giorno della benedizione del fuoco e dell’acqua. L’acquasantiera veniva riempita con la nuova acqua benedetta e si riportava la Pisside con le particole 17 dal Sepolcro all’altare maggiore e si scioglievano le campane che ritornavano a suonare con allegria, annunciando la Resurrezione del Cristo e quindi, la vittoria della vita e dell’amore sulla morte. Così si entrava nella Domenica di Pasqua. Questa era la Settimana Santa alcuni decenni addietro. Oggi 18 il cerimoniale è diverso, e sembra diminuita anche la passione e la commozione che un tempo contraddistinguevano quei momenti di sacra rappresentazione. La lavanda dei piedi non è più con i componenti della Confraternita, ma con i bambini; il mattutino è scomparso dal rito del Venerdì Santo, la sceneggiatura del Calvario non si vede più, come pure i due ladroni dipinti dai fratelli Guidi di cui si sono perse le tracce. Oggi è un’altra cosa, almeno nell’aspetto esteriore. Non si può sapere se anche nell’intimo e nella coscienza di ognuno sia cambiato il grado di partecipazione alle tragedie che 17 Frammento dell'ostia nella celebrazione della messa. Piccola ostia per la comunione dei fedeli.

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Oggi si sta ritornando all’antica Liturgia dei primi secoli della Chiesa più vicina agli eventi reali della Passione e Resurrezione di Gesù Cristo.


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rappresentavano la Passione del Cristo. La modernità laica detta le leggi di come devono essere vissute anche le più intime sensazioni di spiritualità. Bisogna semplificare, si dice, e essere veloci a togliere ogni aspetto che può ricondurci alle tradizioni dei Cristiani che si tramandavano dalla notte dei tempi. Allora non ha significato la lavanda dei piedi, anzi può suscitare sorrisi maligni; ma cosa ha significato quel gesto fatto da Gesù Cristo se non un atto di umiltà fatto da colui che era Figlio di Dio? E allora perché non riprodurre un momento di tale significato che vuol richiamare alla mente che il valore dell’uomo, della vita, del lavoro, del dolore e della sofferenza è di tutti gli uomini e che questo è nella disponibilità di tutti, anche dei più umili e che la comunità, tutto il genere umano trova in tale comunità di vita amore, pace e serenità di cuore e di spirito. Sono passati alcuni decenni da quando quei riti venivano così rappresentati nella nostra Parrocchia. Chi li ricorda non può che manifestare una certa nostalgia, che non è solo un sentimento retorico, ma è un ricordare momenti di grande e forte impatto spirituale e un grande senso di commozione. Ed è altresì vivo ancor oggi il ricordo in ognuno di noi (di una certa età), che oltre a farci ritornare con la memoria al passato ci fa anche ricordare la nostra gioventù quando si partecipava a queste manifestazioni con grande rispetto e devozione. Sauro Esposti Si ringrazia, per il contributo alla stesura del capitolo, il Parroco di Monte Porzio Don Luigi Gianantoni.


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Cinema a Castelvecchio

Una volta la settimana, a Castelvecchio, c’era il cinema. Veniva a proiettare un film il sacrestano di Monte Rado tutti i lunedì

Castelvecchio – P.zza 24 Maggio davanti salone delle Suore (oggi ACLI), fine anni ‘40

sera. Insieme con lui veniva anche il prete: un bell’uomo Si diceva che alcune donne di Castelvecchio andassero al cinema per guardare il prete e non per vedere lo spettacolo. I film un po’ osé erano quasi tutti censurati; e quelli che non lo erano, venivano censurati durante la proiezione mettendo una mano davanti al proiettore per coprire scene troppo audaci come il bacio sulla bocca.


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Le pellicole erano di diversi generi: avventura, cappa e spada, western, orrore ecc. ecc. Ma quelli che più riempivano il piccolo “salone” delle suore, di fianco la chiesa (stanza ACLI), erano i film d’amore, specialmente quelli strappalacrime come: “Tormento”, “Catene”, “I figli di nessuno” e tanti altri. Poi c’erano i colossal come “Quo Vadis” e “Via col vento” che il più delle volte venivano replicati. I prezzi dei biglietti erano di ottanta lire per gli adulti e di cinquanta per i minorenni. La paga di un operaio di quei tempi, se riusciva a lavorare tutti i giorni, variava dalle venti alle cinquanta mila lire il mese. A seconda del mestiere e del periodo (fine anni quaranta inizi anni sessanta). Procurarsi cinquanta lire non era facile, anche se non era una gran somma. E allora bisognava escogitare sempre qualcosa per poter andare al cinema. Una volta io e i miei cugini: Fulvio e Lucio, invece d’andare a lavorare (lavoravamo a Monte Porzio), andammo in cerca di stracci, ossa di animali, ferri vecchi e altri metalli come: alluminio, rame e ottone, per venderli allo zio Arturo, che faceva lo straccivendolo, in modo da procurarci i soldi. Partimmo la mattina presto come se andassimo a lavorare, ma giunti lì da Boldreghini, invece di prendere la scorciatoia che passa per i campi, attraversando il ponticello, così piccolo che d’inverno è sommerso dall’acqua, andammo per la strada normale sino al grosso ponte che fungeva anche da discarica. Scendemmo sotto il ponte e trovammo diverse cose da portare allo zio Arturo; ma non abbastanza. Allora camminammo lungo tutto il ruscello sino ad arrivare al fiume, e trovammo un po’ di tutto: stracci, ossa d’animali, alcune puzzolenti, e metalli vari. Restammo fuori tutta la giornata per racimolare i soldi per il cinema. Verso sera an-


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dammo subito dallo zio Arturo, che noi chiamavamo semplicemente “Zi Turin”, e vendemmo tutto quello che avevamo trovato. Il ricavo, guarda caso, fu esattamente di lire centocinquanta: giusto il necessario per comprare tre biglietti. I prezzi della “merce” che vendevamo erano i seguenti: l’alluminio e l’ottone, centocinquanta lire il chilo. Il rame, duecento. Gli stracci e i ferri vecchi valevano dalle quindici alle venti lire il chilo. Una pelle di coniglio, dalle dieci alle quindici; ma se era bella, anche una ventina di lire. Non mi ricordo il prezzo delle ossa, che a quei tempi venivano usate anche per fare i pettini. Quel giorno ci andò bene e trovammo a sufficienza per appagare il nostro desiderio; ma, purtroppo, non sempre c’erano giorni così fortunati. E allora si era costretti a trovare altre soluzioni. Il “salone” delle suore aveva un ”bagno” esterno, un obbrobrio di un metro quadrato scarso, con due entrate: una all’interno che serviva se si era nel salone, quando c’era il cinema o il teatro, e l’altra all’esterno che veniva usata quando si giocava nel prato dietro la chiesa. In pratica, passando attraverso il bagno si poteva accedere alla “sala” del cinema. La porta esterna però era chiusa, quando c’era uno spettacolo, onde evitare che qualcuno potesse passarci senza pagare il biglietto. La chiusura veniva effettuata nel pomeriggio, non prima delle quattro; a volte anche alle cinque. Perciò chi voleva vedere lo spettacolo a sbafo, doveva passarci prima e poi nascondersi sotto il palco mezzo sdraiato, restarci dalle tre alle quattro ore, aspettare che spegnessero le luci, e quindi uscire a film incominciato, e intrufolarsi tra gli spettatori paganti. Io personalmente non l’ho mai fatto, ma alcuni miei amici, sì. Quello che invece facevo, qualche volta, era di entrare pagando il biglietto e poi, a spettacolo iniziato, andare al bagno ad aprire la porta esterna per fare entrare qualche mio amico.


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Il catenaccio faceva un rumore del diavolo. Bisognava tirarlo piano, piano. Una volta il sacrestano, che vigilava sospettoso, se ne accorse e venne a cercarci con torcia elettrica: eravamo tutti accovacciati davanti alla prima fila. Ci fece uscire tutti dandoci anche qualche scappellotto. Un altro sistema era quello di “elemosinareâ€? l’ingresso. Ci mettevamo vicino a quello che vendeva i biglietti e lo pregavamo di farci entrare senza pagare. Ogni tanto gli davamo quel poco denaro che avevamo a disposizione, che non solo non era sufficiente per tre biglietti, ma a volte neanche per uno. Il piĂš delle volte, per non dire sempre, ci faceva entrare; ma solo a film incominciato. Pietro Bedini


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Valeria Gramolini – Risvegli

Con attonito stupore vedo il segno dei tempi rincorrere il vuoto, alla pari di nuvole spinte dal vento... Soffio di primavera... Estasi di Altitudini Benedette questi capogiri di nebbie mattutine...! Precipitati dunque al fiume per non perdere l’appuntamento con gli aironi cenerini il Falco solenne e i variopinti “non so che cosa”! Presto.. presto...! Prima che l’estate riponga le sue ali e gli echi degli spari intorbidiscano l’aria col loro sentore di morte. Il ruscello canta piano le sue timide note.

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L’acqua è poca e i pesci guizzano stanchi dopo il vigore del salto che li spinse fuori, a catturare un insetto sbadato... L’Airone è lì, sul ciglio e nient’altro aspetta che quel salto disperato. “Mors tua vita mea...” recita il canto graffiante della Cornacchia

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Graziella Savelli – Dall’uva al vino

Stamattina due vecchietti son partiti de bon ora per andà alla grande festa che se svolge giù in città. Il nome della sagra è tutto 'na goduria "Dall'uva al vino". "Sa' quanto vinel me vojo tracanna!" "Nun fa lo stupdo" le dice la su moje, ma lu nun sta manc a sentì! Parla da sol e dic "A me me piace de vedè tutte ste belle ragazze quando pigen l'uva con kle belle cosce ben tornite che me venghene i brivid solo a pensacc!" "Te n'tla testa c'hai sol el vin e le bel ragaz! Ma io nvec voria anche gi a magnà! Fan n'oca al forn ch'è tutta na bontà

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e 'n bocconcin ne vuria assaggià! Girando pe sti vicoli ce stan ste bancarel con tanta roba bella! Sai, c'è anch l'intimo e me vuria cumprà 'mpaj d mutandin … sai, quel k van de moda adè! Che dici marì, me staran ben?" "Ben?! Con kel deretano ke t'artrovi! Me farai murì dalle risate!" "Ma stasera a ballà me ce vurai portà! A me me piac 'l tango col caschè, 'l valzer, la mazurka ... e poi quel bal che fan veda ala television! Se chiama Zumba … che dici marì ce volem pruva?" "Ma te moj mia te venghn 'n testa certe idee! Che se cascam 'n c'arcojem più! Adè gim a magnà st'oca che poi con calma arpiam la strada per gi a casa. Sai quant ce mettem ... fino a doman matina! Arriverem a casa stuf mort con tutt quel vinel ch'avem but dormirem per tre giorni e per tre not che sti fioj c'avran da nì a sveja!" 30/09/2012


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Amedeo Paolini – Addio alla scuola

Ancora mi ricordo da bambino quando mia madre tanto buona e brava, quasi per forza mi ci portava, con la borsa a tracollo e il canestrello. Subito poi mi ci sono abituato mi sono passati i capricci e gli estri ho cominciato a conoscere i maestri, i compagni e mi ci sono affezionato. Come la pianta succhia dalla terra gli elementi che servono alla vita; così anch’io ho succhiato, scuola ambita, i migliori frutti della primavera. Adesso invece devo lasciarti, perché vado alla scuola superiore non ho più quei maestri e il direttore e questo pensiero credi mi rattrista. La commozione stringe un po’ la gola, è come se dovessi lasciare la mamma che tu m’hai illuminato con la fiamma e mi hai insegnato a leggere ogni parola.

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Hai illuminato all’alba la mia vita però ti giuro non mi scorderò mai tutto quello che hai fatto e che farai, perché ti voglio bene, scuola mia!

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APPENDICE e ... a cura di David Guanciarossa


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Origini della sericoltura (o bachicoltura)

Tra storia e leggenda L’allevamento del baco da seta risale a tempi antichissimi essendo addirittura citato nei libri di Confucio (2600 a.C.). I testi riportano, infatti, una leggenda che attribuisce a XiLing-Shi, moglie quattordicenne dell’Imperatore Hoong-Ti, il merito di essere stata la prima a insegnare l’arte di allevare il filugello e di svolgere il bozzolo. Si narra che l’Imperatrice stava passeggiando quando notò un bruco. Lo sfiorò con un dito e dal bruco spuntò un filo di seta. Man mano che il filo fuoriusciva dal baco, l’imperatrice lo avvolgeva attorno al dito, ricavandone una gradevole sensazione di calore. Alla fine vide un piccolo bozzolo e comprese improvvisamente il legame fra il baco e la seta. E’ inutile cercare l’epoca e il luogo in cui ha avuto origine l’allevamento del baco allo stato domestico; la maggior parte degli autori addita come culla della sericoltura la Cina, altri invece l’India. Certo è, invece, che i regnanti orientali si adoperarono con la massima energia per non far trapelare il segreto della produzione della seta, impedendo con pene severissime, che comportavano anche la pena di morte, l’esportazione delle uova del baco da seta. Una leggenda racconta che solo intorno al 420 d.C. una delle figlie dell’Imperatore del Celeste Impero, andando sposa a un principe di Khotan - città Stato del bacino del Tarim, oggi com-


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presa nei confini della Cina - e volendo assecondare i desideri del marito, nascose nei capelli il seme del gelso e le uova del baco da seta; i doganieri, non osando toccare la pettinatura della principessa, lasciarono uscire il prezioso oggetto di contrabbando. Anche i greci conoscevano la seta e, in particolare, due diversi tipi di seta: la bombicina e la serica. La prima, cui fa riferimento Aristotele (336 a.C.), era prodotta da un bruco diverso dal filugello, oggi probabilmente scomparso; la seconda prodotta nei paesi Seri, probabilmente localizzati nell’Asia centrale (India o Cina), da cui il nome “Sericola” o “Serica”. Attorno al II secolo a.C. si perde notizia della seta bombicina, sostituita ormai completamente da quella del tipo “Bombyx mori”, più gradita per le migliori qualità merceologiche. In seguito, secondo alcune fonti, sarebbe stato Cesare, di ritorno dall’Anatolia attorno al 50 a.C., a portare a Roma alcune bandiere, catturate al nemico, di uno sfavillante tessuto sconosciuto che suscitò uno straordinario interesse: era appunto la seta. Sebbene i romani conoscessero e apprezzassero la seta, solo intorno al 550 d.C., attraverso l’Impero bizantino, iniziò la diffusione in Europa della sericoltura. Leggenda vuole che due monaci dell’ordine di S. Basilio agli ordini dell’Imperatore Giustiniano, essendo a conoscenza del fatto che la seta veniva prodotta da un bruco e ritenendo che questo si sarebbe potuto facilmente acclimatare nell’impero, riuscirono a portare a Costantinopoli delle uova di baco da seta nascoste nel cavo di alcune canne di bambù. Probabilmente la vicenda dei monaci è solo una leggenda ma l’evento è stato tramandato per secoli e, se pur approssimativamente, può essere assunto come un momento chiave dell’espansione della bachicoltura in Europa. Durante il XVIII e XIX secolo gli europei progredirono nella lavorazione della seta. Già nel XVIII secolo l’Inghilterra era


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all’avanguardia in Europa nella produzione, in conseguenza alle innovazioni tecnologiche del settore tessile, che includevano telai elettrici e stampanti a rullo. In questo periodo furono portate a termine numerose ricerche sui bachi da seta che aprirono la strada a un approccio più scientifico verso la produzione della seta.

La sericoltura in Italia Le origini Un alone di mistero circonda tutt’oggi le origini della bachicoltura in Italia, così che rimane piuttosto difficile stabilire quale sia stata la prima area bachi-sericola italiana e quali siano stati i fattori che determinarono l’avvio dell’attività serica nel nostro paese. Se la maggior parte degli studiosi individua nella Sicilia il primo centro della comparsa della bachicoltura, alcuni autori pensano, invece, ad un’origine più o meno contemporanea in varie zone d’Italia sia del sud, Sicilia, Calabria e Campania, sia del Nord. Per il Nord vanno segnalate soprattutto Venezia e Genova grazie ai loro contatti con l’Oriente bizantino. In queste zone la conoscenza della bachicoltura, come anche della tessitura, non si sarebbe diffusa per espansione dal Sud e dal Centro della Penisola, bensì direttamente dall’Oriente. Di recente, è emerso che fra le prime località sericole dell’Italia settentrionale vi furono anche Bologna (XIII secolo) e Trieste (XIV secolo) e che in Italia la produzione serica si diversificò: Bologna si specializzò nella produzione di tessuti più leggeri, Venezia nei drappi più pesanti e Genova nei velluti.


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L’espansione All’ inizio del XV secolo a Firenze si fabbricavano tessuti in seta e oro, specialmente le sete leggere, dando lavoro soprattutto alle donne che in questa attività arrivavano a percepire un salario annuo (30-37 fiorini) di molto superiore a quello femminile medio dell’epoca (7 fiorini). Dalla seconda metà del Quattrocento si assiste sia al progressivo diffondersi della tessitura in molte città italiane sia al suo ricomparire in centri dove era precedentemente andata in declino. La richiesta di tessuti serici, nella penisola e fuori, divenne così pressante che in breve la sericoltura si affermò in tutta Italia; le corporazioni della seta divennero ricchissime fino a rappresentare una potente forza politica ed economica. II benessere prodotto risultò ovunque enorme e la nostra penisola arrivò a detenere il monopolio dell’arte serica. Di qui la forte esigenza di seta greggia, la cui provenienza era però limitata a Sicilia, Calabria, Spagna, Levante, Persia che ne fornivano quantità consistenti. Questa limitazione nell’approvvigionamento ebbe termine quando tra il 1500 e il 1600 il gelso bianco (Morus alba), grazie anche alla migliore qualità della seta prodotta con l’impiego della sua foglia, soppiantò ovunque il gelso nero (Morus nigra) poiché, oltre a fornire una migliore foglia per l’alimentazione dei bachi, produceva un’abbondante quantità di more che venivano impiegate a scopi terapeutici e alimentari. Dal XI secolo e fino alla metà del XVII il monopolio della seta era saldamente in mano all’Italia, poi iniziò la decadenza dell’arte serica nazionale in seguito al suo sviluppo nel resto d’Europa e, soprattutto, in Francia. Qui, oltre che in Germania e Inghilterra, grazie alla manodopera specializzata italiana emigrata in tali paesi, il setificio sorse e si affermò con prodotti di notevole


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pregio che andarono a contrastare prima, ed eliminare poi, l’esportazione italiana. Ma il vero problema, oltre al danno provocato dalla concorrenza straniera e dall’importazione della moda francese, fu determinato dal fatto che l’arte serica italiana non era più superiore in qualità come nel passato e, per di più, i tessuti operati prodotti nei paesi europei concorrenti erano realizzati a macchina, con notevole risparmio di tempo e denaro. Nel XVI secolo, ma soprattutto nel XVII e XVIII la produzione italiana rimase statica, sottoposta alla rigidità delle regole della corporazione medioevale, con la massa artigiana e dirigente contraria a qualsiasi innovazione e progresso. Tale atteggiamento impedì alla genialità italiana, ineguagliabile per alcuni secoli, di adeguarsi in campo tecnico e di evolversi in senso artistico. Di conseguenza, con il diminuire prima e con la cessazione poi, del redditizio traffico della seta, la povertà si diffuse tra gli abitanti delle città che da questa attività traevano la maggior parte del proprio reddito e che erano maggiormente dediti all’industria tessile. Al contrario nelle campagne dove la bachicoltura si era ben sviluppata, si creò un certo benessere prima per la richiesta di seta greggia destinata alle città seriche della penisola, poi per l’esportazione della materia greggia in quelle nazioni europee dove la manifattura serica si stava espandendo. Nella pianura padana aumentarono progressivamente sia la superficie impiantata a gelsi coltivati singolarmente o “maritati” con la vite sia le filande, inizialmente casalinghe con la pentola a fuoco diretto e poi industriali con l’impiego del vapore. Nel corso dell’Ottocento e del Novecento, l’allevamento del baco da seta divenne una fonte importante di integrazione del reddito per le povere famiglie contadine. Nelle case i bachi veni-


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vano sistemati nei locali in cui viveva la famiglia stessa, la cucina e le stanze vicine, il granaio e addirittura le camere da letto. I bachi divenivano, per amore o per forza, parte della famiglia e a volte si finiva per ritrovarseli nel letto. Alcuni contadini producevano in proprio il seme-bachi per l’allevamento, altri lo compravano o ricevevano i bachi appena nati dagli Istituti Bacologici. La schiusa delle uova avveniva nella seconda metà del mese di aprile ed era favorita tenendo le uova al caldo. Da quel momento iniziava il lavoro che diveniva sempre più impegnativo durante la veloce crescita delle larve. L’allevamento dei bachi proseguiva nelle case contadine per una quarantina di giorni, periodo durante il quale le esigenze dei bachi cambiavano, sia in termini di spazio che di alimentazione, in corrispondenza delle diverse età larvali. Principalmente erano le donne e i bambini che si occupavano del baco, anche se, in concomitanza con le ultime fasi dell’allevamento, tutta la famiglia finiva per assolvere a qualche compito. Se nella famiglia contadina il vitto è assicurato dal grano e dal maiale, se i tessuti in gran parte sono forniti dalla lavorazione della canapa, con la vendita dei bozzoli al mercato della seta, in giugno, entrano in casa i primi soldi dell’anno, in contanti.

Il declino La produzione di bozzoli in Italia cominciò a declinare nel periodo tra le due guerre mondiali fino a scomparire dopo l’ultima. L’inurbamento e l’industrializzazione portarono, infatti, a profonde modificazioni nel contesto socio-economico italiano, con un’evoluzione degli indirizzi produttivi da prevalentemente agricoli ad industriali a scapito della bachicoltura tradizionale. Anche la meccanizzazione delle pratiche agronomiche ha portato cambiamenti nelle coltivazioni sostituendo i filari di piante arbo-


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ree, fra cui il gelso, con seminativi più redditizi. L’edilizia rurale subì profonde modificazione e vennero così a mancare gli ambienti di allevamento richiesti dalle esigenze biologiche del filugello. Inoltre, la bachicoltura tradizionale è una pratica che richiede modesti investimenti di capitale ma che assorbe un forte carico di lavoro umano, oggi disponibile a basso costo soltanto nelle aree di sottosviluppo economico; è questa una delle principali cause che ha determinato il declino o addirittura la scomparsa della produzione serica nei paesi industrializzati, a favore di quei paesi a economia rurale (Cina, India, Russia asiatica, Corea, ecc) che, di fronte alla crescente domanda di seta da parte dell’industria di trasformazione, hanno assunto il ruolo di fornitori di seta grezza. Anche l’avvento delle fibre artificiali come il nylon e il poliestere ha giocato un ruolo, seppur marginale, nella riduzione della produzione e del consumo di seta: se nel 1940 la produzione mondiale di seta ammontava a circa 59 milioni di kg, nel 1950, dopo soli 10 anni, era già scesa a 19 milioni.


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Il pane del boia

Il pane era tutto per la povera gente, era il primo nutrimento, si mangiava pane e companatico, pane e vino, pane e fiele, pane e rabbia, ma pane, sempre! Quello bianco però, lo vedevano solo le tavole dei ricchi; più si scendeva nella scala sociale più il pane imbruniva; pane di polenta, pane di crusca, pane di fave, pane di ghianda! Alla fine del pane restava solo il nome, in concreto si mangiava la stessa roba che mangiavano i maiali. Per i nostri vecchi il pane è stato sempre una cosa benedetta, non si buttava via mai, magari lo si dava alle bestie, buttarlo nella spazzatura era peccato. Il pane è stato anche un elemento di distinzione sociale; c’era il pane del Papa, il pane del cavaliere, il pane del prete, il pane dello scudiero. In fondo alla graduatoria c’era il pane del boia. Dice, la leggenda, e un po’ anche la storia, che i fornai si rifiutavano di vendere il pane al boia e che per questo, Carlo VII di Francia, rischiò di rimanere senza il boia di corte. Allora il Re fece avvisare i fornai che se non avessero accettato il boia come cliente, sarebbero diventati loro clienti del boia. I fornai furono costretti ad accettare (evidentemente) ma per sfregio e offesa, mettevano da parte per lui il pane peggio riuscito e glielo consegnavano capovolto in segno di disprezzo. Da quella volta è nata l’usanza di non mettere mai in tavola il pane capovol-


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to, perché porta sfortuna; insomma potrebbe entrare il boia in casa con la scusa di prendersi il suo pane. Non è detto, comunque, che quel pane rovesciato non evochi inconsciamente in noi, la memoria di tante esecuzioni di piazza, dove l’uomo con il cappuccio nero era autore materiale dell’esecuzione.


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BIBLIOGRAFIA MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, L’arte di

allevare il baco da seta. 2012.

ANDREA BIANCHINI, Lavoro, diritti, memorie. CGIL Pesaro Urbino 2007 NICOLA PASTORE, Lavoro agricolo. MARCO ROSSELLINI, Lavoro in agricoltura – Mietitura e trebbiatura

del grano.

MAX LEOPOLD WAGNER - La vita rustica ... . 1921-1996 AGENDA STORICA DEL MONTEFELTRO, Ricordi di tesori e miserie ... .1988 GIAN PIETRO MISCIONE, www.undici.it NICO VALERIO, La cucina del ventennio, tra il duce “salutista” e i consigli di Petronilla. 1990. WIKIPEDIA, L’enciclopedia libera. DIZIONARI DELLA LINGUA ITALIANA Vari siti internet



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