Officinae 2016 Giugno

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Trimestrale internazionale di attualitĂ , storia e cultura esoterica Anno XXVIII - Giugno 2016 - n.2


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVIII - numero 2 - Giugno 2016 Direttore Editoriale

ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO hanno collaborato a questo numero ANTONIO BINNI RICCARDO CECIONI ENRICA GALLO SERGIO MARAZZI VERONICA MESISCA ALDO ALESSANDRO MOLA ELISABETTA PABIS TICCI LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI JEAN MARC SCHIVO ISABELLA ZOLFINO progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO , Direzione, Redazione, Amministrazione: via S.Nicola de Cesarini, 3 ˛ 00186 Roma tel. 06.688.058.31 06.689.3249 fax 06.687.9840 www.granloggia.it of–cinae.granloggia.it of–cinae@granloggia.it direttore.of–cinae@granloggia.it redazione.of–cinae@granloggia.it Reg. Tribunale di Roma n° 155 del 24/3/1989; Autorizzazione postale 50% Finito di stampare nel mese di Dicembre 2015 presso: Grafiche Zanini Srl √ Via Emilia 41, 40011 Anzola Dell»Emilia (BO) , Il materiale inviato anche se richiesto non si restituisce. Il materiale da pubblicare deve essere spedito all indirizzo della Redazione di Officinae. La Redazione informa che il contenuto degli articoli della rivista rispecchia le opinioni dei singoli autori. La Redazione di Officinae resta a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche di cui non si abbia la reperibilità.


22 - L.Pruneti: La via del solstizio 24 - A.Binni: Toledo – XVI incontro U.M.M. 8 - A.A.Mola: La Massoneria italiana 22 - A.A.Mola: Adriano Lemmi 28 - L.Pruneti: Obbedienza e Giuramento 32 - R.Cecioni: Il Lavoro e la Crescita 34 - J.M.Schivo: Le caverne luminose 50 - R.Cecioni: Breve indagine sulla lettera... 54 - V.Mesisca: C’era una volta il filo a piombo 58 - I.Zolfino: La comunità degli ebrei nell’Elba... 64 - E.Pabis Ticci: Eresia, Eretici e... 68 - P.A.Rossi: Burattino, somarello e bambino 74 - E.Gallo: La rete e i suoi segreti 77 - In Biblioteca 80 - Fregi di Loggia


in abissi, impossibili da prevedere, come impervia è l’impresa di rriverà l’estate per me, per

leggere nel cuore dell’uomo. Tale

voi, per tutti quelli che

via ricorda il tavoliere del “Gioco

soffrirono i rigori dell’inverno,

nobile”.

quando la luce sembrava smarri-

Si dice che a riscoprirlo siano sta-

ta, fra il sudario delle nebbie e l’al-

ti i costruttori delle cattedrali che

gore delle sere, morte alla speranza. Arriverà l’estate dopo il pianto dell’autunno e la follia della primavera, arriverà con il suo sole assoluto, la chiarità del cielo, l’abbondanza delle messi. Arriverà per sopprimere le ombre e dischiudere le porte al sogno della nostra felicità. La soglia dell’estate è il solstizio, giorno d’incanto, di riti, di fuochi che bruceranno gli ossidi di un anno greve e doneranno uno smalto nuovo, scintillante ai giorni promessi da Cerere sovrana. Splenderanno i falò sui colli e nei campi saccheggiati dalla falce e nella breve notte qualcuno, attendendo l’alba, vagherà nelle selve per cogliere il fiore di San Giovanni, azzurro come lo zaffiro più puro, azzurro come i cieli d’oriente dove dimora l’astro e alberga la sapienza degli antichi padri. Il solstizio sarà celebrato nei templi e quel giorno i simboli narreranno dell’uomo e della sua costante ricerca di una saggezza smarrita che gli riconsegni

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vollero rappresentare una mappa simbolica del cammino spirituale da seguire per giungere, dopo l’esperienza terrena, al seno della Magna Mater, nel Regno dei Beati. Si narra, inoltre, che quei maestri, abili nel tagliare la pietra, adottassero come simbolo una zampa d’oca; si trattava di una forcella a tre punte che venne raffigurata nei petroglifi atlantici, nelle pietre delle Chiese medievali, sulle lapidi tombali sparse lungo il cammino per Santiago. Per alcuni quel segno era il Crismon, per altri algiz, la runa della vita, per altri ancora la mano di Dio. Per noi quelle tre punte rivolte verso il cielo rappresentano la Libertà, l’Uguaglianza, la Fratellanza; nascono tutte da un unico centro: la Conoscenza, giacché chi non sa cade inesorabilmente nel labirinto delle illusioni, dove il falso sembra vero, lo schiavo si considera libero e la prevaricazione è chiamata ‘fratellanza’.

quell’età dell’oro, quando regnò

Officinae anche in questo numero

Saturno, signore del tempo e del

cercherà di offrire un suo piccolo

principio.

contributo per procedere sulla via

La via che conduce a quell’appro-

della conoscenza, con la speranza

do è lunga, difficile, accidentata.

– tutta solstiziale – che a qualcu-

Spesso capita di perderla, di ri-

no possa essere utile per procede-

tornare indietro o di precipitare

re verso il regno della luce.


La via del solstizio Luigi Pruneti

Arriverà l’estate anche per te, è solo una questione di stagione e di tempo, o di persone Omero, Odissea

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Gran Maestro

il S\G\C\G\M\ Antonio Binni

Toledo – XVI incontro dell’Unione Massonica del Mediterraneo 4


Gran Maestro

C

arissimi, nelle giornate dal 14 al 16 aprile u.s. E.V., nella plurisecolare città di Toledo, crocevia di razze e crogiuolo di idee generatrici di cultura, per dirla con Tito Livio, parva urbs, ma straordinariamente ricca d’arte, si è svolto il XVI Incontro della Unione Massonica del Mediterraneo, organizzato dalla Gran Loggia Femminile Simbolica di Spagna, Comunione ospitante di squisita e rara gentilezza. Ai lavori, diretti dal Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M., alla quale, per Statuto, è affidata la Segreteria Permanente dell’Unione, erano presenti quattordici Obbedienze: il Grande Oriente di Francia, il Grande Oriente Lusitano, la Federazione francese dell’Ordine Massonico Misto Internazionale “il Diritto Umano”, la Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M., la Gran Loggia Mista di Grecia “Delphi”, la Gran Loggia Femminile di Francia, la Gran Loggia Liberale di Turchia, la Gran Loggia dei Cedri, la Gran Loggia Simbolica Spagnola, la Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia, la Gran Loggia Unita del Liba-

no, la Gran Loggia Femminile di Spagna, la Gran Loggia Femminile del Marocco, la Gran Loggia Femminile di Grecia. Tutti i contributi si sono rivelati oltremodo pregevoli. Il tema prescelto per l’incontro: “Come la Massoneria può contribuire al dialogo fra i diversi sistemi politici e credenze religiose che convivono nel Mediterraneo?”, è risultato illustrato da ogni suo possibile angolo prospettico. Fra i diversi interventi, Ci piace ricordare quello svolto dalla Gran Maestra della Gran Loggia Femminile del Marocco, in particolare, per l’accorato appello rivolto a tutte le Obbedienze presenti al fine di rendere meno cupa l’opaca oppressione che, in Marocco, il governo e la società civile esercitano sul mondo femminile. Le conclusioni dei lavori sono state tratte da Chi scrive queste note, che non possono neppure tacere il più vivo apprezzamento che ha riscosso l’intervento. Alla unanimità è stata poi approvata e sottoscritta la Dichiarazione dei Principi ed intenti da Noi minutata, che è possibile leggere in francese, lingua ufficiale dell’Unione, e in lingua italiana, testi entrambi allegati a questo report. Sempre a voti unanimi, è stato, da ultimo,

deciso che il XVII Incontro dell’Unione sarà tenuto nell’aprile del prossimo anno a Tunisi, organizzato dal Grande Oriente di Francia, sul tema da Noi proposto, ancora una volta, incondizionatamente accolto: “Il contributo della Massoneria per il miglioramento della condizione delle Donne nel Mediterraneo”. Siamo lieti di attestare e certificare che l’Unione, nata gracile, è divenuta, nel tempo, una entità sempre più solida e articolata, destinata a ulteriormente rafforzarsi con l’ingresso, nella stessa, di nuove quattro Obbedienze (Gran Loggia Nazionale di Croazia, Grande Oriente di Slovenia, Gran Loggia Mista Universale di Francia, Gran Loggia Simbolica del Portogallo) deliberato, nella circostanza, con totale accordo. Il che induce a essere ottimisti in merito alla durata dell’Organizzazione, strumento prezioso di crescita, di democrazia, di tutela dei diritti umani, di autentica pace. Nel contesto degli alti ideali, che Ci accomunano, porgiamo, a ciascuno, il più affettuoso e riconoscente dei Nostri Triplici Fraterni Abbracci. P.4/5: Toledo, Spagna (foto Paolo Del Freo).

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XVI Incontro dell’Unione Massonica del Mediterraneo 14-17 aprile 2016 Gran Logia Simbólica Española

Gran Maestro

Dichiarazione dei Principi ed Intenti Le Potenze Massoniche Adogmatiche e Liberali firmatarie, membri dell’Unione Massonica del Mediterraneo, si sono riuniti a Toledo il 15 aprile 2016 per una Conferenza Pubblica: Le Grand Orient de France Le Grande Oriente Lusitano La Fédération Française de l’Ordre MaçonniqueMixte International « Le Droit Humain » La Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. La Grande Loge Mixte de Grèce – « Delphi » La Grande Loge Féminine de France La Grande Loge Libérale de Turquie La Grande Loge des Cèdres La Grande Loge Symbolique Espagnole La Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia La Grande Loge Unie du Liban La Grande Loge Féminine d’Espagne La Grande Loge Féminine du Maroc La Grande Loge Féminine de Grèce Le Grand Orient de Slovénie La Grande Loge Nationale de Croatie La Grande Loge Symbolique de Portugal La Grande Loge Mixte Universelle (France) Hanno lavorato sul Tema: Come può la Massoneria contribuire al dialogo tra le diverse credenze Politiche e Religiose che coesistono nel Mediterraneo? R IC OR DA NO I principi fondamentali che esprimono gli ideali fondamentali della Massoneria: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza e Solidarietà. Questi principi si interpretano con il rispetto dei diritti dell’Uomo e della dignità di tutti gli esseri umani, senza discriminazione di sesso, di origine, di religione, di opinioni politiche. Riguardono particolarmente i bisogni delle persone deboli, marginali e tutti coloro che non hanno voce in capitolo. C OS TATA NO

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Che i popoli del Mediterraneo sono ad oggi, divisi dalle lingue, le religioni, le culture e dai diversi regimi politici. Si creano si-

Unione Massonica del Mediterraneo

tuazioni che portano alla follia della guerra, alle sofferenze e alla migrazione, hanno trasformato il Mare Mediterraneo in una tomba, la più grande che non abbia mai conosciuto l’umanità. R IC H I E D ONO Che ciascuno dei membri delle Potenze Massoniche firmatarie, libero e di buoni costumi, debba mettere in opera i principi della Massoneria e tenersi pronto a mobilitarsi, nel suo ambito di competenza, utilizzando la sua capacità di ascolto e di dialogo. Di intervenire con tutti i mezzi possibili per unirsi fraternamente con tutti quelli che rimangono separati dall’odio e dalla guerra, per la pace e la fratellanza dei popoli. Tutte le Potenze firmatarie richiedono, a nome della dignità umana, che i governi dell’Unione Europea stessa, prendano tutte le misure necessarie, senza ritardo, per la pace e la soluzione definitiva ai problemi dei rifugiati. Di condannare e lottare rigorosamente contro il fanatismo religioso ed il terrorismo che ne risulta. Le Potenze Massoniche firmatarie: Le Grand Orient de France Le Grande Oriente Lusitano La Fédération Française de l’Ordre MaçonniqueMixte International « Le Droit Humain » La Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. La Grande Loge Mixte de Grèce – « Delphi » La Grande Loge Féminine de France La Grande Loge Libérale de Turquie La Grande Loge des Cèdres La Grande Loge Symbolique Espagnole La Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia La Grande Loge Unie du Liban La Grande Loge Féminine d’Espagne La Grande Loge Féminine du Maroc La Grande Loge Féminine de Grèce Le Grand Orient de Slovénie La Grande Loge Nationale de Croatie La Grande Loge Symbolique de Portugal La Grande Loge Mixte Universelle (Française)


16e Rencontre de l’Union Maçonnique Méditerranéenne 14 à 17 avril 2016 Gran Logia Simbólica Española

Déclaration de Principes et d’Intentions Les Organisations Maçonniques Adogmatiques et Libérales signataires, membres de l’Union Maçonnique Méditerranéenne, se sont réunies à Tolède le 15 avril 2016 pour une Conférence Publique: Le Grand Orient de France Le Grande Oriente Lusitano La Fédération Française de l’Ordre MaçonniqueMixte International « Le Droit Humain » La Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. La Grande Loge Mixte de Grèce – « Delphi » La Grande Loge Féminine de France La Grande Loge Libérale de Turquie La Grande Loge des Cèdres La Grande Loge Symbolique Espagnole La Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia La Grande Loge Unie du Liban La Grande Loge Féminine d’Espagne La Grande Loge Féminine du Maroc La Grande Loge Féminine de Grèce Le Grand Orient de Slovénie La Grande Loge Nationale de Croatie La Grande Loge Symbolique de Portugal La Grande Loge Mixte Universelle (France) Elles ont travaillé sur le Thème: Comment la Franc-Maçonnerie peut contribuer au dialogue entre les différentes croyances Politiques et Religieuses qui coexistent dans le Bassin Méditerranéen? E L L E S R A PPE L L E N T Les principes fondamentaux qui expriment les idéaux de la FrancMaçonnerie: Liberté, Égalité, Fraternité et Solidarité. Ces principes se traduisent par le respect des droits de l’Homme et de la dignité de tous les êtres humains, quels que soient leur sexe, leurs origines, leur religion, et leurs idées politiques. Ils concernent particulièrement les besoins des personnes faibles, marginales et tous ceux dont la voix est ignorée. E L L E S C ONSTAT E N T Que les peuples du Bassin Méditerranéen sont aujourd’hui divisés par les langues, les religions, les cultures et les différents régimes

Union Maçonnique Méditerranéenne

Gran Maestro

politiques. Se créent ainsi des situations conduisant à la folie de la guerre, aux souffrances et au migration, qui ont transformé la Mer Méditerranée en un tombeau en ciel ouvert, l’un des plus grands que l’humanité n’ait jamais connus. E L L E S DE M A N DE N T Que chaque membre des Organisations Maçonniques signataires, libre et de bons meurs, mette en œuvre les principes de la FrancMaçonnerie et se tienne prêt à se mobiliser, dans son domaine de compétence, en utilisant sa capacité d’écoute et de dialogue. D’intervenir par tous les moyens possibles pour s’unir fraternellement avec tous ceux qui restent divisés par la haine et la guerre, pour la paix et la fraternité des peuples. Toutes les Organisations Maçonniques exigent, au nom de la dignité humaine, que les gouvernements de l’Union Européenne, et l’Union Européenne elle-même, prennent toutes les mesures nécessaires, sans retard, pour qu’advienne la paix et la solution définitive aux problèmes des réfugiés. De condamner et lutter rigoureusement contre le fanatisme religieux et le terrorisme qui en résulte. Les Organisations Maçonniques signataires: Le Grand Orient de France Le Grande Oriente Lusitano La Fédération Française de l’Ordre MaçonniqueMixte International « Le Droit Humain » La Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. La Grande Loge Mixte de Grèce – « Delphi » La Grande Loge Féminine de France La Grande Loge Libérale de Turquie La Grande Loge des Cèdres La Grande Loge Symbolique Espagnole La Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia La Grande Loge Unie du Liban La Grande Loge Féminine d’Espagne La Grande Loge Féminine du Maroc La Grande Loge Féminine de Grèce Le Grand Orient de Slovénie La Grande Loge Nationale de Croatie La Grande Loge Symbolique de Portugal La Grande Loge Mixte Universelle (Française)

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Storia

IV e ultima parte

La Massoneria italiana tra iniziativa politica e conflitti interni Aldo A. Mola 8


Storia

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– L’assenza della Massoneria alle feste del Cinquantenario del regno (1911) A pochi mesi dal festeggiamento del Cinquantenario del regno (fissato il 27 marzo 1911, in memoria della proclamazione di Roma capitale d’Italia da parte del Parlamento), anche l’agnostico Vittorio Emanuele III ritenne che l’Italia non avrebbe potuto presentarsi al mondo con Nathan sindaco e Luigi Luzzatti presidente del Consiglio. In un colloquio riservato con Giolitti a Racconigi, nel settembre 1910, il sovrano e lo statista, in quei mesi mero deputato, misero a punto la soluzione: salvato il sindaco sino alla scadenza del mandato, fu sacrificato il presidente. Confutato da Giolitti in confidenze epistolari destinate a debita circolazione e poi alla Camera sui due disegni di legge con i quali Luzzatti pensava di passare alla storia (la parziale elettività del Senato e un modesto aumento del diritto di voto maschile), il governo galleggiò sino alla celebrazione solenne nell’Aula massima senatoria in Campidoglio, ove anche Nathan si rivolse al “Sovrano nella vita di uomo, nella vita di cittadini Primo Cittadino d’Italia, a virtù ed a dovere coll’esempio incitante” ed evitò cenni polemici contro il Vaticano. Altro, del resto, aveva detto il 10 marzo nella commemorazione di Giuseppe Mazzini, parimenti in Campidoglio, e ancora aggiunse il 4 giugno nella prolissa commemorazione di Vittorio

Emanuele II in cui ripercorse le diverse fasi della questione romana e ricordò che il re, tramite persone a lui devote, aveva intessuto “relazioni con associazioni segrete a scopi patriottici intente” e non aveva avuto “timore di contaminarsi associandosi ai movimenti popolari”: un “appello” cifrato alle collusioni delle cospirazioni di metà Ottocento, ma destinato a cadere nel vuoto in tempi di monarchia costituzionale, quando anche la politica estera era deliberata dal triangolo Corona-presidenza del Consiglioministro degli Affari Esteri, lontano dal Parlamento e, talora, persino dal governo, ma sempre nei margini fissati dallo Statuto. All’ormai dimissionario Luzzatti seguì il IV ministero Giolitti, che celebrò i riti maggiori del Cinquantenario del Regno. Nathan e Ferrari persero la partita. Non solo per se stessi ma per la Massoneria italiana. Il 13 settembre 1911, vigilia della evocata celebrazione di Porta Pia da parte del sindaco-ex Gran Maestro, il capo ufficio del Grande Oriente, Bacchetti, informò Ferrari:

Manifesto. La Questura – o meglio il Ministero, perché i manifesti nostri sono sempre mandati al Ministero – ha desiderato la soppressione delle parole “del privilegio” nel manifesto presentato per il visto e del quale accludo copia. Per la verità lo ha fatto più con la forma di preghiera che con quella d’imposizione e, forse, insistendo, l’avrebbero lasciata passare. Ma io mi sono trovato nella condizione che, togliendo la parola, avevo subito il visto e potevo far stampare; invece insistendo avrei perduto un giorno e forse il manifesto non sarebbe giunto in tempo nei luoghi più lontani: occorrono ancora tre giorni per la stampa di 7500 copie e la fattura dei relativi pacchi: ho creduto di far meglio togliendo quella parola, tanto più che il manifesto rimane lo stesso32. Bacchetti, come Bacci, si avvaleva della completa fiducia del Gran Maestro. Infatti nella stessa lettera, a proposito di 9


1911, illustrazione per la guerra Italo-Turca

Storia

una confidenziale del venerabile della loggia di Piombino su una vertenza interna, proponeva: “se Ella non credesse di rispondergli direttamente, potrei fargli io in suo nome la comunicazione della sostanza di quella risposta”. Altre e molto più gravi di una censura linguistica erano state le amarezze vissute dal Gran Maestro nei mesi precedenti. La vera grande festa del Cinquantenario non fu il 27 marzo ma quella dello Statuto, fissata, come di consueto, la prima domenica di giugno. Venne celebrata con lo scoprimento della statua di Vittorio Emanuele II al Vittoriano e con il discorso del presidente del Consiglio Giolitti al re, presenti le supreme autorità mi10

litari e civili. Come già era avvenuto per i funerali di Umberto I nell’agosto 1900, la gran maestranza fece il possibile per intervenirvi da protagonista, affinché risultasse visibile il ruolo svolto dalla Famiglia per l’avvento e l’ascesa della Terza Italia, ma la subordinò alla posizione che le sarebbe stata assegnata. Poiché ancora una volta l’ “area sacra” fu riservata alle Istituzioni militari e politiche il Grande Oriente rimase escluso. Il 26 maggio, a ridosso della solenne cerimonia al Vittoriano, Ferrari informò la Comunione: “Siamo ora ufficialmente informati che alla inaugurazione del monumento (…) per la ristrettezza del luogo in relazione

al grandissimo numero di rappresentanti dello Stato, delle Provincie, dei Comuni e dei Corpi Militari, che dovranno parteciparvi, il Ministero dell’Interno ha disposto che non possano ammettersi le Associazioni civili di qualsiasi natura. Perciò si rende impossibile l’intervento dell’Ordine e quindi le Loggie sono dispensate dall’inviare Rappresentanze e Bandiere”. Per Ferrari fu una doppia sconfitta, sia per l’Ordine (una “associazione civile”?), sia perché, se avesse avuto una piazza d’onore al Vittoriano, avrebbe oscurato la Gran Loggia d’Italia, che dal canto suo non si era messa in lizza e quindi non subì alcun contraccolpo. D’altronde lo Stato non aveva motivo di decidere, con un invito formale a una cerimonia di tale importanza, quale delle due Comunità massoniche fosse legittima e sovrana. Il Gran Maestro forse dimenticava l’allarme da lui improvvidamente gettato con la logorroica circolare n. 66 del 5 novembre 1910, quando si profilava il necessario cambio ai livelli supremi di rappresentazione dell’ “Idea di Italia” nel Cinquantenario. Vi spiegò quale dovessero essere fisionomia e funzioni dei partiti politici, l’opera del governo, il ruolo della “granitica compagine dell’Ordine” e incautamente ammonì: “Una triste ora incombe sulla democrazia italiana. Quando il paese si volgeva ad essa con più intensa fiducia, con più viva speranza, la vede di un tratto agitata e turbata da discordie e da diffidenze, che indeboliscono le sue forze, diminuiscono il suo prestigio, ridestano e ravvivano le aspirazioni degli avversari”. Invero non vi era Annibale alle porte: semplicemente, d’intesa con il re, Giolitti sarebbe tornato alla presidenza del Consiglio in successione a Luigi Luzzatti, come infatti avvenne, senza alcun trauma, a parte la drastica riduzione dell’influenza di alcuni ambienti e della rappresentatività di Nathan: sindaco di Roma ma non portavoce del governo, dell’Italia, dell’ “idea di Italia” in contrapposizione frontale con la Chiesa cattolica. Il 15 gennaio 1911 il Consiglio dell’Ordine venne chiamato a deliberare su temi, programma e regolamento del Congresso massonico internazionale, fissato per il XX Settembre, quasi alternativo alle feste cinquantenarie del regno. Il proget-


to era in cantiere dal 1908, ma vera stato rinviato per la crisi del Supremo Consiglio e della divisione della Comunità in due tronconi. Il settembre del 1911 non fu molto più felice. Le circolari e le istruzioni per la sua realizzazione si susseguirono con ritmo spasmodico. Il 9 marzo il gran segretario Berlenda deplorò che “in questi ultimi tempi spesseggiavano troppo le domande di sussidio da parte di sedicenti Massoni esteri” forse anche in vista della imminente celebrazione e inviò minute disposizioni per il buon governo delle logge e i loro rapporti con il GOdI. Il 21 aprile Ferrari diramò il programma del Congresso, parallelo alle feste del Cinquantenario, chiedendo conferma di partecipazione entro il 31 luglio. Tra i cinque temi primeggiò “Quale azione debba esercitare la Massoneria per impedire che qualsiasi potere ecclesiastico eserciti influenza sullo Stato laico, ed ostacoli il libro svolgimento del progresso sociale”. Il 10 agosto il Gran Maestro diramò la circolare n. 77. Quasi rivendicate le Esposizioni di Roma e di Torino (orchestrate dal senatore Tommaso Villa, radiato dall’Ordine con Edoardo Daneo e altri perché aveva patrocinato un blocco liberal-cattolico per arginare l’avanzata dei socialisti a Torino), Ferrari tornò sul tasto dolente: “L’Ordine, nella sua collettività, ufficialmente, non intervenne a nessuna manifestazione: i suoi labari non ascesero all’Arce capitolina quando le Rappresentanze dello Stato e dei Municipi inaugurarono il Monumento che consacra ed infutura nella città Eterna l’Unità della Patria (…)” Ma il Venti settembre: “I Delegati della Massoneria Universale e tutti i fratelli delle Loggie italiane (…) all’ondeggiare delle nostre verdi bandiere, porteranno, pellegrini devoti alla libertà e alla scienza, alle sacre mura in cui la Breccia si aperse, la espressione sincera e gagliarda dell’anima del popolo, e rinnoveranno il proposito irremovibile che la grande conquista non sia vana per la rivendicazione di tutti i diritti, per l’adempimento di tutti i doveri, per la soppressione di tutti i privilegi, per il regno auspicato della giustizia, della fraternità e della pace”. Apposita commissione avrebbe distri-

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buito le tessere prepagate per la partecipazione al banchetto finale, 10 lire a coperto, e provveduto “per gli alloggi e per tutto quanto possa occorrere” ai pellegrini. Alla Questura la “soppressione di tutti i privilegi”, tanto più contrapposta al “regno della giustizia” suonò male. Come di consueto, ne nacque una concitata trattativa. Già il 15 settembre 1905 Bacchetti aveva avvertito Ferrari sulle parole considerate inopportune:

“Per avere il via libera alla pubblicazione del manifesto la Giunta aveva: stabilito di far parlare il Fr.. Camera o il F..Barzilai con l’on. Fortis. Il Questore, confidenzialmente e riservatamente, ha detto al F.. Leti che in quanto riguarda la Massoneria la Questura figura ma non conta niente e che, in sostanza, non fa che eseguire gli ordini che gli vengono direttamente dal Ministero degli Interni. Io dubito che, per ragioni burocrati11


Storia

Roma, panorama con l’Altare della Patria

che, avendo l’Autorità già risposto (negativamente NdA), non sarà facile ottenere il permesso della pubblicazione integrale del manifesto; ma la informazione ci sarà utile un’altra volta, perché facendo subito e contemporaneamente dei passi al Ministro, questi darà subito una risposta definitiva senza doversi contraddire”. Quel settembre, però, portò ben altre nubi sul Grande Oriente: l’ultimatum 12

del governo alla Sublime Porta, la dichiarazione di guerra dell’Italia all’impero turco-ottomano, seguita dallo sbarco a Tripoli. Tempi e modi vennero decisi dal re in un incontro segreto con Giolitti (17 settembre), che solo due giorni dopo informò la moglie di essere andato al Castello Reale di Racconigi anziché a Bardonecchia, come le aveva detto. Anche il Grande Oriente venne colto

di sorpresa. Solo il 29 settembre Ferrari espresse il plauso dell’Ordine: “I colori della Patria veleggiano verso Tripoli”, riecheggiante il Jaufrè Rudel di Carducci più che la temperie in atto. Il Gran Maestro ammonì: “Qualunque possa essere il pensiero individuale, rispettabile sempre, di ciascun fratello sull’opera dei reggitori, il dovere della Massoneria (…) è quello di attendere gli eventi con animo sereno e con salda coscienza, augurando che il nostro tricolore, impegnato in una contesa di predominio civile e di progresso umano, sia baciato dal sole della vittoria”. In ritardo sugli eventi, Ferrari prese atto delle divisioni dell’Ordine sugli “eventi”, raccomandò attesa e a denti stretti si spinse ad “augurare” la vittoria: un messaggio che il governo cestinò tra i meno gradevoli. Il GOdI faticò a scrollarsi di dosso la taccia di indulgenza nei confronti del “governo dei Giovani Turchi”, notoriamente influenzati dalla massoneria. Dicerie a parte, dall’inizio dell’impresa l’Ordine venne scavalcato da giolittiani, radicali, socialriformisti, frazio-


Roma, 1911, il Vittoriano in una cartolina

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ni del partito repubblicano e, ciò che più contò, dai nazionalisti e dai cattolici, inneggianti alla “seconda Lepanto”. Mentre anche il premio Nobel per la Pace, Teodoro Moneta, si schierava a sostegno della dichiarazione di sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica e delle operazioni militari e diplomatiche conseguenti, Palazzo Giustiniani stentò a darsi una linea effettivamente unitaria. Perciò si espose all’attacco dei nazionalisti. Dal suo primo congresso, e poi più aspramente in quello di Roma l’Associazione Nazionale Italiana dichiarò guerra alla Massoneria, giacché questa, “punto di riferimento di quanto vi era di spiritualmente pacchiano nella vita nazionale” e sentina del “cafonismo politico”, “mirava a coordinare le peggiori tendenze al compromesso, a “preparare tutte le facili transazioni, formulare i presupposti teorici così ampli che tutti vi si potessero accucciare, purché restassero salvi i presupposti degl’immortali principi” come scrisse Paolo Orano, già iniziato all’Ordine, nella prefazione all’ Inchiesta sulla Massoneria. L’offensiva ebbe inizio il 22 dicembre

1912, in coincidenza con le clamorose “dimissioni” del generale Gustavo Fara dalla massoneria33. Il settimanale dell’Associazione, “L’Idea Nazionale” propose tre quesiti taglienti a personalità di spicco: politici, militari, artisti, scienziati, filosofi, patrioti come Luigi Pastro: la sopravvivenza di una società segreta, quale la Massoneria, era compatibile con le condizioni della vita pubblica moderna? Il razionalismo materialistico e l’ideologia umanitaria e internazionalistica, a cui la Massoneria nelle sue manifestazioni si ispira, corrispondevano alle più vive tendenze del pensiero contemporaneo? L’azione palese e occulta della Massoneria nella vita italiana, e particolarmente negli istituti militari, nella magistratura, nella scuola, nelle pubbliche amministrazioni, si risolveva in un beneficio o in un danno per il Paese? I nazionalisti presero esempio dai referendum che dal 1905 il Partito socialista indiceva per cacciare i massoni dal proprio interno. I socialisti accusavano i massoni di corrompere la rivoluzione. Corradini, Rocco e gli altri capifila del nazionalismo li misero al bando perché

corrodevano proprio quella Nuova Italia che dicevano di aver costruito. Tra gli oltre duecento intervistati34 la generalità rispose in termini aspramente negativi. Alcuni semplicemente con un sonoro “No” alle prime due domande e con “Un danno enorme” alla terza. Giovanni Rabizzani aggiunse: “Lo spirito massonico è in assoluta antitesi con l’idea di progresso, elevazione morale, libertà dell’uomo e del cittadino che i massoni intriganti si vantano, gli ingenui (se pur ne esiste) s’illudono, di propugnare colla loro opera. Il rito massonico è il più sconcio anacronismo della storia”.I più benevoli concessero che la massoneria aveva avuto un ruolo nell’Ottocento, ma ormai era anacronistica. Le prime risposte influenzarono le seguenti, in un crescendo di toni, sempre più aspri. Tra i pochi ad argomentare fu Pasquale Villari, che contrappose la massoneria italiana a quella di altri Paesi, come l’Inghilterra e la Germania nei quali aveva conservato lo spirito originario: “Poco dopo il 1850 - egli attestò- , quando la massoneria era assai diversa da quella che ora è, io mi ascrissi in Firenze ad una loggia, ma dopo aver assistito a due o tre 13


1911, il generale Gustavo Fara

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adunanze, non avendovi trovato nulla di serio, me ne allontanai per sempre. (…) In tempi assai recenti, quando ero presidente della Dante Alighieri, la Massoneria, che aveva favorito la mia elezione, si adoperò efficacemente a promuovere la diffusione della nostra Associazione”, ma così le aveva procurato molti nemici. “La massoneria - concluse – deve persuadersi che, se vuole continuare a vivere nella società moderna, deve cominciare a mettersi in armonia con essa”. L’inchiesta si risolse in una “manovra massonica” di segno capovolto: anziché in forma riservata od occulta, essa allestì alla luce del sole la vastissima rete di quanti, per la prima volta in forma così ampia, non esitarono a dichiararsi contrari a natura e metodi della (o quanto meno attribuiti alla) massoneria. Fu la 14

prima grande e subito efficace cospirazione a mezzo stampa. L’“Idea nazionale” ebbe l’accortezza di non coinvolgere nessun direttore di quotidiani (Luigi Albertini, Alfredo Frassati, Olindo Malagodi...) né alcun giornalista all’epoca di maggior successo. Utilizzando la tecnica, propriamente massonica, della mobilitazione di una élite e della propalazione, si valse di uno strumento di piccole dimensioni e di costo infimo rispetto al fine e ai risultati conseguiti: un settimanale di modesta tiratura, ma letto dal “Palazzo” e riecheggiato in quotidiani, riviste, dibattiti e conversazioni da tutte le persone colte, fossero o meno consenzienti con la sua linea e i suoi contenuti. L’inchiesta scavò un solco incolmabile tra la Massoneria e molti liberi pensatori che tanti avevano considerato (o sospet-

tato) suoi adepti o conniventi. Fu il caso di Giuseppe Sergi. L’insigne antropologo e libero pensatore elogiò le società segrete d’antan, aggiunse che tra i massoni vi erano uomini dabbene ma anche “trafficanti e farisei che sperano trarne vantaggi personali”. A suo giudizio la Massoneria era comunque “nei fondamenti spiritualista e deista” e aveva “una filosofia antiquata. Siamo invece noi non massoni che andiamo al di là delle concezioni massoniche, e quindi abbiamo tendenze più libere e progressive (…). Infine potrei dire: l’esistenza della Massoneria oggi è inutile”. Peggio che pericolosa. Lo pensava anche il caposcuola del positivismo, Roberto Ardigò, che pertanto non venne neppure intervistato. Meno di dieci anni dopo la concelebrazione del Congresso internazionale del Libero Pensiero a Roma il Grande Oriente venne gettato alle ortiche da chi aveva elevato a proprio compagno di via. Nino Tamassia scolpì: “Nella legge, per la legge, con la legge v’è l’unica soggezione del cittadino agli ordini vari dello Stato. Da quest’unica e santa soggezione scaturisce limpida la coscienza del proprio dovere e della libertà”. Le sue parole calzavano con la battaglia avviata da alcuni quotidiani cattolici a seguito delle dimissioni di Fara: un caso destinato a divenire subito motivo di dibattito e di scandalo perché il generale aveva guadagnato speciale fama nella guerra di Libia. Venne insinuato che nelle file dell’esercito la superiorità nei gradi massonici risultasse opposta a quella nelle gerarchie militari. Ne nacquero interpellanze e dibattiti in Parlamento. Sin dagli albori della deriva filorepubblicana e socialisteggiante d’inizio Novecento in alcune logge si erano registrate tensioni e dimissioni. Il 14 ottobre 1901 il capitano Asclepio Gandolfo, il tenente Sante Ceccherini (entrambi destinati ad avere un ruolo significativo nell’ottobre del 1922 e nel regime seguente) e due altri ufficiali si dimisero dalla loggia “Giuseppe Mazzini” di San Remo perché – essi dichiararono – vi si era formato un clima “dove non è possibile a un monarchico costituzionale rimanere”. Su impulso di Adriano Lemmi, invero, il Grande Oriente aveva invece mirato a iniziare giovani ufficiali proprio perché (come scrisse Giacomo Sani) vent’anni dopo sarebbero


ascesi al vertice delle forze armate. Sia con Nathan sia con Ferrari il Grande Oriente stentò tuttavia a dotarsi di un programma chiaro e rettilineo sulla forma istituzionale dello Stato. In una “Riservatissima” del 25 settembre 1907 ai Venerabili delle Logge italiane il Gran Maestro scrisse: “Il Governo dell’Ordine, ritenendo dovere della Massoneria di interessarsi delle gravi questioni che toccano il nostro esercito, ha tempo addietro invitato le Loggie a voler compiere studi al riguardo, ed a tal uopo ha diramato un opuscolo contenente alcuni concetti generali, ritenuti opportuni per riformare le istituzioni militari (il pensiero di Sani NdA). In perfetta armonia con tali principi molte pubblicazioni comparvero a porre in luce mali e rimedi, talché il Governo dello Stato fu indotto a nominare una Commissione per indagare e riferire su di essi. La Massoneria Italiana non deve in questo importante momento sottrarsi al diritto e al dovere di far sentire la sua voce presso la Commissione d’Inchiesta, inspirandosi a quella larga comprensione dei principi di uguaglianza, di libertà e di altruismo che soli possono valere a determinare il mezzo migliore per mettere il nostro esercito nelle condizioni migliori per essere valido palladio per la grandezza della patria. Vi invito perciò a riunire i Fratelli militari della vostra Loggia e quelli che si interessano di cose militari, per prendere in esame le varie questioni, procurando di raggrupparle in tre grandi categorie; e cioè: di ordine morale, di ordine materiale, di ordine tecnico, precisandone i mali e proponendone i rimedi. Dei risultati di tale esame dovrà essere compilata una breve e chiara memoria, avendo cura specialmente che i fatti denunciati rispondano alla più scrupolosa esattezza. Le memorie dovranno pervenire al Governo dell’Ordine non più tardi del 20 ottobre prossimo”. Interpellato in Aula il ministro della Guerra, senatore Paolo Spingardi, già comandante generale dei Carabinieri, ricordò che i militari (come all’epoca tutti i dipendenti di pubbliche amministrazioni) erano tenuti a un unico giuramento: fedeltà al bene indivisibile del re e dell’Italia. Il repubblicano Eugenio Chiesa (fresco di iniziazione) chiamò provo-

ottobre 1911, la Regia Marina sbarca a Tripoli

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catoriamente in discussione la liceità dei magistrati di affiliazione alle logge: altra questione spinosa, inopportuna e quindi elusa. Molte dichiarazioni rese all’ “Idea Nazionale” insistettero sulla divaricazione tra massoneria e modernità, tra logge e libero pensiero. La componente più intransigente del Partito repubblicano italiano e l’ala massimalista del Partito socialista italiano si sentirono sfidate. Entrambe contavano notoriamente molti massoni, ma neppure i vertici dei partiti ne conoscevano con precisione identità, rapporti gerarchici, compattezza. La percezione era che fossero un partito nel partito. L’appartenenza dei loro rappresentanti alla massoneria non affliggeva i liberali, proprio per la labilità della loro organizzazione, incardinata su unioni, cir-

coli, associazioni. All’interno del Partito repubblicano costituì motivo di attrito, ma non insuperabile per la sua peculiarità di organizzazione a compartimenti stagni, coordinati da un vertice nazionale e radicati in aree di consenso, a loro volta organizzate a paratie. Diverso era il caso del Partito socialista, anche per i suoi legami internazionali. Dopo il traumatico XIII congresso di Reggio Emilia (8-9 luglio 1912), culminato con la nascita del Partito socialista riformista varato nell’albergo Scudo di Francia, il XIV congresso (Ancona 26-29 aprile 1914) approvò a larghissima maggioranza la richiesta di Benito Mussolini e Giovanni Zibordi di espellere i massoni dal partito (27.378 voti), contro la proposta di Giacomo Matteotti, fautore della incompatibilità (2.296), e quella di Alfredo Pog15


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gi, fautore della compatibilità (1.819). Secondo 2.485 socialisti il partito doveva disinteressarsi della questione;174 si astennero. Da Lugano il 13 maggio 1913 (sic: recte 1914) Enrico Bignami già aveva ricordato la funzione delle logge in tempi calamitosi: “Sono massone da circa cinquant’anni e resterò fedele ai gloriosi principi della Massoneria sino all’ultimo dei miei giorni - come resterò devoto (nonostante il voto dei compagni in Congresso ad Ancona) al partito socialista, del quale sono stato un pioniere dell’era antelucana”. E aggiunse: “Lanciai il manifesto della Plebe repubblicano-socialista da Lodi nel Nov. 1867, reduce appena da Menta16

na. Fu al coperto della volta stellata di un Tempio che potei costituire la prima sez. italiana dell’ Internazionale. I denigratori socialisti della Massoneria potrebbero ricordarsi di cento altri fatti come questi35”. Nella concitazione passò quasi in secondo piano la dura dichiarazione con la quale Benito Mussolini incardinò la battaglia contro il GOdI e, al tempo stesso, contro i riformisti rimasti nel Psi (incluso Turati, che non partecipò al congresso di Ancona) e, ancora, contro cattolici moderati (in molti collegi scesi a sostegno di candidati massoni) e gli stessi nazionalisti (nelle cui file non mancavano antichi iniziati, come Maffeo Pantaleo-

ni). Se nell’Avanti! del 17 marzo 1914, di cui era direttore, Mussolini scrisse “non sono stato, non sono e – permettendomi in questo caso d’ipotecare l’avvenire – non sarò mai massone”, in sede congressuale sostenne che la Massoneria era un partito politico o come tale si conduceva. Per un socialista vi poteva essere un solo partito: argomento ripetuto, anzi rafforzato, nel 1923-25 per ottenere l’annientamento del Serpente Verde. In Italia, vi avrebbe poi detto, vi era un solo Stato e i suoi dipendenti potevano prestare un solo giuramento di fedeltà: all’Ufficio Pubblico al quale si votavano. La decisione del Psi di espellere i massoni dal partito ebbe enorme impatto. Il Gran Maestro ordinò alle logge di procedere al chiarimento interno in sintonia con il Congresso. I massoni iscritti al Psi furono invitati a scegliere tra la tessera e il giuramento. I venerabili che li conoscevano uno per uno perché gli iniziandi, per altro previamente scrutati nella loro vita pubblica, dovevano dichiarare l’appartenenza ad associazioni e a partiti, si adeguarono, tanto più nel clima rovente dell’estate 1914. Alle spalle l’Ordine aveva l’esito frustrante delle prime elezioni a suffragio quasi universale maschile (26 ottobre -2 novembre 1913), che costituirono anche la verifica delle ripercussioni delle espulsioni del 1908, della conseguente scissione del Supremo Consiglio e della costituzione della Gran Loggia d’Italia (1910). Per ragioni di principio il Grande Oriente aveva propugnato l’introduzione del suffragio universale, nell’illusione che


i collegi uninominali con ballottaggio avrebbero consentito, se non favorito, il successo di notabili. Non previde che l’Unione Elettorale avrebbe schierato in campo il massiccio voto dei cattolici a sostegno di candidati liberal-moderati per sconfiggere le opposizioni anti-sistema. Eppure non erano mancati i segnali di allarme. Tra i molti, fu il caso di Antonio Cefaly, che dal 1909 prese nettamente le distanze dalla linea politica del Grande Oriente. Il 25 agosto 1909, in prossimità dell’arrivo in Italia dello zar Nicola II, in visita di Stato a Vittorio Emanuele III (un evento che, dopo gli accordi Prinetti-Barrère e il congresso di Algeciras del 1906 confermava la duttilità della politica estera italiana rispetto ai vincoli della Triplice Alleanza), Ferrari espresse deplorazione: Non è infatti possibile dimenticare le crudeltà che, in nome dello Czar, si esercitarono per lunghi anni contro chiunque nutrisse, in Russia, principi di libertà e si adoperasse a promuoverla; non è possibile che la Massoneria non condanni, in nome della fratellanza umana, la pena di morte che ancora si applica, selvaggiamente, per reati politici in tutto l’Impero. L’Ordine Massonico, nella sua intiera compagine, non può partecipare a clamorose ed infeconde dimostrazioni; ma deve esprimere, al cospetto della Patria, la sua riprovazione dei barbari sistemi che insanguinano la Russia (…) sorga anche oggi una voce che arresti l’opera del carnefice e ponga termine alle provocate vendette del popolo”. Quattro giorni dopo Cefaly gli scrisse: “La Massoneria, che s’associa ai Morgari per protestare contro la restituzione della visita al rappresentante d’Italia da parte del Capo riconosciuto della Russia, secondando atteggiamenti incivili, inconsulti, partiggiani (sic) e sovversivi, manca al primo e preciso dovere di patriottismo. Non posso essere più oltre solidale con un’associazione che concorre ad atti, i quali non potrebbero risolversi che ad una umiliazione della patria. Chiederò quindi le mie dimissioni alla Loggia, cui sono iscritto e notificherò alle potenze massoniche, che finora ho rappresentato presso il Grande Oriente d’Italia la mia decisione di mettermi in sonno finché perduri questa sconsigliata

Manifestazione interventista a Milano, 1915: Corridoni e Mussolini

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tendenza politica, che la Massoneria italiana va seguendo sempre più accentuatamente e contro la quale altra volta non mancai di protestare”. Il 25 marzo 1912 Bacci avvertì il “Carissimo Cefaly” che “il prof. Ferrari” sarebbe andato a trovarlo al Senato tra le 6 e le 6 e 1/2 pomeridiane. Il Gran Maestro già gli aveva offerto il rango di Gran Maestro aggiunto. Cefaly, che lo era stato nella gran maestranza Nathan, aveva respinto la proposta, perché le sue riserve rimanevano immutate. Perciò a Bacci rispose che la visita era inutile: “cionompertanto – annotò a futura memoria – (Ferrari) venne e fui costretto ad opporgli il rifiuto” (26 marzo 1912). Il Grande Oriente progettò di contrastare l’Idea nazionale con un settimana-

le proprio, l’“Idea democratica”, propugnato e diretto da Gino Bandini. In vista delle elezioni Giovanni Ciraolo, presidente del Rito simbolico italiano, chiese ai venerabili delle sue logge “una esposizione succinta ma esauriente del lavoro compiuto dalle Officine nei vari campi di attività, a partire dalle ultime elezioni politiche generali, nonché il programma attuale” e l’invio di documenti per la redazione della storia dei Simbolici, poco gratificati da quella generale dell’Ordine pubblicata dallo scozzesista Bacci. Dal canto suo il gran segretario dell’Ordine, Carlo Berlenda, il 13 gennaio ricordò alle logge l’obbligo di “versare ai rispettivi Comitati elettorali politici provinciali un contributo straordinario da determinarsi in base al numero dei fratelli attivi 17


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Artiglieri italiani in azione con il 75/27 Mod. 1911

di Loggia nella misura di lire 10 per ciascheduno”: una somma di circa 250.000 lire (supponendo che i massoni effettivamente attivi e quotizzanti fossero circa 25.000: ovvero 10.000 in più rispetto ai 15.000 dichiarati). “La nuova legge elettorale – ricordò Berlenda sulla scia delle circolari di Ferrari e delle pronunce della Giunta esecutiva e del Grande Oriente – rappresenta un notevole progresso democratico. Peraltro occorre da parte del nostro Ordine un oculato ed attivo intervento perché i prossimi comizi politici non rechino danno alle forze della democrazia. Ma è doveroso che la nostra azione sia circondata e garantita dal più assoluto segreto e dalla più saggia prudenza”: direttiva, questa, inviata per posta ordinaria. Avrebbe suscitato un vespaio se fosse finita alla redazione dell’ Idea Nazionale, del Corriere della Sera o dell’Avanti! 8 – Il GOdI per l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra Quando il 21 marzo 1914 Giolitti lasciò il suo IV governo, il Grande Oriente era dunque assediato da più lati. Continuava l’espulsione di massoni eletti deputati con l’aiuto di voti di cattolici. Iniziò la flessione di quanti bussavano alle porte dei templi. Il 28 giugno 1914 l’assassi18

nio di Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo colse di sorpresa anche i corpi massonici italiani. Come il confratello Ferdinando Martini (secondo il quale l’Italia non poteva fare la guerra ma non poteva non farla), Ferrari afferrò l’occasione irripetibile offertagli dal magnicidio: la rivendicazione del primato patriottico della Massoneria, in contrapposizione a socialisti, cattolici, al liberaldemocratici giolittiani (aiutati o meno fossero dall’Unione Elettorale del conte Ottorino Gentiloni) e il ritorno dell’Ordine al centro della storia d’Italia. A quel punto sarebbero state le Istituzioni ad andare all’Oriente. Mentre la Gran Loggia proseguiva il radicamento e intensificava le relazioni nell’ambito del Rito scozzese, “Palazzo Giustiniani” era impegnato a contenere le ripercussioni dell’espulsione dei massoni dal Partito socialista italiano, deliberata nel congresso di Ancona nel marzo precedente e ad ammodernare i rapporti tra vertice e base all’insegna del rafforzamento del potere centrale. Il “governo dell’ordine” comprese ventun membri, sette dei quali residenti nella Capitale. Il suo vero motore rimase la giunta esecutiva, formata dal Gran maestro (Ettore Ferrari), dal suo aggiunto (Gustavo Canti) e da altri otto membri

(Pellegrino Ascarelli, Gino Bandini, Alberto Beneduce, Giuseppe Blasucci, Rosario Bentivegna, Giovanni Lerda, Teresio Trincheri e Ruggero Varvaro). La dichiarazione della neutralità da parte del governo e la turbinosa sequenza di posizioni che condussero alla conflagrazione europea tra il 28 luglio e il 4 agosto offrì al Grande Oriente la duplice occasione storica di porsi alla guida del coronamento del Risorgimento, di mettere in un cono d’ombra la Gran Loggia, che continuava a coltivare i rapporti con Supremi Consigli esteri all’insegna del pacifismo, e a contendere a ogni altra forza politica l’egemonia sul corso politico. Mentre una parte significativa dei nazionalisti si schierò per l’alleanza con gli Imperi Centrali, sia per lealtà nei confronti del trattato di Berlino sia per suggestione del modello germanico, il 31 luglio Ferrari pubblicò la circolare che, con la necessaria prudenza, annunciò la svolta: “Un’ora tragica volge sull’Europa e minaccia di travolgerla tutta nel poiù spaventoso conflitto che la storia ricordi. Il Governo dell’Ordine, conscio dei propri doveri, va adoprandosi con ogni possibile sforzo perché l’azione e di tutti i Grandi Orienti si svolga concorde e conforme ai principii universalmente accettati del-


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la Massoneria, per salvare la civiltà umana dal flagello che le incombe o almeno temperarne le conseguenze. La pace è, senza dubbio, nostro costante ideale, perché è condizione prima d’ogni progresso; ma se la fatalità degli eventi potesse compromettere l’integrità della Patria trovi essa, per la difesa dei suoi supremi interessi, concorde in un solo volere il popolo italiano. Rifuggano le Loggie dall’associarsi a moti incomposti e tumultuosi: cerchino anzi d’impedirli. Essi gioverebbero solo a spingere i Governi sulle vie della reazione. Se mai suoni l’ora delle dure prove, non mancherà la nostra voce per confortavi ad affrontarla con lo spirito di sacrificio e con la volontà dei padri (CdA)36”. Poche settimane dopo sia direttamente, sia tramite missi di assoluta fiducia Ferrari esplorò il possibile allestimento di una pur ridotta schiera di volontari per un colpo di mano atto a provocare il casus belli tra l’Italia e l’impero austro-ungarico per coronare il Risorgimento. Gino Bandini ne ha narrato le vicissitudini per avvalorarle37. Giovanni Giuriati ha invece descritto la confusione regnante nel volontariato massonico, confuso con tanti altri e comunque sorvegliato a vista a Antonio Salandra, pre-

sidente del consiglio e ministro dell’Interno, conscio che il governo doveva tagliare la strada ai repubblicani, tra i quali erano ascritti i vertici del GOdI. Il 15 settembre 1914 Luigi Resnati informò da Milano Ferrari: “A seguito dell’informazione datavi circa la formazione di un battaglione volontari, mi consta che esso è già formato, che potrà essere imbarcato da una corazzata francese in terra francese per essere sbarcato sulla costa dalmata. Circa la sua entità è assai varia la voce che corre. Del resto voi potete sapere tutto dai ffr Chiesa (Eugenio NdA) e Bazzi (Carlo) che furono a questo scopo in Francia da Delcassé. Col tr:. fr:. ampl:.38”. Tra quanti si allarmavano per il dilettantismo del volontariato paramilitare massonico fu Ferdinando Martini, che ne scrisse ripetutamente nel Diario. Dal canto suo Nathan prese atto che la borghesia di Trieste, sulla quale gli ambienti filo-italiani avevano a lungo fatto conto, erano nettamente contrari a qualsiasi coinvolgimento del territorio in una qualunque guerra. Anche su pressioni “dall’alto”, Ferrari rinviò sine die i consueti festeggiamenti del XX Settembre 1914. I motivi vennero chiariti da una sua eloquente circolare (…) poiché certe ore non si rinnovano

nella storia ed è follia e sciagura lasciarle trascorrere senza intenderle e senza afferrare la opportunità che esse offrono, noi crediamo che l’Italia mal provvederebbe a se stessa se rimanesse assente dal tragico cimento nel quale si decidono, per più e più generazioni, le sorti dell’Europa. Vitali interessi della Patria sono gravemente minacciati; il completamento della Unità nazionale, così a lungo sospirato, se ora non si conseguisse, verrebbe differito chi sa a quando, compromesso forse per sempre; la difesa del diritto contro la forza richiede da noi, per omaggio alle nostre più fulgide tradizioni, cooperazione né pavida né tarda. Ragioni pratiche e ragioni ideali concorrono dunque, agli occhi nostri, perché l’Italia affronti, con decisione consapevole, rischi e sacrifici per essere degna, in quest’ora, della sua rinnovata esistenza di Nazione e della sua missione storica fra le genti39”. Ferrari ordinò disciplina, disposizione a “sacrifici di ogni genere” e dedizione alla “preparazione morale alla quale ogni cittadino può e deve contribuire, temprando se stesso e tutti coloro sui quali può esercitare influenza di consiglio e di esempio”: il “fronte interno”. Mentre l’internazionale massonica cedeva il passo all’identificazione delle singo19


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Truppe italiane sull’Adamello

le Obbedienze con i rispettivi governi40, in Italia la questione nazionale tornò al centro dell’Ordine, pronto ad agire anche al di là delle scelte delle Istituzioni: il governo e la monarchia, presto sfidati a scegliere tra intervento o rivoluzione. _______________ Note: 32 AP. 33 Iniziato nella loggia “Figli di Garibaldi” di Napoli il 31 marzo 1912. Sulla manipolazione delle dimissioni di Fara in Parlamento e ne giornali da parte di clericali e nazionalisti v. Luigi Pruneti, La Massoneria italiana nella Grande Guerra in AA.VV., 1914-1915. Il liberalismo italiano alla prova. L’anno delle scelte, a cura di A.A. Mola, Torino-Cuneo, Consiglio Regionale del Piemonte-Centro Giolitti, 2015. 34 Le dichiarazioni vennero raccolte in volume

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in Inchiesta sulla massoneria, con prefazione di Emilio Bodrero, Mondadori, Milano,1925. La prefazione è datata 9 novembre, pochi giorni prima della approvazione della egge sulla appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni, nota come “legge contro la massoneria”. Tra gli intervistati, tutti prestigiosi, possono essere ricordati, nell’ordine alfabetico proposto da Bodrero, Giovanni Amendola, G. Arangio Ruiz, Paolo Arcari, Pietro Barbera, Fiorenzo Bava Beccaris, Emilio Bodrero, Pietro Bonfante, Geremia Bonomelli, Luigi Cadorna. Umberto Cagni, Davide Calandra, Luigi Capuana, Vittorio Cian, G. Dalla Vedova, Alessandro D’Ancona, Isidoro del Lungo, Giorgio Del Vecchio, Francesco D’Ovidio, Piero Foscari, Tomaso Gallarati Scotti, Giacinto Gallina, Piero Giacosa, Pasquale Jannaccone, Ettore Janni, Ulderico Levi, Giovanni Lombardo Radice, Achille Loria, Guido Manacorda, Mario Missiroli, Pompeo Molmenti, Giulio Monteverde, Gaetano Mosca, Angiolo Silvio Novaro, Luigi Pastro, Erasmo Piaggio, Ermenegildo Pistelli,

Vittorio Polacco, Carlo Porro, Pio Raina, Alfredo Rocco, Francesco Ruffini, Michele Scherillo, Arrigo Solmi, Nino Tamassia, Francesco Torraca, Manara Valgimigli, Bernardino Varisco, Ercole Vidari, Nicola Zingarelli. Il periodico guidato da Luigi Federzoni, Enrico Corradini, Domenico Oliva, Maurizio Maraviglia, Roberto Forges Davanzati e Alfredo Rocco non intervistò cattolici o clericali noti per precedenti pronunciamenti antimassonici. Evidenziò invece il discredito che circondava l’Istituzione proprio tra quanti potevano essere ritenuti non pregiudizialmente ostili. Tra altre risultarono sferzanti le risposte di Luigi Einaudi (“Per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a trovar nulla che potesse essere detto in favore di una cosa così comica e camorristica come la nostra massoneria. Il che – egli però avvertì non vieta che la lotta contro la Massoneria, come l’anticlericalismo, non possan diventare dei mali che inquinano la vita del paese”) e di chi, come Giovanni Gentile, valorizzava pensiero e figure apprezzate e quasi monopolizzate dalla massoneria, quali Giuseppe Mazzini e Giordano Bruno (“La Massoneria – rispose il filosofo non deve essere più giudicata ma combattuta;e non si combatterà mai efficacemente e con serii propositi finché si continuerà a combattere la Massoneria e a stringere la mano ai massoni; e a ritenere che si tratti di sistema e non di persone e a non riflettere che queste, se non trovassero già la Massoneria, la inventerebbero per soddisfare dei loro appetiti che non sono effetto ma causa dell’associazione. La Massoneria altra volta non fu quella cosa tra ridicola e brutta, che è ora...”). Francesco Ruffini rispose “No” alla prima domanda, “Un danno per il Paese”


alla terza e rinunciò a rispondere alla seconda perché (probabilmente anch’egli volgendosi al passato) avrebbe dovuto avanzare distinzioni e riserve. Benedetto Croce non aggiunse altro a quanto già aveva scritto sulla “mentalità massonica”: disse però che “l’odio, anche feroce, non fa male; ciò che fa male davvero è il ridicolo, e, peggio, il sospetto circa le intenzioni”. Era a sua detta il caso della Massoneria. E concluse: “Se io fossi massone (che non sono né sono stato mai) promuoverei con tutte le mie forze, per la salvezza di quell’istituto, l’abolizione del cerimoniale e del segreto”. Mario Missiroli si dichiarò invece “non eccessivamente entusiasta della campagna contro la Massoneria”, non per simpatia verso la “setta maledetta” ma perché l’ inchiesta era condotta in nome del nazionalismo. La massoneria – fece notare - “a parte le sue bugiarde benemerenze patriottiche, leggende da sfatarsi – non contraddice alla Patria”; e tacciò i nazionalisti di essere a loro volta razionalisti e “liberi pensatori”. “Non si combatte la Massoneria – concluse -che opponendole la vera idea universale, il vero dogma, la vera Chiesa. Non vi sono mezzi termini. Decidetevi: o col Papa o con Ettore Ferrari, Gran Maestro non in iscultura”. Particolarmente interessante risultano le risposte di Arturo Labriola, secondo il quale la sopravvivenza della Massoneria dipendeva “dall’azione occulta della sacrestia sui poteri dello Stato nei paesi cattolici. (…) Non essendo massone, non posso giudicare se la Massoneria sia veramente “materialista, razionalista e internazionalista” (…) Non amerei un esercito, né una magistratura, né una scuola clericali; perciò io, non massone né aspirante a diventarlo, mi compiaccio veramente che ci sia qualcuno che si occupi di impedirlo”. Due anni dopo Labriola venne iniziato “sulla spada” nella loggia “Propaganda massonica”. Il 23 giugno 1930, alla morte di Eugenio Chiesa, l’antico sindacalista rivoluzionario ascese a gran maestro del Grande Oriente d’Italia nell’esilio. Quel profondo mutamento non fu l’unico della sua parabola. Se all’indomani delle elezioni dell’ottobre 1913 disse alla Camera che esistevano ormai un’Italia socialista, una cattolica, una nazionalista, ma non vi era più quella giolittiana, nel 1920 entrò ministro del Lavoro nel V governo Giolitti e nel settembre di quell’anno si valse di massoni (come Gino Olivetti) per superare l’“occupazione delle fabbriche”. Labriola non figura nella matricola del GOdI. 35 Le lettera di Bignami è in fotografia in Aldo A.mola, Storia della Massoneria italiana dall’Unità alla Repubblica, Milano, Bompiani, 1976, pp. 680-681. Con qualche difformità fu poi parzialmente pubblicata da Gerardo Padulo, replicato da M. NOVARINO, Op. cit., p. 294. Datata Lugano il 10 Maggio 1913 (sic) e inviata al “Cariss..Fr..Ven.. della Loggia Carlo Cattaneo all’Or.. di Milano, essa recita: “Sono massone da circa cinquant’anni e resterò fedele ai gloriosi principi della Massoneria sino all’ultimo dei miei giorni - come resterò devoto (nonostante il voto dei compagni in Congresso

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Truppe italiane in trincea

ad Ancona) al partito socialista, del quale sono stato un pioniere dell’ora antelucana. (*). Ma io non metterò più piede in una loggia italiana, se non sarò sicuro di trovari (sic) in una accolta di fratelli che, almeno nella loro maggioranza, non abbiano aderito alla nefasta impresa di rapina e di sterminio che disonora e dissangua la patria; o che – avendovi comunque aderito accecati dalla ventata di criminosa follia che travolse il Paese – non abbian fatto atto di resipiscenza. Un segno tangibile di questa (in attesa che, tra l’altro, il fondo di riparazione venga aumentato anche di tutto l’importo della Lista Civile) potrebbe essere la devoluzione del tronco della Ved.(ova) (cioè delle oblazioni anonime dei massoni a ogni riunione di loggia NdA) a sollievo degli orfani e delle vedove dei valorosi che cadono difendendo la loro terra contro gli oppressori, che essi hanno il diritto e il dovere di ricacciare là donde vennero. È questo il meno che, per il momento, i fratelli che hanno errato in buona fede, possono fare in espiazione dei delitti che laggiù in Libia si vanno accumulando – in nome di falsi diritti e di una bugiarda civiltà - iniquamente calpestando tutti i principi dei quali la nostra Famiglia è stata e dovrebbe essere sempre antesignana e vindice. Abbiatemi, cariss.. fr.. Ven, con un fraterno saluto, Vostro Enrico Bignami. 36 Rivista Massonica, ottobre 1914. 37 Gino Bandini, La Massoneria e la guerra nazionale (1914-1915), Discorso detto a Palazzo Giustiniani il XXIV maggio 1924, Roma, a cura della Massoneria italiana. Bandini mirò ad avvalorare l’azione clandestina del GOdI. Una descrizione della confusione regnante tra gli aspiranti volontari liberomuratòri venne data da Giovanni Giuriati, che (mai confutato su basi documentarie) negò di aver mai fatto parte di alcuna loggia. 38 AP. 39 Rivista Massonica, ottobre 1914. 40 Yves Hivert-Messeca, L’Europe sous l’Aca-

cia. Histoire des Francs-Maçonneries européennes du XVIII siècle à nos jours, II, Les temps des nationalités et de la liberté, pref. di Aldo A. Mola, Parigi, Dervy 2014, pp.747-750. V. altresì Paolo Pasqualucci, L’istanza etica alle origini del Risorgimento e dell’unità d’Italia, in Le origini dello Stato italiano tra centralismo e municipalismo, “Annali della Fondazione Ugo Spirito” (2010-2011), Roma, pp. 96-114. Sul presunto ruolo della Massoneria nella dissoluzione del mondo austro-ungarico v. Francois Fejto, Requiem per un Impero defunto, Milano, Mondadori,1990 ove la Massoneria viene riduttivamente identificata con il Grande Oriente di Francia, imputato di voler “repubblicanizzare l’Europa”: un disegno che venne certo perseguito da molti massoni francesi e americani, ma non dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra né dalle massonerie di Paesi monarchici quali Olanda, Belgio, Paesi Baltici, Bulgaria e Romania, a tacere dell’Italia ove, a differenza dei suoi dirigenti, la maggior parte degli affiliati nutriva sentimenti monarchici.

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Adriano Lemmi

La breve stagione della Massoneria “partito dello Stato� Aldo A. Mola

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remessa La Massoneria in Italia nel mezzo secolo dalla faticata riorganizzazione (1859-1864) alla scissione (1908-1910) non ha mai raggiunto una vera e completa unità. Solo nel 1889-1890 giunse sulla soglia dell’agognato traguardo, grazie all’opera tenace del suo massimo Gran Maestro, Adriano Lemmi. La sua figura si staglia al di sopra di ogni altra, sia dei Grandi Maestri dei primi incerti anni (Filippo Cordova, Francesco De Luca, Giuseppe Mazzoni, Giuseppe Petroni) sia di quelli che lo seguirono (più nel tempo che nell’opera: Ernesto Nathan, Ettore Ferrari, Domizio Torrigiani). Lo stesso Garibaldi fu indubbiamente un gigante per la storia politico-militare, molto meno per quella della Massoneria italiana. Poco dopo l’elezione alla Gran maestranza, depose il supremo maglietto del Grande Oriente, senza valutarne le conseguenze. Dal canto suo Ludovico Frapolli fu Gran Maestro effettivo solo dal 31 maggio 1869 al 7 settembre 1870, quando si dimise per correre in aiuto della neonata repubblica francese: una scelta di campo poco apprezzata dai massoni delle Obbedienze germaniche e accolta senza soverchio entusiasmo da quelli francesi. Lemmi fu Gran Maestro dal 1885 al 1896, ma la sua “età” vera coincise solo con quella dei governi presieduti da Francesco Crispi (1887-1896), intervallati dal primo ministero presieduto da Antonio Starrabba marchese di Rudinì e dal quello di Giovanni Giolitti (1891-1893). L’epoca d’oro di Crispi si restrinse agli anni 1889-1891; quella di Lemmi poco di più. Il primo venne travolto dal fallimento militare della politica coloniale (il cui onere era nettamente superiore alle risorse del Paese, giovane e claudicante. Il secondo fu indotto a cedere il potere prima ancora che crollasse Crispi, suo referente per la traduzione del programma massonico in istituti pubblici. Con la loro emarginazione, la Vera Luce in Italia si avviò al crepuscolo, lento ma irreversibile, sino alla catastrofe del 1925. Sorprende che manchi tuttora una biografia di Lemmi: un silenzio che evidenzia il ritardo degli studi in un Paese zeppo di Fondazioni e di Centri studi legati a partiti estinti o dalle labili fortune, corrivi ad arare terreni ormai inariditi e a produrre testi sempre più ripetitivi su figure e temi scontati. Anche per molti massoni la sua figura e la sua vicenda rimangono scomode giacché ricordano anzitutto le

lotte intestine della Famiglia tra fine Ottocento e la vigilia della Grande Guerra. Ma, come sempre e giustamente viene detto, se non viene conosciuta, la storia è condannata a ripetersi. Perciò Lemmi merita memoria: il suo travagliato crepuscolo è un monito a non ricalcare gli errori e gli orrori consumati dal “popolo massonico” italiano proprio negli anni della sua Gran Maestranza, nata all’insegna della unificazione ma finita sotto quello della divisione. Protagonista della storia d’Italia Adriano Lemmi (Livorno, 30 aprile 1822 Firenze 23 maggio 1906) fu uno degli artefici della Terza Italia. Dopo l’età delle cospirazioni settarie e delle guerre per l’indipendenza e l’unificazione, a coronamento della ventennale partecipazione ai travagli politico-parlamentari della Sinistra storica, tra il 1877 e il 1896 in veste di alto dignitario della massoneria e di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (GOdI) egli concorse personalmente alla modernizzazione del Paese, prospettando un programma organico di audaci riforme politiche, culturali e sociali interne e nelle relazioni internazionali quanto possibile avanzate per la dirigenza liberale italiana della sua epoca. Visse vicende venturose, come la maggior parte dei protagonisti dell’Ottocento, e non solo i massimi, quali Mazzini e Garibaldi, ma anche di seconda e terza fila. Quel retroterra li accomunò e li aiutò a parlare una stessa lingua: indulgenza verso talune intemperanze giovanili, realismo e disciplina rigorosa nel presente e per il futuro. Nel loro cammino essi evitarono ogni pubblica evocazione degli anni difficili, il personale e “privato”, e si identificarono sempre più con la missione nazionale che si assegnarono. Come i grandi maestri Ernesto Nathan (Londra, 5 ottobre 1945- Roma, 9 aprile 1921) ed Ettore Ferrari (Roma, 25 marzo 1845-19 agosto 1929) e a differenza di altri insigni patrioti, Lemmi non lasciò un’autobiografia né un diario. La sua memoria rimase consegnata alle tracce dell’attività di uomo d’affari, negli atti di alto dignitario della massoneria e nel carteggio, giuntoci in misura men che frammentaria. Sapeva, del resto, che anche i sommi solevano stendere una coltre di silenzio sui propri travagli. Mazzini, per esempio, nei “ricordi” ignorò il figlio avuto da Giuditta Sidoli; Garibaldi fu molto reticente sugli anni vissuti nell’impero turco-ottomano, ricordato soprattutto per deplorare il fanatismo del “clero” islamico, e

Giuseppe Mazzini

Storia

Luigi Kossuth

su tante sue vicende successive. Scavare più a fondo nelle esperienze degli esuli non significa tuttavia violarne il comprensibile riserbo ma illuminarne meglio le tempeste del dubbio, risalire alla genesi dei loro ideali e, al di là di polemiche e di apologie, intendere le ragioni fondamentali del loro impegno pubblico, alternante compassione e intransigente senso del dovere, implacabile verso se stessi ancor più che nei confronti dei loro fratelli. Il patriota Nato da genitori benestanti (suo padre, Fortunato, era un facoltoso commerciante livornese; la madre, Teresa Merlini, di famiglia agiata), da giovane Lemmi cercò la propria via nel commercio e negli affari, migrando dal porto nativo a Napoli e poi a Marsiglia, Malta, Alessandria d’Egitto e Costantinopoli (1843-1847): una ridda di viaggi, contatti e alterne fortune, accom23


Storia

pagnata da interesse crescente per la politica, alimentato da letture e da incontri, talora fortuiti. Nuovamente in Francia e in Inghilterra, nel 1847 a Londra conobbe Mazzini, che ne apprezzò abilità, fervore e concretezza. Nel 1849 concorse a finanziare la “legione” allestita in Toscana e guidata da Luciano Manara in aiuto della Repubblica romana, condannata alla sconfitta dalle scelte filopapiste di Luigi Napoleone Bonaparte, principe-presidente della declinante repubblica francese. L’Italia, una, indipendente e libera divenne e rimase la stella polare di Lemmi negli anni seguenti, vissuti a fianco di Làjos Kossuth (che egli aiutò a evadere dalla fortezza di Kuthaya e accompagnò negli Stati Uniti d’America) e in un turbine di altri viaggi: dalla Svizzera a Genova, ove missione segreta a ridosso dell’insurrezione mazziniana a Milano (6 febbraio 1853), e poi ancora in Svizzera. Nei cinque successivi operosi anni a “Cospoli” (18531859) accrebbe le sue risorse finanziarie, destinandole in parte alle imprese patriottiche, come quella nel 1857 allestita da Carlo Pisacane, punto di svolta tra l’insurrezionalismo di ispirazione mazziniana e la Società Nazionale di Daniele Manin, Giorgio Pallavicino Trivulzio e Giuseppe Garibaldi. “Banchiere della rivoluzione”, Lemmi fu tra quanti identificarono indipendenza nazionale e democrazia. Non era da tutti, quando l’Italia rimaneva dominata dalla maggiore potenza dell’Europa continentale, l’impero d’Austria, e dai Borbone italo-spagnoli, mentre i patrioti passavano di sconfitta in sconfitta, Garibaldi indossava la divisa 24

di generale dell’esercito sardo, d’intesa con Vittorio Emanuele II, e affidava il comando dei Cacciatori delle Alpi a Enrico Cosenz e a Giacomo Medici. All’epoca Camillo Cavour confidava nel grande gioco della diplomazia molto più che nel volontariato patriottico, nel 1859 relegato a ruolo complementare e nel 1860 veduto con fastidio, intralciato, soffocato. Il “gran conte” ebbe ragione, perché fu lui a costruire lo scheletro del regno; ma furono i democratici a conferirgli sangue e carne. Vedendola da lontano, Lemmi mise a fuoco l’Italia meglio di quanto facessero e fecero politici, dottrinari e pubblicisti, immersi nelle piccole fazioni, in localismi e personalismi. È da credere non sapesse che mazziniani pur fervorosi, come Stefano Canessa, ne mettevano in dubbio l’integrità morale, facendo proprie le mai chiarite insinuazioni su sue traversie giudiziarie vissute in Francia nel 1844, uno dei suoi anni meno documentati, se non più opachi. Le ciarle divennero addebiti nel 1860, quando, ottenuta la concessione della costruzione della ferrovia da Arezzo al confine con lo Stato Pontificio e della Firenze-Ravenna, il 25 settembre ebbe da Garibaldi quella per l’intera rete ferrata del Mezzogiorno e della Sicilia, che ne mancavano quasi completamente. Cavour, che doveva parte delle sue fortune proprio allo sviluppo delle ferrovie nell’area liguro-piemontese e ne conosceva bene la redditività, nel timore che dalle concessioni ferroviarie la Sinistra avrebbe tratto cospicue risorse per fini politici, si mise di traverso, esibendo con discrezione l’estratto della condanna a un anno e

un giorno di carcere di un Adriano Lemmi, nato a Firenze non a Livorno lo stesso 1822, per furto ai danni di chi generosamente lo ospitava a Marsiglia nel 1844. Come quel documento sia giunto nelle mani di Cavour rimane domanda per ora senza risposta. Di certo una copia era tra le carte di Ludovico Frapolli, in quella fase cavouriano di complemento e per nulla tenero nei confronti di alcuni esponenti della Sinistra e sicuramente ancora estraneo alla massoneria. Dal Terzo Partito alla Massoneria Lemmi uscì temporaneamente di scena. Tuttavia, stabilitosi a Firenze, divenne il punto di riferimento di mazziniani, garibaldini e protoradicali. Il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1865) aumentò la rendita di posizione della sua residenza, a ridosso di Palazzo Vecchio. Lì, nella sede stessa della Camera dei deputati, nel 1867 il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (GOdI), Ludovico Frapolli, insediò la loggia “Universo”, formata dai maggiorenti della Sinistra democratica e da alti funzionari dello Stato, usa a radunarsi attorno al “tappeto verde”, cioè in forma niente affatto rituale, per prospettare e discutere i disegni di legge necessari a un Paese in faticosa cerca di stabilità, dopo i duri anni del “grande brigantaggio”, le avventate spedizioni di Garibaldi contro lo Stato Pontificio (1862 e 1867), la terza guerra per l’indipendenza (1866), il corso forzoso della carta moneta e alla vigilia della tassazione sulla macinazione delle farine, che suscitò insurrezioni da un capo all’altro dell’Italia, tre anni dopo quella palermitana del 1866. La divisione della Camera tra Destra e Sinistra metteva a nudo la mancanza di un programma politico effettivamente nazionale. Nel 1867 il Terzo Partito (capitanato da Antonio Mordini) anticipò di un quindicennio il trasformismo, ma venne travolto dal crollo del secondo governo presieduto da Urbano Rattazzi, costretto alle dimissioni dalla sconfitta di Garibaldi a Mentana sotto il fuoco degli zuavi pontifici. Fu poi Lemmi a tessere i difficili rapporti tra il Grande Oriente di Palermo (Giuseppe Mazzini, mai massone, e Federico Campanella, che ne assunse la gran maestranza) ed esponenti del Grande Oriente d’Italia dall’altro: tutti suoi commensali. Il successo della Sinistra nelle elezioni del 1874, la sconfitta parlamentare della Destra il 18 marzo 1876 e l’ascesa di Agostino Depretis alla presidenza del Consiglio imposero la ricerca di un


punto di equilibrio più avanzato, per scongiurare una seconda radicalizzazione della contesa tra le diverse fazioni della Sinistra, a scapito del Paese. Mazzini era morto a Pisa nel 1872 (vegliato da Lemmi e avvolto nello scialle che aveva coperto Carlo Cattaneo agonizzante). Nel 1875 Garibaldi era stato ricevuto da Vittorio Emanuele II al Quirinale e gli aveva illustrato il suo progetto di Roma città industriale e portuale. Isolata, arretrata e sottosviluppata, l’Italia era bisognosa di riforme profonde. Occorreva dunque far leva su una struttura al di fuori delle fazioni parlamentari, alimentate da ideologie dottrinarie, lacerazioni regionali, inimicizie irriducibili e velenose. Lemmi la intravvide nella Massoneria, terreno d’incontro, dialogo e convergenza tra personalità di diversa ascrizione ideale, capaci di individuare la sintesi degli interessi generali permanenti del Paese. “Porro unum necessarium” era il rinvio sine die della questione istituzionale. L’Italia era nata come regno. Vittorio Emanuele II di Savoia ne era il garante a cospetto della Comunità internazionale, senza la cui benevolenza lo Stato non aveva futuro (solo nel 1867 sedette in una conferenza diplomatica di Stati sovrani che si riconoscevano reciprocamente). Garibaldi, sempre molte lunghezze avanti, lo scrisse in termini chiari a Giorgio Pallavicino il 13 agosto 1872: l’Italia era un “bastimento col timone marcio”. Senza rinunciare al meglio “in un tempo sicuro, ma indeterminato”, bisognava “accettare il bene da qualunque parte esso avvenga”. Nel frattempo, aggiunse, “io non aprovo i scioperi...”. Alto dignitario dell’Ordine e Gran Maestro Il 6 giugno 1877, appena ottenuto il diploma di iniziato, Lemmi costituì la loggia “Propaganda massonica” e ne assunse la carica di venerabile d’intesa con il Gran Maestro del GOdI, Giuseppe Mazzoni (antico triumviro del governo provvisorio di Toscana con Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe Montanelli), Ne fece il laboratorio della vita politico-culturale del Paese. Un mese e mezzo dopo, il ministro della Pubblica istruzione del governo Depretis, Michele Coppino, massone, varò la legge che dichiarò obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare: un programma poi proseguito e rafforzato dal confratello Francesco De Sanctis. Quella era la Terza Italia, dopo la Roma dei consoli e dei cesari e l’età dei comuni e delle signorie. Gran tesoriere

Storia

Napoli

del GOdI nel 1879 e gran maestro aggiunto dal 1882 accanto a Giusppe Petroni, nel 1885 Adriano Lemmi fu eletto gran maestro. Venne riconfermato due volte e lo rimase sino al 1896. Egli perseguì tre obiettivi principali: cementare l’unione dei fratelli d’Italia, ancora dispersi in rivoli; instaurare saldi rapporti tra la Comunità liberomuratòria italiana e quelle degli altri Paesi di più antica e robusta tradizione (Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania, anzitutto, mentre il Grande Oriente di Francia aboliva la formula rituale AGDGADU) e farne il fulcro della vita nazionale, il filo conduttore della civiltà italico-italiana, da quella latina (comprensiva dell’ellenismo e dei “misteri” orientali) al Rinascimento e al Risorgimento. L’Italia non era (o non doveva sentirsi) debitrice verso altri. Era essa stessa Maestra universale. A tale scopo Lemmi propiziò la convergenza del GOdI con il governo nazionale e con la cultura militante. La sua Gran maestranza fu l’epoca d’oro della Massoneria italiana. Il ministero presie-

duto da Crispi tra il 1887 e il 1891 fu quello a più alto tasso massonico della storia d’Italia1. Tra i primati, vantò l’abolizione della pena di morte, la trasformazione delle opere pie in enti pubblici, l’elettività dei sindaci e dei presidenti delle deputazioni provinciali, prima controllate dai prefetti. Giosue Carducci, da Lemmi chiamato nella “Propaganda massonica”, fu il tramite fra i mazzino-garibaldini e Casa Reale: la monarchia univa, la repubblica avrebbe diviso, come Crispi aveva affermato alla Camera nel 1864. Il federalismo, aggiunse Carducci, avrebbe precipitato nel municipalismo arcaico un Paese che sino pochi anni prima era un mosaico di staterelli proni a dominazioni straniere, con l’eccezione del solo Stato sabaudo. Lemmi non mutò parere quando nel settembre 1894 Crispi invocò l’unione sacra “Con Dio, con il Re, per la Patria”: era l’alba del “partito dell’Ordine”, comprendente anche i cattolici “moderati” pronti ad affiancare lealmente le Istituzioni per fermare il caos, l’anarchia e il so25


Ludovico Frapolli

Storia

cialismo rivoluzionario, altra cosa dal socialriformismo dei massoni Andrea Costa e Giovanni Pascoli. Durante la gran maestranza di Lemmi il GOdI contò circa 5000 affiliati: 200-300 iniziazioni all’anno bilanciavano i vuoti fisiologici, aperti da morti e assonnamenti. Ogni nuovo adepto portava in dote un mondo, che plasmava insieme aristocrazia, borghesia di vario orientamento e templari della democrazia. Deposta la foga di Enotrio Romano, già Carducci aveva spiegato che era stata proprio la Sinistra a sospingere Casa Savoia a Roma. Se non avessero fatto quadrato a suo soste26

gno i democratici avrebbero restituito l’Italia al clericalismo: non al Pio IX creduto neoguelfo del 1846, ma a quello del Sillabo e della condanna della Massoneria come “sinagoga di Satana”. Dal canto suo Lemmi esortò ripetutamente i fratelli a non disertare le urne: il voto politico rinnovava i plebisciti. Il 9 febbraio 1888, mentre era all’opera il governo Crispi, il Gran Maestro dettò le direttive che avrebbero fatto dell’Ordine il governo occulto quanto efficace del Paese: ogni loggia doveva formare cinque commissioni di tre o cinque massoni ciascuna per vigilare su Opere Pie, elezioni am-

ministrative, scuole elementari, bisogni locali e per “controllare i sindaci”. All’epoca gli elettori erano due milioni e mezzo; votava il 60% degli aventi diritto. Se motivata, bene organizzata e saldamente coordinata, una legione di poche migliaia di cittadini avrebbe tenuto in pugno il timone della Terza Italia. Nel 1892-1893 Lemmi percorse tutte le Valli del Paese pronunciandovi discorsi tuttora esemplari sia per la forma sia per il contenuto: un manifesto programmatico scandito sino a quello di Roma del 19 febbraio 1893, nel quale stigmatizzò il patto tra il Papato e la Francia repubblicana: “Leone XIII ha cambiato la Tiara col berretto frigio (...) la reazione clericale serpeggia in tutta l’Europa (…). Noi dobbiamo affermare alto e sempre che la massoneria vuole l’esatta e integrale esplicazione dei principi politici ed etici riassunti nel suo vecchio e glorioso trinomio; vuole pace con tutti, fra gli uomini, fra le nazioni, fra le classi sociali; lo Stato completamente laico, libero, autonomo, previdente, benefico; tutte le riforme che la scienza, la civiltà, la giustizia e l’amore reclamano o suggeriscono; vuole non elemosina ma degna e sicura mercede per tutti i lavoratori; libertà ed eguaglianza di leggi, onestà e parsimonia di amministrazione, semplicità di ordinamenti, sviluppo di ogni cultura, equanime e progressiva proporzionalit di tributi, sincerità di suffragi, giustizia di magistrati, serietà di legislatori, forza, dignità e lealtà di governo”. Era la risposta dell’Ordine alla Rerum novarum di Leone XIII (1891) e alla fondazione del Parti-


to dei lavoratori italiani (1892). In più, come già aveva fatto nel 1889, quando contrappose il primato della Rivoluzione italiana (liberale, sorta dalla lotta contro lo straniero e il potere temporale dei Papi) all’Ottantanove francese (nato dal sangue, finito nel Terrore e nel concordato tra Napoleone e Pio VII), Lemmi rivendicò: “Dal fiero Campidoglio gli antichi lanciarono le invincibili legioni alla conquista del mondo (..) inneggiamo noi, o Fratelli, a Roma immortale, a Roma Italiana”. Repentino tramonto del “partito dello Stato” L’Ordine venne però squassato da tensioni partitiche eterodirette, anche dall’estero. Proprio perché era il caposaldo del triangolo Stato-Rivoluzione italiana-Massoneria, Lemmi fu aggredito dai nemici di Crispi, della sua politica estera, dello Stato stesso, monarchia inclusa. Dal 1885 al 1895 l’Europa fu invasa dai libelli di Léo Taxil, Domenico Margiotta e altri che accusavano Lemmi di essere il “ladro di Marsiglia”, agli ordini del Serpente Verde, dedito a culti luciferini e a riti osceni, come Crispi e Carducci. La montatura ebbe genesi politica (l’ostilità della Francia contro la politica estera italiana, in specie quella coloniale). In Italia essa ebbe alleati i clericali e frange dei “bardi della democrazia”, accecati dall’odio contro Crispi. Lemmi resse alla marea montante di accuse scandalistiche, spesso risibili, sino a quando essa non tracimò all’interno dei Templi ed egli constatò la diserzione di fratelli pur ritenuti fidati. Lemmi aveva stigmatizzato il papato, “coltello piantato nel cuore d’Italia”, e aveva deplorato anarchici, socialisti rivoluzionari e la borghesia della rendita parassitaria, opposta a quella dei “produttori”. Non immaginava di doversi misurare con la ribellione all’interno della Famiglia: l’opposizione pregiudiziale di una fazione dei fratelli, compresi taluni da lui stesso elevati al vertice dell’Ordine. Depose il maglietto di gran maestro ma conservò il trono di sovrano gran commendatore del Rito scozzese antico accettato, che risaliva, senza soluzione di continuità, al Supremo Consiglio d’Italia, costituito il 16 marzo 1805 a Parigi, terzo nel mondo dopo quelli di Charleston e della Francia. Egli coltivò l’obiettivo di una massoneria “partito dello Stato”, incardinata sugli ideali patriottici di due generazioni di cospiratori e di martiri, alter-

nativa allo Stato dei partiti (che, disse, “correvano verso le fogne”), al di sopra delle fazioni e delle lotte di classe, di corporazioni e dei regionalismi. Perciò volle che l’Ordine avesse la Giunta esecutiva in Roma: lì, infatti, sedevano il governo nazionale e quello dell’altra riva del Tevere, ferma all’odio viscerale contro il “mondo moderno”; lì dovevano trovare sintesi le volizioni del Paese, si decideva, si faceva. L’eclissi di Lemmi (coincidente con la catastrofe della politica coloniale italiana ad Adua, marzo 1896 e il connesso crollo di Crispi) aprì una stagione di travagli sia per l’Ordine sia per il Paese. Non paghe delle sue dimissioni, alcune logge dettero vita a un Grande Oriente Italiano, immediatamente riconosciuto da quello di Francia. Il 1898, proprio nel cinquantenario dello Statuto, aprì la “crisi di fine secolo” tragicamente culminata con il regicidio del 29 luglio 1900, dai mandanti sospettati, ma non ancora identificati. \ In attesa che alla figura di Adriano Lemmi venga dedicata una biografia esaustiva2, la sua figura e la sua opera emergono dai documenti inediti conservati al Museo Centrale del Risorgimento di Roma e da quello Nazionale di Torino, e dai Verbali della Giunta esecutiva dell’Ordine consentirono di illustrare il disegno massonico di Lemmi3. Esso raggiunse l’apice nel settembre 1895, quando le insegne della Massoneria attorniarono il re d’Italia, Umberto I, e il presidente del Consiglio, Crispi, allo scoprimento del “Garibaldi” di Emilio Gallori al Gianicolo. Dopo i quasi otto anni della gran maestranza di Ernesto Nathan, Ettore Ferrari imboccò la china dell’identificazione tra Grande Oriente e “principio democratico nell’ordine sociale”, volgente alla “repubblica”. Ne derivarono la scissione del Supremo Consiglio nel 1908 e la divaricazione del GOdI dallo Stato, che nel 1911 ne rifiutò la presenza alla celebrazione del Cinquantenario del Regno. Ma da dieci anni Crispi era morto e da quasi un lustro erano passati all’Oriente Eterno sia Lemmi sia Carducci: un triangolo equilatero infranto per sempre. _______________ Note: 1 Sicuramente massoni erano Crispi, Abele Da-

miani (sottosegretario agli Esteri), Alessandro Fortis (all’Interno), Giuseppe Zanardelli, (ministro della Giustizia), Federico Seismit-Doda (delle Finanze), Gaspare Finali (dei Lavori Pubblici) e Pietro Lacava (Poste e Telegrafi). Per una visione equilibrata delle posizioni assunte dal Papato nei confronti della Massoneria v. Jose’ A. Ferrer Benimeli S.J., Masonerìa, Iglesia, Revoluciòn e In-

Storia dependencia, Bogotà, Pontificia Universidad Javeriana, 2015. Per un quadro d’insieme Yves Hivert-Messeca, L’Europe sous l’Acacia, vol, 2°, pref. di Aldo A. Mola, Paris, Dervy, 2014 e Luigi Pruneti, L’eredità di Torquemada, Acireale, Gruppo Editoriale Bonanno, 2014. 2 Gli si dedica Giuseppe Mureddu. Per un ampio affresco del decennio del Gran Maestro Giuseppe Mazzoni, v. ora Guglielmo Adilardi, Memorie di Giuseppe Mazzoni (1808-1880, Pisa, Pacini, 2016. 3 Su Lemmi v. Aldo Alessandro Mola, Adriano Lemmi Gran Maestro della Nuova Italia (18851896), pref. di Armando Corona, Roma, Erasmo, Equinozio di Primavera 1985, pp. XCV+242 e 8 pp. di illustrazioni, pubblicato in mille copie numerate dalla Artistica di Savigliano. L’opera comprese anche un’ampia silloge di Discorsi, circolari e lettere e il repertorio delle logge in età lemmiana. V. inoltre Aldo A. Mola, Adriano Lemmi. Il Gran Maestro della Terza Italia, Acireale, Gruppo Editoriale Bonanno, 2016. Sintetici profili di Lemmi si debbono a Mario Menghini (Enciclopedia italiana, 1933, ove la sua opera di Gran Maestro è liquidata in sole tre righe), Fulvio Conti (Dizionario biografico degli Italiani) e a Franco Rasi, secondo il quale la Massoneria di Lemmi anticipò uno “scenario di deviazioni” i cui “temi si sono ritrovati in epoche recenti e che sembrano sempre oggi presenti”: grossolano fraintendimento del passato remoto e di quello prossimo, comune agli scritti di quanti furono e ancora sono abbacinati dalle leggende malevole su un secolo di vita della loggia “Propaganda massonica”: una storia da scrivere. Sul trapasso dall’età di Lemmi alla seguente rinvio ad Aldo A. Mola, La Massoneria italiana tra iniziativa politica e conflitti interni in Prima della tempesta. Continuità e mutamenti nella politica e nella società italiana e internazionale (1901-1914), Atti del LXVI Congresso di storia del Risorgimento italiano (Roma, Campidoglio-Vittoriano, 23-25 ottobre 2013), a cura di Romano Ugolini, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 2015, pp. 237-302. Sull’intricata vicenda Taxil-Margiotta (i due “accusatori” di Lemmi, Crispi e Carducci quali corruttori della vita pubblica italiana) v. Luigi Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria, Introduzioni di A.A.M. e di Luigi Danesin, Bari, Giuseppe Laterza, pp.83-112 e ID:; L’eredità di Torquemada. Sommario di storia dell’antimzassoneria dalle scomuniche alla P4, Aacireale, Gruppo Editoriale Bonanno, 2014, pp.101-126.

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Massoneria

Obbedienza e giuramento Luigi Pruneti

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I

l termine “Obbedienza” è comunemente adoperato per indicare una Comunione massonica indipendente e sovrana. L’uso di siffatto termine, tuttavia, genera spesso confusione e fraintesi, tanto che molti, varcando la porta del Tempio, pensano di essersi affiliati a un contesto rituale ove sussista l’obbligo di obbedire, sic et simpliciter, alle gerarchie della complessa struttura di cui sono entrati a far parte. Questo indirizzo di pensiero è rafforzato dalla presenza, in ogni grado, di un giuramento che ripete in modo pressoché identico la seguente formula: “di portare ossequio ed obbedienza alla Suprema Autorità e a quanti sono i miei superiori”1. Il termine “Obbedienza” non appare nello Statuto del Supremo Consiglio che all’articolo 6 chiama l’intero contesto massonico “Comunione italiana”, precisando, fra l’altro che la stessa è governata dal Supremo Consiglio del 33° ed Ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato per l’Italia2. Se poi esaminiamo gli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori, troviamo che il termine in uso per definire la famiglia libero-muratoria è “Ordine”. Si legge, infatti, all’articolo 1: “L’Ordine dei Liberi Muratori appartiene alla classe degli Ordini Cavallereschi”3; solo in copertina, nelle varie edizioni succedutesi negli ultimi cinquanta anni, è precisato che la ristampa e l’aggiornamento del testo, risalente al 1820, è stato curato dalla “Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – Obbedienza di Piazza del Gesù”. L’unico testo normativo che riporti la dicitura “obbedienza” è lo Statuto della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, ove all’articolo 1 si legge: “La Gran Loggia d’Italia […] è il massimo potere simbolico della Giurisdizione italiana […] Essa è Corpo Nazionale integrante della Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico ed Accettato – Comunione Italiana – Obbedienza di Piazza del Gesù”4. Il fatto che il termine “obbedienza” compaia sul testo normativo più recente indica che lo stesso era sconosciuto dalla massoneria delle origini e fu introdotto solo più tardi quando il fiume latomistico si suddivise in più rivoli, rispondenti a portati memoriali, storici, rituali e giuridici diversi. Tale fenomeno fu particolarmente presente in Italia, dove la scissione del 1908 fu particolarmente dram-

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matica e originò due Comunioni ben distinte, ognuna delle quali aveva come attività precipua la contestazione dell’altrui regolarità5. Fu a quel punto che divenne importante il termine “obbedienza”, utile per indicare due tradizioni diverse, l’una riferibile alla deriva laicista con forti pulsioni socio-politiche d’origine francese6, imposte dalla leadership di Ettore Ferrari e Achille Ballori, l’altra tradizionalista e Scozzese, riferibile a Saverio Fera e al Supremo Consiglio d’Italia. Il termine “obbedienza”, va, pertanto, inteso come “regola” e fu mutuato dal monachesimo7 che distingueva i vari ordini per diverse normative e finalità, esplicitate da semplici e chiare indicazioni costituenti la “regola”, accettata e rispettata da tutti i confratelli8. Essere membro della Gran Loggia d’Italia, Obbedienza di Piazza del Gesù, vuol dire, di conseguenza, ac-

cogliere una tradizione massonica ben delineata e costituita da un corpo normativo che si è costituito in oltre un secolo di storia. Inoltre aderire all’Obbedienza di Piazza del Gesù significa accogliere il concetto ferano del “sacro principio della libertà di coscienza e di pensiero”, unico vincolo imprescindibile del Libero Muratore9. Il valore della libertà di coscienza, di pensiero, di parola, di dissenso è talmente importante per un Libero Muratore, che potrebbe essere considerato un vero e proprio Landmark, una di quelle pietre miliari, accennate da Anderson nelle Costituzioni del 172310 e mai esplicitate, anche se numerosi massonologi hanno poi tentato di elencarle11. L’obbedienza del Libero Muratore nei confronti delle gerarchie della Comunione si attua in quanto queste agiscono entro i parametri delle regole, costituite dal corpo normativo, e facendole rispetta29


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re; in tal modo garantiscono il sopravvivere di una Tradizione iniziatica, della quale sono i custodi. D’altra parte il nostro rifondatore, il compianto Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro – Giovanni Ghinazzi – affermava che una Comunione Massonica è regolare in quanto rispetta le regole che ha adottato, salvaguardandone così la purezza iniziatica12, concetto mutuato da René Guénon13 che affrontò l’argomento in un celebre articolo, pubblicato per la prima volta nel 1910 sulla rivista “La Gnose”14. Il paragone fra il mondo latomistico e il contesto dello Stato di diritto nel quale viviamo è stringente. La massima autorità del Paese è il Presidente della Repubblica, il quale è la più alta magistratura e incarna l’unione e la sovranità del 30

paese. La sua figura è sacra e inviolabile, tanto che il vilipendio al Capo dello Stato è un reato, previsto dall’art. 278 del Codice penale, ma nel caso che egli non rispetti il dettato costituzionale, di cui è il garante, può essere accusato di alto tradimento15 o di attentato alla Costituzione16 e, di conseguenza, può essere sottoposto a giudizio, secondo il Regolamento parlamentare per i procedimenti d’accusa17. Per quanto riguarda i giuramenti, per i quali la Libera Muratoria è stata messa sotto accusa fin dal 1738 con la scomunica di Clemente XII, In eminenti apostolatus specula18, appare chiaro che essi hanno un mero valore simbolico. Tale interpretazione fu fatta propria dalla Comunione stessa, quando a seguito dell’Inchiesta Cordo-

va fu, come tutte le altre Obbedienze italiane, oggetto di una violenta opera di demonizzazione. Il significato non vincolante ma solo iniziatico del giuramento fu recepito dalla stessa magistratura con la sentenza emessa il 6 aprile 1992 dal Tribunale di Bologna a seguito del procedimento 65/a92 (processo Montorsi), ove fra l’altro si legge: “Orbene, nessuno è così privo di buon senso, da prendere alla lettera le formule testé citate”19. Infine nel Rituale di Apprendista, adottato dalla Gran Loggia d’Italia nel 2010, siffatto aspetto venne, una volta per tutte, esplicitato, ponendo in nota al giuramento la seguente precisazione: “La retorica drammaticità di questo giuramento risente dell’epoca in cui è stato redatto. Nel rispetto della Tradizione, non si è ritenuto opportuno modificarne la formula originale, che rimane evocativa pur se considerata nella sua sola valenza simbolica”20. Un’ultima considerazione: nel giuramento vi è anche la promessa di mantenersi e conservarsi sempre “onesto, solerte e benemerito cittadino, ossequente alle leggi dello Stato”21. È evidente che non sarebbe possibile rispettare tale impegno, quando si accettasse un’obbedienza cieca, assoluta, con la rinuncia a quei diritti inalienabili di libero arbitrio contemplati dalla Costituzione repubblicana e sanciti, accolti, protetti e diffusi dall’intera comunità internazionale e dai suoi organismi che hanno come fulcro “i diritti dell’uomo”. L’uomo è tale, nei parametri culturali della civiltà occidentale, solo se è libero di pensare e di esprimersi liberamente in qualsiasi contesto a iniziare da quello massonico che nacque e dovrebbe ancora esserlo, una palestra di libertà. _______________ Bibliografia:

J.Anderson, Le Costituzioni dei Liberi Muratori del 1723, a.c. di G.Lombardo, Cosenza 2000. U.Bacci, Il libro del vero Massone, La Spezia 1992. E.Balocchi, Accusa contro il Presidente della Repubblica, in Nuovissimo Digesto Italiano, vol. I, Torino 1957. F.Chiarotti, La giurisdizione penale della Corte Costituzionale, in “Rivista del diritto procedurale penale”, a. 1957. Encyclopédie de la Franc-Maçonnerie, diretta


da E.Saunier, Paris 2008. R.Guénon, L’ortodossia massonica, in Studi sulla massoneria e il compagnonaggio, vol. II, Carmagnola 1991. B.E.Jones, Guida e compendio per i Liberi Muratori, Roma 2001. A.Mellor, Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie er des Francs – Maçons, Paris 1979.

Massoneria

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ri, articolo 1, Roma 2008, p. 3. 4 Statuto della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, articolo 1, Roma 1985, p. 3. 5 L.Pruneti, La Tradizione massonica scozzese in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad oggi, Roma 1994, p. 61 e segg. 6 L.Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012, p. 103; cfr. Encyclopédie de la Franc-Maçonnerie, diretta da E.Saunier, Paris 2008, p. 692.

S.Riccio, Il processo penale avanti alla Corte Costituzionale, Napoli 1955.

7 A.Mellor, Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie er des Francs – Maçons, Paris 1979, p. 177.

Rituale e Istruzioni per il Fratello Apprendista (1° Grado Simbolico), Roma 2010.

8 L.Troisi, Massoneria Universale. Dizionario, Carnago (Varese) 1994, p. 159.

P.Rossi, Alto tradimento, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano 1958.

9 L.Pruneti, Gli Iniziati, il linguaggio segreto della massoneria, Milano 2014, p. 19.

P.Rossi, Lineamenti di diritto penale costituzionale, Palermo 1953.

10 J.Anderson, Le Costituzioni dei Liberi Muratori del 1723, a.c. di G.Lombardo, Cosenza 2000, p. 55.

A.Ruggeri A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009. Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori, Roma 2008. Statuto della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, Roma 1985. Statuto del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato per l’Italia, Roma 2008. L.Troisi, Massoneria Universale. Dizionario, Carnago (Varese) 1994. Note: 1 Rituale e Istruzioni per il Fratello Apprendista (1° Grado Simbolico), Roma 2010, p. 64. 2 Statuto del Supremo Consiglio del R.S.A.A. per l’Italia, art. 6, Roma 2008, p. 6. 3 Statuti Generali della Società dei Liberi Murato-

11 Fra questi Mackey, Findel, Oliver, Paton. Cfr. U.Bacci, Il libro del vero Massone, La Spezia 1992, p.199-200; M.Moramarco, Nuova Enciclopedia Massonica, vol.I, Reggio Emilia 1989, p.40; B. E.Jones, Guida e compendio per i Liberi Muratori, Roma 2001, p.336, L.Pruneti, Scritti massonici, Bari 2007, pp. 6061. 12 Per G.Ghinazzi le Comunioni massoniche sono regolari quando “seguono determinate regole di loro scelta” e non lo sono “perché non le seguono o perché le interpretano in altro modo”. In “Rassegna Massonica. Bollettino d’informazione della Massoneria italiana di Piazza del Gesù”, Gennaio-Febbraio-Marzo 1975, nn. 1-2-3, riportato in L.Pruneti, Giovanni Ghinazzi. Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia (1962-1986), Bari 2006, p. 130.

13 R.Guénon, L’ortodossia massonica, in Studi sulla massoneria e il compagnonaggio, vol. II, Carmagnola 1991, p.167 e segg. 14 L’Orthodoxie Maçonnique, in “La Gnose”, n.6, aprile 1910, pp.105-107. L’articolo è firmato “Palingenius”. 15 A.Ruggeri, A.Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009, pp.312-316; cfr.P.Rossi, Lineamenti di diritto penale costituzionale, Palermo 1953; P.Rossi, Alto tradimento, in Enciclopedia del diritto, vol. II, Milano 1958, p. 110; S.Riccio, Il processo penale avanti alla Corte Costituzionale, Napoli 1955; E.Balocchi, Accusa contro il Presidente della Repubblica, in Nuovissimo Digesto Italiano, vol.I, Torino 1957, p.179; F.Chiarotti, La giurisdizione penale della Corte Costituzionale, in “Rivista del diritto procedurale penale”, a. 1957, p. 844. 16 Costituzione della Repubblica, articolo 90. 17 Testo approvato dal Senato della Repubblica il 7 giugno del 1989 e dalla Camera dei deputati il 28 giugno 1989, pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale”, n.153 del 3 luglio 1989. 18 L.Pruneti, L’eredità di Torquemada. Storia dell’antimassoneria dalle scomuniche alla P4, Acireale – Roma 2014, p. 24. 19 L.Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725-2002, Bari 2002 p. 276; L.Pruneti, Meno uguali degli altri. Massoneria e diritto di associazione in Italia, in Diritti dell’uomo e diritto di associazione, Roma 1999, p.28. 20 Rituale e Istruzione per il Fratello Apprendista (1° Grado simbolico) … cit, p. 61, nota 3. 21 Ivi. P.28: Il labaro della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. nella Biblioteca delle Sede nazionale a Roma; p.29 e 30: Viste della Biblioteca della Sede nazionale della Gran Loggia a Roma; p.31: Roma, volta stellata del Tempio nazionale della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. (tutte le foto sono di Paolo Del Freo).

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Il Lavoro e la Crescita Riccardo Cecioni

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L’

altro giorno mi trovavo in visita a Massarosa, invitato ad assistere all’installazione dei Fratelli e delle Sorelle chiamati a rivestire le cariche di Luci e Ufficiali a seguito di regolari elezioni, dopo un difficile periodo di commissariamento della loro Loggia. È stata una vera festa per i componenti dell’Officina e per tutti noi invitati, accorsi da buona parte della Toscana: era il coronamento dei lavori svolti, inizialmente, con difficoltà estreme e poi, progressivamente, col lento superamento, voluto, voluto, fortissimamente voluto, delle tante asperità incontrate nel difficile peregrinare. E così la Loggia ce l’ha fatta finalmente, grazie anche alla solidarietà armoniosa di altre Officine che, con Tornate congiunte, le hanno dato il loro aiuto. Al termine degli interventi ha preso la parola un’altissima Carica istituzionale della G.L.D.I. per rammentare ai presenti che il principio informatore del pensiero della Libera Muratoria (devo qui precisare che il termine usato è stato Massoneria, con una certa vetero-predilezione per una voce non di origine italiana) è decisamente contrario ai lavori ordinari in forma congiunta. Cercherò ora di riportare almeno il senso generale dell’intervento, non avendo avuto modo materialmente di prendere in loco appunti per poi citare con precisione tutto il discorso, né d’altra parte avrei pensato di doverne prendere. Il Fratello spero non me ne vorrà per questo. Inoltre, per protocollo, non mi sarebbe stata concessa ulteriormente la parola, in detta sede, per esporre compiutamente il mio concetto sull’argomento, che avevo già introdotto precedentemente: quindi ligio alle regole, lo affido alla carta. Il succo dell’intervento è stato il seguente, con una premessa apparentemente accettabile, e una conclusione fantascientifica. Il lavoro, per raggiungere la crescita è un fatto individuale, non può essere svolto che dall’individuo perché il lavoro costante deve toccare le corde più intime di ogni essere per provocare in lui un cambiamento e innescare il processo della crescita. Questa conseguentemente sarà assolutamente sua propria e di nessun altro. Inoltre l’individuo (Sorella o Fratello che sia) è una delle cellule che formano la loggia, come la Loggia è una delle cellule che formano l’Ordine delle Logge Azzur-

re. Per analogia anche la Loggia, come individualità composta di cellule, deve stimolare e indirizzare la propria crescita nel lavoro proprio individuale e senza contaminazione con altre Logge. Cioè non deve lavorare con altre Officine, a meno che non sia a posteriori per verificare le proprie teorie o le proprie asserzioni, confrontandole con quelle altrui. Mi chiedo quindi: che ci veniamo a fare in Loggia, se il nostro proprio accrescimento deve essere solo una cosa personale, dipendere solo da noi e dall’introspezione che saremo capaci di fare nella nostra monade? A cosa serve l’aver fatto nascere un’Obbedienza? A che pro l’aver costituito un Sistema Libero-Muratorio come il R.S.A.A? Avremmo risparmiato tantissimo tempo, avremmo evitato inutili e cospicue spese e avremmo armonizzato la nostra crescita a nostro piacimento e in base a precipua misura con o senza limiti, ad libitum. Ma fortunatamente non è così e, almeno da noi, non tolleriamo che imperi l’autarchia né l’anarchia o l’arrogante soperchieria. Chi viene accolto in un’Officina intraprende un cammino che è certamente non semplice e decisamente individuale, ma con l’indispensabile apporto fraterno di tutti i Liberi Muratori con i quali entra in contatto e che nelle Tornate di Loggia gli doneranno i fiori della propria conoscenza, attraveso un insegnamento costante e fatto su misura delle sue capacità di apprendimento e di rielaborazione: cosa che solo quest’ultima è e sarà certamente intima e individuale. Non apparterrà ad altri che a lui stesso, grazie alla guida corale ricevuta dagli altri Fratelli. E solo dopo di questa. Ecco quindi che si mettono in evidenza le combinazioni indispensabili alla crescita interiore di ciascuno: l’amalgama fra l’apporto esterno di insegnamento e di stimolo alla riflessione, nonché al riesame, di quanto appreso, nonché fra la conquista e l’interiorizzazione di tutta quella conoscenza fraternamente ricevuta. Ora, se vogliamo utilizzare ancora la forma analogica, sappiamo tutti molto bene come possano sorgere e sussistere tanti di quei motivi atti a determinare nei Lavori di una Loggia la necessità della solidarietà di altra Officina, indipendentemente dalla voglia di confrontare le proprie

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convinzioni, ma con piena coscienza del reale apporto che deriva dall’aiuto fattivo. E se una cellula primaria, base del nostro mondo latomistico, chiede l’aiuto fraterno di un’altra cellula, nessuna autorità periferica o centrale, pur avendo titolo per autorizzarlo, glielo può vietare invocando norme male interpretate o inventate ad hoc: magari solo per non soffocare una vantaggiosa faida locale nata da breve o lungo tempo, oppure al solo ipotetico scopo di creare i presupposti per inficiarle un suo diritto elettorale attivo. Ricordiamo invece il tenore di varie Balaustre Magistrali che incitano ai lavori in forma congiunta, proprio per il raggiungimento della reciproca istruzione. E l’istruzione ha sempre un aspetto teorico congiunto a quello pratico. Un fratello o una sorella non cresce nella sua interiorità libero-muratoria individuale se non riceve l’insegnamento appropriato da parte di chi già è passato con successo per la medesima strada, esattamente come ogni Officina può aver bisogno della solidarietà di altro simile organismo e richiederla per superare indenne e in tempi accettabili tutte quelle asperità che si materializzano inevitabilmente sul sentiero che porta alla sua maturità e alla sua completezza, giuste e perfette. E il successo ottenuto anche da una sola Officina risplende sempre su tutto il firmamento dell’intera Comunione. P.32: Antwerp, Belgio, I costruttori della cattedrale, Bronzo (foto Paolo Del Freo); p.33: Maestri muratori, stampa.

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Le caverne luminose L’architettura del percorso iniziatico Jean Marc Schivo

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rima Se ai primordi “fu subito luce” (Genesi, 1), questo “regno” fu presto barattato e diviso con il “buio”. Così se la luce contribuisce giorno dopo giorno all’evoluzione dell’uomo primitivo, il buio, il non-visibile, ciò che si trova oltre “il filo dell’orizzonte”, concorre a sviluppare l’atavico concetto di paura. Agli albori la notte si concretizza nella caverna infinita, il giorno nella breve parentesi che restituisce calore e sicurezza alla vita. In entrambi i casi la mancanza di conoscenza obbliga l’uomo ad appropriarsi gradualmente del “giorno”. Nomadismo, caccia, strumenti in pietra scheggiata caratterizzano le culture del paleolitico che precedono la rivoluzione agricola delle società dedite alla coltivazione e all’allevamento, appartenenti ai periodi più avanzati del mesolitico. Nessuna traccia di costruito contraddistingue questo periodo: “Tuttavia è evidente che nelle fasi più remote della preistoria debbano collocarsi alcune delle premesse di quella che sarà più tardi una vera e propria architettura” (Guidoni). Essenzialmente erratico, l’uomo preisto-

rico vive in preferenza all’aperto, lungo le rive dei fiumi, dei laghi e delle paludi. La caverna è ancora il luogo dove predomina la notte. Va quindi conquistata, esorcizzata, prima all’esterno, nei ripari presso la roccia, poi con il rituale, il marchio inciso che si proietta scolpito, dall’inconscio al supporto materico. Infine, attraverso un utilizzo graduale, il vuoto oscuro si apre lentamente al quotidiano. L’attribuzione spaziale del vuoto Luce, buio, freddo, caldo, tempo, azione, materia; queste le situazioni cui l’uomo preistorico non può sfuggire. Ritmano le scelte, i dubbi, le paure che guidano alla comprensione dello spazio, al “riconoscersi” e “riconoscere”. Teatro delle possibilità, trasgressione alla compatta crosta del mondo, alle sue infinite cesure, dichiarate o nascoste, sede elettiva del mistero, la caverna, dopo millenni, riafferma il senso velato dell’antico “Tao”: “Lo spazio tra il cielo e la terra, quanto è simile a un mantice di fucina! Svuotato, non si esaurisce mai; messo in moto, produce sempre di più” (Lao Tze). Nella cavità rocciosa, alveo protettivo, in cui l’inconscio da millenni vuole riconoscersi, lo spazio si presta a differenziarsi e

ad assumere quei valori e quegli attributi che l’uomo vorrà conferirgli. Inventario mutevole, gli incavi e “pareti” irregolari si modificano tra alternanze di luce e di ombra, tra patine sovrapposte talvolta impregnate di acqua, o lisce sporgenze modellate dai venti, indicando nei contorni cangianti un supporto dove magico, sacro, sociale e privato ritrovano nei recessi identità, collocazione e fuga. L’uomo adopera dunque lo spazio. In senso magico e rituale a Lascaux, Altamira e in altre (foto qui sopra), dove paure e speranze si cristallizzano tra coaguli di roccia, ocra, muffe e buio. Ma se il magico 35


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diventa l’elemento dominante che con il fuoco trasforma il vuoto, in molte caverne invece si invera il quotidiano: lo spazio, fruito e intuito, adoperato tra le incisioni all’ingresso della grotta ed i resti di un focolare lontano, è volto ad impossessarsi di un ambito in un “vuoto” continuo. La caverna si esplicita tra un invaso

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comunitario e uno più propriamente definibile come riparo. Polidirezionalità dello spazio L’uomo preistorico vive nella sua interezza ogni recesso o cavità: da ciò deriva l’indifferente relazionarsi a un numero illimitato di direzioni ambientali. Egli fa un tutt’uno delle molteplici informa-

zioni che gli pervengono, adeguandole sia all’involucro roccioso che alla funzione che gli attribuisce. Ma il vuoto che egli adopera non è ciò che semplicisticamente appare poiché: “Si ha un bello aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è” (Lao Tze). Nelle caverne, infatti, non esiste ancora né il concetto di pavimento, parete, soffitto né, tantomeno, quello di organizzazione planimetrica. Non sussiste ancora nessun codice che, scandendo l’uso di parti definite, razionalizzi le esperienze spaziali e fruitive impoverendone di riflesso la percezione psicologica. Lo spazio, libero da ogni vincolo, è gestito e reinventato a ogni nuova esigenza: “L’uomo sperimenta lo spazio in cui vive come se fosse asimmetrico. La verticale agisce come un asse di riferimento per tutte le altre direzioni” (R. Arnheim). L’antigeometria delle caverne obbliga dunque a un’appropriazione del vuoto attraverso un movimento attivo del corpo nello spazio che presuppone una


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“lettura” estetico - cinematica dell’insieme. Il vuoto allora non è solo una condizione del verticale sull’orizzontale ma, in quanto recettore di direzioni multiple, diventa ambito di azione per il coinvolgimento sensoriale. “L’occhio non può non vedere; non possiamo ordinare all’orecchio di restare inattivo; il nostro corpo percepisce, ovunque si trovi, con o senza la nostra volontà” (W. Wordsworth). La spazialità preistorica quindi si organizza in un mondo di rapporti simultanei, anche se connessi e uniformi. La grotta rivela così dimensioni nascoste, spazi inclusi in altri spazi, dove il gesto diretto interpreta un presente multiplo che dilata e non gerarchizza le visioni. Spazio tattile, termico o olfattivo, la cavità rocciosa muta lo spazio in banco di prova di eterogenei bisogni: “Il setaccio selettivo dei dati sensoriali lascia filtrare certe notizie escludendone altre, cosicché l’esperienza qual è percepita attraverso una certa serie di filtri sensoriali è completamente diversa dall’esperienza percepita da altri, di ambiente culturale differente” (E. T. Hall).

Il supporto della materia Fessure bordate (a fronte in alto) da incisioni, solchi verticali grumosi, risultanti il più delle volte da una linea di rottura della roccia, tratti incisi più o meno profondamente, appaiono all’occhio che vuole indagare inverando il senso della polidirezionalità. Il supporto plastico diventa una seconda realtà, un luogo per accogliere stimoli provenienti direttamente dall’esterno. Questo sembra mostrare che gli artisti del paleolitico

avevano lo stesso interesse sia per il verismo sia per l’espressione astratta, giacché: “La composizione pittorica primitiva non fu razionale secondo il nostro modo di pensare. L’uomo si accostò all’arte semplicemente, in modo differente da quello cui siamo soliti da quando accettammo il dominio della verticale sull’orizzontale, che comportò, come corollario, l’angolo retto, penetrato ora talmente nella nostra coscienza da sembrare un’assoluta condizione di ordine”. (S. Giedion). Ansia di 37


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consapevolezza, di vita, lotta con le difficoltà e con la morte, spingevano l’uomo preistorico a cercare la “liberazione che è anche lotta con la morte e col morto” (D. Formaggio). Allora la porzione di roccia scelta per far affiorare l’immagine costituiva un “già - disegnato”, che era sottolineato e fatto emergere con pochi gesti. Rilievo e plasticità erano ottenuti seguendo le linee e i contorni del supporto naturale, tracciati in angoli spesso nascosti e difficilmente accessibili. L’immagine nasceva, infatti, dalla materia e ne costituiva parte integrante poiché non limitava la sua funzione al ruolo decorativo: non c’è quindi materia da una parte e immagine dall’altra. “La materia si definisce così bipolarmente rispetto all’opera come struttura e come aspetto, e l’essere aspetto o l’essere struttura saranno due funzioni della materia non sempre distinguibili” (C. Brandi). Struttura e aspetto sono dunque spesso strettamente collegati e se la materia permette l’estrinsecazione dell’immagine, quest’ultima non limita la sua spazialità all’involucro di cui è costituita visto che anche luce e atmosfera concorrono alla trasmissione visiva dall’opera all’osservatore. Coinvolgimento dunque della materia anziché svincolamento; procedere dalla quotidiana esperienza di superficie “a livello zero”, indagandone i fondamenti, approfondendo il regno delle tenebre, scrutando “oltre” e di là della superficie significa, oggi come allora, cominciare l’atto artistico con una sapiente esplorazione delle possibilità della materia e della sua spazialità. “Da ciò nuove maniere di costruire le ‘ frasi’ (e i vuoti), nuovi elementi strutturali vengono scoperti e le loro reciproche relazioni, connessioni e combinazioni trovano equilibrio con mezzi fino allora sconosciuti” (A. Schönberg). Da questo momento l’architettura cresce aderendo visceralmente alla roccia e la struttura nel tempo, con l’azione di scavo “ascoltando” percorsi e “paesaggi” interni ed esterni agli uomini stabilendo con ogni luogo, scavato o “ritrovato”, un rapporto totale di empatia, d’identità tra ambiente e manufatto liberando così dalla materia energia e magia. Dopo Vinto il terrore del buio e appropriatosi dello spazio territoriale, l’uomo preisto-

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rico opta per l’informale linguaggio della plastica di scavo (pag.32 in basso). La sua attualità sta proprio nell’azzeramento sintattico che permette di incominciare dal “grado zero della scrittura” architettonica per proporre nuove valenze spaziali. La roccia plasmata inizia dunque nel tempo a differenziarsi secondo le culture e i modi di vivere. Rifugio, spazio magico, silenzio e catarsi, la caverna diventa luogo di verifica dei profeti e dell’uomo in cerca del mutamento del proprio livello energetico. Luogo dell’immaginario, teatro del possibile, proiezione dell’inconscio, la caverna rievocherà nel tempo con diversificate sembianze l’eterna costante della meraviglia. In ogni epoca storica il mondo sotterraneo accompagna le culture e le società offrendo la possibilità di riscoprirne a ogni istante il valore iniziatico. Naturale o artificiale la caverna diventerà in ogni cultura un polo energetico emergente capace di influenzare asceti, eremiti, ricercatori, comunità, un luogo di aggregazione sociale, di speranza, ma anche di sopravvivenza all’ambiente stesso. Il valore dell’unicità espressa dalla grotta naturale, luogo d’incontro, di rivelazione, d’iniziazione, diventa il codice di una costruzione partecipata della collettività stessa. I primi insediamenti rupestri tenderanno a riproporre nella loro immagine il senso di appartenenza alla caverna “universale” trasferendo a ogni singolo spazio una metamorfosi materica capace di fornire protezione a tutta la comunità.

Ancor oggi questi esempi, espressioni di una sequenza di unicità, ci ricordano realtà territoriali che mantengono ancora intatto il loro valore energetico e magico: Torralba in Sardegna con il nuraghe di Santu Antine, quasi caverna costruita, monito territoriale, ma anche luogo religioso, abitativo e di difesa; Massafra in Puglia, il cui insediamento rupestre si sviluppa nel medioevo in senso strettamente religioso; Matera con quartieri trogloditi, abitati fino ai giorni nostri; la Cappadocia (pag.33), caratterizzata da una formazione geologica unica al mondo, oggi patrimonio dell’umanità unesco, dove religiosità, socialità e sicurezza si concretizzano in spazi e strade sotter39


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ranei vitalizzati dal vento. Nel Canyon de Chelly (pag.34) in Arizona, dove le caverne diventano fessure per accogliere le comunità Navajo o, in maniera quasi similare, in Mali lungo le falesie di Bandiagara, dove le popolazioni Dogon preservano tutti i cicli della vita e della morte. Solo pochi esempi per ricordare la ricchezza di un patrimonio millenario dovuto a particolari realtà culturali e territoriali che ne hanno nel tempo cristallizzato il messaggio spesso favorendo l’isolamento della collettività stessa. A questi luoghi si contrappone una società in evoluzione che, componendo la sua organizzazione in sistemi urbanistici sempre più complessi, si è lentamente allontanata dalla caverna intesa come centralità territoriale, sotterranea presenza simbolica e luogo di comunione con le forze della magia naturale e liberatoria, 40

opposta ai diversi dogmi religiosi e politici che hanno contribuito a esautorarne il messaggio relegandolo alla tradizione monastica ed eremitica. Nel periodo medioevale, gotico e fino, in parte, agli albori del Rinascimento la caverna resterà solo un puro elemento allegorico, oggetto di ricordo nel mondo artistico e pittorico e di allegoria letteraria, resistendo solo per pochi come luogo di congiunzione con le energie telluriche, con la divinazione o la grande opera alchemica. La caverna come ricerca del meraviglioso Nel 1654 Jacques Gaffarel, prete e teologo, esperto di diritto canonico ed erudito apprezzato della cultura ebraica, siriana, araba, persiana ed esperto delle antichità giudaiche, cabalista ed esperto nell’arte dei talismani e dell’astrologia, dopo aver trascorso vari anni in Italia alla ricerca di manoscritti preziosi per conto del Cardinale Richelieu, pubblica un compendio dal titolo “Le monde souterrain ou description historique et philosophique de tous les plus beaux antres et de toutes les plus rares grottes de la terre” (pag.35 in basso). Alla sua morte (1681) il manoscritto non fu ritrovato. Ne restano solo 7 pagine che descrivono la prima e unica meticolosa catalogazione delle caverne, articolata in cinque principali categorie: Divine, Umane, Brutali, Naturali, Artificiali. Una classificazione che rivela la ricchezza di un patrimonio mondiale fino ad allora mai descritto nella sua interezza. In questo ciclo di esempi la caverna interpreta il viaggio che l’uomo compie alla riscoperta dei principi stessi dell’essere, il luogo centrale dove pace e movimento coincidono proprio nel punto della massima oscurità, una rivelazione che diventa luce e immaginario, realtà per altri. Nella ricostruzione di questa visione ci aiutano le intuizioni di Leonardo da Vinci: “E tirato dalla mia bramosa voglia […] pervenni all’entrata d’una gran caverna, dinnanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa […] subito sa(l)se in me due cose: paura e desiderio: paura per la minac(c)iante e scura spelonca, desiderio per vedere se là entro fosse alcuna miracolosa cosa” (pag.35 in alto). La caverna prende così forma nelle scenografie dell’Orfeo dove la montagna si


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apre facendo intuire gli inferi nelle profondità emergenti. Il tema della montagna e della sua spazialità si ritrova più volte in Leonardo. Nei due dipinti della Vergine delle Rocce la Vergine, simbolo della Madre Terra, indica, oltre la grotta, l’origine della natura universale da scoprire attraverso una dimensione materna e cosmica allo stesso tempo; la stessa che Leonardo usa per tracciare la strada per un’iniziazione immaginifica che verrà raccolta da altri artisti. Nella villa Medicea di Castello a Firenze verso la fine del XVI° sec., la “Grotta degli animali” (pagina precedente, foto grande), realizzata da Tribolio che scolpì anche le tre vasche marmoree, ci aiuta a riscoprire i valori del mondo animale ancorato a quello tellurico dove la pietra stessa diventa animazione e vita. Una dinamica composizione scultorea di uccelli, animali e pesci ripropone i tre elementi, acqua, terra e aria, in una visione unitaria di tutte le forme di vita che compongono il mondo animale. L’acqua che sgorga da queste sculture per con-

fluire nelle vasche marmoree, supporto al simbolismo marino, amplifica il senso di primordiale meraviglia nei confronti della grotta come rifugio di ogni essere vivente. Nella villa del Pratolino, vicino a Firenze, realizzata dal Buontalenti per il Granduca di Toscana Francesco I de Medici, appassionato di scienze naturali, alchimia e arti meccaniche, la grotta diventa l’elemento centrale di una possibile riscoperta per il viaggiatore del mondo tellurico qui rappresentato. La grotta di Cupido (pagina a fronte, foto piccola) è l’esempio calzante della movimentazione materica del mondo interno messa in stretto rapporto con gli elementi esterni, acqua e sole. La grotta si trasforma anche in presenza umana. Il Gigante dell’Appennino, dominante l’intero complesso del parco, è infatti simbolo ed espressione delle risorse del mondo toscano, guardiano di una sequenza di grotte che esprimono sia il mondo minerario che quello marino. Quindi le grotte di questo periodo non sono solo il palcoscenico di rare e com-

plicate composizioni di materiali marini misti a stalattiti e lava scelti con accuratezza ma, in alcuni casi, vanno ben oltre raffigurando veri e propri mondi vulcanici e assumendo una dimensione geografica che darà vita successivamente a una serie di importanti realizzazioni. È il caso degli studi di Carl Gustaf Carus per la grotta di Fingal (1834), di Fredrik Magnus Piper per la grotta di Drottningholm (1781) o di Josiah Lane per quella di Old Wardour Castle (1792) nel Regno Unito. Sempre più l’ingresso si presta a evidenziare il messaggio della materia del mondo interno che riemerge alla luce prendendo il sopravvento sulla natura circostante, esaltando il rapporto armonico tra costruito artificiale e realtà vivente. Da un lato si evidenzia questo senso di metamorfosi e di universalità tanto esaltato da Ovidio “Tutto passa, tutte le forme son fatte per andare e venire”, dall’altro quel senso di eterna evoluzione come descritto da William Shenstone in “Unconnected Thoughts on Gardening”. Se la 41


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materia artificiale della costruzione fin dall’inizio comincia a deteriorarsi, la natura, con le sue piante sapientemente inserite, tende sempre ad arricchirsi. Qualche anno più tardi il Buontalenti realizzerà nel giardino di Boboli, per il granduca di Toscana Francesco I de Medici, la “Grande Grotta” (pag.41), con un ingresso simmetrico e classicheggiante, solo in parte decorata da elementi materici di una natura apparentemente ancestrale. Il mondo sotterraneo si articola in tre sale concatenate che aboliscono il concetto di parete e volta in un gioco sapiente di materializzazioni e affreschi, in un equilibrio quasi paradisiaco, caratterizzato da emergenze e colori che alterano lo spazio architettonico per favorire la ricerca del proprio io interiore in altre dimensioni. È la vita che vuole riemergere quasi come i quattro prigionieri, scolpiti da Michelangelo e oggi sostituiti da copie, che danno vita all’intero spazio e come l’Oculus zenitale, animatore dell’acqua sottostante con i giochi di luce e ombra a cui da origine. Nel Casino degli Orti Oricellari a Firenze (1642), costruito per il cardinale Giovan Carlo de Medici sotto la direzione di Ferdinando Tacca, la caverna esprime pienamente il concetto del ricongiungere l’architettura con le sue fondazioni, capaci di attingere al mondo sotterraneo e di farne fluire l’energia. Questa caratteristica tende a svilupparsi fortemente in Germania dove il termine italiano “Sala Terrena” simboleggia il riemergere delle dinamiche del mondo oscuro che viene svelato e rappresentato con spazi grandiosi inseriti sull’asse principale dei giardini di ville e palazzi. La Grotta degli Specchi del Castello di Hellbrunn a Salisburgo (1613), la Sala Terrena del Castello di Weissenstein (1722) a Pommersfelden e naturalmente la Grande Sala del nuovo Palazzo di Sanssouci a Potsdam (1763), a conclusione del grande giardino massonico voluta da Federico II di Prussia, ne esprimono magnificamente la finalità. La Caverna sonora, dal microcosmo terreno a quello marino Se le ninfe di alcune grotte evocano la fecondità delle acque dolci è senz’altro il potere del mondo marino che viene esaltato nelle grotte di Genova. La Grotta Doria (qui sopra), costruita sotto il Palaz-

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zo Doria nel 1547 dall’architetto Galeazzo Alessi, uno degli artefici della trasformazione urbana di Genova, apparentemente distrutta, riappare miracolosamente nel 1980. Di forma ottagonale, la grotta coinvolge lo sguardo in un complesso racconto di allegorie narrato dalle pareti animate da una scrittura materica costruita con l’essenza delle forme marine. Le conchiglie fanno riemergere dalle profondità otto scene della mitologia marina lasciando l’osservatore tra lo stupore e la voglia di riviverne il racconto. Nella grotta di Villa Pallavicino “delle Peschiere”, sulla collina di Multedo a Genova, realizzata nel 1569 per Tobia Pallavicino, di forma apparentemente circolare, il linguaggio ar-

chitettonico, scandito da suddivisioni geometriche, avrà invece il sopravvento sugli aspetti naturalistici. Queste grotte o, ancor meglio, questi laboratori del mondo marino influenzeranno la cultura francese e anglosassone riproponendone la scrittura materica in alcuni tra i più importanti palazzi del periodo, trasformando grandi saloni in grotte animate come nel caso della Grotta delle Conchiglie del 1674 a Viry Chatillon in Francia o di quella di Woburn Abbey del 1630 nel Regno Unito. Qui gli arredi stessi favoriscono, con il loro aspetto, l’isolamento dal mondo terreno. La caverna costituisce l’elemento della riscoperta e della meraviglia mediante codici e materiali rari, provenienti da luo43


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ghi lontani e spesso avvolti da leggende. In queste stanze dei miracoli si può riscoprire ciò che il quotidiano obbliga talvolta a non vedere, a non avvertire. Anche nel caso del Ninfeo di villa Borromeo, nell’atrio dei Quattro Venti, a Milano (1585) o nella Grotta di Goldney Hall (pag.38) (1737) a Clifton, Regno Unito, completata solo 27 anni dopo. In questo luogo, articolato da corridoi sotterranei, la grotta diventa enciclopedia vivente con volte e colonne avvolte da minerali, rare conchiglie esotiche, coralli, pietre semi preziose e cristalli di quarzo brillante tra cui i famosi diamanti di Bristol. Sullo sfondo una cascata d’acqua amplifica il senso di questa complessa scenografia. Nella Grotta dei Cristalli a Panshill Park (1760), Regno Unito, all’interno l’acqua resta definita o come episodio sonoro o diventa filtro dell’ingresso, velo da oltrepassare, come nella Caverna di Platone, per arrivare alla conoscenza. È una cascata spesso teatrale quella che si presenta al visitatore e che trasforma allora la grotta in fontana, in elemento di centralità. Sovente è inserita all’inizio o alla fine di un percorso di giochi d’acqua come nel caso della fontana di Villa d’Este a Tivoli, detta dell’Ovale (1566), o di quella del 44

Diluvio a Villa Lante a Bagnaia (1568), dove pareti rocciose di grandi proporzioni rappresentano un paesaggio montuoso ricostruito tra concavità e convessità per amplificare la sonorità dei giochi d’acqua. Se poi la grotta manca di profondità, il risveglio avviene all’esterno, come a Villa d’Este, per diventare fonte d’ispirazione per compositori come Listz. Questa caratteristica, le cui origini sono da ricercare nel mondo romano, viene rivalorizzata in Europa dove assume talvolta grandi dimensioni come nella grotta di Schönau in Austria, il cui velo d’acqua alto oltre sei metri, forma il passaggio per raggiungere il Tempio della Notte, creando un effetto scenico misterioso, oggetto di innumerevoli pellegrinaggi. Passando sotto la parete d’acqua si potevano percepire un esterno costantemente modificato dalla luce e dagli eventi atmosferici a cui si aggiungevano immagini di un cielo stellato, proiettate da una macchina appesa al soffitto, mentre un piccolo organo a cilindri, fabbricato da J. M. Malzel, proponeva musiche di Antonio Salieri e Luigi Cherubini, composte espressamente per questi eventi. “Divertissements” idraulici e scenografie mobili, finalizzati ad amplificare le emozioni del visitatore, caratterizzano molte grot-

te del medesimo periodo. Si deve a Bernardo Buontalenti l’aver messo a punto per primo questo tipo di dispositivi, applicati in seguito a Pratolino. Analogamente Tommaso Francini sarà incaricato da Enrico IV re di Francia, di realizzare importanti opere idrauliche e di formare una nuova generazione di ingegneri idraulici per poter finalmente rivaleggiare con la casata dei Medici. La tecnologia si inserirà quindi negli spazi oscuri, spesso finalizzati a iniziazioni massoniche e le macchine, mosse dal vento o dall’acqua, avranno la funzione di amplificare ciò che l’uomo di Delfi sapeva invece trovare nel silenzio e nell’antro spoglio. La caverna come percorso della trasformazione Attraverso la storia dei riti e dei miti associati alle caverne è stato possibile riscoprire il valore universale di una sacralità caratterizzata da un sentimento di religiosa naturalezza. Ne sono testimonianza gli esempi di San Bruno, raffigurato in un dipinto a olio di H.V. Swanevelt (1636), in meditazione davanti a una caverna con alcuni frutti in mano, preferendoli forse all’eremo che appare lontano sullo sfondo della valle inserito in un’avvolgente montagna o, come nel dipinto su carta di Shitao (qui sopra)


(1700), dell’asceta in visita alla Grotta di Zhang Gong, antro il cui ingresso sembra animato dalla natura circostante in un senso di unità tra tutte le cose. La caverna diventa così luogo del sacro, inteso come unico e divino, come nella Grotta di Amarnath in India, santuario dell’induismo a oltre 4000 metri di altitudine, dove migliaia di pellegrini venerano nel Lingam di Shiva, ricoperto di ghiaccio, le mutevoli rivelazioni dell’immortalità. Anche in migliaia di altre grotte nel mondo, così come in questa, è possibile, ma solo per pochi, sperimentare l’ascesi fino all’illuminazione, come avvenne per Siddharta, con o senza percezioni sensoriali oltre il comune, come nel codice buddista dei monaci nelle grotte di Mogao, nella provincia cinese di Gansu, in quelle di Yungang nella provincia di Shanxi e di Longmen nella provincia di Henan, testimoni di questo fenomeno monacale. La grotta diventa luogo di isolamento ma anche di convivenza, di vita collettiva e di condivisione ascetica. Ma ancor prima del buddismo in Cina le grotte celesti del Dongtian diventano luogo di eremiti dediti a riscoprire le energie cosmiche e la conoscenza alchemica. Luoghi leggendari come le grotte carsiche presso il lago Tai dove amava isolarsi Zhang Daoling, fondatore dei Maestri Celestiali e la cui bellezza è espressa nel dipinto di Shitao. All’opposto, nella visione classica la caverna simboleggia il regno dei morti come l’Ade di Omero e Virgilio, l’inferno di Dante o l’inferno in cui discende Maometto descritto nel “Libro della Scala”. Ma la caverna è anche luogo di “rivelazione”. Negli antri le Sibille pronunciavano gli oracoli e vi si svolgevano culti iniziatici, come i Mitriaci. Nei Misteri di Eleusi gli iniziati giuravano prima di penetrare nella caverna. Logica simbolica ed atto dell’iniziazione trovano così piena rispondenza. L’iniziato veniva incatenato nella grotta prima di liberarsi per poi raggiungere finalmente la luce. La “Stanza della Filosofia” di Pitagora a Samo, era una grotta sotterranea simbolo del mondo delle apparenze e del corpo inteso come prigione. Per Platone (qui sopra), il mondo è il luogo in cui le anime sono imprigionate dagli dei come in una ca-

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verna: ”Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna, con un’entrata spalancata alla luce e larga quanto l’intera caverna; qui stanno fin da bambini, con le gambe e il collo incatenati così da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti, giacché la catena impedisce loro di girare la testa; fa loro luce un fuoco acceso alle loro spalle, in alto e lontano; tra il fuoco e i prigionieri passa in alto una strada e immagina che lungo di essa sia stato costruito un muretto, simile ai parapetti che i burattinai pongono davanti agli uomini che manovrano le marionette mostrandole sopra di essi, al pubblico. Pensi innanzitutto che essi abbiano visto, di se stessi e dei loro compagni, qualcos’altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? Se dunque fossero in grado di discutere fra loro, non pensi che essi chiamerebbero oggetti reali le ombre che vedono? … Considererebbero la verità come nient’altro che le ombre degli oggetti artificiali.” – “Osserva ora”- io dissi - che cosa rappresenterebbero per costoro lo scioglimento dei legami e la guarigione dalla loro follia, se per natura accadesse loro qualcosa di questo genere. Quando uno fosse sciolto e improvvisamente costretto ad alzarsi, girare il collo, a camminare, ad alzare lo sguardo verso la luce, tutto questo facendo soffrirebbe e a causa del riverbero non potrebbe fissare gli occhi sugli oggetti di cui prima vedeva le ombre; che cosa credi risponderebbe, se qualcuno gli dicesse che prima

vedeva semplici illusioni, e che ora, più vicino all’essere e rivolto verso oggetti dotati di maggiore esistenza, vede in modo più corretto, e se inoltre mostrandogli ognuno degli oggetti che sfilano, gli chiedesse che cosa è e lo costringesse a rispondere non credi che sarebbe in difficoltà e riterrebbe che ciò che vedeva prima fosse più vero di quel che adesso gli si mostra?” La Repubblica. Platone L’allegoria platonica descrive la necessità dell’uomo di svincolarsi dall’ombra che lo avvolge in un allontanarsi necessario e progressivo verso l’illuminazione e la realtà delle cose. Situazione, questa, che può accecare chi non è pronto a diventare strumento universale di verità, capace di illuminare a sua volta la caverna stessa, e a confrontarsi sia con la realtà delle cose sia con il mondo delle idee. Ma rappresenta anche la lotta con l’inconscio accecante, come nel caso di Trofonio a Delfi, dove la caverna diventa il luogo in cui nascondere il proprio passato fratricida per soffocare ogni colpa nel timore di dover riconoscere la propria, vera, natura. L’antro diventa strumento divinatorio. Per accedervi il consultante deve sottoporsi a un rito iniziatico per prepararsi a comprendere, forse, la risposta dell’oracolo. All’esterno lo attende il trono di Mnemosine (dedicato alla dea Memoria) dove riflettere e raccontare le terribili esperienze provate, in modo da liberarsene definitivamente. In questa dinamica di riconciliazione il percorso della caverna risulta assimilabile al Gabinetto 45


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di Riflessione. Ne esprimono bene il concetto sia William Kent, grande amico di Alexander Pope, che raffigura il Maestro inglese in un momento di riflessione nella caverna del primo giardino massonico di Twickenham (questa pagina, foto 46

piccola) (1740) o nel disegno per l’antro di Merlino, realizzato nel Royal Parc di Richmond, sia Costermans in un acquerello del 1812 in cui, oltre alle simbologie di rito, rappresenta il teschio dell’ultimo Gran Maestro dei Templari posizionato tra quello dei suoi carnefici, Papa Clemente V e Filippo il Bello. È l’antro dove sviluppare il processo alchemico, luogo di rinascita e rigenerazione, paragonabile alla prima fase, quella della dissoluzione della materia. I riferimenti allegorici alla simbologia massonica sono numerosi. La grotta dell’alchimista in una stampa del 1604 (Speculum Sophicum Rhodostauroticum), illustra l’alchimista all’interno di una grotta, intento a preparare l’operazione alchemica attraverso lo studio della natura. In una delle rare incisioni dell’Amphiteatrum Sapientiae Aeternae (questa pagina, foto grande) (1595) di Heinrich Khunrath, medico e alchi-

mista tedesco, discepolo di Paracelso, la caverna, intesa come percorso alchemico, viene rappresentata in una delle due incisioni rettangolari che illustravano il manoscritto, in aggiunta alle altre quattro circolari. “Per l’alchimista colui che prima di tutto ha necessità di redenzione non è l’uomo, ma la divinità che si è persa e addormentata nella materia; la sua attenzione non è diretta alla propria salvezza attraverso la grazia di Dio, ma alla liberazione di Dio dall’oscurità della materia”. Carl Gustav Jung. Il mondo labirintico, fatto di un susseguirsi di prove concatenate fra loro, è presente anche nel mondo egizio, ma con modalità ancor più severe. Non è solo l’iniziato a essere messo alla prova, ma il Maestro stesso, come descritto nel volume: “Recherches sur les initiations anciennes et modernes”, uno studio pubblicato nel 1779 dall’abate Je-


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an-Baptiste Claude Robin, uno dei fondatori della “Loggia delle Nove Sorelle” in cui vennero iniziati anche Jean- Jacques Rousseau e Voltaire. Nel mondo egizio: ”L’aspirant trouvait dans les antres des puits d’une profondeur effrayante, qu’il descendait au moyen de trous pratiqués pour y placer ses pieds; il parcourrait ensuite de longs et tortueux souterrains où il rencontrait des spectres sous mille formes hideuses, des monstres à combattre, des torrents à franchir, des brasiers à traverser: tout ce qui pouvait affecter ses sens et effrayer l’imagination était mis en usage, et la mort semblait se présenter à lui sous différentes formes; des cris lugubres et plaintifs se faisaient entendre dans le lointain; des moments rapides de lumière le laissaient tout à coup plongé dans d’affreuses ténèbres; le jeu bruyant des machines l’enlevait, le précipitait, lui peignait le sifflement des vents, les roulements, les éclats de la foudre et l’impétuosité des torrents. Au moindre signe d’effroi et de faiblesse, on l’entrainait dans d’autres souterrains, où il était condamné à passer le reste de ses jours”. Si tratta di una riscoperta storica, la cui descrizione temporalizza la concatenazione di spazi

e di eventi che amplificheranno il viaggio dell’iniziato. Questa immaginifica scenografia ispirò anche l’architetto Jean Jacques Lequeu (illustrazione in questa pagina) nella realizzazione di alcune tavole finalizzate a descrivere i differenti stadi di un’iniziazione massonica, come emerge nel disegno “Section Perpendiculaire d’un souterrain de la maison gothique” (1789) Parigi, Biblioteca nazionale. Le prove dell’apprendista, come nella tradizione egizia ed ellenica, diventano reali, trasformate in una grotta labirintica, artificialmente costruita e inserita nel cuore della città. L’architettura del quotidiano si trasforma così per ricreare un percorso iniziatico nel cuore della Parigi massonica. Le prove dell’apprendista diventano realtà visiva e sensoriale in un percorso articolato che resterà per lui indimenticabile. Il fascino dell’Egitto come coagulo di valori iniziatici a cui far riferimento aveva in realtà già preso piede nel periodo rinascimentale. L’Hypnerotomachia Poliphili, scritto da Francesco Colonna e pubblicato a Venezia nel 1499, ripropone questo viaggio labirintico. Rinnovando il concetto

del mondo allegorico medioevale, Polifilo ricerca la sua amata oltre l’illusione dei sensi in un percorso cavernoso che rappresenta la concezione classica del Locus Amoenus, contrapposto al Locus Horridus, in un itinerario iniziatico che gli permetterà di raggiungere l’isola di Citera, dalla geometria circolare rivelatrice di armonia universale. La caverna esprime dunque un mondo parallelo, altamente spirituale, come dimostrano i pochi esempi citati, selezionati fra numerosi altri, di un percorso da cui emerge il viaggio, sempre attuale, verso la comprensione di una sacralità universale che spesso ci sfugge, ma che lo strumento massonico ha saputo preservare intatta. La caverna dimostra ancora il valore del messaggio simbolico di Platone in una società come la nostra che separa sempre più violentemente l’essere dalla sua vera essenza, favorendo un progressivo allontanamento dal concetto di biosfera. Viviamo, infatti, nelle città delle reti, in una società tecnologicamente connessa che spesso ostacola, più che stimolare, l’immaginazione e la creatività e che, pur accorciando le distanze della comunicazione, separa la fisicità delle cose e delle per47


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sone. Le caverne ci segnalano, invece e ancora, portali per mondi possibili, passaggi verso la riscoperta della nostra interiorità. ogni pensiero vola ... tale è la possibilità per ognuno di noi di annientare le nostre paure per mezzo di un pensiero che ci spinge verso l’azione del passaggio iniziatico. È forse questo il messaggio dell’orco di Bomarzo (a fronte), inserito nel parco voluto da Francesco Orsini nel 1547 e progettato da Pirro Ligorio? La caverna simboleggia il passaggio che consente nel viaggio dell’Apprendista di ricreare, tramite i quattro elementi, un dialogo interiore con le forze vitali che lo circondano e la biosfera, instaurando così una nuova relazione con il suo corpo, la sua energia e il mondo. È il passaggio che nel viaggio del Compagno permette di riscoprire la comunicazione con gli altri, la conoscenza delle Arti liberali in sintonia con i principi della natura e la comprensione della loro unità espressa con un linguaggio universale. È il passaggio che nel viaggio del Maestro, dopo essere entrato nella caverna e aver attraversato la montagna, gli con48

sente di riemergere alla luce arricchito da un nuovo sapere, dopo aver riunito tutto ciò che nella sua mente era separato. Ormai consapevole delle necessità degli altri, egli è finalmente in grado di canalizzare le sue energie nella costruzione di una società più equa, basata sulla condivisione del sapere. Troppo spesso oggi assistiamo alla costruzione, operata attorno a noi dai media, di una “caverna” che va oltre la materia, formata da un’invisibile rete di connessioni planetarie che controllano qualsiasi informazione, pensiero, libera espressione. La caverna big data ci influenza, agisce come un’estensione del nostro sistema nervoso “… modificando l’ambiente, evocano in noi rapporti unici e di percezione sensoriale. L’estensione di un qualunque senso modifica il nostro modo in cui percepiamo il mondo, quando questi rapporti mutano, mutano gli uomini”. Il medium è il massaggio, Marshall McLuhan. Oggi come nel Medioevo la caverna reale appare invece come un’alternativa silenziosa alla massificazione di ogni pensiero e azione, un grembo femminile capace di ridare vita e speranza a chi cerca. Diversa, talvolta affascinante, talvolta nascosta o insignificante “l’ultima grot-

ta è quella che meno delle altre attira l’attenzione dei curiosi, ma è invece la più bella. Essa non offre né ricordi drammatici né rarità mineralogiche; la sorgente, profonda sessanta piedi, è nascosta sotto una volta aprentesi sul più bel giardino naturale della terra. Da ogni lato la racchiudono piccoli colli boscosi. Di fronte alla grotta, al termine di una prospettiva di fiori e verzure che parrebbero caduti sui fianchi del monte dal bouquet di una fata, si eleva il gigante sublime, una roccia perpendicolare, resa simile dal tempo e dagli uragani a una roccia recinta dalle sue torri e dai suoi bastioni. Questo magico castello, che si perde tra le nubi, corona il quadro fresco e grazioso del primo piano di una maestà selvaggia. Contemplare dal fondo della grotta questo picco pauroso, seduti al bordo della sorgente con i piedi appoggiati su un tappeto di violette, tra il fresco sotterraneo dell’antro e l’aria calda che spira dalla valle, mi diede un benessere, una gioia che avrei voluto portare sempre con me.” Lettere di un viaggiatore, George Sand 1834. Per le didascalie si veda il testo dell’articolo; le foto alle pagg. 34, 37 in basso, 38, 48 e 49 sono di Paolo Del Freo).


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Riccardo Cecioni

Breve indagine sulla lettera di Giacomo il Giusto 50


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opo aver ascoltato alcuni discorsi sulla Lettera di Giacomo e sulla relativa difficoltà di alcuni Maestri Segreti a incidere una tavola sull’argomento, sono tornato col pensiero a tempi lontani quando, dalla primavera del ’67, frequentavo la Loggia di Perfezionamento, fregiato del collare con l’urna e la chiave. Allora non mi venne insegnato il valore della pagina alla quale era aperto sull’ara il libro col Nuovo Testamento o magari l’argomento era già stato affrontato precedentemente. Forse, in quei tempi definibili oggi come “pionieristici”, era dato per scontato che prima o poi ci avrebbe investigato il singolo e sarebbero saltate fuori le domande di prammatica e le conseguenti spiegazioni, etc. All’epoca non è successo nulla e io probabilmente non ci ho più pensato. Oggi cerco di colmare una lacuna, spinto soprattutto dalla curiosità, riattivando così lo spirito del 6° Grado, mai attuato nella nostra Comunione, ma sempre e regolarmente presente e indispensabile. Ho quindi ricercato i vecchi Rituali del Grado che mi avevano fatto da supporto

nell’incamminarmi per il R.S.A.A. per l’Italia e ho verificato che: A) nel primo e più vetusto rituale, non contrassegnato dalla data di stampa, non si fa cenno alcuno di Libro e tanto meno di lettera di Giacomo; B) in una successiva edizione del 1966, nella premessa viene dichiarato che “Questo Rituale è stato rilevato da: Salvatore Farina, Il Libro dei Rituali del Rito Scozzese antico e Accettato, edizione Piccinelli, Roma, 5946 D\L\” e “Rituali dei Lavori di Rito Scozzese Antico e Accettato, Milano Edizioni dott. Giovanni Bolla, 1961”; C) nel rituale di cui al punto b) si precisa l’apertura della Bibbia all’Epistola di Giacomo (I, 26, 27): cosa che è ripetuta in tutte le successive riedizioni; D) nel libro del Farina, ed. 1961, non si fa menzione della Bibbia sull’Ara al 4° Grado e neppure viene indicato che Adonhiram si rechi all’Ara per ordine del Presidente o di chicchessia; E) nel medesimo testo si indica la presenza di Bibbia al 9° Grado (chiusa), 18° (Luca 1,1) e 30° (Giovanni 1,1), mentre essa viene indicata sostituita dal

libro delle Costituzioni al 32° e 33° Grado. Non si fa cenno alcuno al 31°; F) nei rituali dei Gradi successivi al 4° da noi editi, risulta la Bibbia sull’Ara: Grado 9° (chiusa), 18° (Corinzi I,13,13), 30° (chiusa), 31° (Galati 5,13,14), 32° (Efesini 4,4), 33° (Giovanni 1,1). Da quanto sopra, emerge che probabilmente il nostro R.S.A.A. ha introdotto la Bibbia sull’Ara dei Maestri Segreti poco prima del 1966, anno dell’edizione in cui fa apparizione il riferimento a Giacomo. Fin qui abbiamo una ricostruzione prevalentemente cronologica che però non spiega le ragioni per le quali la Comunione italiana abbia attuato una simile innovazione, che avrebbe potuto porla in disaccordo con gli altri Supremi Consigli. Per risolvere questo dilemma ho provato a raccogliere il parere di alcuni Fratelli sull’argomento. Ho così alcune ipotesi formulate che, sfrondate da quelle troppo fantascientifiche, posso elencare qui di seguito. Da notare che tutti gli interpellati sono stati interrogati senza preavviso e quindi le risposte sono state immediate, senza possibilità di documentazio51


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ne e facendo appello alla sola memoria o alla conoscenza di massima. In prevalenza si ipotizza una volontà del R.S.A.A. per l’Italia di sottolineare le radici cristiane dell’Europa introducendo l’uso del Libro aperto a tale Epistola e, in particolare, evidenziare che il Lavoro da svolgere dopo l’Officina oltre che teorico, di ricerca e studio, deve essere anche e soprattutto pragmatico, se vorremo raggiungere lo scopo finale del libero Muratore. Per la seconda parte dell’ipotesi, sono convinto al massimo che tale simbolo è perfettamente idoneo, dato che tutto il contenuto dell’Epistola (e non solo i versetti 26 e 27 citati) è teso a far comprendere che la fede non è solo preghiera (o colloquio con livelli superiori), ma anche opere, e non solo accettazione supina bensì ricerca di risposte veritiere. Per la prima parte ho qualche perplessità: la figura storica di Giacomo è stata sempre tenuta celata o comunque in disparte, rispetto alle figure “canoniche”, perché “scomoda”. In merito, ci può venire in aiuto lo studio fatto da Robert Eisenman, archeologo e ricercatore, sui documenti di Qumran e sul relativo periodo storico, che lo ha portato a scrive52

re il contestato (dai cattolici) “Giacomo il fratello di Gesù”. Secondo tale studioso questo Giacomo, autore dell’Epistola in questione, è da identificarsi con il capo di quel “movimento di opposizione che portò, successivamente, per la sua uccisione illegale, “alla sollevazione antiromana del 66-70 d.C.” fino al 73: movimento avversato o contrastato, tra l’altro, da Paolo di Tarso, erodiano, che contestava a Giacomo proprio la pragmaticità privilegiando invece una dottrina universale e pacifista. Eisenman ipotizza la corrispondenza della comunità, o del movimento, di Giacomo con quella dei Sadducei che gravitavano nella zona di Qunram, ma che non definisce come primi cristiani ma piuttosto come “ebrei riformati”. Se ciò corrisponde a realtà, Giacomo sarebbe stato assolutamente disadatto a dimostrare le radici cristiane di qualunque paese. Ho rivolto allora la ricerca sulle pagine della Mainguy (La simbolica massonica, vol. 2) dove al 4° Grado indica espressamente sull’Ara, insieme all’urna e alla chiave, il Libro Sacro che deve essere aperto a I Re (prima parte). Abbiamo quindi la conferma che la Bibbia è

comunque accettata, ma dopo averli dichiarati fonte della sua opera, si dimentica di precisare se le sue note si riferiscono al R.S.A.A. o al Rito Francese. Come pure non è molto doviziosa di documentazione precisa, lasciando la sua pur vasta lezione enciclopedica sotto la forma di diktat. Non posso quindi ritenerla molto attendibile per una ricerca seria. Sono passato quindi a esaminare la “Comparazione e studi dei Rituali del R.S.A.A. dal 4° al 9° grado”, edito per i nostri tipi nel 2010, a cura della Regione Massonica Toscana, con elaborati di Sorelle e Fratelli delle Camere della Valle dell’Arno, Oriente di Firenze, dei Maestri Segreti “Costantino Nigra” e dei Cavalieri Eletti dei IX “Giustizia”. Tale opera, oltre agli articoli che esaminano e analizzano i gradi in questione, presenta utilissime tavole sinottiche che comparano lo sviluppo del rituale secondo le versioni dei vari compilatori storici. Decisamente notevoli gli studi sui troppo trascurati Gradi intermedi. Nel caso nostro la comparazione è fra Morin, Francken, Farina 1946 e Farina 1960. A prima vista devo esprimermi sull’ultimo dei testi messi a confron-


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to, perché non mi risulta che esista una edizione 1960 dei “Rituali dei Lavori del R.S.A.A.”, essendo usciti in tale anno e del medesimo autore, per le medesime edizioni Bolla solo i “Rituali dei Lavori dell’Ordine degli A.L.A.M.”. Per il Rito è la prefazione dell’autore che riporta la data 1960 sull’edizione 1961: probabilmente per la datazione sul quadro sinottico si tratta di una svista dei curatori, ma che unita ad altro elemento successivo può denotare una certa superficialità di indagine, che stonerebbe in un’opera che tutto sommato è valida per la particolarità e originalità dello studio. Mi riferisco qui a quanto indicato nella tavola a p. 45, che attribuisce all’edizione ’61 del Farina l’ordine del Potentissimo ad Adonhiram e la relativa esecuzione: cosa assolutamente errata, come più avanti evidenziato. Pertanto ritengo che ci sia stata una cattiva interpretazione della premessa ai Rituali del 4° grado (riportata inalterata dal 1966 fino all’edizione del 2007, ma eliminata nella successiva del 2010) e la sua errata estensione anche al particolare dell’epistola, creando così un reale falso. Inoltre le argomentazioni riportate alle

pagine 37 e 38 sulla introduzione dell’Epistola fatta dal Farina sono decisamente presentate con acume e perspicacia e costituirebbero senz’altro motivo di gratificazione per il Farina stesso, se non fossero costruite sul niente. Temo che il tutto sia derivato dalla pessima abitudine di dare per scontata ogni interpretazione autorevole. Interpretazione magari di chi, fra l’altro, si fida troppo del materiale trovato su internet: materiale che dovrebbe essere sempre sottoposto ad analisi, quanto meno esegetica, prima di poterlo utilizzare per la ricerca. Forse dovranno essere esaminati i verbali dei Lavori del Supremo Consiglio degli anni ’60 per giungere ai reali motivi di tale introduzione, sempre che non si sia trattato di un’innovazione del tutto personale avallata dalla formula generale della famosa premessa al Rituale. Sono stati così consultati i primi due libri, esistenti presso gli archivi della nostra Obbedienza, con i verbali in questione che datano a partire dal 1962 fino a epoca utile alla ricerca. Non è stata rilevata alcuna delibera del nostro Massimo Organo di Governo in merito all’introduzione nel rituale del 4°

Grado di alcun passo delle Scritture. Di conseguenza, non essendo stata trovata traccia di una simile decisione ritualistica, si può ipotizzare che in quel periodo il Supremo Consiglio non abbia neppure costituito una commissione preposta ai Rituali, perché ciò sarebbe stato verbalizzato. Quindi per circa 49 anni il nostro Rito ha utilizzato uno strumento, ritualmente illecito e abusivo, forse inserito nella ristampa 1966 autonomamente da un grafico, o da chiunque altro avesse avuto la possibilità di farlo, che ha ritenuto opportuno, per sue convinzioni, di aggiungere un elemento con riferimenti neotestamentari. Oggi dovrà essere presa in considerazione la rimozione o il mantenimento di tale ausilio simbolico nel Rituale del Maestro Segreto e comunque ripristinare negli ultimi tre Gradi denominati per convenzione Amministrativi, 31°, 32° e 33° la presenza sulla rispettiva Ara del libro delle Costituzioni, come un tempo sancito dai massimi Sistemi Scozzesi.

P.50/53: Qumran (Cisgiordania), la zona delle grotte.

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C’era una volta il filo a piombo Veronica Mesisca

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C’

erano una volta venticinque […] fratelli1”, tutti uguali. Tenevano “il fucile in mano e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu1” a emblema del lavoro sociale cui l’aplomb li richiamava. Nel racconto ottocentesco di Hans Christian Andersen, i soldatini, perfettamente ordinati e rigidamente disposti, “si assomigliavano in ogni particolare, solo l’ultimo1” – ovvero il nuovo arrivato – “era un po’ diverso: aveva una gamba sola1”. Proprio a codesto particolare fratello, zoppo, imperfetto e vacillante, ma teso a quell’amore sublime che assume forma di principessa turchina di carta splendente, sarà riservata, nella fiaba iniziatica, una “strana sorte1”… inevitabile: quella di caduta libera, simbolicamente preannunciata dalla sua stessa materia di forgiatura, di fatto, plumbea. Aspramente criticato da Kierkegaard per la sua mancanza di capacità di visione del mondo – profano, val la pena di aggiungere – l’indigente scrittore danese, figlio di una vedova, si improvviserà autore di un genere di fiabe definite “piccanti”, in quanto non scritte per intrattenere un pubblico infantile, ma per celare misteriosi insegnamenti che,

nel “tenace soldatino1”, assumono la parodia di quella via iniziatica del piombo che, fin dai più remoti testi antichi, condanna l’uomo alla discesa oltre l’Acheronte. Presente in tutte le Ere dei Metalli, la storia del piombo procede, difatti, di pari passo con la storia della civiltà. Conosciuto già in Anatolia nel 6500 a. C.; usato dagli antichi egizi; citato nel 1400 a. C. nel Libro dell’Esodo; a partire dal 500 a. C. si diffonde velocemente in Grecia, Mesopotamia e nell’Impero Romano, assumendo i più disparati impieghi grazie alla facile plasmabilità e al basso punto di fusione, che lo rendono un materiale incredibilmente tenero, malleabile, potenzialmente di colore bianco azzurrognolo, che, però, se esposto all'aria – ovvero chiamato in vita – assume il tipico tono tenebroso, da cui il nome. Tuttavia, dal punto di vista applicativo, ciò che rende codesto prezioso materia-

le costante in tutte le varie epoche storiche, è il suo impiego tecnico-scientifico – pressoché invariato fin dall’antichità – in campo edile-architettonico come filo a piombo, regolo di base, strumento di rilievo diretto della dimensione normale che, nel suo essere pesante delatore di ogni minimo sbilanciamento strutturale, esige sempre un perfetto equilibrio statuario verticale, come ben dimostra il David, nel quale, se lo strumento viene posto al centro del capo della statua, il filo, passando per l’ombelico, scende direttamente sul piede di appoggio, ove Michelangelo Buonarroti stabilisce, con forza, l’intera struttura. Ed è proprio in quella miracolosa caduta perfettamente lineare del piombino, sempre rigorosamente ortogonale alla superficie equipotenziale del campo gravitazionale, che, incurante del baricentro terreste, lo strumento di verifica si pone a squadra con la legge – nel caso 55


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scientifico – di gravitazione (G) universale. Codesta qualità fa sì che negli antichi Testi Sacri l’utensile sia assunto come simbolo di rettitudine morale assoluta, mai individuale, tant’è che spesso viene posto in mano del divino, o del giudice profeta che ne fa le vece, per indicare all’uomo che la salvezza esige la tenace volontà di misurarsi con l’archipendolo del silenzio, il cui piombino indica vettorialmente la via del V.I.T.R.I.O.L. Una via di connessione verticale cielo-terra che, lungi dall’essere percorribile con rovinose arrampicate, quale è immagine l’arrogante Torre di Babele, è agibile solo con la discesa infernale, poiché all’uomo non è mai dato di elevarsi al Sacro, se non per assunzione. Emblematico, a codesto proposito, appare il testo scritto oltre cinquecento anni prima di Cristo, 56

nell’undicesimo libro del Tre Asar della Tanàkh, ove viene riportata la profetica visione del “Signore [con] in mano un filo a piombo [che cala] in mezzo al popolo2” per misurarlo, affinché nessuno sia più risparmiato dalla corruzione… o, forse, dalla correzione. Nessun uomo tra quelle genti poteva, infatti, mancare di rettitudine, poiché essi, secondo la profezia di Aggeo, avrebbero dovuto ergere le mura del nuovo Tempio sotto la guida di Zorbabele, a cui sarà affidato il più antico strumento edile a sorveglianza dei lavori. Solo una volta ultimate le mura dell’edificio in perfetta verticalità, a ricompensa dello zelo degli operai, la profezia annuncia che “i sette occhi […] dell'Eterno che percorrono tutta la terra2” potranno finalmente “rallegrarsi2” nella speranza – e non nell’avvento! – di una nuova era.

Per la speranza, quindi, si cala il filo a piombo. Non per altro. E proprio a questa saggezza del Tanàkh, oltre mille anni dopo, farà da cassa di risonanza anche Il Mercante di Venezia, ove il candidato, posto innanzi all’enigmatica scelta fra tre scatole, delle quali le prime d’oro e d’argento, potrà scoprire il volto dell’Amore proprio in quello scrigno di “vil piombo3” con inciso, a monito, che colui che lo sceglierà “sarà obbligato a dare e arrischiare tutto quel che ha3” nell’auspicio che gioia venga. Ancora a rimarcare l’antico insegnamento che sempre e solo speranza, mai promesse, reca il piombo. Questa è, infatti, la via della fede, non ceca, ma razionalmente folle, poiché audace e autentico salto nel buio che, nell’azzardo cosciente e consapevole, conduce a nozze il mercante tratto da Ser Giovanni Fiorentino, non diversamente dal soldatino di Andersen che, rinunciando all’amor proprio, viene iniziato, nella fiaba, grazie alla profezia corvina di un Troll fuligginoso che annuncia la condanna, come impiccato delle carte, a cadere rigorosamente a testa in giù. Un destino, quello del piombo, noto anche ai Signori della Materia dalla notte dei tempi sino ai giorni d’oggi. Assunto a simbolo di speranza nell’avvento dell’utopica epoca aurea, l’antico sogno alchimista di trasmutazione del metallo, non appare insensato nemmeno agli occhi degli scienziati di oggi, consapevoli – almeno dalla catalogazione del chimico russo di Dmitrij Ivanovič Mendelev in poi – che il cosiddetto plumbum-82 si trova fisicamente a soli tre passi di distanza dall’oro, poiché, con tre protoni in meno, il lugubre metallo di transizione sarebbe effettivamente aureo. Elemento pesante, non grave, in quanto caratterizzato da quel peso vero, proprio e intrinseco della massa nucleare che, con la tracotanza propria della forza nucleare forte, è capace di legare 82 protoni a 122 neutroni e più, per la sua alta densità, il piombo tende naturalmente a convergere verso il centro del pianeta, tant’è che si può trovare nella crosta terrestre quasi esclusivamente legato a elementi più leggeri (zinco, argento o rame) e, sovente, per essere estratto, richiede lo scavo in miniere che, per l’oscurità pro-


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pria del materiale, assumono la forma di autentici pozzi iniziatici. Tutt’oggi si trovano ancora colossali cave carsiche, ove un ingresso titanico accoglie il recipiendario nel vestibolo arcato di petrosi e sdrucciolevoli macigni. Da codesto varco, se il postulante è “saldo sulle gambe e coraggioso in cuore, [può] arrischia[rsi] di procedere oltre, [laddove] l'accesso è assai incomodo e pericoloso, dovendosi ascendere […] per un'angusta scala scavata dalla natura nel greppo, di qualità saponacea, senza alcuna sbarra che difenda il salto4”… lungi dall’essere una promessa, il Buco del Piombo è una minaccia, ancora una volta analoga – e decisamente più incisiva! – ai noti moniti iniziatici. Questi antri sono miniere senz’oro, luoghi tetri con “pareti scoscese di un bigio ferruginoso, ove cessa ogni vegetazione e manca il più debole raggio di lume4” poiché anche le fiaccole dell'audace che ardisce procedere, via via che le grotte si stringono, si spengono, avvertendo il viaggiatore che la morte è certa per chi osa oltrepassare il varco. È qui che, quindi, ancora oggi5 il postulante si ricovera per rogare l’atto testamentario. Senza cielo e senza fiato, al buio e in silenziosa solitudine, il recipienda-

rio si spoglia, così, del mondano – mondandosi, appunto – nell’acqua fetale che, nelle grotte, gocciola dalle pareti, formando rivoli convergenti in oscure fosse, analoghe alle fognature cittadine nelle quali sprofonda, rovesciato, il soldatino della fiaba danese… e, ovviamente, in questi abissi tetri, il giocattolo – parimenti al burattino di Lorenzini – non può che essere inghiottito da un pesce, divenuto perfetto gabinetto di riflessione nel panorama simbolico-letterario dal Libro di Giona in poi. Per il giovane Andersen, fermamente convinto che la perfezione è propria, non delle vicende che si vivono, ma solo di quelle che si raccontano poiché simboliche espressioni di vie evolutive universali, il personaggio della fiaba, nel suo essere intrinsecamente filo a piombo, incarna idealmente il V.I.T.R.I.O.L. lungo tutto quel percorso romanzesco che, dalla folata d’aria iniziale, getta l’iniziato nell’acqua del pozzo fognario, per concludersi, infine, nel fuoco dell’ardente caminetto, purificandosi nel tentativo di spogliarsi di quei tre – ma simbolicamente infiniti – elementi di corruttibilità che impediscono la trasmutazione in oro. Il soldatino, racconta l’autore, “vide una luce abbagliante e sentì un gran calore, insop-

portabile. Non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell'amore1”, ciò che è certo, è che il plumbeo suo colore era ormai sbiadito, quando “si sentì sciogliere1” nel cuore della platonica anima mundi, ovvero in quel crogiolo ove il piombo finalmente muore nella speranza di un mondo migliore … almeno per chi sa ancora leggere le fiabe. ______________ Bibliografia: 1 H. C. Andersen, Il soldatino di piombo, http: // www.liber-rebil.it / wp-content / uploads / 2011 / 09/ Andersen-fiabe.pdf. 2 Am. 7, 8 e Zc 4, 9-10. 3 W. Shakespeare, Il Mercante di Venezia, http: // www.liberliber.it / mediateca / libri / s / shakespeare / il_mercante_di_venezia / pdf / il_mer_p.pdf 4 P. F., Tre giorni di peregrinazione nel piano d'erba e nei paesi circonvicini, Milano per Giuseppe Crespi, MDCCCXL. 5 Op. cit., rif. all’atto testamentario redatto nel 1506 dal nobile milite Guelfo Pallavicini nello scavo dall’Alpe Turati. P.54: Pompei, Memento mori, mosaico; p55: David, Michelangelo, Firenze; p54: Hans Christian Andersen (1805-1875); p.56: Uniforme usata per il film ‘Barry Lindon’ di S.Kubrick; p.57: Illustrazione della fiaba ‘Il soldatino di stagno’ di H.C.Andersen.

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Isabella Zolfino

La comunità degli ebrei nell’Elba francese 58


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N

egli ultimi anni della seconda metà del cinquecento, le attività commerciali degli Stati italiani si trovarono, in larga misura, di fronte a gravi difficoltà economiche ed era necessario trovare una qualche soluzione che potesse risolvere il problema. D’altra parte erano numerosi gli Ebrei che, esuli dalla penisola iberica e bisognosi di sicurezza personale e di libertà di culto, erano alla ricerca di nuovi e sicuri paesi in grado di ospitarli. Era l’occasione giusta per ottenere reciproci vantaggi. Gli Stati italiani che anelavano a creare o ridare impulso ai propri commerci capirono che era importante, in cambio di numerosi vantaggi e privilegi, accogliere e favorire il trasferimento nei propri domini di Ebrei in possesso di capitali, tecniche industriali e di una vasta rete di conoscenze. L’occasione non sfuggì nemmeno al Granduca di Toscana Ferdinando che, l’8 ottobre 1590, allo scopo di incrementare l’insediamento di nuovi abitanti nella città di Livorno, pubblicò un bando contenente provvedimenti atti a far trasferire a Livorno le maestranze necessarie all’intensa attività edilizia e al fun-

zionamento del porto concedendo estesi privilegi agli abitanti presenti e futuri di Livorno. Con le lettere patenti del 30 luglio 1591 e del 10 giugno 15931 si invitarono perciò i mercanti di qualsiasi nazionalità e di ogni credenza a stabilirsi a Pisa e nelle “terre” di Livorno purché commerciassero e aprissero casa. Con tale indulto furono quindi accolti Levantini, Ponentini, Ebrei, Turchi ed tutti quelli che intendevano trasferirsi nel-

le terre di Livorno e Pisa con i loro traffici incluso mercanti ebrei di ogni nazionalità e marrani anche se cacciati da altre terre. Già nel 1559, circa dieci anni dopo la nascita di Cosmopoli, l’odierna Portoferraio, città fondata da Cosimo I dei Medici e chiamata simbolicamente col suo nome, concepita come presidio militare per difendere le coste del Granducato e come sede dei Cavalieri di Santo Stefa59


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no, il granduca di Toscana aveva emanato un Editto col quale concedeva particolari privilegi a tutti coloro che fossero venuti ad abitare proprio in quella città. Giuseppe Ninci nella Storia dell’Isola dell’Elba ne fa esplicito riferimento2:

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Restato così il Duca in possesso dello Stato di Siena e di Portoferrajo pensò di vantaggiare le forze e la felicità di questa piazza. Per riescire in quest’ultima idea bisognava soprattutto richiamare nella nuova città la popolazione e il

commercio. A tal’uopo pertanto pubblicò un Editto in data del 14 settembre di quell’anno col quale prometteva a chiunque concorresse ad abitare a Portoferrajo libera franchigia di persona e di beni nonostante qualunque pregiudizio altrove contratto. In seguito a questi editti, invogliati dalle accattivanti offerte, non pochi Ebrei decisero di accettare e si stabilirono a Cosmopoli. L’editto garantiva, fra gli altri, la possibilità di ottenere gratuitamente terreno per costruirvi la propria casa, introdurre ed esportare merci esenti da dazi e gabelle, amnistia per qualsiasi delitto consumato in altri stati compreso quello di apostasia, concessione particolarmente interessante per i cosiddetti “marrani”, cioè coloro che per evitate danni e persecuzioni si comportavano in pubblico come cristiani, ma in segreto conservavano le vecchie convinzioni ebraiche compresa qualche pratica religiosa3. Altri privilegi consistevano nella libertà di poter trafficare e spostarsi in tutta la Toscana senza bisogno di segni distintivi come la rotella gialla, l’apertura di un credito di 100 mila scudi, la facoltà di conservare i propri riti religiosi e di costruire gli edifici necessari al culto. La concessione più importante fu senza dubbio il diritto di ballottazione secondo il quale, venendo ad abitare nei territori di Livorno o Pisa, si acquistava automaticamente la cittadinanza toscana. Molti Ebrei si trasferirono quindi all’Isola d’Elba prevedendo concrete prospettive di guadagno data la presenza non solo di popolazione civile ma soprattutto di molte guarnigioni militari di stanza sia a Portoferraio che a Longone. A Cosmopoli si venne così a formare una piccola e prosperosa comunità discretamente integrata nella popolazione cristiana che andò via via incrementandosi nel numero e con il diritto di godere di piena autonomia giurisdizionale, cioè della possibilità di essere giudicati, nelle cause penali o civili che potevano insorgere in seno agli appartenenti alla comunità degli ebrei, dai propri organi esecutivi (vd. fig. qui sopra). A testimonianza dei buoni rapporti con la popolazione cristiana e del fatto che non ci fossero problemi con alcuno, depone il fatto che non ci siano molti documenti in merito alla comunità ebraica


elbana e sorprende quindi molto scoprire che, con un decreto del 1702, il governatore Alessandro Del Nero, adducendo lo scopo di evitare sconcerti che potessero nascere a causa della loro coabitazione con i cristiani, confinasse gli ebrei di Portoferraio nella parte terminale dell’odierna Via Elbano Gasperi, nei pressi del Forte Stella, strada che prese poi il nome di Via degli Ebrei; piccolo ghetto dal quale gli ebrei non potevano uscire dopo l’una di notte pena l’essere incarcerati. La decisione di istituire un ghetto, vista la buona fama di cui sembravano aver sempre goduto gli ebrei elbani notoriamente dediti al commercio e agli affari senza aver mai suscitato alcuna lamentela da parte della comunità cristiana, sembrerebbe perciò immotivata a meno di non pensare che eventuali stretti rapporti commerciali e di amicizia con gli stessi cristiani potessero aver preoccupato le autorità ecclesiastiche locali di una eventuale contaminazione della popolazione cristiana con idee “eretiche”4. Intorno alla stessa data fu anche vietato ad Abramo di Isaac Pardo di costruire una nuova sinagoga perché troppo vicina ai luoghi dove venivano celebrate le funzioni religiose della popolazione cristiana, costringendo quest’ultimo a costruirla in un orto dietro casa sua, luogo non frequentato dal popolo e comodissimo alla comunità degli Ebrei. Nel 1802, con il Trattato di Amiens, l’Elba divenne territorio francese e fece sue le regole vigenti in Francia come a esempio anche quanto stabilito nel decreto del 28 gennaio 1790, decreto che dava pieni diritti politici e civili agli Ebrei di Francia purché avessero ottenuto delle lettere di naturalizzazione prima del 1789. “Tutti gli Ebrei conosciuti in Francia sotto il nome di Ebrei Portoghesi, Spagnuoli ed Avignonesi continueranno a godere de’ diritti de’ quali hanno goduto finora e che furono loro accordati con lettere-patenti, in conseguenza essi godranno de’ diritti dei cittadini attivi allorchè verificheranno d’altronde le condizioni richieste dai decreti dell’Assemblea Nazionale5”. Con il Decreto emanato il 20 luglio dello stesso anno e sanzionato il 7 agosto seguente, la situazione migliorò notevolmente in quanto veniva stabilito che la restrizione che limitava il beneficio ai soli Ebrei in possesso di lettere-paten-

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ti e che escludeva quelli che non potevano esibire tale documento veniva a cessare, e la pienezza di tutti i diritti politici e civili veniva estesa a tutti, previo giuramento civico. Tutti gli Ebrei domiciliati in Francia si affrettarono a prestare il loro giuramento che, costituendoli cittadini, portava

seco l’impegno solenne di obbedire alle leggi e di sottomettersi alla pubblica podestà. Il 30 maggio 1806 Napoleone emanò da Saint Cloud6 un decreto per convocare a Parigi un’assemblea di israeliti, il Sinedrio, allo scopo di preparare una riforma che avrebbe chiarito la posizione del po-

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polo ebraico nel contesto della vita sociale e politica francese dal momento che il decreto del 1790 sembrava correre il rischio di essere revocato. Art. II - Sarà convocata ai 15 luglio prossimo nella nostra buona città di Parigi un’assemblea d’individui professanti la religione ebraica ed abitanti sul territorio francese. IV - Negli altri dipartimenti del nostro impero dove esistessero individui professanti la religione ebraica al numero di cento e di meno di cinquecento, il prefetto potrà nominare un deputato per cinquecento, e al disopra fino al mille egli potrà nominare quattro deputati; e così di seguito. Il Decreto imperiale era ovviamente diretto a tutti i Francesi di religione ebraica e interessava, perciò, anche quelli dimoranti all’Elba. Ma la comunità ebraica di Portoferraio era talmente scarsa e il suo numero così basso da essere al di sotto della soglia minima sufficiente per poter partecipare al Sinedrio. Come si può leggere nell’annotazione n. 5137 del 30 giugno 1806, il Commissario Generale così scrive al ministro degli Interni: le très petit nombre 62

de familles Juives, établies dans le cheflieu seulement de cette Isle me fait croire inutile designer parmi eux un Député pour se rendre à Paris. Nessun Ebreo Elbano poté quindi recarsi a Parigi in rappresentanza della comunità isolana ma quanto stabilito dal Sinedrio ebbe ugualmente benefiche ripercussioni anche all’Elba perché ogni ebreo domiciliato sul territorio dell’Impero era, a tutti gli effetti, riconosciuto come cittadino francese e in grado di godere degli stessi diritti e degli stessi doveri ai quali aveva l’obbligo di uniformarsi ogni singolo francese. In effetti, nel 1804, la comunità ebraica di Portoferraio era effettivamente molto scarsa, come risulta dallo Stato delle anime di quello stesso anno8, constando di 29 unità su un totale di 2764 abitanti (vd. fig. qui sopra). Le informazioni sulla Nazione Ebraica sono molto limitate in quanto la loro vita quotidiana non offre episodi tali da essere riportati all’attenzione del Governo, ci sono solo notizie sui matrimoni, sulle morti e niente di più del numero dei componenti la Comunità anche a motivo del fatto che l’amministrazione fran-

cese aveva abolito i registri parrocchiali, da sempre fonte inesauribile di notizie sugli abitanti, ripristinati poi con la legge del 18 giugno 1817. A questa data, comunque, la popolazione ebraica elbana consta di 17 maschi e 20 femmine su un totale di 3574 abitanti e nell’anno successivo, su una popolazione totale di 3807, si rileva l’aumento di una unità; negli anni successivi poi, il numero comincia a calare leggermente e con costanza ritornando, nel 1822, a quello del 1804 e cioè di 29 unità. Il fatto che durante il periodo francese il numero dei componenti la nazione ebraica fosse aumentato anche se di poco, conferma che durante tale periodo le condizioni di vita degli ebrei elbani non erano affatto difficili e le relazioni con la popolazione cristiana continuavano a essere pacifiche; ne è la prova la stessa annotazione n. 513 al Ministro degli Interni citata prima che, in risposta all’invio della circolare sulle misure da adottare contro l’usura praticata dagli Ebrei, il Commissario fa notare che gli ebrei elbani si comportano bene9 e che sono perfettamente integrati nella popolazione locale. Nei documenti presenti nell’Archivio Storico di Portoferraio non c’è infatti traccia di denunce o reclami di alcun genere a carico di Ebrei; non viene mai riportato che la quiete pubblica sia stata mai disturbata seppur anche, da funzioni religiose ebraiche ritenute rumorose al contrario di quanto si lasciava intuire al momento dell’istituzione del ghetto. Non compare tantomeno alcuna denuncia per fastidi o incomodi a carico di singoli abitanti appartenenti alla collettività cristiana. Uno dei rari documenti inerenti la Nazione Ebraica riguarda la questione dei nomi. Un decreto napoleonico del 20 luglio 1808 aveva stabilito che i cittadini di religione israelitica, nonché gli ebrei stranieri che desideravano risiedere nei territori dell’Impero, erano obbligati ad adottare un nome e un cognome fisso, ove non già posseduto, da comunicarsi all’ufficiale di stato civile del comune di residenza, sotto pena di pesanti sanzioni. Tale decreto si rifaceva alla Legge dell’11 Germinal anno XI che, all’art. 1 del TITRE PREMIER – Des Prénoms - così recitava:


A compter de la publication de la présente loi, les noms en usage dans les différens calendriers, et ceux des personnages connus de l’histoire ancienne, pourront seuls être reçus, comme prénoms sur les registres de l’état civil destinés à constater la naissance des enfans; et il est interdit aux officiels publics d’en admettre aucun autre dans leurs actes. È probabile che tale decreto fosse stato dettato dalla necessità di concretizzare un progetto di centralizzazione amministrativa che, data l’incertezza sul nome di famiglia, si rivelava evidentemente incompatibile con il programma perseguito dall’Impero e, in particolare, con l’esigenza di sottoporre anche gli ebrei al servizio militare obbligatorio ma, tale soluzione non sembrò rivelarsi molto efficace perché l’art. 5 del Decreto Imperiale10 introduceva una eccezione per quegli ebrei che avevano nomi noti e portati “costantemente” anche se tratti dal Vecchio Testamento e quindi non comprometteva l’atteggiamento tradizionalistico delle comunità ebraiche in fatto di nomi. Il decreto, comunque, non risultò molto chiaro a qualche ufficiale dello stato civile dato che il Governo sentì il bisogno di emanare una circolare per richiamarli all’ordine. Il documento è del 28 settembre 181311. Il Ministro dell’Interno così scrive ai Prefetti dei vari Dipartimenti: “Sono informato, signor Prefetto, che alcuni ufficiali dello Stato Civile ricusano di ammettere per pronomi sugl’atti di nascita dei fanciulli israelitici che sono loro presentati, i nomi dei personaggi conosciuti nella favola. Essi pensano che i soli pronomi che si possono adottare s’abbino per porsi sul calendario. Quest’opinione è contraria à ciò che anno prescritto la Legge de 11 Germinale anno 11 e il decreto Imperiale del 20 luglio 1808 ... Essi anno dunque la facoltà di scegliere fra i personaggi della favola che fa parte della istoria antica i pronomi che vogliono dare ai loro figli. Firmato il Ministro Montalivet” (vd fig. pag. a fronte). La popolazione elbana, con l’andare del tempo, non solo si era assuefatta alla presenza degli ebrei, ma li vedeva con simpatia: lo dimostrano i matrimoni avvenuti tra giovani ebrei e ragazze elbane, per le quali arrivarono al sacrificio più grande che si potesse chiedere a un ebreo: quello

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di rinunciare – col battesimo – alla propria religione12. Dalla seconda metà del XVIII secolo comunque la comunità ebraica andò riducendosi a causa del peggioramento delle condizioni economiche dell’Elba dovute alla smobilitazione delle guarnigioni militari dopo la pace con l’Impero Ottomano. Ai primi del ’900, la costruzione dello stabilimento siderurgico a Portoferraio favorì l’arrivo di nuove famiglie ebraiche sull’isola attratte dalla richiesta di manodopera, ma poi, a causa delle leggi razziali e delle persecuzioni, anche queste lasciarono l’isola. Nella zona delle Ghiaie, in Portoferraio, è ancora visibile un muro di cinta con la porta centrale murata dove, fino al 1954, vi era la scritta “Cimitero Israelitico”. Nel 1964 le tombe ancora esistenti nel cimitero, circa quaranta con iscrizioni in ebraico e castigliano, furono trasferite al cimitero ebraico di Livorno e del vecchio cimitero non rimase che il muro di cinta facente ora parte del giardino di una villa retrostante. _______________ Note: 1 Costituzioni Livornine. 2 Storia dell’Isola dell’Elba scritta da Giuseppe Ninci e dedicata alla Sacra Maestà di Napoleo-

ne il Grande Imperatore – stampato in Portoferrajo 1815 presso Broglia - p. 102. 3 Fermenti patriottici religiosi e sociali all’Isola d’Elba (1821-1921) – Alfonso Preziosi – Olschki Editore – Firenze. 4 idem. 5 Raccolta degli Atti dell’Assemblea degli Israeliti di Francia e del Regno d’Italia. – Milano – Stamperia e Fonderia di G.C. Destefani – 1807 p. 17-19. 6 Raccolta degli atti dell’Assemblea di Francia e del Regno d’Italia convocata a Parigi con decreto di S.M.R.e.i. del 30 maggio 1806. Milano – 1807 p. 114. 7 ASCPf. T 14- Corrispondance Ministerielle Ans 12-13-14 et 1806. 8 ASCPf – C33 – Miscellanea di diverse Amministrazioni dell’Isola – 1801-1827. 9 ASCPf. T 14- Corrispondance Ministerielle Ans 12-13-14 et 1806. 10 ART. 5 Seront exceptés des dispositions de notre présent décret, les Juifs de nos États, ou les Juifs étrangers qui viendraient s’y établir, lorsqu’ils auront des noms et prénoms connus et qu’ils ont constamment portés, encore que lesdits noms et prénoms soient tirés de l’AncienTestament ou des villes qu’ils ont habitées. 11 ASCPf – C57 – Sottoprefettura e Miscellanea di diverse Amministrazioni dell’Isola – 1812–1829. 12 Alfonso Preziosi, Fermenti patriottici religiosi e sociali all’Isola d’Elba (1821-1921)-Olschki Editore, Firenze. P.58: Frontespizio delle Costituzioni Livornine; p.59: Targa marmorea all’isola d’Elba; p.60, 61 e 63: Varie carte dell’Isola d’Elba; per le altre illustrazioni si veda il corpo del testo.

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Eresia, Eretici e MentalitĂ eretica Elisabetta Pabis Ticci

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L’

etimologia della parola eresia proviene dal greco Hàreisis e anche Hàireticòs (eretico). Dal greco questi due termini sono passati nel latino dei primissimi secoli del cristianesimo. Il termine eresia in origine, significava “scelta”, “propensione”, ed eretico era colui che aveva fatto una scelta. Gli scrittori ellenistici infatti usavano queste due parole per indicare una fazione o una setta religiosa, ma senza connotazioni negative. Dando un rapido sguardo alla storia del Cristianesimo nei suoi primi secoli di vita, riscontriamo aspetti molto travagliati che a volte assumono dimensioni contradditorie, fino ad arrivare però nel Nuovo Testamento a dare alla parola eresia un significato negativo e in questo senso venne utilizzato dai padri della Chiesa e Scrittori ecclesiastici. Ad esempio il termine venne ampiamente impiegato da Ireneo nel suo trattato Contra haeresis (Contro le eresie) per contrastare i suoi oppositori nella Chiesa. Egli descrisse le sue posizioni come ortodosse (dal greco ortho- "retto" e doxa "pensiero") in contrapposizione con quelle "eretiche" dei suoi avversari. Ovviamente, nell'accezione negativa, il termine eresia può essere visto come re-

ciproco: pochi sarebbero disposti a definire le proprie credenze come eretiche, ma piuttosto a presentarle come l'interpretazione corretta di una determinata dottrina, quindi come la visione ortodossa giudicata eretica da altri. Ciò che costituisce eresia è un giudizio dato in funzione dei propri valori; si tratta dell'espressione di un punto di vista relativo a una consolidata struttura di credenze. Per esempio, i cattolici vedevano nel protestantesimo un'eresia, mentre i non cattolici consideravano il cattolicesimo stesso come la grande apostasia. Nell'ambito del cristianesimo si tende a fare una distinzione fra eresia e scisma: quest'ultimo comporta un distacco dalla chiesa ortodossa senza "perversioni nel dogma" anche se, per alcuni teologi cattolici, lo scisma assume caratteristiche dottrinali. Secondo San Tommaso d’Aquino “Eresia e scisma si distinguono tra loro in base alle cose cui direttamente si contrappongono. Infatti l’eresia si contrappone alla fede; lo scisma invece si contrappone all’unità della carità esistente nella Chiesa”. E San Tommaso cita San Girolamo: “Penso che tra scisma ed eresia ci sia questa differenza, che l’eresia implica un dogma sbagliato, mentre lo scisma si limita a separasi dalla Chiesa”. E conclude: “non c’è uno scisma il quale non

si costruisca un’eresia, per giustificare la propria separazione dalla Chiesa” Vengono inoltre fatte, nell'ambito del Cattolicesimo, alcune distinzioni fra i diversi gradi dell'eresia. Quando si tratta dell'opposizione diretta e immediata ad un dogma esplicitamente proposto dalla Chiesa si parla di dottrina eretica, mentre quando ci si oppone a una conclusione teologica o a altri elementi derivati di una verità rivelata o ad una dottrina definibile, ma non ancora definita, si parla di 65


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proposizioni erronee, o che sanno di eresia, o prossime all'eresia. Eresia potrebbe quindi equivalere ad una scelta sia di credo, sia di appartenenza a fazioni religiose contrapposte. Un'altra possibile interpretazione è invece legata al significato di “scelta”, richiama il fatto che l'eretico è colui che “sceglie”, cioè accetta, solo una parte della dottrina “ortodossa”, rimanendo in disaccordo su altre parti. Il termine sarà però usato, in ambito cattolico, per indicare un'opinione gravemente errata o comunque discordan66

te dalla tesi più accreditata riguardo un certo argomento. Possiamo immaginare lo sgomento, la confusione del filosofo Giordano Bruno per l’accusa di eresia rivoltagli dal tribunale dell’Inquisizione, perché nella sua opera Il Candelaio aveva lodato gli eretici per le”virtù morali” sottintese alle loro azioni. Virtù che essi intendevano, in buona fede, esprimere, mettere in opera, per una diversa “etica della conoscenza”, ma soprattutto per una loro convinta e originale “religione dell’intelligenza”. La filosofia che il Nolano vuole diffonde-

re è la “filosofia del cuore”, perché apre la mente al ragionamento contentando in eguale misura lo spirito e l’intelletto. G. Bruno – come molti altri del suo tempo – esprime, in una serie di testi scritti in periodi diversi, l’idea che la qualifica di uomini non spetti a tutti coloro che hanno forma ed aspetto di essere umani”. La Terra produsse molte specie di essere animati; pochi, tuttavia, hanno assunto forma umana e pochissimi sono veri uomini. Questi uomini veri sono della stessa natura degli dei” (De immenso). “Gli uomini che sono privi della forza dell’intelletto non sono in grado di giungere a sfiorare e comprendere i segreti che sono stati tramandati dai sapienti che inclusero nei loro libri con parole occulte questi segreti.” Nelle pagine De gli eroici furori Giordano Bruno traccia il profilo dell’eroe furioso: quest’ultimo non è inconsapevolmente o passivamente abitato dagli dei, è “arrivato” agli dei e alla divinità. Non è l’asino che porta i sacramenti, ma è egli stesso una cosa sacra. In un’altra sua opera Spaccio de la bestia trionfante, G. Bruno sostiene che è nella natura dell’eretico essere diretto, esplicito, in sintesi non amare i giri di parole, metodo di coloro che fingono, dissimulano, ingannano. Nel nostro tempo attuale il significato della parola eresia si è andato progressivamente allargando e diversificando. La storia del destino delle parole e del-


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le idee è controversa, in relazione a epoche, a culture e a cambiamenti di mentalità, ma il vero eretico, a mio parere, non lega la propria eresia ad alcuna dottrina o catechismo di una fede religiosa, deve rinunciare però prima di tutto alle stesse fedi e credenze profane, altrettanto cieche, in altri termini alla passività mentale ed al dogmatismo intellettuale. “Deve – secondo Giordano Bruno – spogliarsi della consuetudine di credere” o meglio ancora di “credere senza discrezione”. Eretico e mentalità eretica sono, a mio parere, non semplici parole, ma un modo di vivere e di pensare. L'eretico è colui il quale non si accontenta mai della prima versione dei fatti, ma cerca sempre di andare in profondità a rischio di andare contro i suoi stessi convincimenti. L'eretico non da nulla per scontato, pone il dubbio al primo posto in ogni cosa, non si contenta mai di soluzioni o risposte generalizzate o semplicistiche, ha bisogno di dettagli, di nozioni che diano un più ampio respiro alla possibile conoscenza. Ostinarsi a conoscere, osare ancora porsi delle domande, cercare di pensare in proprio quindi con la propria testa è motivo di scandalo nella Cultura del Potere, in quella che possiamo definire la socie-

tà degli equivoci. La mentalità eretica è in altre parole lo scandalo dell’intelligenza, dell’onestà nell’agire, rispetto degli altrui diritti, consacrazione del valore del vivere civile, amore della libertà, elogio dell’operosità, legittimazione del meritato guadagno, valore «carismatico» dell’«ufficio» da compiere. “La verità brilla di luce propria, e non si illuminano gli spiriti con le fiamme dei roghi”, scriveva Voltaire nell'Ingenuo. “La libertà per un libero muratore è essere libero dai pregiudizi, dai bassi istinti, dal metallo, dai dogmi, dai giudizi precostituiti, dagli steccati ideologici e religiosi e dall’egoismo. È una condizione mentale che consente all’iniziato di governarsi giustamente, spontaneamente, che gli consente di comportarsi liberamente in conseguenza della propria coscienza”. “La libertà, individuale e collettiva, il libero pensiero, la dignità di ogni uomo e di ogni donna, l’eguaglianza degli uomini e delle donne, la netta separazione dello Stato da ogni forma religiosa, la concezione laica dello Stato, la democrazia, sono i valori contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del Cittadino, promulgati nel 1789 in Francia, ispira-

ti dai principi della Dichiarazione di Indipendenza americana, figli della elaborazione libero muratòria e portato delle tradizioni antiche che in essa sono presenti, accolti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e nella carta costituzionale europea e fondamento della civiltà europea. Questi valori sono oggi seriamente minacciati da integralismi religiosi e da concezioni teocratiche dello stato che si riferiscono ad una concezione religiosa islamica che rischia di riportarci ai tempi più bui del dominio della Chiesa cattolica in Europa, a nuove cacce alle streghe, a nuovi autodafè, a nuovi roghi di uomini e di libri”. ______________ Bibliografia: AA.VV., Eretici e ribelli del XIII e XIV secolo, ed. Tellini. Delio Cantimori, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, ed. Laterza E.Drewermann, Giordano Bruno, Bur P.64: Eugenio Lucas Velázquez (1817-1870), Auto-da-fé; p.64: Libro bruciato; p.65: Auto-da-fé, olio su tela, F.Goya; p.66: Pedro Berruguete, San Domenico presiede un autodafé,1495; p.66: Pedro Berruguete, San Domenico presiede un rogo di libri, secolo XVI; p.67: Auto-da-fé, olio su tela.

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Burattino, somarello e bambino… Rappresentazioni dell’identità di genere Paolo Aldo Rossi

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nizialmente Pinocchio è solo legno (tessuto vegetale composto genericamente da cellulosa) o discende solo dalla legna da ardere o da lavoro, un avanzo di legname, oltretutto non di pregio, ma un semplice pezzo da catasta; eppure solo il legno è il materiale vivo per eccellenza, acquisisce le fisionomie e i lineamenti più vari, col tempo si altera e muta, cambia il colore con nuove gradazioni … cioè campa e sopravvive anche quando ha perso la vita vegetale ossia biologica. Quando poi prende la sagoma e l’apparenza di un burattino senza fili che si muove come un automa1, una sagoma umana mobile, parlante e pensante, allora la storia (la testimonianza percepita) può diventare fiaba (fabula o favola fantastica e immaginaria). Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura. Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:— Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino. — La mente del lettore (ormai adulto, ma sempre ragazzo, divoratore di storie e “che non si può lasciare a denti secchi”) va inevitabilmente alla Satira Ottava del Libro Primo di Orazio. Il faber incertus alla fine sceglie di farne un “priapo spaventapasseri” e non un panchetto o uno scranno: Un tempo ero un tronco di fico, un legno inutile, quando un falegname incerto se farne uno sgabello o un Priapo, preferì per il dio. E dio sono d’allora …” Invece Mastro Ciliegia, a differenza del faber oraziano è sicuro di quel che vuole fare di quel pezzo di legno e non ha ripensamenti: — Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino. — Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lí per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentí una voci-

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na sottile sottile, che disse raccomandandosi:— Non mi picchiar tanto forte! — Qui prima di diventare “qualcosa e chiaramente qualcuno”, quel pezzo di legno anonino e anodino (a pima vista) mette in mostra che almeno un carattere ce l’ha ossia ha “imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino” e, come un frugoletto furbo e malizioso, interagirà da allora in poi con il resto del mondo. Ma non ha un genere2: tassonomicamente una categoria che raggruppa le specie, nemmeno il tratto distintivo degli organismi vegetali dioici: maschio o femmina (non monoici … ma Pinocchio ha un solo genitore e, per di più adottivo – la fata Turchina verrà dopo) e dal punto di vista della sessuologia biologica o medica in generale non ha un sesso definito, ma gli manca proprio … e ancor più non può essere definito aristotelicamente secondo il genere prossimo e la differenza specifica, ossia con un genere remoto o quello che contiene generi di minore estensione (vivente è genere remoto della specie animale o vegetale, l’animale del terrestre, acquatico, volatile e il terrestre

del quadrupede e del bipede e il bipede del razionale e irrazionale … ) dato che ne cambierà parecchi di generi: dapprima certamente è un vegetale, poi un burattino ma essendo visto come un cane da guardia (Melampo) e un pesce burattino (il pescatore verde), poi diventa un 69


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somarello e alla fine un bravissimo burattino e poi un bambino; e chiaramente non si riferisce mai a – gendre-gendergenere – ossia a una rappresentazione dell’identità dove entra la psicologia, perché “Pinocchio” non ha un genere fisso: nasce come un tronco di legno che però 70

ha una vocina maliziosa, viene intagliato e vestito come pupazzo che in ogni caso ha una morale e dei sentimenti, muore impiccato per mano dei malandrini e viene guarito dalla fata Turchina, dal Paese dei Balocchi ne esce sotto forma animale dalle orecchie lunghe (viene vendu-

to al Direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda) e poi azzoppatosi sarà comprato per venti soldi e affogato (con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese) e alla fine, ritrovati Geppetto e la Fata, dice “Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!...”. Almeno dell’inutile lignum oraziano si sa che olim truncus eram ficulnus, un fusto dell’albero di un fico, inefficace se non a farne una panca o un priapo spaventapasseri, ma di quello di mastro Antonio si sa solo che è “una vocina sottile sottile” che però proviene da “un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli”. Ma mastro Ciliegia quando prende la pialla e si sente dire “mi fai il solletico” cadde giù come fulminato e quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra. E qui compare Geppetto, un vecchietto tutto arzillo, che gli domanda — Che cosa fate costì per terra? Insegno l’abbaco alle formicole – risponde mastro Ciliegia … e Geppeto “son venuto da voi, per chiedervi un favore” ed esibisce il suo progetto riguardo a quel legname di catasta che doveva diventare una gamba di tavolino e quindi senza una vera e propria identità … anzi lui ha, infatti, da subito le idee chiare sulla personalità di quel tronco, la definizione su quel che sarà è completamente sbagliata, un burattino quando avrebbe dovuto dire una marionetta, e per di più senza fili: — Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?– Ma una vocina interviene interrompendo quel che stava dicendo: “Bravo Polendina!” … un soprannome che fece infuriare come un matto Geppetto, tanto che i due vecchietti s’accapigliarono e vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono. Quindi fanno la pace dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca … ma non è finita: Geppetto nel chiedere a mastr’Antonio “un po’ di legno per


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fabbricare il mio burattino… me lo date?” … fu allora che “il pezzo di legno dètte uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto”, che ovviamente dà la colpa a mastro Ciliegia … e qui si riazzuffarono: se ne dettero un sacco e una sporta. “A battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due graffi di piú sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita”. Geppetto (non falegname, ma intarsiatore e scultore) se ne tornò zoppicando a casa con il suo pezzo di legno e prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a costruire il suo burattino. “… gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi che si movevano e che lo guardavano fisso fisso. Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai. Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo ... Gli fa gli occhiacci di legno che si movevano e lo guardavano fisso, il nasone che cresceva e che non finiva mai, la bocca che cominciò subito a ridere e a canzonarlo, tirando fuori la lingua; quindi gli fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani … ”. Il naso in crescita3 (e non solo grazie alle bugie) è diventato la caratteristica peculiare di Pinocchio (che già quando non è allungato è rilevante). Lo sanno tutti i bambini che raccontano una bugia, la quale, diversamente, è una menzogna per gli adulti. «La menzogna — di-

ceva Italo Calvino — non è nel discorso, è nelle cose»; quando invece è un prodotto della fantasia o dell’immaginazione è una bugia. È chiaro che il bambino, a forza di raccontare una bugia, finisce col crederla vera e una bugia tira l’altra, ma è solo nella ciarla o nella chiacchiera … e il bimbo diventa rosso per la vergogna, per il pudore, per l’imbarazzo. Arrossire e vergognarsi è il tipico comportamento del bambino e a Pinocchio, che è di legno e non di carne, si allunga il naso non potendo essere affetto da eritrofobia (l’imbarazzo o la paura morbosa di arrossire). Lo stesso Collodi afferma in Note gaie, che «per nascondere la verità di una faccia, speculum animae [...] si aggiunge al naso vero un altro naso di cartapesta»4. Una curiosa ricerca condotta dalla facoltà di Psicologia dell’Università di Granada sull’effetto Pinocchio afferma che mentire fa emanare calore e quindi riscaldare la temperatura del naso e dei

muscoli interni dell’occhio ossia un termogramma che rappresenta una diversa tonalità di colore a seconda del calore di una persona che si sottopone a questo test di verità. È irrefutabile che dietro la crescita del naso5 di Pinocchio vi sia anche l’immagine della tradizione popolare che racconta che le dimensioni dell’organo sessuale maschile si vedono dalla misura del naso. “Non c’è dubbio, il naso è un simbolo fallico. – dice Dino Origlia, noto docente di Psicologia Dinamica a Parma – La sapienza popolare lo ribadisce con l’espressione “rimanere con un palmo di naso” (col naso lungo quanto un palmo di mano oppure con tanto di naso) ossia deluso e amareggiato per il fatto di restare a bocca asciutta (o anche con una erezione frustrata). Ma lasciando stare le leggende metropolitane e l’oraziano “palo rosso che s’erge oscenamente dal mio inguine”, venia71


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mo all’ambito etno-antropologico: subito dopo che Pinocchio comincia a mettersi in movimento e a dire le bugie, gli cresce il naso. Un neonato o una creatura appena nata, ma già quasi adolescente (difatti sta per finire la scuola), che non è un bimbo infante, ma una marionetta senza fili, nato da un ceppo di legno grazie a un padre falegname … che fa le bizze e deve essere sgridato continuamente e il suo naso ha delle continue “erezioni” … un ingenuo (nel senso della giurisprudenza latina) e inesperto senza una mamma, sorelle o giovani femmine … che è rimproverato, corretto e punito costantemente. Dove li troviamo questi giovani maschi nella vita reale? In un posto soltanto: nell’accampamento degli adolescenti novizi nel fitto della foresta. “La proibizione più importante cui debbono sottostare – Theodor Reik analizza i 72

contenuti mentali dei riti della pubertà – durante questo periodo è quella che vieta loro il commercio con donne ... Se essi lasciano le capanne per breve tempo, devono coprirsi il viso nel caso dovessero vedere ragazze e donne, e in modo particolare non devono vedere la madre … Il più importante risultato dell’istruzione ricevuta nella foresta è il mutato atteggiamento del giovane verso gli uomini della tribù. S’insegna al giovane che non deve più altercare con uomini; e che, se suo padre lo rimbrotta, egli non deve opporsi ... Nella tribù dei Luritcha s’insegna gravemente al tatata (giovane circonciso): “Tu devi essere obbediente come noi lo siamo, tu devi comportarti come noi ci comportiamo. Noi siamo molto proclivi alla collera, quando un giovane circonciso non ci obbedisce, noi lo uccidiamo. Se tu vuoi vivere, comportati bene, altrimenti ti get-

tiamo nel fuoco”6. E difatti Pinocchio sta per essere buttato da Mangiafuoco sullo spiedo ovvero a fare fiamma “Portatemi di qua quel burattino che troverete attaccato al chiodo, un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto”. I giovani vengono portati via alle donne ossia rapiti dai padri e accompagnati in un posto che simboleggia il ventre materno, come una caverna o una capanna, che però viene chiamato il ventre del mostro dove rimangono per diversi periodi di tempo. Alle donne viene raccontato che i giovani sono stati divorati dal mostro. Viene inflitta loro la circoncisione o una mutilazione equivalente, come l’estrazione di un dente. La asportazione corrispettiva corrisponde per Pinocchio ai piedi che gli bruciano cosicché non può più camminare e il padre Geppetto deve rifarglieli. Contemporaneamente vengono minacciati di morte e maltrattati. Il mostro acconsente a vomitarli e a restituirli alle donne in cambio di maiali e dei montoni. Gli iniziati tornano all’accampamento e fanno finta di essere appena nati e di dover imparare tutto di nuovo, perfino come mangiare e camminare. Lasciando stare l’interpretazione psicoanalitica ritorniamo al naso come organo dell’odorato. «I nostri risultati sostengono l’esistenza di feromoni sessuali umani – spiega il dott. Wen Zhou dell’Accademia Cinese delle Scienze – Essi mostrano che il naso può fiutare il genere sessuale dalle secrezioni corporee, anche quando pensiamo di non odorare nulla a livello conscio». Il fiuto ossia l’olfatto, e non gli occhi sarebbero al supporto della congenita attitudine di identificare il sesso contrario. Allorché ci troviamo di fronte a un individuo dell’altro sesso, il corpo umano secerne indicatori chimici che trasmettono ai membri del sesso opposto a quale “genere” facciamo parte e queste emissioni aromatiche sono ordinate dai principi attivi di due steroidi: l’androstadienone nei maschi e l’estratetraenolo nelle femmine. Questi feromoni condizionano la nostra percezione delle movenze e degli atteggiamenti, dei gesti come più maschili o più femminili. Però mancava ancora qualcosa di importante anzi la più importante della fia-


ba ovvero quando Pinocchio scappò come una lepre e il carabiniere a gambe aperte, senza punto smuoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso, fu allora che Geppetto si accorse che Pinocchio non aveva le orecchie: “voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli”. La credenza nasce dall’ascolto: fides ex auditu ovvero pistis ex akoès (Romani 10,17) e come poteva udire un burattino, a cui mancano le orecchie, ascoltare qualcuno che gli ricordava la voce della coscienza e, tramite questo senso sociale, la vita morale? Pinocchio non è sordo, ma gli manca il fondamentale organo per l’ascolto, ossia del prestare orecchio a livello psichico … e sarà così fino a quando gli spunteranno le orecchie d’asino allorquando rivede la Fata, che però sparisce subito: «Si sentì come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente». Gli assassini, il Gatto e la Volpe, inseguono Pinocchio; e, dopo averlo raggiunto lo impiccano a un ramo della Quercia grande … ma poi viene salvato dalla Fata Turchina che è: una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera … non era altro in fin dei conti che una bonissima Fata, che da più di mill’anni abitava nelle vicinanze di quel bosco … con tutta la pazienza di una buona mamma… mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma … una bella caprettina che belava amorosamente … Anche la Fata un genere ce l’ha come tutti i personaggi della fiaba: mastro Antonio e Geppetto, Mangiafoco, la Volpe e il Gatto, l’oste del Gambero Rosso, il carabiniere, i bighelloni, il Grillo paziente e filosofo, il vecchino col berretto da notte in capo, il rivenditore di panni usati, Can-barbone, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante, i conigli beccamorti, il pappagallo, il giudice scimmione della razza dei Gorilla, la Lucciolina, il contadino, il cane da guardia Melampo, il Colombo, il Delfino. il carbonaio, il muratore, la buona donnina che portava due brocche d’acqua, Eugenio, il cane Alidoro, il pescatore verde,

Simbolismo

la Lumaca, Lucignolo, l’Omino di burro, la Marmottina, il Direttore di una compagnia di pagliacci, il Tonno, l’ortolano Giangio … ma solo Pinocchio non ha un genere … ma forse ce li ha tutti. “A narrare il mutare delle forme – scrive Publio Ovidio Nasone in Metamorfosi I, 1 – in corpi nuovi mi spinge l’estro”. ________________ Note: 1 In verità sarebbe una marionetta, una “bambola di Maria”, che il marionettista muove attraverso fili collegati a tutto il corpo di questo pupazzo. Il burattino, invece, è un tipo di fantoccio con il corpo di pezza e la testa di legno compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso dalle dita del burattinaio che lo infila come un guanto. Il nome deriva da “bura”, la stoffa rada dei setacci; son detti ancora oggi in Toscana “buratti” cioè gli “abburattatori” di farina per i loro gesti cadenzati e monotoni. 2 genus, o gignĕre «generare», γένος «stirpe», γένεσις «origine», γίγνομαι «nascere». 3 Il carabiniere lo acciuffò per il naso e quando lui ritorna a casa e non trova niente da mangiare anzi una pentola dipinta sul muro e «il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita», la notte che va al Campo dei Miracoli alcuni uccellacci notturni sbattevano le ali sul naso di Pinocchio, «uno dei due Assassini lo prese per la punta del naso», il medico corvo tastò il polso a Pinocchio, «poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: vi ficcò

dentro la punta del naso».: nella medicina della Fata «poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso». Appena detta la bugia «il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più. A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo”. 4 Carlo Lorenzini, Note gaie, Firenze, Bemporad, 1892. Il regista Stanley Kubrick fa in modo che malvagi eroi di Arancia meccanica abbiamo una protesi nasale al centro del viso perché il clownesco stupro ricavi sottolineatura. 5 «Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta, un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale». Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto … e uno dei suoi compagni, “più impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura”. A un vecchietto, che stava sulla porta a scaldarsi al sole, Pinocchio racconta un sacco di bugie “si toccò il naso e si accòrse che il naso gli era allungato più d’un palmo». 6 Theodor Reik, “I riti della pubertà”, in Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino 1949 e 1969, pp.137-150 P.68-73: Illustrazioni del Pinocchio di Chiostri, Firenze.

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La rete e i suoi segreti Codici e simboli nella piĂš importante infrastruttura di comunicazione e di transazione del pianeta Enrica Gallo

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l capo degli hacker del presidente Barack Obama ha la barba di Dostoevskij, una t-shirt da dj e due orecchini tribali. Si chiama Harper Reed, classe 1978 di Chicago, ed è stato uno dei primi a essere abbracciato la sera della rielezione, un ringraziamento che il presidente ha espresso con queste parole: “Grazie. Siete voi che mi darete lavoro una volta che avrò finito qui”. Nel 2013 è stato ospite del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, dove ha portato la sua esperienza su come si costruisce una community e come si democratizza l’accesso. E sul funzionamento della Rete è lapidario: “L’establishment la sottovaluta sempre. Se la gente è scontenta e le dai un’opportunità di esprimerlo, Internet può ovviare alla mancanza di un’organizzazione tradizionale”. Il web non può sostituire le persone nella vita di tutti i giorni, è “solo” il moltiplicatore di una forza esistente (sia essa una persona o una causa). Algoritmi e persone insieme, alleati. E con il “Project Loon” di Google per portare la connessione ovunque sulla Terra per mezzo di palloni aerostatici e “Internet.org” di Facebook per for-

— Nuovi Simboli — Nel 1972 il ricercatore Ray Tomlison realizzò il protocollo smtp (Simple Mail Transfer Protocol – Protocollo di trasferimento semplice di posta) che permetteva alle Università collegate ad Arpanet di scambiare messaggi di posta elettronica in modo semplice, introducendo nelle procedure informatiche il simbolo @. nire ovunque servizi online di pubblica uitlità, probabilmente presto l’intera popolazione mondiale sarà connessa. Oggi l’accesso alla Rete avviene tramite provider, ovvero servizi a pagamento forniti dagli operatori telefonici per accedere ad Internet. Esiste un ente non governativo e no-profit di nome ICANN (Inter-

net Corporation for Assigned Names and Numbers) istituito nel 1998 e formato dai Governi nazionali e da organizzazioni internazionali, creato appositamente con l’obiettivo di coordinare e gestire la Rete Internet: autorizza i provider a fornire i servizi Internet, assegna i nomi dei siti (domini) e controlla il traffico dei dati identificando il protocollo di trasmissione degli stessi (IP). Questo database è di fatto l’archivio dati più prezioso al mondo, per questo ICANN ha deciso di non concentrare la responsabilità nelle mani di un’unica persona, ma di distribuirla in più mani. La sicurezza di Internet, infatti, è affidata a sette chiavi. Non chiavi digitali, ma autentici prodotti da ferramenta. Ogni chiave è affidata ad una persona. Sette uomini scelti come custodi della sicurezza: i “Mastri chiave”. Poi ne sono state selezionate altre sette come “portachiavi di backup”. Le chiavi in loro possesso aprono sette cassette di sicurezza dislocate in tutto il mondo, dove all’interno si trovano altrettante smartcard, che unite insieme formano la “Chiave Master”, quella che apre le porte del database di ICANN (o che riavvia il web in caso di blackout de75


Storia di Internet

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irca agli inizi degli anni ‘60 il pericolo della guerra fredda spinse il governo degli Stati Uniti d’America a realizzare un sistema di comunicazione sicuro anche in caso di guerra. All’epoca i computer avevano le dimensioni di una stanza ed elaboravano le istruzioni che gli venivano immesse decodificando delle schede perforate che, come in un nastro trasportatore, venivano inserite da un lato della macchina, la quale dopo l’elaborazione, produceva dall’altro lato una scheda con i dati risultanti. Nell’ottobre del 1969 il primo esperimento di “rete telematica” su lunga distanza, attraverso una linea telefonica che collegava due elaboratori elettronici. Per la prima volta si provava ad utilizzare il computer per smistare pacchetti di dati ad un numero potenzialmente infinito di utenti, permettendo ai ricercatori di visualizzare sul monitor una sorta di decodifica dei dati, lettere in sovraimpressione, quindi, al posto di schede perforate. Quel giorno nasceva Arpanet, la rete progenitrice di Internet. Le apparecchiature costruite per l’esperimento erano IBM. Presto Arpanet si estese a macchia d’olio arrivando a collegare anche il continente europeo, finchè nel 1982 venne coniato per la prima volta il termine Internet per indicare l’unione della moltitudine di reti venutasi a creare. Nel 1989 l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò un saggio tecnico che diventò la base teorica della Rete, l’anno dopo rese pubblico, gratuitamente, il suo codice, l’HTML (Hyper Text Markup Language), e così nacque il Web. Ma la svolta avvenne l’anno ancora successivo, quando presentò pubblicamente il World Wide Web: “un sistema di documenti elettronici collegati tra loro tramite l’ipertesto (un testo contenete delle parole che funzionano da collegamento verso altri documenti che trattano argomenti simili o correlati) consultabili da tutti e non solo da esperti informatici”. In breve tempo, con l’invenzione di altre tecnologie come il “browser” (capace di interpretare il codice HTML e far interagire l’utente con il Web) e “l’interfaccia utente”, arriviamo fino ad oggi. 76

rivante da attacco cibernetico). I nomi dei custodi sono noti: si tratta di Bevil Wooding (Trinidad e Tobago), Dan Kaminsky (Stati Uniti), Jiankang Yao (Cina), Moussa Guebre (Burkina Faso), Norm Ritchie (Canada), Ondrej Sury (Repubblica Ceca) e Paul Kane (Regno Unito). I Mastri chiave e i portachiavi di backup si incontrano quattro volte l’anno per cambiare la password. La cerimonia si svolge in gran segreto. Attraverso un sistema di porte chiuse a chiave, l’uso di codici chiave e scanner di retina, si arriva in una “stanza sicura”, incontrollabile da qualunque comunicazione elettronica. Qui ciascuno di loro cambia il proprio pezzo di codice, singolarmente. Così Internet sarà al sicuro per i successivi tre mesi. Ma … quello di cui abbiamo parlato riguarda solo il web visibile, che rappresenta una piccola parte di Internet. Poi c’è il cosiddetto deep web (quella parte nascosta ai motori di ricerca che richiede particolari espedienti per essere utilizzata), che si stima sia circa 500 volte più grande. La patria degli hacker, degli affari illegali, ma anche di chiunque non voglia identificarsi. Ci si arriva digitando un indirizzo preciso sulla barra del browser, un indirizzo che qualcuno ha precedentemente fornito. Chi naviga nelle acque del deep web spesso usa sistemi di cifratura come aes256 o come tor, che permette di navigare in modo anonimo, usando un sistema di “tunnel virtuali” che fanno perdere le tracce del proprio IP. Qui anche i pagamenti possono essere anonimi con Bitcoin, una

moneta virtuale creata dagli hacker per sfuggire alle banche. Questi strumenti sono utilizzati anche dai giornalisti che devono relazionarsi a fonti confidenziali, tipo wikileaks. Ma non solo… Infatti, sembra che la criminalità organizzata non utilizzi queste tecniche, continuando a preferire metodi tradizionali e collaudati per delinquere. L’utilizzatore emergente del deep web è qualcuno che cerca di proteggersi. Secondo Roger Dingledine (il creatore di tor), infatti, i nuovi utenti sono i cittadini che vivono nei regimi autoritari, i giornalisti che vogliono tutelare le fonti ad alto rischio, le forze di polizia che devono operare nella discrezione o aziende che devono difendersi dalla concorrenza o dallo spionaggio industriale. Il segreto di Internet, forse, è che, probabilmente, non si può controllare. ______________ Fonti: I sette Templari del web – La Repubblica 28 luglio 2010, di Giulia Belardelli. Meet the seven people who hold the keys to worldwide internet security - The Guardian 28 febbraio 2014, di James Ball. L’hacker di Obama svela i suoi segreti - La Repubblica 27 aprile 2013, di Riccardo Staglianò. storiadiinternet.wordpress.com Salvate la rete segreta – L’Espresso 8 maggio 2012, di Stefania Maurizi.

P.74: Immagine tratta dal film ‘The Matrix’, 1999; p.75: Una delle ‘chiavi’ di Internet e a fianco Mr. Harper Reed.


Convegno di studi: 1915, Maggio radioso o colpo di Stato? a cura di Aldo A. Mola, Centro Stampa della Provincia di Cuneo, 2016, pp. 192, con l’egida del “Centenario Prima Guerra Mondiale, 2014-2018” e del Consiglio Regionale del Piemonte e il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo.

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l vero leader politico del Paese dà fastidio alla minoranza che vuole impadronirsene? Presto fatto. Si vara una legge un po’ severina, la si applica “ad personam” e lo si caccia dal Parlamento. Anzi, lo si disarciona anche da cavaliere del lavoro. Una misura, quest’ultima, di alto valore simbolico, perché comporta l’esclusione dal “campo dell’onore”. E’ accaduto a Silvio Belusconi, che pur votò, a sorpresa, a favore del governo presieduto da Enrico Letta. L’ex cavaliere ha un solo precedente nella storia d’Italia: la sorte riservata a Giovanni Giolitti da Antonio Salandra nel maggio 1915. Per annientare l’avversario non è necessaria la sua eliminazione fisica. Basta quella giuridico-

mediatica. Nel caso di Giolitti si aggiunse però la minaccia di attentato mortale alla sua vita. Da che mondo è mondo, chi vuole agguantare il potere ricorre ai più efferati misfatti. Senza scomodare i metodi sbrigativi di Cesare Borgia, descritti da Niccolò Machiavelli, e dei dittatori del secolo scorso, è più attuale domandarsi come sia possibile confiscare i pieni poteri anche se si non si ha la maggioranza in Parlamento. Il caso più clamoroso e istruttivo dell’Italia unita è appunto quello del “maggio radioso” del 1915. All’epoca l’Europa era ripartita in due: monarchie parlamentari e repubblica francese da un lato, “Stati balcanici” dall’altra. Nei primi il potere era ripartito tra esecutivo e legislativo. Nei secondi era concentrato nel sovrano e nella sua ristretta cerchia e passava di mano anche con delitti spaventosi. Rimasero tristemente famosi i “casi” della Serbia. Lì i Karageorgevic nel 1881 tolsero la Corona agli Obrenovic: uccisero il re, la regina, due suoi fratelli e vari ministri. Ma, appunto, erano metodi deplorati in “occidente”. A distanza di un secolo la vicenda del maggio 1915 risulta paradigmatica proprio perché il governo Salandra, senza avervi i numeri, soggiogò il Parlamento. Il conservatore agì da “rivoluzionario”. Squassò il sistema statutario (fragile triangolo scaleno) ed espose la monarchia costituzionale a una crisi che sul lungo periodo risultò irreversibile. Salandra era stato incaricato di formare il governo nel marzo 1914 col “placet” del suo predecessore, Giolitti. Questi si fece in quattro per assicurargli i ministri migliori, a cominciare da Antonino di San Giuliano, massone. Parve sull’inizio un governo di transizione. Con la conflagrazione europea Salandra ritenne invece di “entrare nella storia”. Per farlo escluse di rimanere arroccato sulla neutralità vigile e armata raccomandata da Giolitti. Decise che bisognava entrare nella fornace ardente. Ma il Parlamento non era affatto d’accordo. Dopo estenuanti e ambigue trattative, il 26 aprile 1915 l’ambasciatore Imperiali sottoscrisse a Londra l’engagement che impegnava l’Italia a en-

trare in guerra entro un mese contro “tutti i nemici” dell’Intesa anglo-franco-russa. Lo sapevano solo lui, Salandra, il ministro degli Esteri – Sidney Sonnino – e il re, che autorizzò trattativa e firma. A conti fatti, sull’inizio di maggio Salandra e Sonnino convennero di poter contare solo 120 voti su 508 deputati. Che fare? La situazione divenne insostenibile quando, insospettito dal continuo rinvio della convocazione della Camera, dalla quiete di Cavour, in Piemonte, Giolitti andò a Roma per seguire da vicino le trattative con l’Austria-Ungheria, volte a ottenere ragionevoli compensi territoriali senza ricorrere alle armi. Era il 9 maggio. Il 13 Salandra rassegnò le dimissioni. Il verbale della seduta del governo, sinora inedito, non lascia dubbi: “Il Consiglio dei min.(istri) considerando che intorno alle direttive del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il Re le proprie dimissioni”. Secondo la “narrazione”, poiché nessuna tra le personalità da lui consultate accettò di formare un governo nuovo, tre giorni dopo Vittorio Emanuele III confermò Salandra, che il 20-21 andò quindi in Parlamento a chiedere i poteri straordinari. Era l’implicito annuncio della guerra. Unico a opporsi fu il socialista Filippo Turati a nome del proprio gruppo. Il governo ottenne 241 “si”. Così l’Italia entrò in guerra con il favore del 47,5% dei deputati in carica. Ma Giolitti dov’era? Questa è la domanda elusa dalla pur sterminata storiografia sull’intervento. Capo della maggioranza costituzionale, Giolitti aveva lasciato in tutta fretta Roma per tornare a Cavour. Stanchezza? Delusione? Orgoglio ferito? Il motivo vero fu ben altro. Il pomeriggio del 16 maggio gli venne ruvidamente comunicato che era in corso un attentato alla sua vita e che la Pubblica sicurezza non era in grado di garantirne l’incolumità. Sua moglie, Rosa Sobrero, villeggiava a Frascati, senza alcuna tutela. Come altre grandi città, Roma era preda della folla, eccita-

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ta ad arte. Ministro dell’Interno, Salandra lasciò che la lotta politica degenerasse in guerra civile. Fra il 13 e il 16 maggio “Morte a Giolitti, viva la Piazza, abbasso il Parlamento!” in poche ore divennero le parole d’ordine. A Milano furono affissi manifesti con la testa mozza e sanguinante di Giolitti. A Roma Gabriele d’Annunzio incitò a purificare col fuoco la città eliminando il “vecchio boia labbrone”. La folla tentò l’assalto all’abitazione che da anni lo Statista affittava in via Cavour. Venne fermata da uno squadrone di cavalleria e da carabinieri. In quel clima torbido una manciata di settari ne architettò l’assassinio. Il 31 luglio 1914 in Francia il neutralista Jean Jaurès, storico insigne, era stato ucciso perché progettava la sciopero generale

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dei socialisti europei per fermare la guerra. Il governo Salandra notoriamente controllava ogni pelo di barba di irredentisti, interventisti, nazionalisti, neutralisti, cattolici, pacifisti ed ex-socialmassimalisti, come Benito Mussolini. L’uccisione di Giolitti, un crimine da paese balcanico, avrebbe suscitato un’ondata di indignazione. Il governo sarebbe stato accusato di connivenza o di inettitudine. Perciò Salandra si accontentò di allontanarlo da Roma, di impedirgli di presentarsi alla Camera e di costringerlo a un vero confronto in Aula. Nessuno può dire come sarebbe finita. Sotto minaccia, Giolitti lasciò di fretta la Città Eterna. I1 17 maggio, presenti tutti i ministri (incluso Vittorio Emanuele Orlando, alla Giustizia) il governo approvò il disegno di legge

da presentare alla Camera per la delegazione di poteri legislativi al governo in caso di guerra e per l’esercizio provvisorio. Era l’eclissi della monarchia statutaria: il colpo di Stato. Per far capire da chi dovevano attendersi aiuti e benefici, all’atto delle dimissioni il governo aveva anche stanziato somme ingenti per i bilanci di Guerra e Marina. Tornato in sella, Salandra rimosse il capo della Pubblica Sicurezza, il vercellese Giacomo Vigliani (1862-1942), prefetto giolittiano di stretta osservanza. Sapeva troppo. Il 20-21 chiese alle Camere poteri straordinari. Il Parlamento si piegò, benché all’oscuro sia degli impegni bellici assunti dal governo, sia del loro costo in vite umane e risorse. Malgrado la vittoria militare del novembre 1918, il bilancio di quarantun mesi di guerra in Italia risultò catastrofico per conseguenze politiche, sociali ed economiche. La monarchia venne sovraesposta. Altrove si documenterà il ruolo della Corona. Poeti e giornalisti, spesso prezzolati, esaltarono il “maggio radioso”. In realtà l’intervento avvenne in un clima di guerra civile e si ripercosse sugli anni venturi. Lo documenta il volume 1915: Maggio radioso o colpo di Stato?, pubblicato dal Centro Stampa della Provincia di Cuneo per il Centro europeo Giovanni Giolitti (Dronero-Cavour), con saggi di Gianni Rabbia, Giovanna Giolitti, Giancarlo Lehner, Tito L. Rizzo, Antonino Zarcone, Ulla Akerstrom, Dario Fertilio, Giorgio Sangiorgi, Claudio Susmel, Mario Caligiuri, Gianpaolo Romanato, Enrico Tiozzo e Luigi Pruneti su politica interna, estera, militare, economia, Mezzogiorno, letteratura, cinematografia, Santa Sede, massoneria. Nel suo contributo Luigi Pruneti documenta i principi ispiratori pacifisti coltivati dal pastore protestante Saverio Fera molto prima di ascendere a Sovrano Gran Commendatore del Rito Sozzese Antico e Accettato e la fatale deriva conformista assunta dalla Gran Loggia d’Italia negli anni successivi alla sua morte, quando imperversò l’interventismo nazionalistico, ferocemente antimassonico. Mentre il governo si cullava nell’illusione di un conflitto di poche settimane, Giolitti scriveva alla moglie: “La guerra avrà lunga durata”. La verità storiografica si fa strada poco a poco, documenti alla mano. (Per informazioni sul volume, fuori commercio e a disposizione degli studiosi sino a esaurimento delle copie: info@giovannigiolitti.it). la Redazione


mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra prese e incominciò a parlare […] non un infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta degli uomini – ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda [...]»

In cammino verso la casa della sapienza AA. VV. (a cura di) Paolo Aldo Rossi, Ida Li Vigni, Castel Negrino editore, 2016.

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l titolo di questo volume oltre che rievocare il desiderio antico ed ancestrale che l’essere umano porta in sé di varcare la soglia del tempio dove abita Verità, ci trasporta altresì nei tempi arcaici dove nacque la filosofia. Ed è proprio sulla sapienza arcaica che verteva il convegno tenutosi in Ottobre a Genova di cui nel presente volume sono raccolti gli atti. La locandina dell’evento riportava un frammento del Poema Sulla Natura di Parmenide piuttosto significativo (DK 28 B1 1-23) di cui citerò solo una parte:

Questo modo di intendere lo svelamento delle strutture fondanti della realtà è atteggiamento comune nel mondo arcaico, i confini tra filosofia, cosmologia e mentalità religiosa erano tutt’altro che ben definiti, anzi si può a ragione dire che la filosofia andò sempre più auto-definendo i propri limiti man mano che si separava dalle componenti mistico-religiose arcaiche. I limiti appunto definiscono un territorio nel quale operare ma allo stesso tempo precludono un campo vasto dal quale ci si è ormai allontanati. Uno degli obiettivi del lavoro in questione è forse fare da scintilla e innesco di ricerche – il sorgere di nuove domande – e studi che tentino di riscoprire, di ricostruire quel ponte che dava adito all’incontro tra la Verità e il Sacro, ricordandoci che questi sono elementi che non andrebbero sciolti ma tenuti ben stretti tra loro. Queste scintille possono nascere solo dallo scontro-incon-

tro di ambiti del sapere differenti. Il percorso proposto dai curatori si apre con la presentazione redatta dal S.G.C.G.M. Antonio Binni, che ci introduce propedeuticamente nello stato di interrogare noi stessi su questioni dalle quali dipende il destino dell’uomo in prima persona, domande che si posero anche i primi filosofi e prima di loro i poeti compositori di teogonie. Questo con l’augurio che il convegno creasse un’occasione per gettare dei semi generatori di quella preziosa meraviglia thauma dalla quale Aristotele ci dice essere nati sia il discorso filosofico, ma anche l’altrettanto importante discorso mitico. Dai primi tentativi di rispondere a queste domande prenderanno le mosse gli interventi successivi, così dalla storia del pensiero scientifico attraverso la filosofia, la letteratura e la critica letteraria si raccontano vari modi di intendere e di pensare il sentiero che conduce alla verità di cui ora s’è parlato. Premessa implicita di tutti gli interventi resta il grande contributo che può e che continua a portare la sapienza arcaica ogni qual volta venga interrogata. Sergio Marazzi

«[...] là fui portato […] là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; e la porta eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti. Di questi Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono [...]» Parmenide descrive il suo incontro con la Dea-Verità alla quale giunge trasportato su un carro guidato dalle figlie del sole, lei abita nel tempio il cui ingresso è sorvegliato da Giustizia, la Bilancia zodiacale. In Parmenide possiamo vedere come la conoscenza del vero fosse vissuta come esperienza mistica, visione estatica, una piena adesione e coincidenza tra pensiero ed essere: «[...] Di là, subito, attraverso la porta, diritto per la strada maestra le fanciulle mi guidarono carro e cavalle. E la Dea di buon animo

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gia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi.

R.L. Ausonia Oriente di Firenze

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ei Sorelle e cinque Fratelli dell’Oriente di Firenze, si sono riuniti il 09 giugno del 2015 E\V\ in un locale sotto la Volta Celeste ed hanno incominciato i Lavori col verificare i rispettivi Titoli e Diplomi con lo scopo di far riemergere una Loggia Massonica, ubicata nella valle dell’Arno all’Oriente di Firenze, che aveva da tempo cessato i propri Architettonici Lavori. La Loggia portava il nome “Ausonia” e le Sorelle e Fratelli costituenti decidono di mantenere questo prestigioso Titolo e il numero distintivo 1100 come assunto nella prima Bolla di Fondazione datata 12 maggio 1963 E\V\ a firma del Gran Maestro, Ven.mo e Pot.mo Fr\ Giovan-

ni Ghinazzi. La R\L\Ausonia è stata autorizzata a riprendere i suoi Rituali Lavori a decorrere dalla data del Decreto Magistrale, registrato al n° 11274 dell’Albo dei Decreti Magistrali - munito di Bollo - in data 3 luglio 2015 E\V\ dato dalla Sede del Gran Magistero al Grande Oriente di Roma, nella Valle del Tevere, sotto la Volta celeste al 41°54’ di latitudine Nord e 10°07’ di longitudine Est. La medaglia (o Fregio) di Loggia sarà la stessa adottata allora: “in campo rosso/blu, con l’Italia incisa, il nome posto di traverso e il tutto circondato da una striscia color oro con riportato il numero che ne determina il suggello e le scritte A\G\D\G\A\D\U\ Or\ di Fir\ Valle dell’Arn\”. Abbiamo mantenuto anche lo stesso Labaro, che è stato ben custodito, e che rappresenta per tutti noi la giusta determinazione per continuare il cammino che altri Fratelli avevano iniziato prima di noi con il sommo desiderio di mantenere il più assoluto rispetto delle tradizioni. E tutto questo sarà lo stimolo per migliorarci sempre e che testimonierà l’orgoglio di appartenere alla nostra Grande Famiglia Massonica della Gran Log-

I Fregi ad oggi pubblicati R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ Amantia Or∴di Valona R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Araba Fenice Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ Arbana Or∴di Tirana R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Armonia Or∴di Rieti R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Firenze R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Avvenire Or∴di Avola R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavalieri del Tempio Or∴di Roma R∴L∴ Cav.dell’Ord.S.Andrea Or∴di Roma R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia

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R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corda Fratres Or∴di Padova R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ Dalmatia Or∴di Spalato R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ Eos Or∴di Bari R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Roma R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Bandiera Or∴di Cosenza R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno-S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma

R.L. Sub Rosa Oriente di Rosignano

I

l logo della R\L\ Sub Rosa ha una forma irregolare con una merlatura all’apice che intende ricordare il castello quale simbolo del Comune di Rosignano. Come simbolo di completezza, raggiungimento della perfezione finale, è stata voluta inserire l’immagine stilizzata di una rosa alla quale è stata data una colorazione celeste in quanto colore dominante nello stemma araldico di Rosignano. La R\L\ Sub Rosa nasce con un consistente numero di FF. provenienti dalla R\L\ Libertà e Progresso e siccome nella prima stesura del marchio della R\L\ Libertà e Progresso si trovava, all’apice di un triangolo, il numero 1, volendo dare un significato di continuità, è stato voluto inserire nel fregio della R\L\ Sub Rosa, proprio al centro, all ‘intemo di un sole, il numero 2.

La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Piombino R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Hercules Or∴di Cagliari R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Iliria Or∴di Fiume R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Ipazia Or∴di Genova R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Janua Coeli Or∴di Napoli R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ L’Aurore de Lombardie Or∴di Milano R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno

R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liburnia Or∴di Fiume R∴L∴ Liguria Or∴di Ospedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Metamorphosis Or∴di Udine R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Montsegur Or∴di Pinerolo R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo R∴L∴ Paolo Ventura Or∴di Lamezia Terme R∴L∴ Parmenide Or∴di Salerno R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Pitagora Or∴di Guidonia

R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Principe A.DeCurtis Or∴di Rovato R∴L∴ Principi RosaCroce Or∴di Milano R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Rinascita Or∴di Crotone R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Stupor Mundi Or∴di Taranto R∴L∴ Sub Rosa Or∴di Monza R∴L∴ Sub Rosa Or∴di Rosignano R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Bergamo R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Verum Quærere Or∴di Prato R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Brescia R∴L∴ Virgo Or∴di Roma R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo



via San Nicola de’ Cesarini, 3 — 00186 Roma


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