Gente di Bracciano Gennaio 2021 n. 29

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Gennaio 2021 - numero 29


di

Gente Bracciano

Franco Basaglia: matti da slegare

Gennaio 2021 - Numero 29

Il liberatore di 100mila internati. Dalla psichiatria di degradazione a quella democratica

In memoria di Luciana Iadicicco

2020: annus horribilis Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra. Direttore responsabile: Graziarosa Villani. Redazione: Mena Maisano, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo. Hanno collaborato: Massimo Mondini, Lucia Buonadonna, Ennio Contezza. Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014

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ileggendo le cronache di un anno appena trascorso. Drammi e tragedie nazionali e mondiali (pandemia), terrorismo, stragi etniche, guerre, oscurantismi di tipo medievale, crolli economici, disoccupazione irreversibile per la fine del lavoro, povertà dilagante e ricchi sempre più ricchi, degradazioni, morbosità, turpitudini sessuali (pedofilia). E tutto per l’angoscia di un futuro che è già presente. L’anno sta finendo all’insegna della paura, almeno per la maggior parte degli “umani”. Paura di contrarre il Covid, paura di diventare più poveri, di non essere protetti. Incertezza sull’Europa (vedi Ungheria, Polonia, Slovenia) che dovrebbe essere la salvezza. Tutte paure a livello psicotico di una società ormai al tramonto, che non ha la forza di intravedere un’alba che pure c’è e non la paura e lo stato d’animo dell’incertezza. In Italia, nonostante gli sforzi di alcuni politici, di una sanità allo stremo ma attiva e consapevole c’è confusione, lingue diverse nei partiti al comando e ai partiti all’opposizione, le guerre tra istituzioni, fragili le coalizioni, veleni e colpi bassi, muro contromuro e “caute aperture”, “querelle” infinita sul federalismo, regionalismo, localismo, populismo ed un’alluvione di problemi irrisolti da troppo tempo. Da tempo, ai tanti che invocano un uomo forte “al di sopra dei partiti” e sbrigativo, “figlio del popolo”, dico che un popolo colto non ha bisogno di uomini “forti” ma di politici, capaci, democratici, onesti e non di tribuni della plebe, Ciò dicendo, ripeto ciò che molti sanno e dovrebbero sapere, ma tale consapevolezza non induce a difese o a strategie. Solo pochi cercano di provvedere. Ma poiché permangono i peccati biblici (cattiveria, invidia, rancore, avidità, prevaricazione, bestialità come surrogato di una perduta coscienza di se stessi): ecco che i programmi e le strategie rimangono ignote ai più, che anzi li combattono. Crediamo di sapere tutto o meglio: ci inducono a voler sapere tutto. Sempre più nausea dell’informazione, informazione continua. Ogni giorno prodotte e spedite 20 milioni di parole tecniche, 50 milioni di parole comuni. Si dovrebbe saper tutto, si finisce con il sapere niente. E con le parole, le immagini, di tutto, di tutti. Blob infinito e nemmeno divertente. Claudio Calcaterra

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entomila internati in quelli che sono stati definiti “i cestini dei rifiuti della società”. Questo il numero delle persone che la nuova psichiatria di Franco Basaglia ha liberato e restituito alla vita con una legge che a buon diritto è senz’altro una legge di civiltà. Una rivoluzione sociale al pari della legge sul divorzio che quarant’anni fa pose fine alla vergogna di Stato dei manicomi. “Nel manicomio - ha commentato un operatore sanitario dell’ex Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico di Roma - non c’era dignità, né per i pazienti, né per gli operatori”. Camicie di forza, elettroshock per l’annullamento delle personalità, una “psichiatria di degradazione” si è detto dove uomini e donne vivevano spesso coperti di stracci, lavati col tubo, legati al letto, costretti dai lacci, senza più un passato e senza più un futuro. Un trattamento disumano che tra l’altro aggravava le disparità tra ricchi e poveri. Se i primi potevano contare su strutture dedicate, ai secondi non restava che la degradazione del manicomio, vera gabbia da cui non poter più scappare. Eppure Basaglia a partire dal progetto pilota di Gorizia riuscì a mettere in discussione questo tipo di istituzione. Proprio all’esperienza goriziana Sergio Zavoli nel 1968 dedicò un suo documentario “I giardini di Abele”, intervistò Basaglia ma anche gli “ospiti” del sanatorio i cancelli del quale si stavano aprendo alla città. Basaglia iniziava proprio allora a contrapporre alla segregazione la liberazione. Quarant’anni fa, con una legge di pochi articoli, si pose fine alla pratica che “nascondeva la malattia agli occhi del mondo”. Si contrappose alla prigione di Stato l’ambulatorio territoriale. Una eredità degli anni Settanta del Novecento che significò per i 100mila internati di allora una rinascita in piena regola. Tra molte difficoltà le malattie del disagio mentale vengono oggi curate e seguite sul territorio. La battaglia di Basaglia, psichiatra, si compì con una presa di posizione dal dentro delle istituzioni. “Il primo contatto con la realtà manicomiale - scrisse Basaglia in L’istituzione negata nel 1968 - ha subito evidenziato le forze in gioco: l’internato anziché apparire come un malato, risulta l’oggetto di una violenza istituzionale che agisce a tutti i livelli, perché ogni azione contestante è stata definita entro i limiti della malattia. Il livello di degradazione, oggettivazione, annientamento totale in cui si presenta, non è l’espressione pura di uno stato morboso, quanto piuttosto il prodotto dell’azione distruttiva di un istituto, la cui finalità era la tutela dei sani nei confronti della follia”. In gioventù, a causa della frequenza di un gruppo di studenti antifascisti a Padova dove studiò, Basaglia venne arrestato e detenuto per alcuni mesi nelle carceri della Repubblica Sociale Italiana. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale aderì al Partito Socialista Italiano e nel 1949 si laureò in medicina. Nel 1953 conseguì la specializzazione in malattie nervose e mentali. Fu quindi professore universitario per tre anni ma nel 1958, rinunciando alla libera docenza, passò a dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia. Allestì in quella struttura laboratori di pittura e di teatro, creò cooperative di lavoro tra i pazienti. Fondò in quegli anni, assieme ad altri sostenitori, anche la società Psichiatria Democratica. Ma fu a Trieste dove Basaglia approdò nel 1971 che la sua azione aprì davvero la strada un movimento di opinione che portò poi alla approvazione della legge che porta il suo nome. La Legge 13 maggio 1978, n. 180 su “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” chiuse di fatto i manicomi, abrogò alcune norme e soprattutto restituì diritti civili e politici agli internati la cui cura viene affidata ai Centri di Igiene Mentale. La Legge Basaglia abrogò gli articoli 1, 2, 3 e 3-bis della legge 14 febbraio 1904, n. 36 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”, l’articolo

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Franco Basaglia

420 del codice civile, gli articoli 714, 715 e 717 del codice penale, il n. 1 dell’articolo 2 e l’articolo 3 del testo unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali. Il grosso della legge venne recepito nella legge sulla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale del dicembre dello stesso anno. Nei suoi ultimi anni di vita Basaglia operò a Roma chiamato dalla Regione Lazio a ricoprire l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici. Il 29 agosto 1980, per un tumore alla testa, mori nella sua casa di Venezia, la città dove era nato. I funerali si svolsero il 31 agosto. L’allora segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer in un telegramma alla famiglia scrisse “La scomparsa di Franco Basaglia è un lutto che colpisce profondamente il mondo della cultura italiana. Nel momento in cui sempre più alto era il suo contributo innovatore nel campo della medicina e della psichiatria viene a mancare una personalità di grande rilievo intellettuale e scientifico, di alta sensibilità umana e sociale”. Luciano Lama, a nome della segreteria della Cgil, espresse “profondo cordoglio per la perdita di un compagno di lotta e nella causa di affermazione delle più alte esigenze dei diritti della personalità umana e del progresso lavoratori”. Anche l’allora sindaco di Roma Luigi Petroselli sottolineò “La scomparsa del professor Basaglia lascia in tutti noi un grande vuoto e un grande dolore. Quello che ha dato con la sua elevatissima professionalità interamente posta al servizio dei più deboli, degli emarginati, costituisce un patrimonio di esperienza umana e di conoscenza scientifica che a nessun costo dobbiamo permettere che possa andare disperso». Basaglia è sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele nella laguna di Venezia dove il suo corpo venne portato a bordo di una gondola. A quarant’anni dalla sua approvazione molto ancora rimane da fare, ma la legge Basaglia, una legge di liberazione e di civiltà, resta una pietra miliare nell’ordinamento italiano. Graziarosa Villani

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Generosità, tolleranza, bontà e...odio!

Papavero da oppio: le prime coltivazioni sul lago di Bracciano

Riflessioni a margine della crisi d’identità

Individuato nel sito sommerso della Marmotta il luogo dove avvenne circa ottomila anni fa la domesticazione della pianta. La conferma dal libro di Aurelio Manzi “I progenitori delle piante coltivate in Italia”

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Ma riprendiamo il discorso sopra citato della generosità e bontà...e odio. Proprio mentre la maggior parte dei miei simili crede di salvarsi con l’odio, con la ricerca di un odio più intenso con la violenza verbale e spesso anche fisica, che, credo, possa provenire anche dalla progressiva perdita di se stessi. Da quella che ormai anche la gente comune chiama “crisi d’identità”. Chi odia ragiona così. “Se io ti amo, non si vede; se ti odio, posso anche ucciderti e un omicidio è visibile e così una strage familiare o etnica”. L’omicida o gli omicidi ricevono quindi una conferma della propria esistenza e della propria sopravvivenza. Io non sono mai riuscito ad odiare. Forse devo dire: “Purtroppo”? Qualcuno disse: che “l’odio è il più durevole dei piaceri” (Byron); “L’odio è un liquore e un veleno prezioso” (Baudelaire); “L’odio è sempre più chiaroveggente dell’amicizia” (De Laclos). Quando odiamo qualcuno, nella sua immagine odiamo qualcosa che sta dentro di noi” (Herman Hesse). “Il nostro sarà stato il secolo dell’organizzazione intellettuale degli odii” (Julien Benda). E forse la memoria del passato, le radici non potranno salvarci. Claudio Calcaterra

emo che generosità e bontà siano dannose a chi le pratica, attirandogli l’ostilità anche di chi le riceve - credo che la generosità sia una forma di autostima per sopravvivere, ma spesso perdo. Ma ancora non mi arrendo, non mi volto più indietro a guardare gli ipocriti, gli interessati, i predicatori di odio, dei negazionisti, eccetera. Ma sempre più spesso ho l’impressione dell’altrui rifiuto e della negazione della verità. Questa sensazione la ricevo anche quando mi capita di telefonare a ...digito il numero e in mezzo a musichette dolci si sgranano le risposte altrettanto dolci ma negative. “Restate in attesa con l’interno desiderato”. Poi: “a causa dell’intenso traffico la vostra richiesta non può essere soddisfatta. Vi preghiamo di attendere... già, mi pregano. Aspetto un po’. Riprovo: “L’utente desiderato è momentaneamente indisponibile. La “Preghiamo” di restare in linea”. Beh, se “indisponibilità” è momentanea, attendo. E mi sorbisco brani di Beethoven, Wagner, Donizetti, Mascagni, eccetera. L’utente desiderato non arriva. La sua “indisponibilità” è illimitata. Un modesto consiglio a noi utenti: “Non chiedete più niente, non aspettate più niente. Cessate di essere utenti, se possibile”.

C’era una volta L’Unità

Piero Ranieri, Aldo Del Medico, Gianna Mariani e Claudio Calcaterra

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rimato mondiale delle antiche popolazioni che abitavano il lago di Bracciano per l’origine della coltivazione del papavero da oppio. Recentissime ricerche evidenziano infatti che le più antiche testimonianze sulla sua coltivazione sono state rinvenute nel corso degli scavi subacquei che hanno interessato il villaggio sommerso neolitico della Marmotta, il più antico insediamento di sponda dell’Europa occidentale. Un interessantissimo studio condotto dal naturalista e botanico Aurelio Manzi e pubblicato nel libro “I progenitori delle piante coltivate in Italia” da Meta Edizioni indica in modo inequivocabile che “le prime testimonianze archeobotaniche inoppugnabili relative alla coltivazione della specie sono venute alla luce nel sito neolitico de La Marmotta (5881-5636 a.C.), sulle sponde del lago di Bracciano”. Sono i tempi in cui si compie la prima grande rivoluzione dell’umanità con il passaggio da una società di raccoglitori a quella di coltivatori. Nel sito de La Marmotta, scoperto a circa 12 metri di profondità nel 1989 in occasione dei lavori di posa delle condotte del nuovo acquedotto del lago di Bracciano, e finora solo parzialmente indagato, “sono state rinvenute - scrive Manzi - numerose capsule, semi ed altri resti attribuiti sia alla forma selvatica che a quella coltivata del papavero da oppio. Questi ritrovamenti - sottolinea ancora l’autore - sembrano testimoniare proprio il momento di domesticazione e coltivazione del papavero da oppio a partire da Papaver Setigerium”. A spiegare le funzionalità di questa pianta nella società dei Marmottani è stata Maria Antonietta Fugazzola Delpino, allora Soprintendente alla Preistoria e che all’epoca del rinvenimento del villaggio sommerso coordinò gli scavi subacquei e il recupero di materiali tra i quali anche undici piroghe monossili. Dal papavero da oppio coltivato nei campi “si raccoglievano - ha scritto Fugazzola Delpino in Un tuffo nel passato 8.000 anni fa nel lago di Bracciano - i semi da mangiare e schiacciare per estrarne olio e probabilmente si utilizzava il lattice per scopi medicinali e/o allucinogeni”. Non è in Asia ma in Europa che prende così il via la coltivazione del papavero da oppio. Manzi nel citato libro scrive “la coltivazione del papavero da oppio, contrariamente ad un luogo comune molto radicato, ha avuto origine in Europa e nello specifico in Italia, e non nel continente asiatico”.

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Papaver Somniferum, foto di Dinkum

Successive le datazioni di altri rinvenimenti. “I ritrovamenti archeobotanici che riguardano la Spagna - scrive ancora il botanico Manzi - seguono di qualche secolo quelli italiani”. A citare il sito spagnolo, tra gli altri, è anche Giorgio Samorini nell’articolo on line “Archeologia dell’oppio” che riporta anche una mappa dei reperti archeologici vegetali più antichi ascrivibili al papa-

vero da oppio e che cita il sito archeologico della Cueva de los Murciélagos, localizzata a Zuheros in provincia di Córdoba per il rinvenimento di semi di papavero da oppio risalente al 5360 a. C, oltre tre secoli dopo il sito della Marmotta. “Nel sito della Marmotta commenta ancora Samorini - sono stati rinvenuti semi sia combusti che non, e resti carbonizzati di dischi stigmatici; le dimensioni dei semi sono simili alla specie coltivata, mentre i dischi stigamitici presentano caratteristiche intermedie fra la forma selvatica e quella coltivata”. Le peculiarità di questa pianta, note ai Marmottani già ottomila anni fa, vengono sottolineate da Aurelio Manzi. “Dalla capsula immatura incisa si ricava l’oppio, lattice che contiene diversi alcaloidi tra i quali codeina, morfina ed eroina. In passato il papavero è stato largamente impiegato quale anestetico e sedativo; probabilmente, il nepente degli antichi, la sostanza che cancellava dolori e tristezza negli dei, - scrive ancora Manzi - era proprio l’oppio”. “Il papavero - sottolinea ancora Manzi veniva frequentemente associato a diverse divinità femminili mediterranee, tra queste anche Cerere, spesso raffigurata con capsule di papavero tra le mani”. Graziarosa Villani

Mappa dell’Europa Occidentale con segnalati i reperti archeologici vegetali più antichi ascrivibili al papavero da oppio

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umida; siccome non manco genuflessioni in mezzo della scuola, o stazioni in sulle ginocchia, per buoni quarti d’ora e mezz’ore, colle due mani talvolta sotto le frotule, ed, in casi straordinarii, con calcinacci di soprappiù sotto le mani; e non di rado esposizioni pubbliche in sulla porta divenuta luogo di berlina, colle braccia in croce, con teste asinine di cartone per mitera ecc... ecc. Io piangeva il mio buon Bozzelli, dal quale mai non aveva avuto né manco un buffetto; e vidi, con estremo piacere, un dopo pranzo, esso Bozzelli, che pur era una pasta dolce, tutta zucchero e mele, irrompere, per non so quale cagione cha doveva avergliene dato il rabbioso aguzzino, e dargliene un buon carpiccio coram populo, voglio dire innanzi alla ragazzaglia, buscandosi così una scomunica maggiore, perché, suadente diabolo, aveva percosso un poco reverendo sacerdote.

Bracciano nei ricordi d’infanzia di Francesco Orioli Un colorito e sentito affresco del paese a fine del Settecento

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racciano vista dagli occhi di un bambino. Un bambino vissuto a fine Settecento. Lui si chiama Francesco Orioli. È nato a Vallerano nel 1783 e nella prima infanzia con la famiglia si trova a Bracciano. Il padre Giovanni Orioli è il chirurgo di Pisciarelli. Una volta adulto, mentre è in esilio politico in Francia essendo stato tra i fondatori della Repubblica Romana, attorno al 1833 Francesco Orioli comincia a scrivere “I ricordi della mia vita”, una autobiografia riscoperta da Giacomo Lumbroso, socio dell’Accademia dei Lincei. Rimasto fino ad allora inedito il testo fu pubblicato a cura dello stesso Lumbroso nel 1892 dalla tipografia dell’Accademia dei Lincei con il titolo “Roma e lo Stato romano dopo il 1789” (Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche Estratto dal vol. I, fasc. 2. - Seduta del 21 febbraio 1892). Si tratta di uno scritto colorito dal quale emerge una Bracciano in trasformazione, un paese di ancora 1500 anime nella quale sono attive le ferriere e la cartiera, nella quale l’istruzione viene impartita con metodi autoritari. Una Bracciano che può vantare un teatro nel Palazzo comunale e dove ancora è in funzione il ponte levatoio. La prosa è fresca è accattivante e restituisce un affresco della Bracciano di fine Settecento, delineandone talvolta il tessuto sociale nel quale ancora svolgono un ruolo di punta figure come il parroco, il maestro, il medico.

Dileggio e sopraffazioni ai danni del sopranista Bianchini

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i sarebbe facile aggiungere a sì fatti racconti buon numero d’altrettali, e riandare uno stuolo di non ancora spente reminiscenze. M’è nella mente un vecchio signor Bianchini, ridicolo in tutta la contea braccianese per un’idea fissa inchiodatagli nel cervello d’esser lui valentissimo cantore in chiave di soprano, e ben mi rimormorano all’orecchio il ridere infinito del popolo, e i burleschi e traditori applausi d’un giorno in che lo mascherarono in donna, mostruosamente impalandranato d’abiti, e d’altre smancerie femminili, screziato di nastri, imbiaccato, vajuolato di mosche, infarinato con polvere di cipro, fiancheggiato o bastionato di guardinfanti; dopo di che lo tirarono così adorno e concio nel teatro ch’era al di sopra della casa nostra, e quivi per una crudele ora lo tennero a spettacolo e a dileggio.

Il teatro sopra casa

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n questa terra una prima volta io vidi una fornace di ferro. Feci pur ivi la prima conoscenza con un edifizio di cartiera. Non parlo qui della prima rappresentazione teatrale a che assistei con infinito piacere, e fu la commedia de’ Falsi galantuomini del Federici, recitata da dilettanti, nella quale mio padre stesso ebbe una delle parti: né della penosa impressione che in me produssero le minaccie fatte in piazza, e sotto le finestre nostre, a mio padre, da un facinoroso della terra, spezie di bravo, già colpevole d’omicidî e feritore di coltello. Queste son cose tutte di minor momento.

Gli Orioli giungono a Bracciano

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l mio padre Giovanni fu il più piccolo de’ nove figli. Imparò in Viterbo sua patria a tutto suo potere la chirurgia, e più tardi la medicina, e a grado a grado divenne pratico non infelice, medicando quasi non altro che villani. Aveva tolto a moglie, nella piccola e vicina città di Montefiascone, Caterina Valeri, figliuola di un legulejo. Con tanta fortuna quanta può esser chiusa in forziero non grande, ricchi di gioventù, d’amore e di spensieratezza, i due coniugi si trasmutarono di paese in paese, egli per vivere dell’arte di curare malati, ed essa per accompagnare il marito, e rendergli meno aspra la vita...Da un villaggio del distretto d’Orvieto, ch’è detto Allerona, o Lerona, passarono a Marta, da Marta a Latera nel ducato di Castro, da Latera a Vallerano nel Ronciglionese, da Vallerano a Calvi tra i Sabini, da Calvi a Bracciano presso il lago Sabatino. Dopo non bene un anno si ricondusse a Bracciano, per praticare la medicina nel contado di Pisciarelli, del quale i Pisciarellesi pretendono esser menzione nel celebre ditirambo di Francesco Redi. (Non c’è però molto da lodarsene. Il Redi così dice: Quel cotanto sdolcinato, Si smaccato, Scolorilo, snervatello Pisciarello di Bracciano Non è sano; comecché poi nelle note s’ingegni di palliare a tutto potere la contumelia). Arrivato il quinto anno della mia vita, ed avanzandosi esso verso il sesto, mio padre...andò chirurgo in Bracciano (si tratta del rientro a Bracciano ndr), e seco insieme condusse me e gli altri. Due cavalli portavano mia madre e lui. Seguitava una salmeria con due modeste casse di nostre masserizie, con Olimpia la serva, con Gioacchino mio fratello minore, nato in Calvi, per ultimo con me e con mia sorella Angela pendenti ambidue di qua e di là dal basto d’un orecchiuto quadrupede per entro a due cesti che con robe accumulate nel fondo ci somministravano comodo sedile...Senza doverci lagnare d’alcun sinistro giugnemmo a Bracciano, e c’istallammo in un appartamento del palazzo comunale che ci era destinato.

Ritratto di Francesco Orioli

re nella vieta leggenda di Giosafatte. Non mi vidi appena capace di tanto, che la lettura divenne l’occupazione mia favorita... Dopo sei mesi di questa scuola io lasciai la classe inferiore e passai sotto la ferula d’un prete Pieroni, il qual vi so dire che presto mi ebbe insegnato per pratica, in tutti i suoi modi e tempi, il verbo vapulo vapulas (essere bastonato ndr). Anzi, dopo pochi giorni di noviziato, divenni il favorito della ferula, se non del maestro. Gli altri condiscepoli eran più o men compartecipi agli stessi favori, ma evidentemente a me si riserbava la preferenza del signor maestro, perché io era il forestiere, una sconciatura di fanciullo, malvenuto, malfermo fin d’allora delle mie membra, non protetto. Gli altri erano i signorini del paese (Signorini! V’eran figli di beccaio, di panattiere, di merciaiuolo...v’eran figli di villano! Ma, tanto e tanto, innanzi al forestiero si tenean per signori). Para manum! gridava il cerbero: perchè allora nelle scuole si parlava latino; Para manum! e non accadeva dire, non voglio. La mano bisognava stenderla ben aperta. Intanto il buon Pieroni aveva già nel pugno il sozzo ed ignobile strumento, che, non certo a quest’uso, diede il facitor primo degli animali al marito della mucca, e otto, dieci, dodici, venti o più colpi cascavan giù sonori, e distribuiti con imparziale alternativa sulla destra e sulla sinistra. Ne’ giorni di svogliatura per amore di varietà, la pena s’andava cangiando; e alle spalmate si sostituivano i pignuoli, che è dire colpi di falsariga sulle cinque dita delle due mani, riunite a pan di zucchero; cavalli, anco a bisdosso, ch’io mi vergogno di spiegarti, se di spiegazione hai qui bisogno lettor mio poco al fatto delle antiche delizie; o croci, delineate in terra sopra 15 o 20 mattoni colla lingua

La scuola: il buon Bozzelli e il severo prete Pieroni

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ra il mio sesto ed il settimo anno fui mandato alla scuola pubblica d’un tale Bozzelli notaio, e precettor del comune. Appresi a legge-

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vecchio caporale barbagrigia che comandava lo stuolo armigero. Quella notte nessuno poté chiuder occhio, e si stava sdrajati gli uni a costa degli altri ne’ corridoi, ne’ saloni, e pe’ camerotti, sempre in orecchio, tra la musica de’ sospiri, e il borbottamiento delle giaculatorie; sempre turbati dal continuo levarsi in piè or di questo or di quello, e dal correre a’ finestroni dietro i vetri, e dal mettersi in ascolto a tutti i buchi, credo a fine d’aver nuove dal vento, per cerbottana, de’ terribili masnadieri e delle loro gesta mirifiche. Alla punta del giorno ecco tutti di nuovo in piede, pallidi come larve dall'insonnio e dalla paura: e qui nuovi moccoli accesi a tutti i santi del paradiso; la messa a non so qual altare improvvisato; e una filatessa (lunga serie ndr) di preghiere che allontanavano assai spiacevolmente per noi fanciulli l’ora del mangiar mattutino, che in quelle strettezze non fu da festa. Verso il mezzodì, le turbe stipate presso il maggior finestrone che guardava d’alto in basso la via romana, scoperser su quella un polverio che s’alzava e camminava come una nube spinta dal vento, e un luccicare lontano d’armi che al sole mandavano lampi; e allora sì che nessuno più si contenne. Fu subito un levar delle mani al cielo, un batter tra loro palma a palma, uno stracciar de capelli, un esclamare, un singhiozzare, un lamentare, un cader di femmine in convulsione, semi epilettiche qual se la terra fosse già presa d’assalto, e messa a ruba. Un cattivo cannocchiale, tutt’altro che acromatico, di que’ co’ tubi di carta come allor s’usavano fu posto sul trespolo in ispezione, ma non mostrava che nebbia e luccicori tra la polvere...Quando finalmente si poté scorgere ch’era un rinforzo di presso a venti soldati Corsi spediti da Roma, dove probabilmente s’erano inviati a scavezzacollo corrieri sopra corrieri, l’anima tornò in corpo al maggior numero, e lo schiamazzio non fu minore, ma d’un altro tuono. Dopo forse tre giorni di prigionia volontaria tutti uscirono; i più timidi, com’è naturale, furono gli ultimi. Non v’ebbe feriti né morti. Piuttosto è da credere, che la popolazione uscì cresciuta di qualche individuo, dal lato delle giovani, che mi resta fisso nell’animo quasi como un sogno, essersi mostrate le meno timide e più vispe...Poco più tardi fu risaputo che questa esplosione di codardia non aveva avuto altro movente, se non la presenza reale di due o tre di que’ disgraziati, morti di fame, e senz’arme, che niente trovarono a far di meglio, se non lasciarsi riprendere, presto avendo riconosciuto essere il più savio partito rientrare nella galera, dove la vita men era dura di quell’altra, la quale per capriccio d’un istante avevano preferita con poco senno.

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Gente di Bracciano

La grande paura dei galeotti evasi dal carcere di Civitavecchia

I complimenti del vescovo Simeoni

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ra i fatti degni di rimembranza, appartenenti a questo tempo è la recita, nella chiesa principale, d’un’orazione panegirica in onore di san Niccolò protettore de’ fanciulli. Mio padre m’insegnò la mimica un po’ in caricatura di quella recitazione. Bisognò alzare il suolo del pulpito con tavole, e raffazzonare al mio taglio una piccola cotta, ed una sottanina nera. Lo stesso mio padre prestommi ufficio di suggeritore. Piccoletto della persona io m’era un predicatore di appena tre palmi: aveva però spirito e voce, e tutto andò a maraviglia. Di quella filitessa bastantemente lunga, e composta da non so chi, m’è solo rimaso in mente il testo latino, col quale si cominciava, ed era quel versetto del salmista che dice: Concepit dolorem, et peperit iniquitatem. Il successo fu grande, tuttoché vi mettessi di mio, proprio nient’altro che la memoria pappagallesca, e la gestico lazione di commediante un po’ mal pratico. I doni che mi guadagnai non furono pochi. Un’altra occasione in che brillai fu nel tempo in che il vescovo di Sutri, recatosi a Bracciano per la visita ordinaria della diocesi, m’interrogo per conoscer l’idoneità che m’avessi o no al sacramento della cresima. Era stato bene istruito nella dottrina grande del Bellarmino, e ricevetti i complimenti di Monsignor Simeoni, come teologo. In chiesa fui confermato il primo, ed in luogo del solito schiaffo m’ebbi una carezza.

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e seguenti han forse più del curioso. Penso che l’età mia non fosse bene di sette anni quando accadde che uno stuolo di galeotti, tenuti nelle prigioni di Civitavecchia (la fama pubblica diceva un cinque dozzine; la paura li multiplicava per centinaja), s’ammutinò, e vinta la guardia fuggì via dandosi alla strada. Si disse che se n’eran veduti far la ronda ne’ dintorni di Bracciano, terra che pur contava un 1500 abitanti, o forse più. E lo spavento fu subito generale, indescrivibile, tanto o tale che la immagine di quella desolazione di tutti mi si è stampata indelebilmente nella memoria. Si trattava di pochi e fuggiaschi, disarmati o male armati: nondimeno in poco d’ora restò vuoto di gente il paese; le campane suonarono a stormo; le case furono chiuse a doppio giro di chiave; le ricchezze trafugate o nascoste. Il popolo a calca, simile a imbelle armento si rinserrò nella rocca, poiché una rocca cinta parmi di mura e fosse, era per sorte da un de’ lati della terra. Il ponte levatojo fu alzato; si calarono le saracinesche; due cannoni si misero in appresto, Dio sa come; schioppi rugginosi, e ferri in asta, partigiane e palossi, tromboni e pistolesi, armi d’ogni forma furono distribuite ai meno timidi che però tenevansi essi ancora prudentemente coperti dal muro. Circa otto soldati papali furono posti alla soprintendenza delle difese. Lo spettacolo avrebbe fatto ridere chicchessia, se allora non avesse fatto piangere tutti per diffalta d'animo e per troppo lungo disuso delle idee guerresche. Sopraggiunta la sera si recitarono con esemplare divozione le litanie minori o lauretane, davanti una immagine della vergine, e vi si accese gran luminaria. Le lagrime raddoppiarono. Il diapason de’ gridi crebbe di più tuoni, e i maggior pianti (cosa che allor creò grande stupore perfino in me bambino) furon quelli del

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La partenza della famiglia

olgendo al termine il settimo anno di mia vita, ed avvicinandoV si l’ottavo, dovetti seguitare mio padre, che di chirurgo trasformato in medico per virtù d’un romano diploma...si recò a Morolo negli Ernici per esercitare la sua nuova professione. Graziarosa Villani

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Gente di Bracciano


Il ciclo delle figure femminili nel castello di Bracciano Passatempi della vita di corte rappresentati con gusto cortese da un anonimo del XV secolo

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del secolo XIX e gli inizi del Novecento, volto alla definitiva riorganizzazione e musealizzazione del maniero. Proprio gli interventi di restauro riportano in luce dipinti nascosti e rovinati a causa delle intemperie del tempo e delle modifiche apportate alle sale (soffitti, camini etc.), riemergono così il ciclo delle “Figure femminili” al piano nobile del castello e quello “degli Eroi” nella sala delle Armi al secondo piano, frutto di diversi interventi e abbellimenti compiuti nel castello a partire dal secolo XVI. Il Ciclo delle “Figure Femminili” fu eseguito sulle quattro pareti della sala nobile del castello da un pittore anonimo laziale della fine del XV secolo che si rifece molto probabilmente a modelli e a stilemi, di gusto cortese, in alcune dimore nobiliari e aristocratiche del nord. Le scene, intercalate da archetti e eleganti colonne, “rappresentano in prevalenza i passatempi della vita di corte come la danza, la musica, la caccia e la pesca, “svaghi nell’acqua e intrattenimenti a contatto con la natura” uniti a lavori femminili come la filatura: tutte le attività sono inquadrate in ambientazioni domestiche e in paesaggi aperti, alcuni dei quali rievocano la bellezza del territorio di Bracciano e le acque del lago. Le protagoniste sono tutte donne, “ritratte secondo le consuetudini dell’aristocrazia nordica della fine del Trecento a inizio Quattrocento”, vestite ed acconciate elegantemente secondo la moda dell’epoca soprattutto d’Oltralpe francese e fiamminga, infine trasfigurate nel mito, perché identificate da alcune scritte come figure mitologiche e regine. I dipinti citati diventano subito oggetto di osservazione da parte di Luigi Borsari, archeologo e autore noto per aver realizzato in collaborazione con Raffaele Ojetti la prima Guida storico artistica del castello nel 1895 (riedito a cura di Enzo Ramella e Elena Felluca nel 2014 per Tuga edizioni). Dopo successivi studi molti dei quali confluiti negli atti della mostra del 1981 (Bracciano e gli Orsini nel ’400. Tramonto di un progetto feudale). Catalogo della mostra, Bracciano, Castello Odescalchi, 27 giugno - 27 agosto 1981, a cura di A. Cavallaro, A. Mignosi Tantillo, R. Siligato, Roma 1981] il ciclo pittorico è stato

el suo vivere quotidiano l’uomo percepisce quanto il suo essere sia relazionato con il resto dell’ambiente che lo circonda. Il castello di Bracciano, anche nei giorni più desolati del “lockdown” dominati da un silenzio carico di significati e di emozioni, ha continuato a trasmettere, con la sua materialità pregna di memoria e di bellezza, una percezione di vita. Le luci, le ombre, le tonalità dei colori assunti dall’acqua e dal cielo di cui è circondato, lo trasformano continuamente in un’immagine onirica, quasi fiabesca, che ci riporta a un tempo passato, per poi tornare improvvisamente con il suo carico di pietre e di storie ad essere presenza materica. Così anche noi, “abitanti del lago”, siamo ormai abituati a vivere in compagnia del nostro castello un po’ sospesi fra sogno e realtà. Fu costruito alla fine del secolo XV da Napoleone Orsini come “luogo di rappresentanza non privo tuttavia di quelle garanzie necessarie per una famiglia continuamente esposta a guerre ed assalti improvvisi”, simbolo della gloria e della potenza della “famiglia Ursina” che fanno di Bracciano la capitale del loro nuovo stato feudale con funzione di prestigio e di difesa per i loro possessi. I discendenti di Napoleone Orsini lasciano nel castello la loro impronta, con interventi architettonici e decorativi volti in parte a modificarne l’aspetto. Così la maestosa architettura militare, sotto il Duca Gentil Virginio Orsini, “educato alla corte napoletana degli Aragonesi allora una delle più fastose e colte d’Europa”, si comincia a trasformare, anche grazie all’opera di pittori, poeti, letterati e alla consulenza dell’architetto senese Francesco di Giorgio Martini in un’elegante residenza civile rinascimentale, ingentilita da “logge, finestre, capitelli compositi e raffinati portali”. Sarà poi Paolo Giordano I a dotare il castello di preziosi cicli decorativi di stampo manierista come gli affreschi della sala Zuccari e a realizzare un giardino rinascimentale, opera dell’architetto Giacomo del Duca che opererà anche ai giardini del Palazzo di Anguillara, infine con il passaggio del feudo agli Odescalchi, sarà il Principe Baldassare, con l’opera dell’architetto e studioso di arte Raffaele Ojetti, a realizzare un colossale progetto di restauro verso la fine

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approfondito negli ultimi anni dalla dottoressa Anna Cavallaro che dopo accurate indagini, molte delle quali ancora in corso, ha fornito delle utili indicazioni per collegarlo al contesto di realizzazione e alle committenze cercando di identificare le parti eseguite con tecniche originali da quelle frutto di rifacimenti e restauri. Questi modelli sono riproposti in maniera anacronistica agli inizi del secolo XVI da una famiglia che vanta origini aristocratiche antiche e che si richiama a modelli, ideali e tematiche cortesi come quelli della caccia e della pesca. Alcune scene infatti ritraggono alcune donne intente a cacciare e a pescare molto similari ad alcune raffigurazioni proposte dai Visconti nel castello di Pavia. C’è da dire che l’Ars Venandi, l’arte della caccia, è un’attività di svago propria della famiglie nobili, tutt’oggi praticata nel territorio sabatino (dai ceti più agiati ai meno), soprattutto quella del cinghiale, ma anticamente gli Orsini erano dediti soprattutto alla “caccia della Palombella” nelle riserve boschive del feudo, anche la pesca era vista come attività di svago e, una delle scene del ciclo, mostra alcune donne tirare un pesce su con un retino da unire poi al restante pescato nel loro sacco posto a tracolla, mentre “sullo sfondo è riconoscibile una veduta del Castello Orsini con i caratteristici torrioni angolari e i due piani scanditi da finestre”. Anche ad Isabella Medici piaceva passare del tempo a ristorarsi all’aperto nelle ville di campagna della famiglia a Firenze (Careggi, Cafaggiolo), inoltre si divertiva a pescare e a ballare, anche per distrarsi dalla lontananza con l’amato consorte Paolo Giordano I come leggiamo nel carteggio ancor conservato presso l’Archivio Orsini a Roma ed edito per la casa editrice Gangemi International dall’archivista e storica Elisabetta Mori. Lettera 318: Pisa, 19 marzo 1569: “Illustrissimo et eccellentissimo signor e padron mio osservantissimo. Le trote sono poche, perché sono nel pescare sfortunata, ma se vostra eccellentia mi manderà certi panierini longi col coperchio gliene manderò più spesso et più quantità”. Per finire anche il noto scultore di stampo neoclassico Ignazio Jacometti (1819-1883), discendente da un’illustre quanto antica famiglia di possidenti di latifondi ad Anguillara amava andare a caccia di folaghe nel lago tanto da cadere una volta in acqua come ci racconta il figlio Francesco nella biografia sul padre. Ci sono due scene però del Ciclo femminile che meritano di essere analizzate come sottolinea Cavallaro, perché fanno un diretto riferimento “ai fondatori della Dinastia degli Orsini e alla loro collocazione nel Viterbese”, c’è una

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scena infatti nella quale una fanciulla immerge le mani in un fonte che riproduce fedelmente la fontana grande di Viterbo (identificata dalla scritta “Fons Viterbigenus”), nella quale “sono ben osservabili gli archetti gotici e le teste degli orsi con riferimento denso di significati e simboli ad Orso Orsini capostipite della famiglia del ramo di Bracciano con il quale si intendeva celebrare il primo insediamento della famiglia nella Tuscia”. Un’altra scena invece mostra “sugli spalti di un castello tre donne in corsa verso due giovani che sorreggono uno stendardo sul quale è ben visibile lo stemma Orsini”: qui c’è un riferimento all’assedio del castello da parte delle truppe pontificie di Alessandro VI nel 1497 difeso abilmente (e vittoriosamente) da Bartolomea Orsini, moglie del condottiero Bartolomeo d’Alviano e sorella di Gentil Virginio Orsini allora rimasto prigioniero del Re di Napoli e dunque lontano da Bracciano. L’immagine celebrativa delle figure femminili di Casa Orsini che è insieme “sfarzosa rievocazione della vita di corte di illustri famiglie nobili”, data il ciclo di dipinti come termine post quem rispetto alla data del 1497, anno in cui muore Gentil Virginio che probabilmente avvia il progetto decorativo e ne sceglie i temi cortesi, ma la realizzazione dell’opera secondo gli studi delle ricercatrici Siligato e Cavallaro deve essere legata al figlio Giangiordano che sappiamo frequenta le corti dell’Italia settentrionale e soggiorna a lungo in Francia dove si fa costruire un castello nella cittadina di Blois come riporta la “Storia manoscritta di Casa Orsini del secolo XVII” del Campagna. Dunque un ciclo di affreschi tutto al femminile e di stampo cortese, approfondito da studiose donne, in un periodo che vede la nobiltà romana ormai al tramonto e il cui ultimo rappresentante forse sarà proprio Paolo Giordano I Orsini, sotto il cui governo Bracciano si trasformerà in un ducato nel 1560 includendo numerose comunità dotate di statuti e un avamposto sul mare sempre più strutturato come il castello di Palo. A questo punto è necessario andare a vedere dal vivo questo ciclo di dipinti appena ci sarà possibile nutrendoci di cultura e bellezza come direbbe Salvatore Settis, intanto per chi volesse approfondire, rimando alla lettura del bellissimo articolo della Cavallaro: Musica, danza e svaghi di corte in un ciclo di figure femminili nel castello Orsini di Bracciano pubblicato nel 2013 in una collana tutta al femminile a cura di Anna Esposito come in “Donne nel Rinascimento a Roma e Dintorni”. C’è un filo diretto fra quel mondo e il nostro fatto di materia, emozioni e storie che basta svelare, perciò togliamo il velo dagli occhi e…Buona visione! Lucia Buonadonna

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L’Orfeo di Cristoforo Stati “comprimario”dell’Euridice

Il nostro prossimo futuro “Green”

La statua oggi al Metropolitan Museum of Art concepita nello spirito del “recitar cantando” su commissione del fiorentino Jacopo Corsi

Economia locale piuttosto che globalizzazione contro i cambiamenti climatici

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n esposizione permanente al Metropolitan Museum of Art di New York l’opera dello scultore braccianese Cristoforo Stati. L’artista (1556-1619), del quale si conserva nel museo civico di Bracciano il gruppo scultoreo di Venere e Adone, la realizzò su commissione di Jacopo Corsi, tra gli intellettuali più attivi della Camerata de’ Bardi che con la messa in scena della prima opera in musica, Euridice, diedero il la alla fortunata epoca del “recitar cantando” e di conseguenza al melodramma italiano. Cristofano da Bracciano, come è anche chiamato Cristoforo Stati, ha fatto parte di quella ristretta cerchia di personalità che possono essere considerate i padri dell’opera melodrammatica. L’Orfeo in marmo infatti mutuava in scultura la prima opera in assoluto che viene annoverata, Euridice che venne portata in scena a palazzo Pitti di Firenze il 6 ottobre del 1600 in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico VI di Francia. Euridice, il manifesto del nuovo recitar cantando, andata in scena con le musiche di Jacopo Peri e il testo di Ottavio Rinuccini segnavano per Jacopo Corsi, il committente dell’Orfeo di Stati, “il coronamento di anni di ricerche, di discussioni intorno alla musica antica e di tentativi di resuscitarne la prassi esecutiva, veniva anche a configurarsi come un omaggio, un regalo nuziale alla futura regina, denso di molteplici significati e suggello dell’avvenuta affermazione de casato dei Corsi”. La stretta correlazione tra l’Orfeo scolpito e l’Euridice rappresentata è messa in evidenza da Donatella Pegazzano che nel saggio Jacopo Corsi committente dell’Orfeo di Cristoforo Stati: una scultura per l’Euridice del 1600 ne ricostruisce la genesi, la collocazione e le vicende successive fino all’approdo della scultura alla collezione del Metropolitan Museum of Art sullo sfondo del patio rinascimentale ricostruito del castello spagnolo Vélez Blanco proveniente dai dintorni di Almeria. “La statua di Orfeo scolpita da Cristoforo Stati di Bracciano, sarà per Jacopo (Corsi ndr) l’ultima delle commissioni importanti, ma la più rappresentativa, quella che si pone, e questo fu certo il suo scopo, a coronamento di un momento intellettualmente e socialmente fecondo, un’opera la cui esecuzione scaturì direttamente dall’evento musicale dell’Euridice, che ne costituì, si può dire, il necessario antefatto”. Il 23 febbraio 1601 Cristoforo Stati o meglio suo figlio

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Francesco, come risulta dall’archivio Corsi, riceve “scudi dieci...per conto d’un Tritone e di un Orfeo”. La scultura probabilmente, come ricostruisce Pegazzano, venne collocata inizialmente nella casa di via del Parione a Firenze, un casiricreative e culturali e no riservato ad attività poi nel palazzo di via Tornabuoni. Secondo le ricostruzioni di Pegazzano doveva coronare secondo le intenzioni originarie del committente una fontana. Il figlio di Jacopo Corsi, Lorenzo volle dedicargli anche in memoria del padre che in molti volevano individuare come il nuovo Orfeo, una specifica sala al pianterreno. Secondo Pegazzano lo Stati nello scolpire l’Orfeo subì l’influenza di Giovanni Caccini. “Del Caccini – scrive Pegazzano – lo Stati potrà aver attinto quell’accenno di intonazione naturalistica, di rappresentazione degli affetti che, già rilevabile nell’Orfeo, il braccianese cercherà di sviluppare negli anni successivi, declinandoli comunque all’interno di un solido linguaggio antichizzante, come nel moto gruppo Venere e Adone di Bracciano”. Oggi l’opera è a New York, ma come ci è arrivata? Andando a ritroso l’opera è stata donata al Metropolitan Museum of Art nel 1941 dal magnate americano George Blumenthal anche se inizialmente identificato in un Apollo attribuito a Pietro Francavilla come da catalogo della collezione Blumenthal redatto da Stella Rubinstein tra il 1926 e 1930. Solo nel 1948, lo studioso Filippo Rossi ne fornì una corretta attribuzione a seguito della messa in relazione della statua “con quell’Orfeo - scrive Pegazzano - che nel 1677 Cicinelli, nelle appendici alla sua riedizione delle Bellezze di Firenze di Francesco Bocchi, ricordava nel palazzo del marchese Corsi”. Prima di Blumenthal l’opera, nei primi del Novecento, faceva parte della collezione del francese Joseph Spiridon. Ma non è noto chi ne fu il primo acquirente dopo la stima che nel 1824 il marchese Tommaso Corsi affidò alla scultore neoclassico Stefano Ricci di alcune opere del suo patrimonio. Né si conoscono le sorti del Tritone che il Corsi pagò allo Stati e forse destinato al giardino della villa dei Corsi a Sesto Fiorentino. Graziarosa Villani

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igenerazione urbana, città trasformate dalle costruzioni verdi, realizzate con piante, elementi naturali e tecniche completamente ecologiche, vere architetture che usano materiali vegetali totalmente sostenibili che le mettono un gradino sopra a tutti i sistemi costruttivi. Questa un’immagine possibile del futuro Green. Un’altra può essere riferita al sistema di mobilità a basso impatto ambientale, come camminare, pedalare, servirsi dei mezzi pubblici, utilizzare il car sharing, la bicicletta o il monopattino elettrico, sono solo alcuni esempi di ciò che oggi viene definita mobilità sostenibile, cioè l’insieme delle pratiche virtuose che conciliano il bisogno di muoversi con quello di ridurre l’inquinamento atmosferico e acustico. Un’ulteriore pensiero può essere rivolto al sistema economico da ricentrare su scala locale anziché globale. Gunter Pauli, imprenditore, economista, ecologista, inventore della Blue Economy, tra i promotori del Protocollo di Kyoto, sostiene in un’intervista rilasciata a Sergio Ferraris per “Materia rinnovabile”: “Il cambiamento più importante riguarda il modello di business. Se continuiamo con la globalizzazione, aumentando il commercio internazionale su scala globale, incrementeremo le emissioni climalteranti. Dobbiamo lavorare con le economie locali cogliendo le opportunità dei territori: se non cambiamo il modello di business non combatteremo i cambiamenti climatici e non risponderemo ai bisogni dei cittadini a livello locale. Non ha senso utilizzare merci che provengono dall’altro capo del mondo, quando si possono produrre vicino a noi.”

2050?

Ripensare i modelli di consumo

Gli approcci green possono essere infiniti e riguardare davvero tutti gli aspetti della nostra vita e questo porta il discorso su un piano sovraordinato ai singoli fenomeni raggruppabili sotto la generica etichetta “Green”. In realtà il futuro green, prima ancora di tutti i diversi settori produttivi e urbani, rifonda una cultura e uno stile di vita assolutamente diversi che avranno un impatto molto meno ideale e più concreto sulla nostra vita. La pioggia di miliardi in arrivo dall’Europa dovrà finanziare un Piano per la ripresa e la resilienza di cui in realtà non si sa ancora molto e che comunque è parte del programma europeo Next Generation Eu, i cui

principali obiettivi sono tre: transizione energetica - che è perseguita anche dal parallelo programma Green New Deal - inclusione e digitalizzazione. È probabile che, come spesso succede, il clima politico italiano non sia dei migliori per fronteggiare una occasione così importante, ma ciò non toglie che questa opportunità dovrà comunque essere affrontata a tutti i livelli di governo e di società, fino alle scelte e alle coscienze individuali, con la consapevolezza che da questa stessa opportunità dipende il nostro prossimo futuro. La tanto agognata rivoluzione green in realtà sarà possibile solo se ognuno di noi svilupperà una strategia di vita green che porterà alla diffusione di un modello di vita diverso da quello attuale, più consapevole delle opportunità offerte da un’economia di tipo circolare. La crisi economica provocata dalla pandemia ha dimostrato che le aziende orientate allo sviluppo sostenibile sono più resilienti, più digitali, più giovani. In breve la direzione obbligata è la transizione ecologica, conveniente, oltre che necessaria, anche sul piano economico e sociale. La vera scommessa ora è saper riempire di contenuti un’etichetta troppo universale per contestualizzare le scelte di macro, ma anche di micro economia e in questi termini un grande spazio viene acquistato, in particolare, dai comuni che gestiscono la vita quotidiana delle comunità e che dunque molto possono incidere sulla vita sociale dei propri territori. Il 2021 sarà un anno importante per tutte le nazioni europee perché in un modo, o nell’altro, segnerà l’inizio del nostro prossimo futuro. Biancamaria Alberi

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A caccia di microplastiche

Gaspar van Wittel: la quadrettatura per la veduta del castello di Bracciano

Monitorato anche il lago di Bracciano nell’ambito del progetto europeo Blue Lakes

Disegno preparatorio (sanguigna, penna, inchiostro, matita, acquarello grigio; 251x1117 mm) di Gaspar van Wittel per l’esecuzione del dipinto: “Veduta del Castello Odescalchi di Bracciano”, ad olio su tela (86x171 cm), sul cui retro si legge la scritta: “Veduta di Bracciano di Gasparo Degl’Occhiali”. Il disegno, custodito alla Biblioteca Nazionale centrale (Roma) “raffigura - come si legge sulla scheda relativa - la veduta del castello rinascimentale di Bracciano e, sulla destra, il lago omonimo. In basso a sinistra è la scritta autografa: “Prato”, con la quale il pittore indica il primo piano della composizione e accenna appena alla posizione elevata di questa zona rispetto al livello del paese e del Castello sul lago. Il disegno è databile alla seconda metà dell’ultimo decennio del Seicento, eseguito su diversi fogli di carta quadrettata a sanguigna e trasferita su un supporto in tela azzurra. Campagna per le microplastiche di Legambiente

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a presenza di nano - e microplastiche (MP) rappresenta un problema per l’ambiente e per la salute umana e ciò ne fa un argomento di studio corrente per ricercatori, politici, amministratori e organizzazioni ambientaliste. Quella della plastica è un’industria che non ha mai avuto crisi e la concentrazione di microplastiche nell’ambiente è aumentata parallelamente alla produzione. Nel 2019 sono stati prodotti circa 340 milioni di tonnellate di materiali polimerici e solo una parte di essi, a fine vita, è stata trattata correttamente. Il problema, pertanto, non è la plastica in quanto materiale di uso quotidiano, ma l’inadeguatezza dei sistemi di gestione dei rifiuti solidi urbani e la scarsa attenzione per l’ambiente di noi cittadini. I polimeri sono materiali che si possono riciclare quasi all’infinito ed hanno anche un discreto valore economico, ad esempio con una tonnellata di bottiglie, in PET, monocolore dell’acqua minerale, si può ricavare fino a 400 euro, così come con una pari quantità di polipropilene o polietilene. La plastica, anche se lentamente, sotto l’effetto combinato dei raggi UV, dell’ossigeno dell’aria e dell’abrasione meccanica, si degrada e si frammenta producendo le micro e successivamente le ben più pericolose nanoplastiche, talmente piccole da passare le pareti cellulari e di cui oggi non si sa nulla riguardo gli effetti sulla salute. Il problema della presenza di microplastiche in acqua non riguarda solo mari e oceani, diventati ormai zuppe di plastica, ma anche laghi e fiumi.

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La conferma di questo fenomeno si ha considerando i dati raccolti durante le campagne annuali di Goletta dei Laghi, realizzate da Legambiente in collaborazione con Enea. In breve si tratta di campionamenti specifici per quantificare e caratterizzare le microplastiche (dimensioni comprese nell’intervallo 0.3-5 mm) presenti nei maggiori corpi d’acqua superficiale del territorio nazionale. Dalla ricerca di Legambiente ed Enea, l’unica a livello nazionale di questo tipo, emerge che nei laghi monitorati sono state rinvenute migliaia di microparticelle di plastica galleggianti. Dai dati ottenuti sulla presenza di microplastiche nei fiumi, è evidente la stretta correlazione fra la quantità di microplastiche, soprattutto microfibre, e la presenza di impianti di depurazione delle acque reflue urbane. Sarebbe pertanto opportuno migliorare i processi di depurazione e contemporaneamente aggiornare la normativa ancora priva di riferimenti specifici riguardanti questa tematica. Per rispondere a queste nuove aspettative, recentemente è stato avviato un progetto europeo (Blue Lakes) il cui obiettivo è di tutelare le acque di alcuni grandi laghi, italiani e tedeschi, fra i quali è compreso il lago di Bracciano. La definizione dei limiti di scarico, l’attuazione di programmi di monitoraggio e il miglioramento dei processi di trattamento delle acque reflue sono gli obiettivi principali del progetto. Nel lago di Bracciano come in altri grandi laghi italiani le MP sono presenti, anche con numeri importanti (fino a oltre 530.000 MP/km2), soprattutto dove il vento le accumula. Nei dieci punti campionati sono state

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trovate mediamente 117.000 MP/km2, un valore che accomuna il lago di Bracciano ai grandi bacini dell’Italia settentrionale e degli Stati Uniti. In questi ultimi anni le MP sono state cercate e trovate, oltre che sulla superficie, nei sedimenti, nella colonna d’acqua (fino a 60 m di profondità), lungo le spiagge e nei pesci. A seguito della caratterizzazione delle matrici polimeriche, è risultato che i polimeri più venduti, polietilene e polipropilene, siano anche quelli più rappresentati fra le microparticelle di plastica. In particolare, ancora oggi le MP derivanti dalla degradazione delle buste di plastica, in polietilene a bassa densità, che fino a qualche anno fa contenevano la nostra spesa, sono le più diffuse. Anche le palline derivanti dalla disgregazione del polistirene espanso (polistirolo) sono, in alcuni siti, numerosissime. Le MP sono come piccoli vascelli in grado di trasportare inquinanti come pesticidi, idrocarburi, metalli pesanti e batteri patogeni. Attualmente è in corso uno studio per monitorare la crescita di biofilm sulla superficie dei più diffusi materiali polimerici; sarà interessante vedere con quale velocità le colonie batteriche s’insedieranno sulla loro superficie e se si verificheranno fenomeni di degradazione indotte dai batteri. Sarebbe importante che il lago di Bracciano, densamente popolato e allo stesso tempo riserva idrica di emergenza per Roma, divenisse una sorta di laboratorio a cielo aperto che ospiti attività di ricerca finalizzate alla tutela dell’ambiente lacustre e della qualità dell’acqua in particolare. Loris Pietrelli

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Natale e tradizione a Bracciano: li maccheroni con le noci Dolce tipico fatto risalire ai riti dei Saturnali di epoca romana

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a quale tiramisù, ma quale zuppa inglese? Nella tradizione di Bracciano il dolce tipico per terminare in bellezza il banchetto di Natale era la pasta alle noci. Un dolce che accomuna tutta l’area del Viterbese e che secondo alcuni esperi affonda le proprie radici nei celebri Saturnali, i rituali di epoca romana tipici del Solstizio di Inverno, caratterizzati da elementi poi acquisiti dai riti di Natale. Saturno era considerato il dio dell'età dell'oro, quando gli uomini vivevano felici, nell'abbondanza di tutte le cose e in perfetta eguaglianza fra loro. Durante i saturnali si festeggiava con conviti e banchetti l’abbondanza dei doni della terra e, concedendo agli schiavi la più larga licenza, si rappresentava quasi l’antico stato di eguaglianza fra tutti gli uomini. Questa festa, cara alle genti di ogni condizione sociale, iniziava con sacrificio solenne nel tempio di Saturno, seguito da un banchetto pubblico alla fine del quale i convenuti si scambiavano il saluto augurale. Al convito ufficiale si aggiungevano i banchetti privati nelle case al quale s'invitavano parenti ed amici. A tavola s’imbandiva quanto di meglio offrivano la dispensa e le cantine e dopo ci si abbandonava al giuoco dei dadi, non permesso fuori dal periodo dei Saturnali. Li maccheroni con le noci tipici della tradizione delle famiglie di Bracciano deriva, secondo gli studiosi, da questi riti e mette insieme ingredienti semplici. Nella tradizione braccianese la pasta che veniva utilizzata era una sorta di maltagliati preparati con farina di grano e acqua. Si preparava poi un abbondante tritato di noci al quale veniva aggiunto miele, pangrattato, cannella in abbondanza, cacao, pepe, mezza noce moscata, scorza di limone o di arancia. La pasta veniva cotta in acqua salata e poi mescolata con gli altri

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Uno dei dolci tipici braccianesi

ingredienti formandone una sorta di torta compatta da servire fredda. La pasta alle noci a Bracciano era tipica dei banchetti della vigilia o Rosa Vergari del pranzo di Natale.

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Lo sdolcinato pisciarello di Bracciano

Monti Sabatini: 320mila anni fa l’inizio dell’attività vulcanica

Vino da dame, gemello del Pisciancio di Firenze

Studio pubblicato sulla rivista Scientifica Reports

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Bracciano lo chiamavano “pisciarello”, un vino chiaro e dolce derivante da un vitigno autoctono. Simile al “pisciancio” di San Miniato a Firenze il vino è stato fatto omaggio di alcuni versi nel ditirambo di Francesco Redi che prima lo denigra e poi lo riabilita relegandolo tuttavia alla categoria di “vino da dame”. In rima Redi scrive: Quel cotanto sdolcinato, Sì smaccato, Scolorito, snervatello Pisciarello di Bracciano, Non è sano E il mio motto vo, che approvi Ne’ suoi dotti scartabelli, L’erudito Pignatelli; E se in Roma al volgo piace Glie lo lascio in santa pace. Parole sarcastiche che nelle note tuttavia Redi si sente in dovere di correggere: tuttavolta lasciando il parlar da scherzo, non fiai, ch’io voglia biasimare il Pisciarello di Bracciano, che è gentile, e vino da Dame, ed

è lo stesso vino di quello che in Firenze si appella pisciancio. Un dizionario. Anche nel Dizionario della lingua italiana di Francesco Cardinali; Pasquale Borrelli pubblicato nel 1846 si indicano alcune caratteristiche di questo vino di produzione braccianese. Lo si indica come una “specie di vino rosso di poco colore. in Roma chiamasi Pisciarello, e colà è in molto credito quel di Bracciano, ed a Firenze quel di S. Miniato al Tedesco; ed è forse così detto per essere vino piccolo, gentile, di poco colore e che facilmente si piscia”. Viene denominato pisciarello o pisciancio anche il vitigno autoctono dal quale derivano le uve. Un giudizio più benevolo sui vini di Bracciano in precedenza era stato dato da Sante Lancerio, il noto bottigliere di Papa Paolo III Farnese che scrive “il vino di Bracciano è perfetto... Questo vino è picciolo, e certo non sono vini da portare da luogo a luogo, se non nel verno. Sono anco di buoni vinetti a un luoco nominato Pisciarelli, dove sono molte capanne fatte di legname et terra. Dove habita Lombardi, Toschani, et di

Il Pisciarello di Bracciano vitigno autoctono

diverse provintie, che custodiscono le vigne secondo la sua patria, et il vino lo fanno il simile al mondo del suo paese. Di modo che qui si trovano di buoni et perfetti vini, ma in Roma sono buoni per il Verno. La State si trova qualche vino in quelle grotte, ed è molto appetitoso, ma vuole essere pigliato in fiaschi, perché alli caldi non resiste. Di questo vino, massime rosso, Sua Santità beveva alcuna volta nella Primavera quando era amabile, di bel colore et mordente sicché è buono et perfetto bere, per Signori et Prelati, nella detta Stagione”. Graziarosa Villani

n’area vulcanica dormiente dove si registrano solo attività residuali di sismicità. Così viene fotografata da un recente studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports dal gruppo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), coordinato da Fabrizio Marra, insieme ai colleghi dell’Università Sapienza di Roma e del Laboratorio di Geocronologia dell’Università americana del Wisconsin, l’area dei Monti Sabatini. Risale a 70mila anni fa l’attività più recente dalla quale derivò il paesaggio attuale. Le acque occuparono la cavità creata dallo svuotamento della massa magmatica a partire da 320mila anni fa circa. La formazione del lago di Martignano, vero e proprio cratere vulcanico, è stata individuata come una delle ultime manifestazioni dell’attività vulcanica del distretto. Lo studio “Monti Sabatini and Colli Albani: the dormant twin volcanoes at the gates of Rome” ha impiegato diverse tecniche d’indagine combinando telerilevamen-

to, per la ricostruzione delle deformazioni del suolo, con sistemi di datazione delle rocce laviche basati sul decadimento radioattivo di potassio e argon, oltre ad alcune informazioni sulla sismicità storica. “L’area dei Monti Sabatini si trova spiega Marra - a margine della fascia tirrenica e che per processi di fessurazione risalenti a 800mila anni fa dovuti alla placca che spinge da ovest ha determinato una attività vulcanica in questo territorio che si presentava pianeggiante”. Lo studio ha messo in evidenza anche attuali fenomeni di subsidenza. Lo studioso Marra in particolare allude a recenti rilevazioni compiute con il satellite e che hanno fatto emergere un abbassamento del terreno dell’area del lago di Bracciano dell’ordine di 20 millimetri all’anno. Si possono definire diverse fasi vulcaniche distinte nella zona di Bracciano. La prima, responsabile della formazione della caldera di Bracciano ed include la grande eruzione esplosiva del Tufo di Bracciano, risale a 323mila anni fa,

seguita dall’attività vulcanica che ha generato il Monte Rocca Romana, Aguscello e dalla colata lavica di Vigna di Valle, 284mila anni fa. Lo studio ha evidenziato inoltre che nel complesso, dalla prima colata di Cornazzano, la fase vulcanica dell’area di Bracciano è durata 45 mila anni (da 329 a 284mila anni fa), con una recidiva media dell’eruzione di 9mila anni. La grande eruzione esplosiva denominata Pizzo di Prato è avvenuta 33mila anni fa. Individuati inoltre nell’area dei Monti Sabatini i prodotti di quattro centri freatomagmatici (Baccano, Acquarella, Martignano, Valle Santa Maria). Si è proceduto inoltre alla datazione di tre colate laviche (Monte Rocca Romana, Casale Francalancia, Monte Cinghiale). “Lo stato del distretto vulcanico sabatino ha sottolineato Marra - può essere definito come d quiescenza. Una eventuale ripresa dell’attività eruttiva sarebbe comunque contrassegnata da ampi segnali precursori”. Graziarosa Villani

Gli avventurieri di Pisciarelli

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Pisciarelli le attività lavorative riguardavano quasi in assoluto la terra. Ed era tanta, la terra, che era ricca, ubertosa, con sue sorgenti e con i boschi di castagni, acacie e querce, bestiame. Le coltivazioni erano estese e tanta la legna da tagliare. Soprattutto per questo, in determinati periodi dell’anno le braccia non bastavano. Come in tutta la campagna intorno a Roma anche a Pisciarelli arrivavano lavoratori avventizi, stagionali. Quando la loro opera non serviva più, tornavano ai paesi d’origine. In verità la gente non li chiamava “avventizi” bensì come per-

sone che andavano in cerca di lavoro alla “ventura”. Non tutti, però, tornano alle loro case, al loro paesello. Qualcuno si ferma... Dalla lettura degli Stati delle Anime emerge che gli uomini di Pisciarelli non vivevano molto a lungo. Non erano longevi. E accadeva che qualche “avventuriero” riuscisse a far innamorare di sé vedove più o meno attempate, con prole ma anche con casa - spesso di proprietà - e con terra da lavorare. Il “forastiero” si sistemava e restava a Pisciarelli.

Carta geologica dei Monti Sabatini a cura di Fabrizio Marra. Legenda:

Tratto da “Pisciarelli nel tempo conosciuto” di Angela Carlino Bandinelli

1 - Terreno sedimentario; 2 - Cupole laviche dei Monti Ceriti-Tolfetano-Manziate (Plio-cene); 3 - prodotti dell'area sorgente di Morlupo; 4 - prodotti dell'area di origine Sabatini Meridionale; 5 - prodotti Bracciano Caldera; 6 - Prodotti Sacrofano Caldera; 7 - Unità Tufo Rosso a Scorie Nere Vicano; 8 - Attività tardiva di Sabatini; 9 - flusso di lava; 10 - Bordo della caldera; 11 - Bordo del cratere; 12 - Cono di scorie; 13 - lineamento morfo-strutturale; 14 - campione datato.

Il Sarcasmo di Vidor Rallacci L’argorittmo

Còrzi e ricòrzi

Dialogo cor virus

Pija ‘na Reggione, conta le perzòne, Dividi pe’ i chilometri de strade, Scarta Bastoni quanno regna Spade, Aggiungi queli che stanno ’n penzione.

C’è ‘n dato ‘nconfuttabbile e preciso: Mai tanti morti ha pianto questa Tera Come dar tempo dell’urtima guera Quanno che ‘sto Paese era diviso.

− Nun vojo letica’, ce devi crede: Vojo parlatte ‘n faccia, côre ‘n mano, Vabbe’ che tu sei virus e io cristiano Ma stamme ‘n po’ a senti’, mettete a séde.

De fianco ripartisci belli e brutti, Tojenno queli ch’hai già computati (Ne la colonna de li penzionati); Abbàda de ‘nzerilli proprio tutti.

De sopra, banne nere ‘n ritirata A semina’ solo teròre e morte; Dar mare poi, a ribbarta’ la sorte, Sbarcava la democrazzia alleata:

N’avemo fatte tante su ‘sta tera Che nun potemo biasima’ ‘r Creato Si pe’ ‘na vorta tanto s’è allargato. Ora spennémo troppo pe’ la guera

Ce semo. Mò riscrivi ’sti totali: De ‘ste du’ cifre scarta la più grossa, Dividila pe’ tutti l’ospedali.

Er viruse, quer tempo, era ‘r Fascismo Fedele servo der fratello Ariano. Er medico fa’ l’atti d’eroismo,

Ma doppo che t’averémo sconfitto Ar bivio tra fa’ bombe o fa’ vaccini Dovémo garanti’ a tutti er diritto

Un, due, tre, via! Nini facce la mossa. Assomma cento chili de cambiali: Mannaggia Presidè, sei zona rossa.

Pe’ ‘r viruse venuto da lontano, Cattolico, o fijo der Socialismo, Allora c’era er zangue Partiggiano.

De ‘n monno giusto, senza doppi fini! – − Illuso! – M’arisponne, − E der profitto? L’ômo ubbidisce solo a li cudrini. −

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