Officinae 2015 Dicembre

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXVII - Dicembre 2015 - n.4


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVII - numero 4 - Dicembre 2015 Direttore Editoriale

ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO hanno collaborato a questo numero ADRIANA ALESSANDRINI MICHELE ANGIULI ENRICO BERTORINO ANTONIO BINNI GIULIANO BOARETTO PAOLO MAGGI RENZO MANETTI VERONICA MESISCA ALDO ALESSANDRO MOLA ANTONELLA OREFICE LUIGI PRUNETI MONICA RIVOLTA PAOLO ALDO ROSSI ANDREA SCARTONI JEAN MARC SCHIVO ANTONINO ZARCONE progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO , Direzione, Redazione, Amministrazione: via S.Nicola de Cesarini, 3 ˛ 00186 Roma tel. 06.688.058.31 06.689.3249 fax 06.687.9840 www.granloggia.it of–cinae.granloggia.it of–cinae@granloggia.it direttore.of–cinae@granloggia.it redazione.of–cinae@granloggia.it Reg. Tribunale di Roma n° 155 del 24/3/1989; Autorizzazione postale 50% Finito di stampare nel mese di Dicembre 2015 presso: Grafiche Zanini Srl √ Via Emilia 41, 40011 Anzola Dell»Emilia (BO) , Il materiale inviato anche se richiesto non si restituisce. Il materiale da pubblicare deve essere spedito all indirizzo della Redazione di Officinae. La Redazione informa che il contenuto degli articoli della rivista rispecchia le opinioni dei singoli autori. La Redazione di Officinae resta a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche di cui non si abbia la reperibilità. IN COPERTINA Pretiosissumum Donum Dei [1415] di Georges Aurach de Strasbourg; tavola XII: Rosa Rubea. Laura De Santi 2012, formella a smalti ceramici e cristallina, collezione privata.


22 - L.Pruneti: Il ritorno di Corto 24 - A.Binni: Le R.E.A.A. hier, aujourd’hui et demain 10 - A.A.Mola: La Massoneria italiana 22 - V.Mesisca: Il figlio della Verità 28 - G.Boaretto, M.Rivolta: Raimondo Lullo... 34 - A.Zarcone: Giacomo Carboni 34 - A.Orefice: Cronaca di una esecuzione 44 - R.Cecioni: XXI Aprile: Natale di Roma 48 - A.Orefice: I Giustiziati di Napoli 44 - A.Alessandrini, E.Bertorino A.Scartoni: Una passeggiata nell’arcano 52 - P.A.Rossi: Le metamorfosi di Pinocchio... 58 - J.M.Schivo: Parigi 2015 68 - R.Manetti: Memorie e simboli... 74 - V.Mesisca: In cammino verso la Casa della Sapienza 76 - In Biblioteca 79 - Fregi di Loggia


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orto è tornato; dopo quasi trent’anni il Marinaio esce dalle brume del passato per raccontarci una nuova avventura che ha per palcoscenico il grande Nord1. Fra l’Alaska e il Canada, in una terra sconfinata di boschi e di laghi dove i silenzi sono infiniti come il gelo dell’inverno e la luce dell’estate, il Nostro affronta mille pericoli per adempiere a una missione: consegnare una lettera di Jack London alla bella Waka Yamada, “una donna memorabile” che lo scrittore non può e non vuole dimenticare. Siamo probabilmente nel 1916, l’anno stesso della morte di London avvenuta a Sonoma County in California per un’overdose di antidolorifici. Da tre anni si combatte la grande guerra; sui vari fronti il massacro è quotidiana routine e sui mari l’insidia degli U-boot è costante. Nel grande Nord il conflitto è solo un’eco lontana, un rumore quasi impercettibile, un rimbalzare di parole mozze che il vento cancella, fra lo stormire delle foglie e lo scrosciare dell’acqua. Laggiù, dove il sole splende a mezzanotte e i confini sono linee sulle carte geografiche, si combatte un’altra guerra: quella per la vita. Brutalità, follia, ribellione sono fili annodati in un gomitolo di violenza che ogni giorno avviluppa le proprie vittime. Corto esce incolume dal labirinto e nell’ultima pagina del racconto s’accompagna a un vecchio clochard: i due passeggiano sotto la luce dei lampioni e di una falce di luna che invano cerca di rischiarare la notte; al contrario, Corto riesce a illuminare il buio di questa nostra epoca che lascerà memoria di sé per il suo tetro grigiore. Il Marinaio – nato a La Valletta il 10 luglio del 1887 sotto il segno dei Gemelli dalla Niña di Siviglia e da un marinaio della Cornovaglia – è uno spirito indipendente, una creatura animata dal fuoco della libertà. Una fiamma può languire e poi spegnersi anche se arde nel profondo del cuore, ma Corto è indenne da siffatto pericolo perché in lui soffia impetuoso il vento del coraggio. Un giorno, quando adolescente viveva a Cordova nel Barrio de la Juderia, colse nell’aria un suono: era una canzone triste come un cimitero d’agosto avvolto d’abbandono e di dimenticanza. Rapito, seguì quelle note nel dedalo del ghetto, fra il bianco della calce morsa dal sole e le fauci dei vicoli ammantati di tenebra. Giunse infine sotto una finestra e ascoltò una “voce d’ombra e di stagno” che cantava le strofe maledette della Petenera. Lui non conosceva la storia gitana di una donna bellissima che – per desiderio di vendetta – portava gli uomini alla rovina; lui non sapeva che chi ascolta la Petenera è destinato alla morte. Quando colse la verità, seppur ragazzo, non si scompose, ma ricordò ciò che affermava Miguel, l’anziano guardiano della sinagoga: “Se uno vuole veramente, la sfortuna la si può sempre combattere, con il coraggio e con la speranza”. 2

A diciassette anni non ancora compiuti s’imbarcò su un legno che faceva rotta verso est; aveva sulla spalle un sacco con dentro coraggio, speranza e ansia di conoscere. Oggi Corto è tornato, è ricomparso per donarci non solo meravigliose storie, ma soprattutto ciò che rappresenta; è riemerso per regalarci il significato valoriale della sua persona e delle sue avventure che compendiano tutto ciò che è sconosciuto a questo mondo spesso meschino, dove servilismo e codardia imperano e l’uomo – talvolta – si riduce a un accattone voglioso di piaceri, d’immagine e di profitti, seppur miserevoli. Fra pochi giorni entreremo nel clima natalizio e il rito del consumismo acquisterà forza e vigore. Folle imbacuccate di sciarpe e cappotti si riverseranno nelle vie del centro, desiderose d’acquisti; sugli schermi televisivi le trasmissioni gastronomiche si moltiplicheranno come le zanzare d’estate e sorridenti signore illustreranno dolci e manicaretti d’ogni genere, la pubblicità diventerà martellante e i cumuli ributtanti di rifiuti. Pochi ricorderanno, in quei giorni, che il 25 dicembre nacque, povero fra i poveri, un bambinello per donare a tutti un messaggio di speranza, nel segno dell’uguaglianza, dell’amore, della giustizia. Pochissimi rammenteranno che le feste solstiziali sono un rito comune di rinascita e di fratellanza, celebrato dalle società arcaiche per eliminare le scorie del passato e auspicare un luminoso futuro. Probabilmente quest’anno la grande kermesse sarà offuscata dal timore degli attentati; nessuno, tuttavia, reputerà che una radice dell’Isis affondi proprio nel ventre del nostro stanco Occidente che, proteso a trasformare l’uomo in consumatore, ha liquidato la tradizione, ha insultato la memoria, ha scannato l’orgoglio d’appartenenza, ha dimenticato una civiltà che dalla Grecia antica è giunta fino a noi, passando attraverso il Cristo e Roma. Nessuno penserà che la causa principale delle nostre angosce è il vuoto, giacché il letargico Occidente ha prima ucciso e poi sepolto ogni valore, che fosse religioso o civile, poco importa. Viva dunque Corto Maltese, pirata, cavaliere errante e gentiluomo di fortuna, ammalato di libertà e innamorato del sogno; viva il Marinaio senza padroni che vaga sui mari alla ricerca della mitica Amaurato dove sorge la città di Utopo: luogo inesistente, capace, però, di generarsi e crescere nel cuore di chi è figlio del vento e del fuoco; viva lo zingaro dei mari che non si prona davanti al potente di turno, ma naviga dritto verso il sole nascente, seguendo sempre la rotta della giustizia e della fratellanza. ________________ 1 J. Diaz Canales e R. Pellejero, Corto Maltese. Sotto il sole di mezzanotte, Rizzoli Lizard, Milano 2015. P.2-3: Corto Maltese, acquerello di Hugo Pratt.


Il ritorno di Corto Luigi Pruneti

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Gran Maestro

Le R.E.A.A. hier, aujourd’hui et demain Conferenza internazionale di Parigi

Antonio Binni

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Conferenza internazionale di Parigi

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l tempo sta cambiando, forse ... e Parigi lo sa. Si sente nell’aria ferocemente calda della capitale francese, un 7 novembre stranamente afoso, quasi a voler testimoniare l’eccezionalità dell’evento internazionale promosso dal Supreme Conseil Grand Collège du Rite écossais ancien accepté du Grand Orient de France che, in occasione dei suoi 200 anni di vita, ha invitato i vertici delle obbedienze adogmatiche Europee a riflettere su il Rito Scozzese Antico e Accettato ieri, oggi e domani. Uno sguardo ai riti massonici continentali del passato, per procedere verso il domani... un tema, il cui punto sotteso, come svela il Sovrano Gran Commendatore della Gran Loggia d’Italia Antonio Binni, risiede nell’accordarsi sulla definizione di quel domani: se un tempo prossimo che esige un’attenzione principalmente rivolta alla politica del vivere sociale, o un futuro remoto in cui si lavora per educare l’uomo al dinamismo della capacità filosofica di pensiero libero ... o, forse, un domani che è connubio bilanciato dei tempi prossimi e futuri, reminiscente di quel parti philosophique che, già nel nome, detiene la misura. Per un progetto apicale comune pare necessaria, quindi, una definizione o, perlomeno, una condivisione di quel futuro che, nell’Europa di oggi, chiama perentoriamente tutti i Sovrani delle Obbedienze adogmatiche a un accordo, un’alleanza ... o, più propriamente, come è in uso all’Ex

Gran Sovrano Alain de Keghel in rispetto al libro bianco, una complicité maçonnique tra le maggiori Obbedienze europee. Forse, il tempo della complicità sta faticosamente ma inesorabilmente arrivando e le oltre cinquecento autorevoli figure dense in sala non possono averlo ignorato, tanto era palese “l’emozione di tutti i Fratelli partecipanti all’evento che, con la loro presenza e la loro testimonianza, umile e alta, [hanno reso] solenne l’incontro”. In questa atmosfera colma di tutta la rilevanza dell’evento è avvenuta l’apertura dei lavori da parte del Sovrano Gran Commendatore Jean Pierre Cordier che, per primo, ha individuato la perentoria necessità di un accordo internazionale sul disegno della Massoneria di quel domani in cui la Libera Muratoria frazionata nelle differenti strutture delle varie istituzioni sarà, forse, in grado di rinascere in un’unica forma dai tratti continentali. In “quella altissima assise” densa di Riti ben distinti dai rispettivi Ordini, per l’interesse generale a una comprensione profonda di un’Obbedienza di fatto controcorrente, il nostro Sovrano Gran Commendatore è stato chiamato a illustrare i retroscena della scelta di un’unica scala, legato all’origine intima ed essenziale del rito, prima ancora che della storia, poiché una scelta, sebbene possa essere messa in atto per contingenze di tempo prossimo, rimane sempre figlia e madre del tempo remoto ... di quel tempo in cui ... “L’uomo fra cielo e terra, nel quieto silenzio, è mi-

abato 7 novembre 2015 si è tenuto a Parigi un incontro internazionale promosso dal “Supreme Conseil Grand Collège du Rite Ecossais Ancien et Accepté du Grand Orient de France” dal titolo “Le R.E.A.A. hier, aujourd’hui et demain” (Il R.E.A.A.: ieri, oggi e domani). Dopo l’apertura fatta dal Souverain Grand Commandeur Jean-Pierre Cordier, il Fr. Pierre Mollier, Direttore della Biblioteca, dell’archivio e del museo del G.O.D.F., ha presentato un ricordo storico degli avvenimenti del 1815, anno di nascita del Supreme Conseil Grand Collège Rite Ecossais Ancien Accepté du Grand Orient de France, che festeggia così i suoi 200 anni. Dopo una breve introduzione dell’ex. S.G.C. Alain de Keghel, su “Etre écossais, aujourd’hui” (Essere Scozzesi oggi) sono intervenuti il Fr. John Lee Cooper III, ex. G.M. della Gran Loggia di California, Membro del Supremo Consiglio del REAA – Giurisdizione Sud – ed il S.G.C.G.M. Antonio Binni della Gran Loggia d’Italia. Nel pomeriggio il Fr. Yves Hivert-Messeca, 1er Lieutenant Commandeur, ha introdotto il tema «la F.M. d’aujourd’hui au risque des sciences humaines» che nei successivi interventi è stato affrontato da molteplici punti di vista. Una prima visione filosofica è stata esposta da Bruno Richard, Professore dell’Université Lyon III e Direttore dell’Ecole doctorale de Philosophie. La seconda visione dal punto di vista sociologico è stata esposta da Franck Fregosi, Direttore di ricerca al CNRS «all’lnstitut d’Études politiques» di Aix en Provence. Infine la terza visione del tema dal punto di vista politico è stata presentata dal politologo Olivier IHL, Professore ex Direttore dell’lnstitut d’Études Politiques di Grenoble. 5


Gran Maestro

stero a se stesso. Profondo e insondabile”. Quando agisce è sempre prigioniero della finitudine. In sé è, invece, capace di infinito. Che è ansia e fascinazione del totalmente altro, del mysterium tremendum, che abita altrove, in un luogo inaccessibile, sulle cui tracce spesso si perde con i poveri strumenti a sua disposizione che si chiamano ragione, intuizione, forza della vita. Ma la ragione – che è distinzione e separazione – non coglie l’essenza delle cose. La cartesiana distinzione fra res extensa e res cogitans, matrice di tutte le divisioni, si è rivelata rovinosa per avere spossessato l’uomo della sua vera natura. L’intuizione – che pure è il contrario della celebre affermazione realistica di Gertrude Stain, secondo la quale una rosa è solo una rosa – da sola si rivela insufficiente ad 6

impadronirsi del reale, incapace comunque, com’è, a dare un ordine razionale a ciò che coglie per saltus. Né la forza della vita (Willezun Leben) – negativo di quel positivo che è la ratio con il corredo delle categorie, a partire da quelle di spazio e tempo, con il campo a lei riservato – può dare conto del tutto. La realtà è molto più complessa. Se si trascende l’incessante e l’insensato cammino del fare – alienazione dell’autentico senso dell’Essere – si comprende facilmente che la Verità è fuori dalla Storia. La Verità si dona all’uomo con avarizia, sempre allusivamente, per segni da intuire con intelligenza amorosa nel rispetto del tumultuoso fluire della vita. Sovviene allora il rito con il suo ammaestramento più prezioso che insegna che il vero cammino dell’uomo non è verso il futuro, ma verso il passato. È solo il rito che permette il ritorno – sofferto – dall’esilio alla vera patria, perché è solo il rito che consente il recupero del legame con l’Essere, spezzato dalla ragione e dai suoi miti, che si chiamano scienza, tecnica, progresso. Il rito, se non placa, quantomeno indirizza l’ansia metafisica che non dà tregua a chi persegue l’onesta ricerca che si celebra per le vie acci-

dentate e difficili, aspre e solitarie, della libertà, che riconosce l’unico vero nel dubbio che, quel che si è cercato, forse, è proprio in quello che è stato scartato. L’estensione dei riti è universale. La loro presenza attraversa i tempi. Il rito è dell’uomo. Ma esiste prima dell’uomo. Da qui la sua natura archetipale, tale appunto perché indica l’esilio e, nel contempo, la via del rimpatrio, la ri-immissione in quell’illud tempus che era segnato dall’innocenza e dalla conoscenza senza ricerca né affanno: l’esatto contrario dello statuto dell’uomo storico. Il Rito Scozzese Antico ed Accettato non sfugge a questa natura perché, nella sua progressiva complessità, si rivela occhio per ciechi, paradigma che indirizza e sorregge chi vuole camminare verso l’abisso della conoscenza per sempre pervaso dalla Mente Eterna. Dove gli strumenti offerti per altrettanti passi faticosi nell’irta ascesa, oltre che dal rigore, sono colorati altresì dall’ardimento, dalla lealtà, dal coraggio e dalla generosità: retaggio di quegli antichi valori cavallereschi che impregnano gli animi di uomini liberi e forti, ansiosi di sapere, perché questa – e non altra – è la vera natura dell’uomo. Come già ammoniva Aristotele, quando scriveva che “tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere.” Da cui l’inevitabile promozione di un rito massonico, che, nella costituzione dell’autorevole Supremo Consiglio, chiama i vertici del percorso iniziatico al necessario compito di “indirizzare e sorreggere l’ansia dell’uomo di conoscenza” mediante la definizione, anche strutturale, di un percorso di perfezionamento. Ovviamente le modalità di costituzione non possono prescindere dalla realtà storica che viene riversata oltralpe dal nostro Sovrano Gran Commendatore Antonio Binni nell’intervento ultimo, di seguito riportato, che viene riservato alla Gran Loggia d’Italia, a segno di grande attenzione del Grand Orient de France alla figura in rappresentanza all’Obbedienza degli A.L.A.M. di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi. “Il 4° giorno del 2° mese dell’anno di V. L. 5805 (4 Aprile 1805 dell’E.V.) fu fondato a Milano, il Supremo Consiglio dei Sovrani Gran Ispettori Generali del 33° grado in Italia, pronubo il Supremo Consiglio di Francia, anch’esso frutto dell’in-


Gran Maestro defessa opera del conte Alessandro Augusto de Grasse Tilly che, per tutta la vita, si adoprò affinché il Rito Scozzese Antico ed Accettato si diffondesse nei due emisferi. L’origine francese – più precisamente, napoleonica – del Supremo Consiglio d’Italia e la sua natura scozzese, sono, dunque, due vicende oltre che incontestabili, pure coeve. Il Rito Scozzese nel nostro Paese si presentò come la radice prima della rinascita massonica che, qua e là, aveva già dato alcuni frutti. Per affermarsi, dovette, però, superare la concorrenza del Rito Simbolico, già largamente in uso nella Penisola. Il contrasto fu una delle cause dei drammatici eventi del 1908, che segna la nascita della Obbedienza, a nome della quale oggi parlo. Ai due diversi riti corrispondevano, infatti, due diverse anime, nelle quali era divisa la Massoneria italiana. Mentre i simbolisti erano troppo sensibili all’impegno politico, i seguaci del Rito Scozzese erano, invece, profondamente convinti che la Massoneria dovesse essere unicamente una società iniziatica ed esoterica, votata, perciò, solo alla crescita di determinati valori umani. Il contrasto, già vivo, si acuì quando il Grande Oriente d’Italia pretese di imporre ai Fratelli deputati al Parlamento l’obbligo di seguire in politica le proprie direttive, spingendosi fino al punto di colpire quanti non si sarebbero adeguati alle stesse, stringendo accordi elettorali con la parte cattolica. Il conflitto divenne acuto quando esplose il problema dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica. In una materia così delicata, per di più, all’epoca, disciplinata in termini tutt’altro che chiari, il Gran Maestro Ettore Ferrari si impegnò a fondo per fa riprevalere

la mozione Bissolati che prevedeva, nella scuola elementare, sotto qualsiasi forma, il divieto dell’insegnamento religioso, minacciando l’espulsione dalla Massoneria i numerosi Fratelli che sedevano in Parlamento, eventualmente inosservanti di quell’indirizzo. L’Ordine fu così coinvolto in un’aspra lotta politica, rivelando la sua natura di partito, con un anticlericalismo viscerale, spesso sfociato in ateismo e, ancora più frequentemente, in contenuti blasfemi. Saverio Fera, dal vertice del Rito Scozzese, oppose la libertà di coscienza, con conseguente libertà di voto a favore di tutti i parlamentari, segnando, col che, un ritorno alle origini caratterizzato da un maggior interesse alla ricerca filosofica e alla pratica iniziatica. Da qui l’inevitabile scissione fra i due Corpi e l’affossamento del progetto della unificazione dei Riti che aveva tanto affaticato le due anime della Massoneria italiana. Non sarà ora inutile ricordare che, già all’indomani della divisione del 1908, il Supremo Consiglio del Belgio riconob-

be il Supremo Consiglio d’Italia, presieduto da Saverio Fera, come la legittima prosecuzione di quello rappresentato nella Conferenza Internazionale dei Supremi Consigli tenuta a Bruxelles nel 1907. Successivi plurimi riconoscimenti ottenuti in campo internazionale confermarono la correttezza della scelta compiuta dal Supremo Consiglio del Belgio. Le cinquantasei potenze massoni di Rito Scozzese riunite nella conferenza di Washington dei Supremi Consigli del R.S.A.A. tenutasi nel 1914 ribadirono la regolarità del Supremo Consiglio d’Italia retto da Fera con il suo conseguente riconoscimento. La consacrazione della regolarità del Supremo Consiglio ferano – e della Serenissima Gran Loggia – costituita da Fera il 21 Marzo 1910 come la sola diretta discendente del primigenio Grande Oriente del 1805 - il 29 Maggio 1922 fu poi definitivamente sancita a Losanna nella “Conferenza universale dei Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico ed Accettato” nella quale Palazzo Giustiniani non aveva rice7


Gran Maestro

vuto neppure l’invito a partecipare, dove, com’è noto, fu perfino messo alla porta il suo rappresentante, che aveva tentato di intrufolarsi in quell’assise avvalendosi di credenziali del Supremo Consiglio di Egitto, a sua volta espulso in quanto riconosciuto indegno del sotterfugio al quale si era prestato. Senza volere dar seguito agli avvenimenti storici successivi, pletorici nell’economia di questo intervento, che però indubitabilmente attestano essere la nostra Obbedienza, tanto nel Rito quanto nell’Ordine, la sola diretta discendente del primigenio Grande Oriente del 1805, è, invece, doveroso ricordare che, nella famiglia ferana, si è sempre – e soltanto – praticato il Rito Scozzese Antico ed Accettato, né, in tutta la sua storia, si è mai neppure minimamente avvertito il bisogno dell’ingresso di altri riti. Sicché non è azzardato preconizzare che il Rito Scozzese Antico ed Accettato continuerà ad accompagnare la nostra Comunione in quella che, per certo, sarà ancora la sua lunga storia. 8

L’impronta – indelebile – lasciata sulla nostra Obbedienza dalla sofferta iniziativa ferana ha finito, fatalmente, quanto inevitabilmente, per far prevalere, all’interno della nostra comunione, una visione del Rito Scozzese Antico e Accettato di natura prevalentemente intimistica. Quanto dire, altrimenti, un’interpretazione del Rito Scozzese legata essenzialmente alla crescita spirituale di ogni singolo Fratello che, nel Rito di ogni grado, ha finito per attingere forza e sostanza in favore della sua ascesa personale di perfezionamento. Il che – l’osservazione si impone ha costituito eredità preziosa dell’origine stessa della nostra Obbedienza perché ha arricchito moltissimi Fratelli che, con il loro sapere e con le loro opere, discrete e silenziose, ma autenticamente preziose, hanno reso meno aspra e meno arida la vita della nostra patria, elevandone crescita morale e più diffusa giustizia. Quando i Fratelli italiani hanno parteggiato per i più poveri e per l’emancipazio-

ne delle donne non hanno infatti obbedito alla legge della politica, visto che, all’epoca, tanto i più poveri, quanto le donne, erano privi del diritto di voto, quanto, invece a quella della giustizia. In questi ultimi cinquant’anni, imperiosa è, però, emersa la consapevolezza che, al Rito Scozzese Antico ed Accettato, è intrinseca e co-essenziale una ricchezza molto più ampia e molto più vasta di quella, fino ad allora, colta invece in termini parziali e riduttivi, e, nel contempo, il pensiero, sempre più generalizzato, della loro utilità a un vivere civile sempre più solidale, sempre più umano. Si è compreso, in estrema sintesi, che non si poteva più continuare a mortificare la ricchezza del Rito Scozzese. Né si poteva più tollerare una crescita spirituale che non avesse, al contempo, trasferito i suoi effetti benefici dal singolo alla collettività. Anche per non incorrere nel vizio dell’egoismo. Da qui l’inevitabilità di aprirsi al sociale, sia pure nel rispetto di una saggia prudenza e attiva vigilanza che avrebbero, per certo, suggerito l’opposta opzione qualora l’esperienza concreta avesse riservato sorprese e pericoli più gravi di quelli preventivati. Il che, sia detto per onestà intellettuale, non ha, in verità, mai escluso motivi di preoccupazione e di perplessità in ordine ai rischi sottesi, ripetutamente sottolineati, da molti, con un richiamo ai motivi che hanno causato l’iniziativa ferana. Si vuol dire altrimenti che la scelta di aprirsi al sociale è stata contrastata. Non solo da quanti erano contrari ad una esperienza, già prima facie, nuova e non facile. Donde gli atteggiamenti di diffidenza preconcetta, fonte di sfiducia e disorientamento. Ma, soprattutto, da quanti non riuscivano a comprendere ciò che ai più pareva invece ormai perfino ovvio. Non si trattava, infatti, di profanizzare l’Obbedienza, quanto, all’opposto, di impregnare la società con valori massonici sempre più diffusi nella ormai radicata convinzione che in una società, come quella odierna, multi-etnica e infra-religiosa, solo il convinto rispetto delle altrui opinioni e credenze può garantire una pacifica convivenza. Da qui la riscoperta e il recupero del principio – così caro ai Fratelli francesi – della laicità, che non significa assenza di va-


Gran Maestro

lori, ma coscienza che qualunque valore è suscettibile di essere discusso. Con l’accortezza, però, di rispettare l’interlocutore che la pensa diversamente. Dunque, laicità come luogo privilegiato del confronto che coniuga uguaglianza e diversità. Donde la sua natura pluralista fondata sul principio di responsabilità che impone interventi in tutte quelle materie che investono prepotentemente la libertà del singolo e l’idea stessa della dignità umana. Da qui l’inizio di un percorso con un passo sempre più fermo e deciso, non disgiunto tuttavia dall’attenzione di evitare il pericolo di contaminazione. La Comunione che qui rappresento stima infatti come irrinunciabile la sacralità del Rito Scozzese che pratica e, dunque, la natura essenzialmente esoterica ed iniziatica della propria struttura. Senza però nel contempo privarsi di donare alla società civile la ricchezza dei valori propri del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Tanto nel rispetto dell’insegnamento iniziatico del perfetto equilibrio. L’oggi, che ci consuma, è caratterizzato da un’autentica catastrofe educativa. Occorre, pertanto, riaccollarsi il dovere di educare l’uomo, perché solo rieducando l’uomo quel guscio di noce che chiamiamo Terra potrà diventare una aiuola meno feroce. Dobbiamo, pertanto, moltiplicare le energie e le forze in questa direzione, nella convinzione – profonda – che questa è l’unica via per paralizzare quelle forze distruttive che costituiscono

l’ombra nera dell’uomo. L’odio ha il fiato corto. Ma il suo respiro – non lo possiamo dimenticare – ha un effetto devastante perché, con l’odio, non si placano mai gli odi nel mondo. Gli odi si placano solo con l’assenza di odio. Occorre, pertanto, rieducare l’uomo soprattutto all’amore fraterno perché siamo tutti Fratelli in quanto tutti figli dell’unico Cielo. Per dirla con l’amato Virgilio: “Hic est opus, hic est labor”. Questo l’impegno e qui la fatica, con un cammino progressivo che condurrà la nostra Comunione sicuramente su posizioni, nel sociale, ancora più avanzate di quelle già faticosamente conquistate. Il che non è vaga speranza, ma speranza operosa. La nostra Comunione – lo dico con profonda convinzione – in questi ultimi anni sta vivendo una sua autentica primavera, che è spirito di nuova feconda rinascita,

che è aurora di nuova luce. Sono certo che l’Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi saprà onorare quello che è ormai generalmente avvertito come un proprio compito ineludibile che ricomprende anche la difesa del più debole, perché la neutralità non è equidistanza fra il potente e il debole, quanto invece collusione con il più forte e sopruso in danno del più debole. Mi piace concludere con un’espressione che ormai mi è cara. Non già così sia, ma, invece, che sia così. ______________ (Intervento di Antonio Binni, S.G.C.G.M. degli A.LAM., Convegno Internazionale del Supremo Consiglio dei Riti Scozzesi Antichi e Accettati: Rito Scozzese Antico e Accettato di ieri, oggi e domani, Parigi, 7 nov 2015). P.4: Pyramide inversée du Louvre, Paris; p.5/9: Dettagli di ornamenti massonici in edifici di Parigi (p.4: foto P.Del Freo).

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Storia

II parte

La Massoneria italiana tra iniziativa politica e conflitti interni Aldo A. Mola 10


Storia

Felice Cavallotti

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on la ferma (e da taluno considerata ingenerosa) presa di distanza da Lemmi, Nathan ottenne il favore di quanti ritenevano opportuna l’elezione di un Gran Maestro politicamente opposto allo statista siciliano ma non volevano scompaginare i frutti del quindicennio precedente (da Cairoli a Depretis, da Crispi a Rudini), in termini di contiguità dell’Ordine con il mondo politico-parlamentare-governativo. Si stagliò il dualismo tra la loggia “Propaganda massonica”, già all’orecchio di Lemmi, e officine militanti, come la “Rienzi” di Roma, aspiranti a un ruolo egemone sia nell’ambito delle logge della capitale sia sull’intera Obbedienza. Anziché dall’interno, la soluzione venne dall’esterno: con la sconfitta ad Abba Garima della spedizione comandata dal generale Oreste Baratieri (1 marzo 1896), celebrato dalla Rivista della Massoneria Italiana quale proprio campione, ma esecrato subito dopo la catastrofe, che travolse il governo Crispi e anche per la Massoneria segnò una svolta. In successione a Lemmi il 1 giugno 1896

venne eletto Ernesto Nathan12. Il primo gran magistero del “figlio di Sarina” costituì una stagione di ampia affermazione dell’Ordine quale terreno di riferimento delle istituzioni. Vi concorsero la perdurante rivendicazione del potere temporale da parte di papa Leone XIII e la svolta autoritaria impressa alla vita politico-parlamentare dall’ultimo governo del marchese Antonio Starrabba di Rudinì e dai due ministeri presieduti dal generale Luigi Pelloux. Quando fu chiaro che per assicurare stabilità al ministero d’intesa con la Corona il governo mirava a comprimere la centralità del Parlamento, segnatamente della Camera, il 1 luglio 1899 anche Nathan partecipò all’incontro di una cinquantina di parlamentari liberaldemocratici nella casa romana del barone Domenico Sciacca della Scala, anche massoni attivi, come Giuseppe Zanardelli, o da tempo in sonno, come Michele Coppino, incaricato con Giovanni Giolitti, a sua volta presente, di approntare il programma della riscossa della sinistra costituzionale. Morto tragicamente Felice Cavallotti,

Ernesto Nathan

mentre Crispi era ormai isolato, occorreva andare oltre la retorica del “partito degli onesti” e individuare il terreno di convergenza tra le istituzioni, irrinunciabili, e un ampio consenso elettorale nel Paese. Le imminenti elezioni politiche del 1900 furono il banco di prova della nuova possibile maggioranza. Il già ricordato trasferimento del Grande Oriente da Palazzo Borghese a Palazzo Giustiniani avrebbe dovuto elevare la Massone11


Vittorio Emanuele III

Storia

ria a terreno d’incontro, sedimentazione e composizione tra le diverse correnti della democrazia, come a suo tempo fatto da singole officine, quali la “Ausonia” di Torino nel 1860-1863, la “Universo” di Firenze nel 1867-1870 e la “Propaganda massonica” di Roma dal 1877. Tra le delusioni cocenti vi fu anche la sconfitta di Ettore Ferrari nel IV collegio di Roma da parte del duca Leopoldo di Torlonia: più amara anche perché alla vigilia del voto Nathan aveva scritto che di per sé il Grande Oriente non si schierava per alcun candidato, incluso l’insigne scultore. Era saggio non esporre la Massoneria allo scacco di un aspirante al seggio; ma la sconfitta di un alto dignitario non sarebbe passata senza conseguenze all’interno della Famiglia, scossa e lacerata sia dalla secessione del GOI sia dall’emarginazione di Lemmi. 12

Al termine del primo triennio di gran maestranza Nathan sintetizzò la posizione dell’Ordine nei riguardi della dinamica politico-partitica italiana: “La varietà dei colori politici usata dai tecnici della materia per classificarci, lascerebbe la ragionevole presunzione che i più sono affetti da daltonismo, eppure non è così. Chi ci vuole di una tinta, chi di un’altra, dalle più sbiadite alle più accese […] Voi sapete che la luce rifratta attraverso il prisma ci dà l’iride; ebbene, la Massoneria aspira a essere la luce. Il colore politico suo è il bianco, la sintesi di tutti gli altri colori a eccezione del nero, negazione di luce”. L’Ordine, dunque, non si identificava con i colori della rivoluzione, dagli anarchici ai socialisti, e neppure con il verde troppo spiccato della tradizione mazziniana, preziosa e irrinunciabile, ma,

all’indomani del regicidio, meno accentuata, proprio per non spingere il nuovo sovrano nelle braccia dei cattolici quale unico pilastro portante della società e garante delle istituzioni. In una circolare di poco precedente Sui compiti dei Maestri Venerabili (8 febbraio 1901) Nathan spiegò perché avesse precedentemente deplorato “un consorzio di gruppi politici noto sotto il nome di Partiti popolari” (denominazione di copertura delle logge dissidenti). Era stato un atto circoscritto nel tempo perché : “tradurre ciò in una censura di un partito politico, si chiami socialista o progressista, lega popolare o federazione monarchica, sarebbe non solo venir meno al patto fondamentale su cui si basa l’Ordine, ma implicherebbe biasimo a moltissimi cari Fratelli, militi fedeli nelle nostre file. Scrupoloso osservatore della legge nostra, liberamente accettata, finché starò a questo posto né attenterò, né permetterò che altri attenti a quella libertà di coscienza politica, che insieme a quella religiosa è prerogativa dell’Istituzione”. La fedeltà a quella Liberomuratòria non comportò tuttavia quella all’Istituzione suprema dello Stato, la monarchia. Dopo la svolta impressa nel programma governativo dall’ottantenne Giuseppe Saracco, l’ascesa alla presidenza del Consiglio di Giuseppe Zanardelli, antico e provato massone, forte di quarant’anni di vita di loggia ma considerato non ostile dagli ambienti ecclesiastici più accorti, Nathan ritenne maturo il tempo per riforme incisive, anche su pressione di logge che da tempo chiedevano l’introduzione del divorzio in Italia. Ai segnali mandati dal presidente del Consiglio seguì il discorso della Corona nel quale Vittorio Emanuele III prospettò la riforma mezzo secolo prima incautamente affacciata da Massimo d’Azeglio nel regno di Sardegna. Il 20 febbraio 1902 il re disse: “Sempre nel campo delle giuridiche discipline il mio Governo vi proporrà di temperare, in armonia col diritto comune delle altre nazioni, l’ideale principio della indissolubilità del matrimonio civile; e di riformare con eque norme i divieti che contendono alla prole illegittima il diritto al nome e alla vita. Nelle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, il mio Governo intende mantenere stret-


tamente la separazione dell’ordine civile dallo spirituale; onorare il clero, ma mantenerlo nei limiti del santuario; portare alla religione e alla libertà di coscienza il più illimitato rispetto, ma serbare inflessibilmente incolumi le prerogative della potestà civile, i diritti della Sovranità Nazionale”. Nella convinzione di ottenerne la benevolenza, ma senza sottinteso di immediate contropartite, nel 1902 il Gran Maestro si spinse a offrire a Giolitti l’influenza delle Logge per convogliare voti (soprattutto di pubblici dipendenti) a sostegno di candidature filo-governative nelle elezioni amministrative. Contrariamente alle sue attese, il ministro dell’Interno declinò la proposta. Secondo lo statista, gli impiegati dovevano decidere da sé da che parte stare mentre il governo si accingeva a riordinare la macchina burocratica di ogni ordine e grado, con riconoscimenti economici e di status a patto della assoluta fedeltà agl’impegni assunti con le pubbliche amministrazioni: il giuramento, nel caso degli impiegati statali, di fedeltà al re e ai suoi legittimi successori. La sortita del governo a favore del divorzio, tanto più dopo l’avallo del re, suscitò la risposta della Chiesa. In pochi mesi i circa trentamila parroci italiani raccolsero tre milioni di firme di cittadini contrari alla ventilata riforma del diritto di famiglia, quasi equivalenti al numero degli elettori. Autentiche o fittizie, e per di più in gran parte femminili mentre il diritto di voto era esclusivamente maschile, quelle sottoscrizioni furono un segnale politico che uno statista lungimirante non poteva né ignorare né sottovalutare. Anche per altri motivi, Giolitti ne trasse le conseguenze rassegnando le dimissioni (21 giugno 1903), mentre sia il presidente Zanardelli sia il ministro della Pubblica istruzione, Nunzio Nasi, alto dignitario del Rito simbolico italiano, Guido Baccelli, titolare di Agricoltura, Industria e Commercio, e Scipione Ronchetti, sottosegretario all’Interno, notoriamente massoni, accentuavano i toni polemici nei confronti dei cattolici, dipinti come fossero tutti clericali fanatici. Dal 1902 un fatto di cronaca nera crebbe invece sino a esporre Nathan a riserve e a critiche severe anche all’interno

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Giovanni Giolitti

della Famiglia. La notte del 28 agosto il conte Francesco Bonmartini fu assassinato a Bologna nel suo appartamento al n. 39 della centralissima via Mazzini (oggi strada Maggiore). Quale autore del delitto venne incriminato il cognato, l’avvocato Tullio Murri, figlio di Augusto, medico della Real Casa, uno tra i clinici più autorevoli e prestigiosi d’Italia. Mandante del delitto fu sospettata (e poi coimputata) la moglie del conte, la trentunenne Teodolinda (Linda) Murri dalla vita privata non specchiatissima. Le indagini misero via via in luce un groviglio di tradimenti coniugali e persino il sospetto di relazione incestuosa tra Linda e il fratello. Anche grazie a informazioni che gli pervenivano in violazione del segreto istruttorio, il quotidiano cattolico “Avvenire d’Italia” artigliò la preda: Augusto Murri era il campione dell’anticlericalismo. Non era massone (il suo nome non compare né nella Matricola del GOdI, né nei piedilista delle Logge antecedenti, pubblicate da Carlo Manelli, e nella corrispondenza con Carducci e altri non è mai appellato con termini tipici della Fratellanza), ma notoriamente sodale

di Ceneri, Regnoli e di Carducci, l’autore dell’Inno a Satana. Poco prima dello “scandalo” aveva propugnato l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari. Ora risultava padre dell’imputato e della “vedova”, travolta da rivelazioni sulle sue relazioni “anomale” con la guardarobiera del marito, Rosina Bonetti, e amante del medico cinquantenne Carlo Secchi, allievo di suo padre. Non bastasse, una tra le precedenti amanti di quest’ultimo, Teresa Bonera Borghi, “Tisa”, dichiarò di aver assistito a un’iniezione di curaro praticata da Secchi su un agnello per addestrare Tullio all’uso del veleno: un episodio che sembrava preso di peso dalle Confessioni di un 33\ di Léo Taxil. L’animale - dichiarò Tisa - “continuò a girare per la stanza circa dieci minuti. Poi, tremando, cadde, e rimase così finché il professore non gli tagliò il collo”. Gli avvocati delle opposte parti aggiunsero tinte fosche a un quadro già di per sé sconcertante. Ma ciò che più pesò furono da un canto l’iniziale tentativo di Augusto Murri di proteggere il figlio e, dall’altro, il soccorso prestatogli da Ernesto Nathan se13


condo il quale Bonmartini aveva fatto la fine che si meritava13. Non solo, al giudice istruttore il 24 novembre 1902 il Gran Maestro dichiarò di aver conosciuto Augusto Murri solo per un consulto medico anni prima ed escluse di aver suggerito “un asilo sicuro” presso il professor

Storia Dasmaginas, ad Atene, “per qualcuno degli imputati”, segnatamente per Tullio. Da Bologna il “processo del secolo”

mi tra il 1890 e il 1895 avevano una matrice palesemente politica e potevano essere rintuzzati all’esterno e ancor più all’interno della Famiglia, egli si era trovato del tutto involontariamente impelagato in una vicenda squallida e in un processo di durata imprevedibile. Vi era un unico modo per evitare che il fango schizzasse sull’Ordine: le dimissioni da Gran Maestro. Le rassegnò il 15 novembre 1903 per motivi di salute e di famiglia “ed impegni gravi e sacri”14. Una Gran maestranza iniziata e prose-

than scrisse auspicando che l’iniziativa assumesse “veste di azione nazionale”. Le dimissioni non giunsero improvvise. Esse seguirono di pochi giorni quelle di Zanardelli dalla presidenza del Consiglio (3 novembre 1903). Il quadro politico mutò rapidamente. Vittorio Emanuele III incaricò Giolitti di costituire il nuovo ministero in pochi giorni perché doveva andare in visita di Stato a Londra e non poteva farlo senza un governo nella pienezza dei poteri. La nuova compagine fu nettamente diversa dalla precedente, ma non costituì affatto un cedimento ai clericali. Dopo avergli severamente intimato di astenersi dall’accennare al divorzio nei suoi discorsi elettorali, lo statista chiamò Scipione Ronchetti al ministero della Giustizia. Al Tesoro ebbe Luigi Luzzatti, fuggevolmente iniziato molti decenni prima, all’Agricoltura Luigi Rava, futuro massone. Anche tra i sottosegretari annoverò alcuni “fratelli”. Zanardelli morì il 2 dicembre. I suoi funerali vennero concelebrati da oltre quaranta sacerdoti. II - I primi dieci anni della Gran maestranza di Ettore Ferrari.

Giuseppe Zanardelli

fu trasferito a Torino. Riprese il 21 febbraio 1904. Tra i testi fu ascoltato l’arcivescovo di Bologna Domenico Svampa, cardinale e quindi forte di speciali tutele, come previsto dal cerimoniale di corte che ne prevedeva la precedenza anche sui Collari della SS. Annunziata, “cugini del re”. Nuovamente chiamato a deporre, Nathan ammise di aver suggerito a Tullio la Svizzera o la Grecia se avesse dovuto riparare all’estero “per ragioni politiche”. Aggiunse che né l’imputato né suo padre appartenevano alla Massoneria e che pertanto l’Istituzione non aveva nulla da spartire con le vicende in esame. A quel punto, però, aveva già tratto le conclusioni. Se gli addebiti mossi a Lem14

guita con dignità e prestigio crescenti finì nella maniera più deludente, anche perché il Grande Oriente Italiano non risparmiava critiche nei confronti dei confratelli. Vacillarono molte tra le importanti iniziative varate da Nathan. Fu il caso della Commissione permanente costituita nel febbraio 1901 “col mandato di spingere le Loggie a promuovere, disciplinare ed aiutare le istituzioni cooperative e di previdenza, nelle loro varie forme e nelle loro attinenze con la pubblica e privata economia, su di una base civile, laica ed obbiettiva”. Essa comprese Antonio Cefaly, Maffeo Pantaleoni, Agostino Berenini, Domenico Valeri, Antonio Teso, Gino Modigliani e Vittorio Positano, come Na-

1 -La composizione del piccolo scisma tra GOdI e GOI Nel 1902 Vittorio Emanuele III si recò in visita di Stato a Parigi. Si fece precedere dal conferimento del collare della SS. Annunziata al presidente della repubblica francese, Emile Loubet, notoriamente anticlericale. Questi restituì la visita il 21 aprile 1904, Natale di Roma. Per la prima volta dall’Unità d’Italia e dalla debellatio del papa-re il capo di Stato d’Oltralpe andò nella Città Eterna senza vedere il papa. In Francia stava montando la marea anticattolica militante che l’anno seguente si tradusse nella estromissione degli ecclesiastici dall’insegnamento e nel disconoscimento delle congregazioni religiose, su iniziativa del presidente del Consiglio, Emile Combes. In quell’arco di mesi anche in Italia l’anticlericalismo divenne terreno di incontro e in molti casi di convergenza tra correnti costituzionali e forze antistatutarie. L’assemblea del Grande Oriente d’Italia, convocata a Roma a ridosso dell’anniversario del martirio di Giordano Bruno (14-17 febbraio 1904), elesse Gran Ma-


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estro Ettore Ferrari. Da tempo Nathan aveva pensato a lui quale suo successore. Glielo scrisse il 26 giugno 1897 da Venezia: “Caro Ettore, mi dispiace ti tocchi una supplenza effettiva. A tal proposito mi piace rimanga scritto da me firmato ch’io non intendo vi possa essere altro a supplirmi sia temporaneamente sia definitivamente negli uffici di Gran Maestro e tutte le responsabilità ad esso inerenti all’infuori di te: è voto d’assemblea e voto mio. Capisco e mi auguro che uno scritto simile non sia necessario; ma non si sa mai. I dottori mi dicono che malgrado progressi rapidi non potrò lasciare qui fino al 6 o 7 di luglio ed in uno stato da convalescente. Appena potrò verrò a Roma e ci metteremo d’accordo. Abbi intanto della santa pazienza a soffrire caldo e lavoro, perché se tu non potessi si ricadrebbe nel vec-

chio15”. Non per captatio benevolentiae Nathan aggiunse il post scriptum: “Il tuo monumento a Vittorio Emanuele (a Venezia NdA) è il più bello che c’è in Italia. Il tuo cavallo è indubbiamente il più bel cavallo vivente”. Il nuovo Gran Maestro, suggestionato da quanto avveniva nella “sorella latina”, imboccò subito la via dell’anticlericalismo militante, anche per rintuzzare le polemiche sorgenti dall’interno del Partito socialista italiano, che iniziava ad accusare la Massoneria italiana di corrompere la genuinità della “rivoluzione” piegandola a disegni di conservazione borghese. La visita di Loubet fu salutata da un coro di plausi da parte di radicali, repubblicani, circoli del Libero Pensiero e delle logge, che nel volgere di pochi anni erano cresciute di numero e di affiliati

giungendo a 195 nel 1904. Il re d’Italia e il presidente della repubblica francese mostrarono unità d’intenti civili mentre la massoneria italiana rimaneva divisa in due blocchi: quello ostentatamente filofrancese, di orientamento dichiaratamente repubblicano, e l’italiano, prudentemente agnostico sul nodo fondamentale, la forma dello Stato. Il GOdI venne lasciato alle spalle dal Grande Oriente di Francia, sempre allineato con le istituzioni e in grande affanno per l’esplosione dell’affaire des fiches. Emerse che il ministro della Guerra, generale Louis André, aveva affidato alla Massoneria la schedatura degli ufficiali con riferimento al comportamento anche privato, inclusa l’osservanza di precetti religiosi. Mentre ancora non si era spenta l’eco dell’affaire del capitano Alfred Dreyfus, ne nacque uno scandalo enorme perché 15


Pio X

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dalle rivelazioni di un massone “pentito”, Jean-Baptiste Bidegain, risultò che per classificare i militari le logge si erano valse di prefetti, magistrati e della Solmer (Fraternelle Militaire “Solidarité des armées de terre et de mer”), quasi una società segreta all’interno delle Forze Armate. Proprio quando la Francia, a cospetto delle nubi che si addensavano sulla linea blu dei Vosgi, aveva bisogno della lealtà di tutti i cittadini, cattolici compresi, e ogni conflitto interno andava dunque scongiurato, l’affaire des fiches evidenziò che la Massoneria precostituiva motivi di divisione16. Il 20 settembre 1904, di concerto e con la partecipazione massiccia del Grande Oriente d’Italia, si svolse a Roma il Congresso della Federazione internazionale del Libero Pensiero, aperto al Collegio Romano dalla filza di relazioni su temi propri del sodalizio. Tra le organizzazioni che si spesero per la sua realizzazione vi fu la sezione italiana della Federazione internazionale universitaria “Corda Fratres”, guidata da Angelo Fortunato Formiggini, Gino Bandini, Eugenio Jacchia e da altri giovani, in gran parte massoni (i più attivi e autorevoli vennero iniziati alla “Lira 16

e Spada” di Roma), in ormai aperto dissenso con il suo fondatore, Efisio GiglioTos, contrario a identificare la Federazione con la Massoneria e con il Libero Pensiero proprio in nome della sua assoluta estraneità a questioni partitiche e religiose17. Il Congresso svaporò nell’approvazione di documenti e di “voti” e si concluse con una passeggiata campestre sul colle Capitolino, cui partecipò un decimo dei congressisti, osservati con ironia da osservatori smaliziati. Tra questi vi erano gli ecclesiastici più attenti al mutamento profondo di clima, segnato da due eventi concatenati: la nascita del principe ereditario, Umberto, principe di Piemonte (Racconigi, 15 settembre); e il primo sciopero generale “espropriatore”, indetto dalla Camera del lavoro di Milano con il sostegno del Partito socialista proprio in coincidenza con i festeggiamenti di Corte. Il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, Giolitti, lasciò che l’agitazione si esaurisse da sé. Ottenne dal re lo scioglimento della Camera e il suo rinnovo, fissato per il 6-13 novembre. Come da lui previsto, l’esito fu favorevole al governo.

Il nuovo pontefice, Pio X (marchese Giacomo della Chiesa,1903-1914), per la prima volta sospese la direttiva “né eletti, né elettori” (o non expedit) nei collegi ove i liberalmoderati rischiavano di essere travolti da socialisti rivoluzionari convergenti con radicali estremi e autorizzò candidature di cattolici. Furono eletti tre deputati cattolici, per di più ai danni di un alto dignitario massonico, Adolfo Engel, sconfitto da Agostino Cameroni nel collegio di Treviglio. Giolitti bilanciò la vittoria con l’elezione del radicale Giuseppe Marcora alla presidenza della Camera e con il conferimento del laticlavio senatoriale a Engel, che raggiunse in Senato Giuseppe Mussi, altro eminente dignitario del radicalismo filofrancese, il cui figlio, studente universitario, era rimasto ucciso a Pavia negli scontri del maggio 1898. Il 20 settembre 1904 De Cristoforis, Gran Maestro del GOI, su pressione di Pilade Mazza era stato ospite a Palazzo Giustiniani per i festeggiamenti di rito. L’indomani intavolò con Ferrari le premesse per la composizione dello scisma. Dopo lunghe trattative, le rispettive delegazioni (quattro membri ciascuna) l’11 novembre 1904 sottoscrissero a Parma la conciliazione tra Grande Oriente d’Italia e Grande Oriente Italiano. Fra i suoi cardini vi erano la riduzione delle tasse di capitazione per i meno abbienti e, in prospettiva, la modifica dell’intestazione degli atti e dei documenti della Massoneria italiana “Alla gloria del grande architetto dell’universo”. Questa era stata abolita nel 1877 dal Grande Oriente di Francia sulla scia di quello del Belgio, ma la cancellazione aveva comportato la rottura delle relazioni tra il GOF e la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, che per il GOdI era invece irrinunciabile riferimento per ottenere la conferma definitiva della propria regolarità e legittimità, sollecitata nel 1862 dal Gran Maestro Filippo Cordova ma non ancora perfezionata. Le logge del GOI entrarono a vele spiegate nella Famiglia, senza alcuna verifica della loro composizione, né nuova certificazione degli affiliati. Mentre è nota la matricola degli iniziati al GOdI (per altro non pienamente riflettente il corpo dell’Obbedienza), pochissimo si sa, per ora, dei piedilista di quanti venne-


ro incorporati nelle officine del Grande Oriente Italiano tra il 1898 e il 1904: una carenza documentaria grave quando si osservi che, mentre il GOdI aveva scarsi rapporti internazionali (le poche logge inglesi attive in Italia non incoraggiarono la Gran Loggia Unita d’Inghilterra ad andare oltre le comunicazioni epistolari tra le segreterie delle due Obbedienze), il GOI era in rapporti fraterni con il Grande Oriente di Francia e con le Famiglie che facevano capo a Parigi, e affiliava Fratelli, anche italiani, iniziati in Logge estere. A rendere più articolato e complesso lo scenario delle relazioni formali e informali delle due Obbedienze sino a quel momento attive in Italia (in deroga al principio dell’unicità della sovranità), va constatato che logge di entrambe le Comunioni italiane ricevevano in visita membri di ateliers francesi, tanto del GOF quanto della Gran Loggia di Francia e di riti “di frangia”, come il Diritto Umano, che per statuto praticava l’iniziazione femminile: tutti per vari motivi irregolari agli occhi della GLU d’Inghilterra e delle Obbedienze del suo circuito (Scozia, Irlanda, Paesi Bassi, Stati Uniti d’America...). Con l’ingresso del GOI, il GOd’I ricevette quindi al proprio interno un novero imprecisato di massoni noti solo ad alcuni dignitari di vertice e destinati a costituirsi in massa critica e a pesare sul successivo orientamento dell’Ordine. Tra i casi più dibattuti di effettiva affilizione rimane quello del deputato socialista Leonida Bissolati-Bergamaschi. Nel 1902 questi rappresentò la Loggia “Alsazia-Lorena” al Congresso mondiale del Libero Pensiero a Losanna, ma non figura nella matricola generale del GOd’I (nella quale, per altro, non compaiono né il futuro Gran Maestro Domizio Torrigiani né altri eminenti dignitari dell’Ordine) né risulta tra i nomi noti di affiliati al GOI. A socialisti e sindacalisti, in specie anarco-sindacalisti, l’iniziazione in Logge estere (specialmente dell’America Latina, meno rigide) fornì le credenziali minime per essere ricevuti in Italia, ma al tempo stesso la copertura prudenziale in una stagione di alternanza tra tolleranza e repressione, come si era veduto nel 1898-1899 quando anche il GOdI si prospettò la redazione di un repertorio apposito da esibire in

Benedetto Croce

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caso di richiesta perentoria degli elenchi degli affiliati da parte della magistratura inquirente e della polizia giudiziaria. In quel clima venne vietata l’iniziazione di funzionari di pubblica sicurezza, mentre rimase ammessa quella di graduati del corpo dei Carabinieri. 2 - La riforma della Costituzione del GOdI e la ventilata unificazione dei riti Tra il 1906 e il 1914 la Massoneria italiana visse una seconda stagione fitta di eventi tumultuosi, che la videro procedere per segmenti, segnati ora da importanti successi ora da pesantissimi scacchi. In soli otto anni si susseguirono tre diverse fasi principali: dapprima l’offensiva per la laicizzazione della pubblica istruzione e l’introduzione del suffragio universale (1906-1908); poi la battaglia difensiva contro cattolici, socialisti, nazionalisti e i sarcastici strali di Benedetto Croce (1909-1910); infine l’arroccamento ai margini delle istituzioni dalle feste per il Cinquantenario del regno alla guerra contro l’impero turco-ottoma-

no per la sovranità su Tripolitania e Cirenaica (1911-1912), seguita dal lungo silenzio e da schermaglie di retroguardia contro le roventi polemiche sulla liceità dell’appartenenza di militari e magistrati a una “associazione” che, quale appunto la Massoneria, esigeva il giuramento di fedeltà a principii e ad autorità non coincidenti con lo Stato. Quegli otto anni si chiusero con l’espulsione dei Massoni dal Partito socialista italiano, deliberata dal suo XIV congresso (Ancona, aprile 1914) e con alcuni mesi di quasi completa separazione dalla vita pubblica. L’“età di Ferrari”, che pareva dovesse procedere trionfalmente dopo la ricomposizione dello scisma del novembre 1904 e col riavvicinamento liberomuratorio italo-francese, fu contrassegnata da vicende interne laceranti: la riforma della Costituzione del Grande Oriente d’Italia (1906) e la deflagrazione del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato, due eventi concatenati, apparentemente lontani dal nesso tra l’Istitu17


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Filippo Turati

Antonio Labriola

zione e la vita politico-partitica-sociale del Paese. In realtà ne furono consustanziali: e tale intreccio è tra i motivi precipui dell’interesse che le vicende dell’Ordine rivestono per cogliere la complessità dei processi partitico-culturali in corso nell’età giolittiana. 18

Per intenderli occorre fermare l’attenzione sui regolamenti interni di alcune logge particolarmente rappresentative delle tensioni in atto nell’Ordine e, di riflesso, nei suoi rapporti con la vita pubblica. All’indomani dell’annunciata conciliazione tra GodI e GOI, il 31 gennaio 1905 sorse a Torino l’officina “Popolo Sovrano”, appartenente al Grande Oriente “in Milano”, ovvero al corpo guidato da Malachia De Cristoforis. Essa si dette per scopo l’ “abolizione di ogni privilegio sociale e politico” e l’ “attuazione di un programma francamente democratico, col concorso delle frazioni pure della Democrazia”. “La L.. - si legge nel suo Regolamento interno - accettando il R..Simb.. Ital.., si pone sotto gli auspici del G..O..Italiano residente in Milano, aderendo, conformemente al proprio programma, alle Costituzioni Generali dell’Ordine, per raggiungere la meta che si prefigge. I membri della L.., oltre ai doveri ed al giuramento istituito dal Governo Centrale, accetta-

no nel momento della iniziazione un Atto di Fede il quale potrà essere pubblicato nel mondo profano in qualunque tempo, modo e forma la L.. lo ritenesse opportuno”. Esso era così concepito: “Il sottoscritto, desideroso di far parte dell’ Associazione Popolo Sovrano, costituita in Torino al fine di tutelare il principio democratico contro ogni privilegio sociale e politico, attuale e futuro – principio democratico che pur essendo unito al principio anticlericale, va oltre dello stesso per fatalità del progresso e dei tempi – fa atto di fede all’ideale di sovranità popolare alla quale si inchinano le parti tutte della pura Democrazia, e autorizza i direttori dell’Associazione, nel caso di ritenuto bisogno da parte loro, di rendere pubblica la presente dichiarazione”. Identico Atto di fede andava sottoscritto dai Fratelli visitatori, che pertanto si esponevano al rischio di vedere i loro nomi pubblicati “nel mondo profano” per decisione dei “direttori” in un futuro anche remoto e per motivi insindacabili, come nel 1867 era accaduto a Carducci e agli altri componenti della loggia “Felsinea” di Bologna (Francesco Magni, Luigi Cremona, molti ufficiali...) i cui nomi, in violazione dei principi dell’Ordine, furono vendicativamente propalati dal Gran Maestro Ludovico Frapolli. A differenza di quanto avveniva nella generalità delle Logge, gli iniziandi alla “Popolo Sovrano”, oltre ai giuramenti di rito erano tenuti a pronunciarne un altro e più vincolante. Senza ricevere smentita alcuna, lo rivelò Attilio Cabiati, liberista ma attivo collaboratore della rivista “Critica sociale” e di organizzazioni operaie, nella lettera pubblicata nel quotidiano “La Stampa” di Torino, diretta da Alfredo Frassati, quando se ne dimise (10 marzo 1906) per effetto del referendum con il quale il partito socialista aveva dichiarato incompatibile la doppia appartenenza. “Per mio conto –egli scrisse – reputo impolitica tale decisione in questo momento, e me ne duole, tanto più che la nostra Loggia “Popolo Sovrano”, sorta come reazione contro la vecchia e imputridita Massoneria, esige dai suoi membri la triplice dichiarazione di fede anticlericale, antimilitaristica ed antimonarchica, che risponde perfettamente ai canoni del partito socialista”. Quest’ultimo, però, a suo dire, inglobava la Massoneria “precisamente come il


Milano, 1906 - Esposizione Universale

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più comprendeva il meno”, sicché quanti volessero perseguire l’obiettivo supremo enunciato dall’Atto di fede, la “sovranità popolare”, potevano farlo attraverso il partito e “alla luce del sol dell’avvenire” anziché in “congreghe senza tonaca”, come nel febbraio 1904 Ettore Ciccotti aveva definito la Massoneria, in convergenza con Filippo Turati secondo il quale “i socialisti non potevano non essere antimassonici”18. 3 - Il primo referendum del partito socialista sulla compatibilità con le logge Nell’VIII congresso nazionale del Partito socialista (Bologna, 8-11 aprile 1904) G. Giunti presentò le sue conclusioni sull’XI punto dell’ordine del giorno: il partito e la Massoneria (pubblicate in opuscolo, Imola, Galeati, 1904). Sulla ormai spinosa questione venne indetto un referendum all’interno del Psi per decidere sulla compatibilità tra il partito e le Logge. In vista del pronunciamento, il 26 aprile 1905 il Gran Maestro del GOdI chiese “personalmente ed in forma riservatissima” ai Venerabili di domandare ai Fratelli iscritti al Partito socialista se, ove fosse stata deliberata l’incompatibilità, intendessero rimanere in loggia o allontanarsene e di inviargli i nominativi

degli interpellati “con a fianco del nome di ognuno la risposta precisa che vi daranno”. La partecipazione al referendum fu quantitativamente modesta (11.776 sui 37.921 iscritti al partito), ma i votanti si schierarono quasi compattamente contro la doppia appartenenza (10.075), mentre 9.163 chiesero che i “compagni massoni” scegliessero tra partito e loggia per mettere fine alle continue frizioni e ai malintesi all’interno del Psi e tra il partito e gli alleati (radicali, repubblicani, democratici, liberali progressisti), sia nelle elezioni politiche sia, e soprattutto, nelle amministrative. Poiché l’affluenza fu lontana dal 50%, il referendum risultò non valido, ma influì sull’orientamento del Grande Oriente. Senza mai assumere veste ufficiale, il flusso dal socialismo alle Logge e viceversa non si era fermato all’iniziazione di Andrea Costa. Il 12 novembre 1888 aveva bussato alle porte della “Rienzi” di Roma Antonio Labriola, l’unico italiano ritenuto “socialista scientifico” da Friedrich Engels. Il filosofo decise il passo dopo oltre due anni di colloqui con Luigi Pianciani, al quale si rivolgeva appellandolo “Illustrissimo sig. Conte”. Le informazioni di rito raccolte sulla sua ammissibilità alla Loggia furono discordanti. A giudizio di Bac-

ci “la scuola massonica” ne avrebbe fatto un “elemento utile all’idea della Istituzione”, sicché andava accolto . Anche secondo Umberto Dal Medico l’educazione massonica ne avrebbe corretto i difetti, quali il desiderio “di popolarità e fortuna politica”. Sollecitata alla vigilia di un turno elettorale per lui sfortunato, l’iniziazione non è certificata. Sono note, invece, le sue polemiche antimassoniche degli anni successivi19. Il suo caso, però, fu per molti versi un’eccezione. La regola fu tutt’altra, come conclude Marco Novarino: sui 1255 “socialisti” (di varie denominazioni) candidati alla Camera tra il 1892 e il 1924 ben 377 risultano massoni: il 25%. Nei mesi precedenti l’Assemblea della Massoneria italiana (Roma, 22 febbraio 1906) a spingere per un manifesto spostamento “a sinistra” dell’Ordine non fu solo la “Popolo Sovrano” di Torino. Di identici fermenti si fecero portavoce la loggia “Avvenire sociale” di Reggio Calabria, sorta dalla gemmazione (ma in quel caso fu scissione) della “Domenico Romeo” e animata da socialisti pugnaci, come Eugenio Boccafurni e Gaetano Ruffo, e la “Bruzia-Pietro De Roberto” di Cosenza, ispirata dal suo Venerabile, Oreste Dito, che nel 1905 si affermò 19


bero esame ed il Sillabo. Nessun inganno, dunque, nessun equivoco: scelga ognuno la propria via: per noi non v’è transazione possibile [...]. La libertà di coscienza, l’assoluta separazione dell’autorità civile dall’ecclesiastica, la perfetta laicità della scuola, la sincera applicazione delle leggi sulle corporazioni religiose e la conversione di tutte le Opere pie a scopi civili, questo noi reclamiamo, questo deve affermarsi sempre e dovunque, nei comizi, dalle cattedre, nel parlamento21”. ______________

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Note:

Milano, 1906 - I reali visitano l’Esposizione Universale

con la corposa e dotta opera Massoneria, Carboneria ed altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano20. Il dibattito preparatorio si incentrò prevalentemente sulla organizzazione del governo centrale e dei suoi rapporti con le logge. Ne furono interpreti la loggia “Peucezia” di Bari, che il 15 gennaio 1906 diramò un’ampia Tavola con minuziose proposte di riforma degli articoli 63 e 64 delle Costituzioni (sul delicato tema delle relazioni tra i Riti e della loro rappresentanza in seno al Grande Oriente, cioè nel “parlamento” che la Assemblea era chiamata a eleggere, e nell’ambito della Giunta esecutiva) e i documenti conclusivi di numerose riunioni regionali, come, per esempio, la Conferenza Interregionale delle logge dell’Emilia e delle Romagne (28 gennaio 1906, a ridosso dell’Assemblea generale). Premeva però soprattutto chiarire la po20

sizione del Grande Oriente nei confronti della vita politico-istituzionale del Paese. Ettore Ferrari l’affrontò nella circolare 84 del 1 gennaio 2658 a(b). u(rbe) c(ondita), ovvero 1906. Vi affermò che erano “compatibili con la Massoneria tutti i partiti progressisti, incompatibili tutti i retrivi [...]” e che era esclusa qualsiasi “dedizione(sic) o transazione con tendenze clericali o reazionarie”. Nella circolare Ferrari proclamò l’intransigente incompatibilità tra la Massoneria e la chiesa cattolica: “Non tolleriamo la formazione in Italia di un partito cattolico politico: esso è parricidio e menzogna [...]; la conciliazione, errore o menzogna, non deve consentirsi: dobbiamo combatterla. Lo Stato, secondo la mente moderna, è termine inconciliabile con la Chiesa, come termini inconciliabili sono la scienza e la rivelazione, l’evoluzione del pensiero ed il dogma, il li-

12 Il carteggio in quei giorni corso tra Lemmi e Crispi in Aldo A. Mola, Adriano Lemmi gran maestro della Nuova Italia (1885-1896), pref. di Armando Corona, Roma, Erasmo, Equinozio di primavera 1985, pp. 204 e ss. V. altresì Ferdinando Cordova, Massoneria e politica in Italia. 1892-1908, Bari, Laterza, febbraio 1985; un fugace cenno in Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo, Bologna, il Mulino, 2003, p.143. La fede di Lemmi in Dio è attestata, fra altro, dalla sua lettera (da Torino, il 24 novembre 1863) alla famiglia Pulsky: “Poveri genitori! Noi non abbiamo parole per spiegarvi il dispiacere che sentimmo per la partita del vostro Giulio. Ne (sic) troviamo espressioni di consolazioni da porgervi: destinati a soffrire, dobbiamo sopportare con rassegnazione la perdita dei nostri cari, conservando intiero oltre la tomba quell’amore del quale li circondavamo quand’erano in mezzo a noi. Dio solo, e l’affetto de’ figli vostri saranno unico sollievo a tanta sciagura. Noi pregando per voi vi mandiamo il bacio dell’amicizia”. 13 Romano Ugolini, Ernesto Nathan tra idealità e pragmatismo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003. V. altresì Alessandro Levi, Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan, Firenze. Enrico Ariani, edizione fuori commercio), 1927; ristampa a cura di Andrea Bocchi, Pisa, Domus Mazziniana, 2006. Su Nathan v. inoltre AA.VV., Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan. Atti del Convegno di Studio (Roma, 28-30 maggio 1984), Roma, Edizioni dell’Ateneo,1986; e AA.VV., L’Italia laica dalla fine del secolo alla prima guerra mondiale. Atti del convegno di studi Firenze 3-4 maggio 2002, Firenze, Le Monnier, 2003. 14 V. Giuseppe Schiavone, Scritti massonici di Ernesto Nathan, Foggia, Bastogi,1998; Anna Maria Isastia, Scritti politici di Ernesto Nathan, Foggia, Bastogi, 1988; Ernesto Nathan, Noi massoni, Foggia, Bastogi, 1993 (con una sua biografia di Salvatore Loi). Sul processo Murri v. Valeria P. Babini, Il caso Murri. Una storia italiana, Bologna, il Mulino, 2003. Murri non compare né nella matricola generale del Grande Oriente né in alcun piedilista. Per il suo so-


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Storia

dalizio con i massoni bolognesi v. Aldo A.mola, Giosue Carcucci scrittore, politico, massone, Milano, Bompiani, 2006, e Marco Veglia, La vita vera. Carducci a Bologna, Bologna, Bononia University Press, 2007. Per una sua rievocazione v. Antonio Gnudi,Augusto Murri, Bologna, Tip. Parma, 1941-XX, ove non si rinviene alcun cenno alla Massoneria bolognese. I piedilista delle logge felsinee in Carlo Manelli, La Massoneria a Bologna dal XVIII al XX secolo, pref. di Manlio Cecovini, Bologna, Analisi,1986. 15 A.P. 16 Andre’ Combes, Histoire de la Franc-Maçonnerie au XIX siècle, vol. II, Les questions militaires, l’affaire des Fiches et l’année 1905, Paris, Ed. du Rocher, 1999. pp. 312-30. ID., La Massoneria in Francia dalle origini ai nostri giorni, Foggia, Bastogi 1986. 17 Pedro Alvarez Lazaro, Libero Pensiero e Massoneria. Convergenze e contrasti tra Otto e Novecento, trad. di Attilia Maggio, Roma, Gangemi, 1991. 18 Cfr. A. A. Mola, Storia della massoneria..., cit.,p. 310. L’economista Attilio Cabiati non fi-

gura nella Matricola generale del GOdI (ove compare un altro Attilio Cabiati, contabile, di Casale Monferrato, classe 1882, iniziato nella locale loggia nel giugno 1911): a conferma della non esaustività della Matricola stessa per l’accertamento degli effettivi della massoneria italiana. Sulle dimissioni di Cabiati, clamorose sia per la motivazione sia perché rese pubbliche tramite la lettera a “La Stampa”, torna Marco Novarino,Compagni e liberi muratori. Socialismo e massoneria dalla nascita del Psi alla grande guerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, p.105. Dello stesso v. Tra squadra e compasso e Sol dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano, Torino, Università popolare di Torino, 2013. Dopo la fusione del GOI nel GOdI la loggia “Popolo Sovrano” venne iscritta tra le officine del Grande Oriente il 12 ottobre 1905 . Fu più volte sospesa per la sua pretesa di far pronunciare agli iniziandi il giuramento di fede anticlericale, antimonarchica e antimilitarista e venne demolita con decreto dell’11 dicembre 1913 perché raccomandò pubblicamente due candidati a elezioni politiche (Vittorio Gnocchini, Logge e massoni in

Piemonte e Val d’Aosta, presentazione di Fulvio Basteris, Cuneo, Polografico,2008, p.103). 19 La richiesta di iniziazione di Antonio Labriola, con i pareri in proposito espressi, venne pubblicata in fotografia in I massoni nella storia d’Italia, a cura di A. A. Mola, Catalogo della Mostra, Torino, Assessorato alla Cultura, 1980, pp.103-104; poi in A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana, op. cit., Appendice III, Antonio Labriola tra le colonne, pp. 867-880. 20 Roma-Torino, Roux e Viarengo, 1905 (Ristampa anastatica, Sala Bolognese, Forni, 2005). Dito dedicò l’opera al figlio Francesco “perché s’educhi alla scuola del lavoro e della libertà”. 21 Una citazione parziale della circolare, pubblicata in Rivista Massonica, novembre 1905, in F.Conti, cit., p.177. In successiva circolare il gran maestro esortò i Massoni a non dichiarare l’appartenenza alla Chiesa cattolica nelle risposte al Censimento degli Italiani (1911): forse 20.000 su circa 34.500.000 abitanti. P.10/21: Vedi testo e didascalie delle figure.

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Il figlio della Verità

Veronica Mesisca

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o sono il Figlio della Verità 1 è scritto nella bara che culla il Maestro. Nato alla luce di tre Magi in una notte del Solstizio d’Estate, con l’avvento preannunciato da una Stella Fiammeggiante, il povero cavaliere delle Grazie rinascimentali – o della trinità cristiana, a onor di Storia – inizia la crociata dichiarandosi “costantemente pronto ed armato per combattere i funesti pregiudizi [e] difendere la Carità, la Verità, la Virtù contro i nemici interessati a proscriverle”1. Il Maestro Figlio della Verità, ritualmente chiamato alla battaglia, tra l’altro con la nobile armatura cavalleresca, non può quindi esimersi dall’indagare l’oggetto di difesa, pur consapevole che, come avvisa Ariosto, rischia di smarrire il senno nella ricerca di quella Verità che nei tempi si è dimostrata essere una Terra Santa difficile da custodire, tanto più da liberare o conquistare come vuole il Tasso… Individuarla, scindendola dal falso che nell’Arte Reale prende la forma di “ignoranza, pregiudizio e superstizione”1, non è infatti banale poiché questi concetti così modernamente definiti, parrebbero aver tratti ben più sfumati nell’antichità storica, ove verità e credenza paiono – a titolo personale ovviamente – perdersi nella remota arte misterica, genericamente indicata con il termine alchimia. Questa pratica, di derivazione etimologica incerta stando alla storiografia odierna, pare abbia lasciato tracce risalenti a 30.000 anni a. C. nell’Antico Egitto, ma anche in Assiria e Babilonia, in Cina, nell’India Vedica, e oltre… trasversalmente la geografia e la storia, tanto da indurci a definire, ma solo in codesta sede, l’Arte Alchemica come complesso di conoscenze antiche di cui v’è possibile trovare traccia ovunque vi sia stato uomo di autentica ricerca, quindi come Arte del Sapere Universale, limitando comunque la sua indagine nelle terre dell’Antico Continente. Un sapere, pare opportuno precisare, non astratto, ideale e distaccato dal mondo naturale, ma impregnato del frutto del lavoro, dell’opera (grande) di analisi e studio del Creato mediante conoscenze specifiche, tecniche e pratiche quali la forgiatura dei metalli e delle leghe, la tintoria, la lavorazione del vetro, la preparazione di prodotti farmaceutici antisettici, la medicina ostetrico-ginecologica e pediatrica, la definizione di calendari, la previsione dei

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moti planetari, la numerologia e molto altro ancora… Di fatto, in questa ottica, il Mare Nostrum era, prima e durante l’Europa di Roma, un bacino alchemico ove, tra una guerra e l’altra, Ebrei, Greci, Romani, Fenici, Babilonesi, ma persino, tramite quest’ultimi, Assiri e Caldei, contesero e condivisero, oltre ai domini territoriali, anche le conoscenze relative all’Arte iniziatica del Sapere, venerata come sacra e difesa come tesoro tangibile, poiché legata al progresso sociale e al benessere pubblico di tutti i popoli mediterranei. Un’arte, quindi, custodita – che non è occultata – da Eletti Sacri penetranti i Misteri, la cui sapienza era costantemente nutrita da quel bagno comune ove i numeri arabi si confrontavano a quelli pitagorici, le conoscenze metallurgiche egizie tro-

vavano corrispettivo nei sette pianeti conosciuti dai Fenici e la magia gemmaria persiana, sovente espressa in amuleti, alimentava gli studi delle sacre stanze egizie, ove si riuscì incredibilmente già a imitare artificialmente le preziose pietre. Eppure questo Impero di Sapere dell’Antico Continente è andato, incredibilmente, via via perdendosi lungo il corso della Storia… re magus, maestri di sophia, sacerdoti del naos, hierogrammateus, faraoni, filosofi taumaturgici, sacerdoti assiri e caldei hanno perso l’Alchimia… naufragata nel Mare Nostrum insieme a Roma. Inutile – almeno in tal sede – soffermarsi sulla presunta rinascita del sapere alchemico avvenuta nel periodo ellenistico, ove l’originaria Arte con la sua imprescindibile tecné, lungi dall’essere ripresa, ricompare solo, e nella limitata pratica metallurgi23


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ca, come maschera criptica di una diffusa filosofia ermetica, bisognosa di occultare all’autorevole Chiesa Cristiana il proprio messaggio speculativo di natura introspettiva (germe morale, forse, del latente protestantesimo), che comunque si distingue sostanzialmente dall’originaria Alchimia, come rivela l’evidente differenza espressa nella distinzione dei metalli ermetici da quelli volgari, anticamente realmente fusi e forgiati nei templi sa24

cri dell’Antico Egitto. Volendo comunque tentare di rintracciare il sapere antico nella sua autentica natura, visto il carattere universale, parrebbe logico piuttosto ritenere l’Arte precursore della scienza che, nella sua forma chimica, da essa parrebbe poter prendere addirittura il nome. Tale disciplina, infatti, oltre alla dicitura, ha in comune con l’alchimia sia l’uso di formule di reazione proprie che, pur rimanendo precluse alla categoria di me-

stiere, sono caratteristica simbolica indispensabile alla preservata volontà di universalità; sia il fatto che, senza de-naturare la disciplina originaria, ha appunto mantenuto intatto l’autentico oggetto di ricerca, continuando l’opera alchemica di indagine del creato. Lo scienziato, o il chimico nello specifico, attua la trasformazione fenomenologica in un laboratorio che è athanor concreto di uno spazio-tempo controllato e soggiogato all’uomo, ponendosi quindi quale Signore della Natura… una Natura, però differente da quella antica, poiché ora priva di carattere ieratico, indi non più sacra. D’altra parte, in un mondo moderno ove il rituale è diventato religione, alla scienza, forse, non rimaneva altro che de-sacralizzare la sua opera e l’oggetto dei suoi studi, come ben appare dalla spoliazione del prefisso Al- alla parola chimica… La mancanza di Al-lha nella chimica moderna assume così il ruolo di tributo imposto alla scienza per preservare il carattere universale del sapere alchemico, come dazio di passaggio della conoscenza da una terra all’altra di quel Mare che, nel non essere più Nostrum, si riduce necessariamente a frontiera con pedaggio. Tributo, come ben noto, espiato simbolicamente da Galilei con la definizione di un metodo scientifico universale… che poi, per rigore storico, pare opportuno precisare che il metodo in causa non fu da lui definito, ma semplicemente usato,


così come pare necessario specificare che il maestro pisano non fosse stato il primo ad avvalersene ma, come spesso accade, ciò che lo distinse dai suoi filosofici predecessori (la Scolastica e Cartesio ne sono noti esempi) fu il momento storico e la ben nota abiura. Abiura che, nel gesto, suggellò la perdita del sacro nella verità scientifica… ma non per la comune opinione della celebre guerra tra fede e scienza che, purtroppo – mi si conceda di aggiungere – non hanno terra in comune, avendola così ben spartita e definita da alimentare, a livello volgare, l’ovvio nazionalismo scientifico da un lato e teocratico dall’altro, magari oggi pacificamente coesistenti e talvolta persino collaboranti, ma sempre preservando un’intrinseca distinzione l’una dall’altra. A rigore di logica, più che di storia, per quanto riguarda Galilei, l’abiura fu piuttosto dovuta, non al timore di labili ripercussioni, visto l’evidente atteggiamento benevolo della Chiesa nei suoi confronti, ma a onore di quel metodo che lui stesso aveva usato per la definizione del vero. Infatti, allora lo scienziato era accusato – e giustamente – di voler affermare il noto modello di sistema solare copernicano, senza però prove empiriche a supporto. Mancante di osservazioni sperimentali che avvalorassero inconfutabilmente il Sistema Massimo, egli non poteva ovviamente pre-dicarlo per vero! Tant’è che il noto detto “eppur si muove”2, presupponente la prova empirica, non è affermazione di Galilei che, invece, con rettitudine e onestà scientifica, esordisce il suo più celebre dialogo specificando che ha “presa nel discorso la parte copernicana [e non tolemaica], procedendo in pura ipotesi matematica [poiché] tutte la esperienze fattibili sulla Terra essere mezi insufficienti a concluder la sua mobilità, ma indifferentemente potersi adattare così alla terra mobile come anco quiescente”3. L’abiura era, perciò, coerenza a sé stesso e sottile inno alla sua Scienza… o meglio, a quella “proposizione verissima”3 con cui egli stesso invitava i savi a differenziarsi “da Aristotile e […] dalla dottrina de i Pittagorici [lasciando] le vaghezze a i retori”3. Egli, rimettendosi per primo alle sue leggi e riconoscendo la non verità della sua tesi, assunta solo come pura ipotesi, avvalorò il metodo, distinguendosi così a livello storico da tutti gli illustri filosofi predeces-

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sori come primo scienziato moderno… scienziato che, storicamente, non sarebbe mai divenuto se, come altri prima di lui, si fosse fatto ardere dalla superstizione, nel significato etimologico di stare sopra. Con l’abiura di Galilei, elemento di completa sottomissione dell’uomo scientifico alla sua Verità e alla sua Legge, è nata ufficialmente quell’Alchimia priva di Al-lah che ancor oggi obbliga gli scienziati moderni a estraniare il divino dal laboratorio di ricerca. Frattura im-per-donabile, che tuttavia si fa dono inevitabile dal momento che, già da secoli, Allah era stato sottratto alla Natura dalla simbolica figura di Mosè che, nel monoteismo rivelato, aveva posto il Creatore sopra il Creato, verificando – nel senso proprio di conferire carattere di verità – la scissione dell’alto dal basso, del Cielo dalla Terra, del pio dall’empio… Da qui ci pare di poter individuare il noto paragone a l’Hermes greco protettore dei ladri, sottrattore al mondo fenomenologico dell’intrinseca presenza divina, così come anche all’analoga figura mitica di Ermete Trismegisto, quanto Maestro Sommo delle tre grandi religioni monoteistiche, che, lungi dall’essere anti-

co mago alchemico, nel periodo ellenico – ove si edificò appunto il Duomo senese che lo celebra in ingresso – parrebbe fungere da perfetta maschera al Profeta del Sinai, tanto da aver attribuito, nella leggenda, anche a Ermete una fittizia Tavola di Smeraldo che, nel predicare l’analogia, avvalora l’antitesi e cela la frattura espressa dalle tavole mosaiche. Simbolici punti di svolta delle due più grandi rivoluzioni moderne, Mosè e Galileo, nel loro essere rispettivamente legislatore teocratico e naturale, hanno introdotto nel sociale il concetto di verità odiernamente ambivalente nella parte religiosa e scientifica. Come il re di Tiro, il sapere del Mare Nostrum è inevitabilmente naufragato nella verità... scisso in un codice, una legge… anzi la legge, quella legge talmudica del “verum, sine mendacio certum et verissimum”4 che avrebbe nei secoli futuri regolato il regno dell’uomo e la sua condotta morale, analogamente a come il metodo scientifico si farà regolatore del regno naturale con la sua moltitudine di principi matematici. D’ora in poi, per il dèka lògous inciso sul monte dell’odio, “non avrai altro Dio 25


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all’infuori che me”5, altrimenti detto “non avrai altri Dei di fronte a me”6… Ovvero, non avrai altra verità se non la mia o comunque non la confronterai alla mia, quindi, volendo essere precisi, il dio di Mosè – forse vista la lunga permanenza in Egitto – non afferma che non esista un’altra verità, ma dice espressamente che tu, uomo, non la avrai… sarai fedele a me. In ciò, sostanzialmente, la concezione moderna di verità come fedeltà… una fedeltà storicamente implicante, che gli altri, ovvero gli uomini che non sono fedeli all’una o all’altra verità, saranno d’ora in poi etichettati come adoratori di falsi Dei, quindi infedeli, volgarmente detti pagani, miscredenti, empi, eretici, superstiziosi, impuri, viziosi, peccatori… con tutto ciò che ne deriva. Di fatto, tornando al tema, d’ora in poi i custodi Eletti dell’antico sapere si trasformano da Re Magi, quali mediatori Sacri nel proprio significato escatologico, in fedeli paladini dell’ematica Verità sbocciata dal Sapere, chiamati infatti a consacrarsi nella spada, come sulla croce dal cui centro sanguigno ri-fiorisce una damoclea corona di spine, ormai necessariamente non più regale. Questo è AdonHiram, il profeta mussulmano, il giudice ebraico, il cristo martire, il genio scientifico, il filosofo iniziato… o in generale l’Eletto Cavaliere di quella celestiale verità che esige uomini Kadosh, o meglio, del Kedushah, costretti a ergersi in punta di piedi per farsi Santi, staccandosi così dal terreno mediante l’abbandono dei metalli alchemici e poter raggiungere la purezza necessaria ad “essere condott[i] sopra ali d’aquila nel regno superiore”7 a rigor del testo biblico. Detto ciò, “Io sono il Figlio della Verità” resta scritto nella bara che culla il maestro. Ma questa Verità non si può affermare. Non è possibile affermarla né con il principio parmenideo di non contraddizione e del terzo escluso che, nell’identità, genera il nazionalismo di pensiero; né, però, si può affermare con il riconoscere parimenti tutto per vero che, irresponsabilmente, fonda la ben nota ambivalenza democratica. Ergo per cui la Verità non si afferma in una religione teoclasta che rende il sacro soprannaturale umiliando il corpo chi-


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mico nel peccato volgare; parimenti non si afferma in una scienza che assume la dogmatica credenza di un creato inanimato, pregiudicando indi il superstizioso; ma, la Verità, pare bene precisare, nemmeno si può affermare in quell’alchemico sapere antico che, nel suo totalitarismo, non ammette la salvezza. Ne consegue che il Maestro costruttore non possa ambire ad un progetto basato sull’affermazione di un a-teismo che rinnega il sacro, di un politeismo che cela l’unico alle masse, di un monoteismo che degrada la diversità, e nemmeno sull’affermazione di una tanto e-voluta fittizia laicità (laikos) che, di fatto, non essendo popolare, è condannata al mondo platonico ideale senza poter concludere alcuna pace in terra. La Verità, seppur assolutamente certa, stabile e con-creta, non si può affermare poiché l’uomo, sottoposto allo scorrer del Tempo, la può percepire solo come aleukos greca, perpetua privazione dell’oscuramento che risorge nella negazione e, se a-fermata, si assidera nella realtà di fatto… da ciò la figura di un cavaliere perennamene errante, di un amor cortese mai corrisposto, della ricerca infinita e

ricorrente sulla scala del sapere… e non perché la Verità sia essenzialmente irraggiungibile o perché abbia natura intrinseca mutevole, ma perché essa è in-fermabile in un mondo in divenire obbligato a descriverla nella ambivalenza bifronte come perenne alternanza solstiziale. Perciò al vero profeta, come il testo rivelato insegna, non rimane che la distruzione della tavola ove la verità incisa, perdendo sé stessa, trasmuta nel vello d’oro cha ancor oggi idolatriamo. E, ovviamente, non fu solo Mosè giunto all’amara comprensione che non si può affermare alcuna aletheia, ma anche molti altri socratici profeti… biblicamente tutti salomonici giudici senza legge, custodi di quella Verità che si svela nella menzogna, sapientemente in-dotta dalla Saggezza … l’unica reale detentrice della grazia involta celata da una moderna verità spezzata che, come chiave rotta del Sapere Universale, non può aprire il tabernacolo divino senza, come dimostra la moderna scienza, disperdere l’onda aleatoria inverificabile nel suo complesso… In questo, forse, la Verità del Maestro. Quella Verità che, se mai affermata in

niente e in nessun luogo, si può vedere chiaramente risedere silenziosa in un pantheon circolare di pensiero ove lei, fonte del gorgo, è la calma vacanza al centro che si scolpisce a terra e trafigge il cielo, vacanza nel Mezzo della Camera ove il Vero Maestro – non resta, ma – torna liberamente al silenzio originario… perché, finendo, l’Agg Sein Hagg, giunto a tale punto della storia, sa di dover necessariamente perdere la parola. ______________ Bibliografia: Rituale III G. Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M., Ed. EDIMAI, Roma 2008. Vita di Galileo. B. Brecht. Ed. Einaudi, Torino, 1963. Dialogo dei Massimi Sistemi. G. Galilei. Ed. Oscar Mondadori, 1996. Tabula smaragdina, in De Alchemia. J. Patricius, Norimberga, 1541. La Sacra Bibbia. Esodo 20, 3. La Sacra Bibbia. Deuteronomio 5, 7. La Sacra Bibbia. Esodo 19, 6. P.22/27: Quadri di Loggia ed illustrazioni massoniche.

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Giuliano Boaretto Monica R. Rivolta

Raimondo Lullo o dell’Alchimia 28


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u Raimondo Lullo un alchimista? Per rispondere a questa domanda in modo oggettivo è opportuno suddividerla in due parti, specificando cosa è Alchimia e chi fu Raimondo Lullo. La prima: definire Alchimia significa parlare dell’Ineffabile. E l’ossimoro già spiega la difficoltà. Certo, chiunque abbia studiato la Storia sa che il Medioevo fu epoca di copiosi studi alchemici in Europa: Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Arnaldo da Villanova, Nicolas Fla-

mel , solo per citare alcuni nomi famosi. Uomini animati dall’amore per la Conoscenza, “ ... fatti per seguir virtute e canoscenza”, per dirla con il sommo poeta. Uomini per cui era impossibile contemplare la dimensione fisica separata da quella metafisica e viceversa . Ancora, potremmo vedere come da Ermete Trismegisto (figura mitica cui fu attribuito il Corpus Hermeticum, testo pervenuto in Europa nel XV secolo e tradotto da Marsilio Ficino) il Sapere dell’antichità egizia e greca, passando attraverso gli studi greco-alessandri-

ni e islamici, migra e arriva fino a Newton; oppure potremmo cercare i punti in comune tra il Sapere sviluppato nel bacino del Mediterraneo e quello cinese e indiano. Infine, potremmo distinguere tra Alchimia operativa e speculativa... Ma diverso è dire cosa è Alchimia, termine dall’etimologia incerta, riferibile con buona probabilità al greco χυμεία, fondere, colare.., e perché ha senso parlarne oggi. La seconda: Raimondo Lullo, chi era costui? 29


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Sia perdonata la citazione manzoniana, ma davvero ci si sente come don Abbondio con Carneade, di fronte a questo incredibile personaggio dalle molteplici sfaccettature e su cui sono stati scritti fiumi di parole. È vero, però, che quando si scrive troppo e in modo non univoco su di un argomento, significa che si è lontani dal comprendere la natura dell’argomento stesso. Allora facciamo tabula rasa e approcciamo Lullo come una persona appena conosciuta, da scoprire non attraverso ciò che è stato detto di lui, ma attraverso la sua vita, narrata nella Vita Coetanea, testo autobiografico, dettato e scritto nel 1311 da Lullo stesso. L’intento vuole essere quello di provare a mettere in luce, con rispetto e umiltà, le fasi del processo di trasformazione, di evoluzione di un uomo arso e reso puro dal Fuoco Sacro della Ricerca Interiore: sublime dimostrazione del processo alchemico “in vivo”. Data la caratura del filosofo, definito alternativamente Phantasticus o Illuminatus, una vera e propria impresa, affrontata per punti, o meglio, per spunti..., ma, soprattutto, approcciata senza alcuna pretesa di essere esaustiva. Raimondo Lullo nasce sull’isola di Maiorca, appena riconquistata alla cristianità e perciò in un crocevia di culture: provenzale, araba, ebraica. La data di nascita è incerta, 1232 o 1233 , forse a causa del difficile reperimento dei documenti o forse perché 1233 è un nu30

mero “particolare”... La famiglia d’origine è nobile e all’età di 14 anni diviene Siniscalco alla corte del re, paggio personale del futuro re Giacomo II. Gli anni della giovinezza sono dediti alle licenziosità mondane (“alias lasciviis seculi deditus esset nimis”, per usare le sue parole): alla poesia trobadorica, al ballo, all’arte venatoria, agli amori ... che nemmeno il matrimonio e due figli riescono ad arginare. Intorno ai trent’anni (altro numero caro a certa tradizione...) riceve l’apparizione del crocefisso, mentre è intento a scrivere una canzone d’amore, ma non si cura della visione se non alla quinta volta, in cui, preso da timore, realizza la richiesta di conversione: “ ... passò quella notte nella veglia e nel travaglio interiore. Infine, per concessione del Padre dei Lumi, meditó la clemenza, la pazienza, la misericordia di Cristo, che ha usato e usa con ogni peccatore; e così realizzó in modo definitivo che Dio voleva che lasciasse il mondo e che da allora mettesse il proprio cuore interamente al servizio di Cristo”. Inevitabile osservare le numerose analogie tra la conversione di Agostino d’Ippona e quella di Francesco d’Assisi: le biografie dei santi si somigliano un po’ tutte, è la tradizione... Forse il vero tratto in comune a tutti è il desiderio inconscio di cambiare vita, sostenuto dal senso di vuoto che dà il non costruire nulla e che, inquadrato in un’ottica di fede, prende la dimensione dell’intervento divino.

Ma, quanto la cosiddetta Illuminazione deriva da un processo di autocatarsi, spinto dall’anelito verso uno stato di perfezione di cui si può solo intuire l’esistenza? Nel pensare a come meglio servire Dio, Raimondo si propone di “convertire al culto e al servizio di Cristo i Saraceni, che circumcingunt numerosi i cristiani da ogni parte”. E per far ciò scriverà “ un libro, il migliore del mondo, contro gli errori degli infedeli”, cercherà di ottenere dei “monasteri per l’apprendimento delle loro lingue” e, nel caso, “sopporterà la morte per Cristo”. Come non cogliere la paura del “ Diverso”, che lo slancio di conversione esorcizza, aspetto squisitamente umano e quanto mai attuale? E come, nel contempo, non vedere lo sforzo di avvicinarsi all’altro per comprenderlo al meglio? Poi, il disfarsi dei beni materiali, i pellegrinaggi, il viaggio a Parigi e il rifiuto di Raymond di Penafort dell’Ordine dei Predicatori, il ritorno a casa e lo studio multidisciplinare da autodidatta, l’apprendimento dell’arabo da uno schiavo riscattato sono tappe di una crescita che lo porteranno verso il concepimento, intorno ai quarant’anni, di una Grande Opera, la cui ispirazione Raimondo attribuisce a Dio, mentre è in meditazione sul monte Randa, in Maiorca. “Mentre se ne stava a contemplare intensamente il cielo, d’improvviso il Signore gli illuminò la mente e gli fece apparire chiara la firma è il modo di comporre quel libro ... contro gli errori degli infedeli”. L’Ars Magna o Generalis, cui Lullo dedicherà tutta la sua lunga esistenza: “ trattando dei principi, da quelli molto generali a quelli più particolari, secondo la capacità dei semplici, così come l’esperienza aveva già insegnato a lui”. Tutta la sua cultura, il suo essere filosofo e teologo, neoplatonico e antiaverroista, estimatore di Agostino e Avicenna, ma anche del tomismo di Aristotele, le sue nozioni sull’Islam e sul giudaismo confluiranno nell’Ars Magna. Da quel momento sarà un frenetico scrivere, elaborare, correggere e riscrivere , come se i suoi trecento e oltre testi, apparentemente su argomenti diversi, fossero nient’altro che stesure sempre più raffinate e mirate al compimento ultimo di un “sistema di interpretazione del reale con caratteristiche essenziali di stabilità


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e permanenza”, come sostiene lo storico Alessandro Musco. Il suo è un nuovo ordine del Sapere: in una ruota a cerchi concentrici pone le Dignitates, attributi di Dio, sul cerchio esterno, e su altri due cerchi interni pone i fenomeni naturali e le loro qualità; ruotando i cerchi si compie un’operazione analogica di combinazione. Il cerchio esterno è immobile, mentre i due interni si muovono per emanazione: la Conoscenza e la Scienza hanno origine dal divino. Sarà Giordano Bruno, in seguito, a cogliere il profondo scarto tra metodo e contenuto, e a costruire la sua Arte rendendo mobili tutti e tre i cerchi, quindi innescando un processo cognitivo che ha al centro non Dio, ma l’Uomo. Un Uomo il cui spirito trova il suo centro in Dio e ha circonferenza finita, e un Dio che ha centro in ogni luogo e ha circonferenza infinita. Per l’epoca, però, l’Ars lulliana è già una rivoluzione innovativa, perché è meto-

dologia di dialogo tra le religioni, pur nell’intento apologetico di convertire al vero Dio e, quindi, di dimostrare con strumenti razionali la supremazia del cristianesimo. Lullo usa il catalano per comporre, si può dire che crea il catalano, coniando anche nuovi vocaboli, ma scrive anche in latino e in arabo al fine di far giungere il sapere al maggior numero di persone possibile. Tuttavia gli risulta difficile far comprendere ciò che è così chiaro nella sua mente: non certo per carenza didattico-pedagogica, ma per le caratteristiche di una personalità geniale e istrionica, anticipatrice dei tempi. I frequenti viaggi (Parigi, Montpellier, dove perfeziona l’Ars Veritatis Inventiva; Genova, dove la traduce in arabo; Roma...), le richieste a pontefici e re di sostenere e promuovere il suo “folle” progetto di erigere nel mondo monasteri per l’apprendimento delle lingue, e le frustrazioni conseguenti, lo spingono verso

una profonda depressione e nuova crisi spirituale, che precipita in una malattia fisica in seguito allo “scandalo di Genova” nel 1293. Si legge nella sua autobiografia che, in una sorta di esaltazione mistica, dopo l’ennesimo rifiuto della Curia Romana, Raimondo decide di tornare a Genova per poi “salpare alla volta della terra dei Saraceni, e scoprire se almeno da solo avesse potuto ottenere qualcosa presso di loro, confrontandosi con i loro saggi...” Accolto come un santo, per l’eroica impresa che si accingeva a compiere, Raimondo viene preso, a bagaglio già imbarcato, da improvvisa paura: “alcune piccole circostanze gli fissarono nella mente la convinzione che, se si fosse recato dai Saraceni, questi lo avrebbero trucidato non appena fosse sbarcato, o come minimo lo avrebbero chiuso in carcere per sempre”. Invaso da rimorso per aver scandalizzato con il suo comportamento la fede del popolo, Lullo somatizza: “ fu colpito 31


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nell’intimo del cuore da così grande dolore che anche all’esterno, cioè nel corpo, si ammalò di febbre altissima. Così, rimanendo per lungo tempo a Genova in questo stato di debolezza, si ridusse quasi in fin di vita, ma non rivelo ad alcuno la causa del proprio dolore”. Durante lo stato di malattia si evidenzia un altro motivo di disorientamento: l’ordine religioso cui appartenere, quello dei predicatori Domenicani o quello dei Frati Minori Francescani che avevano dato prova di apprezzare e custodire la sua Arte e i suoi libri? La lettura delle pagine della Vita Coetanea, inerenti questa fase di vita, lasciano una profonda impressione di macerazione in un tragico tormento che sconfina nel delirio mistico delle 32

visioni, da cui Raimondo esce scegliendo di difendere la sua Arte, perché destinata a un Bene superiore, perché “a lui rivelata per l’onore di Dio e la salvezza di molti”. Una lettura in chiave contemporanea vede l’agire prevalente della dimensione inconscia, la difesa narcisistica dell’Arte, ben giustificato sul piano razionale e cosciente dall’atteggiamento fideistico, l’incarico di partecipazione alla Salvezza dell’uomo per rivelazione divina. E dopo la distillazione del pensiero, il passaggio all’atto: inizia, a sessant’anni, i viaggi di missione e si imbarca per Tunisi dove dialoga con i sapienti del luogo, ma si attira la persecuzione del Califfo che prima lo condanna a morte e lo rin-

chiude in carcere ma poi, per intercessione di un notabile locale, colpito dal suo fine intelletto, lo espelle dal paese. È impossibile separare le vicende di vita dall’elaborazione e costruzione del pensiero: durante la prigionia medita e scrive e, al suo ritorno in Italia (Napoli e poi Roma, Celestino V e poi Bonifacio VIII...) pubblica un poema autobiografico e un’opera enciclopedica, l’Arbor Scientiae (1297). I quindici anni successivi lo vedono impegnato in viaggi a ritmo forsennato (Parigi, Cipro, dove viene accolto da J. De Molay, Armenia, Montpellier, Lione e di nuovo Nord Africa e Bugia, da dove viene di nuovo espulso), in dispute contro gli averroisti, in polemiche sulla conquista della Terra Santa, nella composizione di alcune delle sue opere più famose, da Il lamento della filosofia a La Disputa del chierico Pietro e del Phantasticus Raimondo, da l’Ars Brevis a la Vita Coetanea... Entrare nel mondo di Lullo necessita di solido equilibrio o ci si perde: mentre lo si studia, si è contagiati dal suo ritmo incalzante e, chi scrive, si è sentito spingere a narrare di lui con crescente energia, ma con una velocità insolita. Accade, quando si entra in profonda empatia con una persona, che i neuroni vibrino all’unisono: è il principio di funzionamento dei neuroni a specchio.


Che il prof. Rizzolati abbia individuato la base fisica di un processo metafisico? Certamente, ma allora l’alchimia non ha cessato di esistere con l’avvento della scienza moderna, solo si è mossa e si muove, come di consueto, in silenzio, nell’ombra. E anche quando si palesa a tutti, non da tutti è colta. Il nostro Dottore Illuminatus ne è la prova. Egli solo negli ultimi anni di vita vede l’approvazione di una parte del suo progetto: il concilio di Vienne (1311/1313 sotto Clemente V pontefice) delibera di istituire collegi di lingue orientali nelle principali università: Roma, Parigi, Oxford, Bologna. Infaticabile, nonostante l’età (o forse proprio per essa...), Raimondo, dopo una breve sosta nell’isola natia, riprende i viaggi missionari: l’ultimo lo vede a Bugia, ove subisce una lapidazione che ne provocherà la morte nel 1316 durante il ritorno a Maiorca. La sua eredità intellettuale sarà raccolta da Nicolò Cusano e da G.W. von Leibniz, oltre che da Giordano Bruno, e il suo lavoro getterà le basi per lo sviluppo successivo della logica e del calcolo binario; sarà dichiarato Beato, martire a testimonianza di Cristo, nel 1847 da Pio IX, più per ragioni politiche che teologiche. E infatti, proprio le dispute sull’attribuzione di alcuni scritti e il tentativo delle opposte parti, religiosa e laica, di accaparrarsi o prendere le distanze, a seconda del momento storico, hanno reso difficile inquadrare il pensatore nella sua complessa e variegata unità. Un dubbio: l’articolo risponde alla domanda iniziale? Riesce a mostrare l’alchemicità dell’uomo Raimondo? Forse l’ha solo intuita e sarà già un risultato se saprà farla intuire... A conforto, il pensiero corre al XXVIII Grado massonico, Cavaliere del Sole o Principe Adepto. Esso, sia per il simbolismo che per la filosofia che lo permea, rispecchia la gnoseologia lulliana in alcune corrispondenze: l’armonia è il frutto dell’equilibrio analogico dei contrari, il visibile è manifestazione dell’invisibile, l’analogia è la chiave della conoscenza, la natura ha carattere analogico... Ecco uno dei significati e dei significanti della permutazione nell’Ars Magna. Così almeno per chi scrive. Chissà se Rai-

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mondo sarebbe d’accordo... Guardando il suo ritratto, sembra che sorrida o, meglio, che rida bonariamente di noi e di tutti coloro che hanno vanamente cercato di “contenerlo” nella memoria. “Di nuovo disse la Memoria: ho detto molte cose di me, e molte altre potrei dire. Ma da quel che ho detto possono essere conosciute la mia natura, la mia essenza e le mie opinioni, posto che l’intelletto sia sottile e ben fondato con i suoi correlativi distinti, e non grossolano; poiché dalla sua grossolanità son resa grossolana anch’io, posto che son sua conseguenza”. Da Il Lamento della Filosofia, Raimondo Lullo. _______________ Bibliografia: Raimondo Lullo, La vita coetanea, a cura di Stefano Malaspina, Biblioteca di cultura medievale, Jaca Book.

Raimondo Lullo, Arte breve, a cura di Marta M.M. Romano, Bompiani, Testi a Fronte. Raimondo Lullo, Il lamento della filosofia, xii, la memoria, a cura di Luca Orbetello, Nardini, Firenze. Frances A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Editori Laterza. Louis Sala-Molins, Lulle, Llinarès A, Bulletin Hispanique, Année 1969, Volume 71, Numéro 1. Umberto Eco, Scritti sul pensiero medievale, Bompiani, Il Pensiero Occidentale. Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Collana Economica Laterza. Paolo Rossi, Clavis universalis, Il Mulino, Saggi. Giacomo Rizzolatti, Corrado Sinigaglia, So quel che fai. il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore.

P.28/33: Illustrazioni di varie opere di Ramon Llullo; p.29: Tomba di Lullo nella chiesa di san Francisco a Palma de Mallorca, alabastro, 1480.

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Giacomo Carboni Antonino Zarcone

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iacomo Carboni nasce a Reggio Emilia il 29 aprile 1889 da Giovanni e da Clorinda Longinotti. Ancora studente del 3° anno della facoltà di Giurisprudenza, l’8 novembre 1910 viene ammesso ai corsi della Scuola Militare di Modena, terminato il quale il 19 maggio 1912 è nominato Sottotenente nell’Arma di Fanteria ed è assegnato al 5° Alpini di Milano. Destinato alle operazioni militari in Tripolitania con il Corpo di Spedizione Italiano il 29 ottobre 1912 si imbarca a Napoli e il 1 novembre successivo sbarca a Tripoli. Ufficiale d’Ordinanza del maggior generale Luca Montuori, comandante della 3^ Brigata alpina dal 1° aprile all’11 giugno 1913, il 17 luglio dello stesso anno è promosso al grado di Tenente per “merito di guerra” e nel mese di settembre un Encomio Solenne, poi commutato in Croce di Guerra al Valore Militare perché “durante un attacco di sorpresa da parte di numerosi beduini appostati nel bosco di Tecniz, il 16 settembre 1913, coadiuvava il comando col portare ordini ed avvisi, dando lodevole prova di sangue freddo e noncuranza del pericolo”. Rimpatriato l’8 dicembre 1913 viene assegnato al 5° reggimento alpini di Milano. Frequentatore del corso sulle mitragliatrici campali presso la Scuola di Applicazione di Fanteria di Parma nel luglio 1914. Il 9 gennaio 1915 viene iniziato Apprendista libero muratore nella loggia “Giovane Italia” appartenente al Grande Oriente d’Italia. Mobilitato per la Prima guerra mondiale, il 23 maggio 1915 parte per il fronte con il proprio reggimento. Promosso capitano il 1 set-

tembre 1915, il 6 novembre dello stesso anno sposa a Torino la signorina Maria Bocciarelli. Dalla loro unione nascerà un figlio, Guido, morto sul fronte del Senio

il 4 marzo 1945 durante la guerra di liberazione. Comandato alla frequenza del Corso pratico sul servizio di Stato Maggiore a Vicenza dal 15 dicembre 1915 al 35


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20 marzo 1916 viene dichiarato idoneo e sei giorni dopo assegnato allo Stato Maggiore della 2^ Divisione di Fanteria. Il 29 giugno 1916 è trasferito presso il Coman36

do del Raggruppamento Battaglioni alpini presso la 4^ Armata e nel settembre ottiene una Croce al Merito di Guerra, poi commutata in Medaglia di Bronzo al

Valore Militare, perché “In un circostanza eccezionalmente pericolosa, sotto intenso fuoco nemico che faceva prevedere imminente un attacco, per rendersi conto esatto della critica situazione, eseguiva di pieno giorno una ricognizione su posizione isolata occupata da truppe in combattimento ed alla quale non si accedeva che a mezzo di una cordata e soltanto di notte a causa del tiro efficace nemico, dando esempio di alto sentimento del dovere. Si distingueva quindi per esemplare volenterosità e sprezzo del pericolo nel compiere altre ardite ricognizioni durante lo svolgimento di una cruenta azione. Rauchkopf - Val Popena - Val Vanoj, maggio - settembre 1916.” Ufficiale di Stato Maggiore della 56^ Divisione di fanteria dal settembre 1916 poi capo di stato maggiore della Fortezza Cadore - Maè dal 26 luglio 1917. Promosso Maggiore il 13 settembre 1917, lo stesso anno è decorato della Croce dell’Ordine Militare di Savoia perché “Capo di SM di una colonna di retroguardia, in difficili contingenze, con opera intelligente ed instancabile, con prontezza ed ardimento, si distingueva nell’organizzare mirabilmente le operazioni di resistenza e di marcia della colonna rimasta per oltre dieci giorni isolata in mezzo alla marea nemica che da ogni lato tentava di soverchiarla. Fortezza Cadore Maè - Feltre, 1° novembre 1917”. Ufficiale di staff del 4° Corpo d’Armata dal 20 novembre 1917, del Comando 4^ Armata dal 7 marzo 1918 e del Comando della 9^ Armata dal 26 maggio 1918. Terminato il conflitto, dal 9 febbraio 1919 è assegnato al Comando Divisione Militare Territoriale di Cagliari. Allievo della Scuola di Guerra di Torino per la frequenza del Corso d’Integrazione “C” dal 3 febbraio 1920, interrompe il corso il 25 maggio seguente perché presenta domanda di collocamento in ausiliaria. Il 20 novembre dello stesso anno si laurea in Giurisprudenza presso la Regia Università degli Studi di Torino quindi sostiene favorevolmente gli esami teorico - pratici per la professione di Avvocato. Riammesso alla frequenza del Corso di Integrazione “C” della Scuola di Torino dal 15 novembre 1920. Intanto continua il percorso libero muratorio e viene innalzato prima al grado di Compagno il


9 marzo 1921 poi a quello di Maestro il 28 maggio 1921. Capo Sezione staccata informazioni dello Stato Maggiore Regio Esercito a Roma dal 27 agosto 1922 poi a Trieste dal 27 agosto 1922. Capo Sezione Situazione a Trieste dal 20 gennaio 1924. Comandante di battaglione del 3° reggimento Alpini dall’8 novembre 1925, el battaglione Alpini “Pinerolo” a Pinerolo (CN) dal 14 dicembre 1925. Promosso Tenente Colonnello il 4 novembre 1926. Frequentatore del Corso di Equitazione di Presidio presso la Scuola di Applicazione di Cavalleria di Pinerolo dal 7 marzo al 15 maggio 1927. Dispensato dal servizio a domanda l’8 luglio 1927, perché inviato in missione all’estero, il 15 gennaio 1928 è riammesso in servizio attivo presso il 3° reggimento Alpini e dal giorno successivo riassume la carica di Comandante del Battaglione Alpini “Pinerolo”. Capo Ufficio Amministrazione e Comandante del Deposito reggimentale del 3° reggimento Alpini a Torino dal 2 maggio 1929. Frequentatore del corso applicativo di Stato Maggiore presso la Scuola di Guerra di Torino dal 4 gennaio al 15 aprile 1931. Collocato a disposizione del Comando del 3° reggimento Alpini dal 5 dicembre 1931, il 15 aprile 1932 viene nominato Comandante del battaglione Alpini “Fenestrelle” a Fenestrelle ed il 17 dicembre 1932 è collocato in aspettativa per infermità temporanea dipendente da causa di servizio. Richiamato in servizio dal 6 novembre 1934 è nominato Direttore del giornale “Le Forze Armate” presso il Ministero della Guerra a Roma. Promosso Colonnello per “meriti eccezionali” il 16 gennaio 1935 perché “valoroso ufficiale in guerra ed in pace, ha resa in difficili circostanze segnalati servizi all’Esercito ed al Paese”. Comandante dell’81° reggimento di Fanteria “Roma” a Roma dal 1° novembre 1936. Promosso Generale di Brigata il 25 agosto 1937. Vice Comandante della Brigata “Cacciatori delle Alpi” a Spoleto dal 9 settembre 1937. Collocato a disposizione del Corpo d’Armata di Roma dal 31 marzo 1939. Capo del Servizio Informazioni Militari dal 3 novembre 1939. Al rientro da una missione in Germania nel marzo 1940 gli è concesso un Enco-

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mio Semplice “per la capacità e lo zelo coi quali nella relazione su un viaggio in Germania ha approfondito questioni di particolare interesse”. Promosso Generale di Divisione il 31 maggio 1940. Comandante dell’Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena e della Scuola di Applicazione di Fanteria di Parma dal 15 settembre 1940, della Divisione “Friuli” a Livorno dal 1 dicembre 1941. Combattente della seconda guerra mondiale, il 10 novembre 1942 sbarca a Bastia. Comandante del 7° Corpo d’Armata mobilitato in Corsica dal 30 novembre 1942. Promosso Generale di Corpo d’Armata il 25 gennaio 1943. Collocato a disposizione del Ministero della Guerra a Roma dal 25 marzo 1943. Dopo il colpo di stato monarchico che porta alla destituzione di Mussolini, il 27 luglio 1943 è incaricato del Comando del Corpo d’Armata motocorazzato, dislocato nei dintorni di Roma a difesa della capitale. Il 23 agosto 1943 è nominato anche Commissario Straordinario del Servizio Informazioni Militari. Durante le vicende legate alla difesa di Roma contro l’occupazione tedesca mantiene contatti con l’opposizione anti fascista e con ambienti della resistenza libero – muratoria ed è uno dei pochi militari che distribuisce armi ai civili, in particolare ai primi nuclei partigiani at-

tivi nella capitale organizzati dal partito comunista. Criticato per la mancata e inefficace difesa di Roma contro i Tedeschi, il 1 febbraio 1945 viene collocato nella riserva ed il 30 aprile 1962 in congedo assoluto per limiti d’età. Muore a Roma il 2 dicembre 1973. Carboni è decorato anche di: due Croci al Merito di Guerra, Medaglia Commemorativa col motto “Libia” con le fascette per gli anni di campagna 1912 e 1913, Medaglia Commemorativa Nazionale della Guerra 1915/1918 con le fascette per gli anni di campagna 1915, 1916, 1917 e 1918), Medaglia Interalleata della Vittoria, Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia, Distintivo del periodo bellico 1940/1943 con le stellette per gli anni di campagna 1942 e 1943, Croce d’Oro per anzianità di servizio, Medaglia di Bronzo al merito di lungo comando, Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, Commendatore dell’Ordine al Merito d’Ungheria con Stella, Commendatore dell’Ordine del Sol Levante del Giappone, Grand’Ufficiale dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, Cavaliere dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia, Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. P.34/37: Foto della liberazione di Roma e - a pag.35 due ritratti di Carboni.

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Cronaca di una esecuzione Tommaso Pignatelli, il frate seguace di Campanella Antonella Orefice

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ei registri del 1634 redatti dai confratelli della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia1, lo scrivano d’Aytona consegnava alla memoria storica una dettagliata e lunghissima cronaca dell’esecuzione di un frate domenicano, Tommaso Pignatelli, ritenuto seguace del frate filosofo Tommaso Campanella. Pignatelli, figlio naturale del principe di Noia, fu accusato di aver cercato di avvelenare il viceré Zunica, conte di Monterrey, e tutti gli ufficiali del Regno di Napoli con una sostanza lasciata dispersa nell’aria. Tanto odio nei confronti della corona spagnola era nato, secondo l’accusa, dalle idee seminate dal filosofo calabrese nel 1599. Il Pignatelli fu arrestato e rinchiuso quattordici mesi in una fossa del Castel Nuovo, comunemente detta del Miglio ‘tanto profonda che toccava l’acqua, e tanto oscura che appena vi si vedeva uno spiraglio che li dava un poco di luna’. L’esecuzione avvenne il 6 ottobre del 1634 per strozzamento all’interno della stessa fossa. Lo scrivano dei Bianchi, indugiando nel narrare le ore angoscianti che precederono il macabro rito, rimandava ai posteri l’immagine di un frate magro, pallido e remissivo, pronto ad affrontare torture e morte, ritenute giuste punizioni per i suoi peccati, un atteggiamento questo che commosse i presenti fino alle lacrime, dalle guardie ai padri confessori, ma che certo non cambiò lo spietato verdetto. Onde evitare clamori, dal vicerè pervenne l’ordine che l’esecuzione avvenisse in gran segreto. E così il frate dopo lunghe ore di tormenti fu strozzato dai ministri di giustizia all’interno della sua cella in Castel Nuovo e poi seppellito nella chiesa di S. Barbara nel cortile del castello. Prima di morire Pignatelli ‘escolpò’ il Campanella, ritirando quanto dichiarato nella ‘forza dei tormenti’, ossia di aver ‘tenuto intelligenza con lui nel trattato della ribellione’. Tommaso Campanella era stato lungamente perseguitato dalle disavventure giudiziarie a causa dei suoi scritti ritenuti eretici, antiaristotelici, per il panvitalismo, per l’idea di una riforma politicoreligiosa e il quadro astrologico-magico, tutti motivi che avevano ispirato nel

1599 una congiura contro il governo spagnolo, e che costarono al filosofo 27 anni di prigione a Napoli, nelle carceri del Castel Nuovo. La documentazione sulle persecuzione e il processo, fu recuperata e pubblicata da Luigi Amabile nel 1882, ma nel lavoro dello storico mancano i riferimenti al seguace frate Pignatelli.2. Durante la detenzione in Castel Nuovo, nel 1602, Campanella scrisse la sua opera più importante, La città del sole, in cui vagheggiò l’instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale. Scarcerato nel 1626, grazie al Papa Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di Spagna, il frate filosofo fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il Sant’Uffizio fino a essere liberato definitivamente nel 1629. Nel 1634 però la notizia di una nuova cospirazione nel regno di Napoli lo costrinse a scappare in Francia dove morì nel 1639. La cospirazione, finora inedita, trova conferma nei documenti dei Bianchi della Giustizia, qui di seguito trascritti. Essi offrono una prova preziosa ed inconfutabile dell’arresto e dell’esecuzione di Tommaso Pignatelli ritenuto colpevole di congiura contro la corona spagnola. “A di 6 d’ottobre 1634 per ordine di s.s. fu strozzato nel castello nuovo, un povero afflitto, chiamato nel secolo Giovanni Francesco e poi nella religione di S. Domenico, della quale era professo, Fra Tommaso Pignatello, figlio di Don Giulio Pignatello principe di Noia, naturale però, per aver tentato in cometiva d’avvelenare S. E. insieme con tutti l’officiali del Regno, così di guerra come di pace, con odore velenoso e pestifero, il quale in meno di 22 giorni ammazzava, havendo opinione che seguendo il caso haverbbe fatto cosa grata a Dio liberando la propria patria, siccome diceva, dalla tirannia delli spagnoli, era costui d’anni 29 in circa. Fece la sequente escolpazione dicendo: Io nelli tormenti ho detto che Fra Tommaso Campanella, del ordine di S. Domenico, ha tenuto intelligenza con me nel trattato della rebellione il che non è vero ma l’ho detto per la forza delli tormenti, e questa è la verità, conforme ho detto è significato, alli Signori Giodici, ed anco al Sig. Cappellano Maggiore, pregando detto Signor Cappellano Maggiore, che di

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ciò ne facesse testimonianza. Il viglietto di questa giustizia mandato dal signor Capellano Maggiore venne la sera delli 25 di settembre su le 23 ore, per il tenor del quale, dimandava per ordine di S. E. due fratelli della nostra compagnia li quali nominava per li propri nomi, onde fu subito dal nostro Cappellano, portato al nostro Padre Governatore il quale ordinò che detto viglietto non si ricevesse di questo tenore, per essere, e contro la secretanza, e contro l’instituto della nostra Compagnia perciò rimandato il biglietto l’istessa sera, mandò poi la mattina seguente delli 26 ben per tempo un altro viglietto tutto di pugno del Signor Cappellano Maggiore, per il quale con molto buon termine di creanza dimandava da parte di Sua Eccellenza due dei nostri Fratelli per consolare un povero afflitto nel Castello nuovo et acciò andassero nel più secreto modo che era possibile, lì inviava una carrozza la quale ben chiusa portarebbe e riportarebbe li nostri Fratelli; questa carrozza fu pochissime volte adoprata da nostri Fratelli, e fu che per diligenza che usassero inserrar le bandinelle, non fu possibile l’andar secreti perciò dopo sel’inviarono due seggie, dove ben chiusi non furono facilmente visti. Entrarono la prima volta in castello li nostri Fratelli, Barberisis e Maranta, deputati dal nostro Padre Governatore ove ritrovarono in una torre pro serrato sopra uno strappontino posto sulla nuda terra, un povero Frate vestito dell abito di S. Domenico, il quale si faceva chiamare Fra Tomaso Pignatello della provincia di Ca39


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labria, di statura più che mediocre, magriglio, palido, e di pelo castagno, il quale (ABGN, Ms.76, c. 38 v.) era stato 14 mesi in una fossa comunemente detta delo Miglio tanto profonda, che toccava l’acqua, è tanto oscura che appena vi si vedeva uno spiraglio che li dava un poco di luna: con gran coraggio, et intrepidezza, recevili nostri Fratelli, li quali havendolo prima salutato, e poi fattoli il segno della Santa Croce con l’acqua benedetta sicome e solito, e recitare le solite orazioni, cominciarno a discorrere seco, scorgendo li nostri Fratelli in questo Frate una vivacità d’ingegno grande, e nel discorere si forzava di mostrarsi intrepido e forte nelli tranegli che se li preparavano, et introducendosi li nostri Fratelli pianpiano, e con dolci maniere, ne ragionamenti spirituali, esortando il Frate a far una buona confessione dei suoi peccati, non poterno ottenere l’intento, havendo egli desiderio di confessarsi ad uno de padri della sua religione, il quale non potè ottenerlo, per essere già nelle mani della Compagnia onde lasciatolo per quella sera, se ne tornarono alla Compagnia li nostri Fratelli, li quali furno dal signor cappellano Maggiore pregati, che non dovessero venir da 40

per loro in castello, se prima non avevano avisati, e con l’aviso seli inviarolono le seggie o carrozza; perciò il seguente giorno seguito la prima visita venuto l’aviso la matina delli 28 di settembre di giorno di Giovedì essendo portati in castello li nostri Fratelli con forme solevano, ritrovarno, che essendo al Frate stata intimata la sentenza della degradazione si presentava tutto turbato e confuso, et essendo preparato nella chiesa parochiale del castello per la detta cerimonia, et essendo ogni cosa al ordine entrarno nella carcere del frate alcuni mandati dal signor Tenente del castello, portorno al’Afflitto un vestito da secolare, mandatoli dal Tenente in dono, di damasco nero molto honorato e buono, con ordine che glilo vestissero, a ciò che al levar che s’haveva fare del abito non restasse quasi ignudo, così vestitosi prima da secolare, si vestì sopra l’abito della Religione, non senza lacrime e sospiri, e fu calato nella chiesa in una seggia ben ferrata, che era appunto quella del signor cappellano Maggiore a ciò non fosse veduto da nessuno, giunto che fu l’Afflitto in chiesa, si cominciarono le cerimonie della degradazione, che furno fatte da Monsignor Vescovo di Sarno, con assai poca gente, assistendovi solamente li si-

gnori Consiglieri Sgerro e Mugnos, un capitano di Giustizia, con la sua guardia de birri secolari, et alcuni cursori della corte ecclesiastica, le cerimonie non si notarno per esserno registrate nel cerimoniale Romano, ove si possono legere per esserno di grand terrore; et a punto questo atto fu di grande tenerezza agli astanti come anco apropri giudici secolari, tanto magiormente, questo che il Frate con caldi sospiri e pietose querele si prostraeva (ABGN, Ms.76, f. 38 v.) avanti Dio, il qual chiamava in testimonio della sua finta innocenza, testificando, che questo le veniva opposto per falsa impostura e mentre si faceva l’atto li nostri Fratelli si ritrovarno in disparte; finite le lacrimose cerimonie, e consegnato l’Afflitto alla corte secolare, fu subito ritornato nella pristina carcere, dentro l’istessa seggia, nella quale era calato, ove gionto fu da nostri Fratelli consolato, al miglior modo possibile, essendo restato l’Afflitto di mente turbato, il quale non parendosi contenere dentro li limiti della modestia, rinfacciò alli signori Giudici che ingiustamente veniva condannato; fu poi la sera lasciato da nostri Fratelli, e per alcuni giorni non furno chiamati confor-


me l’appuntamento, dicendosi trattare della sua causa nel tribunal del la giunta, in presenza di S. E. s’avesse, che era si grande la curiosità de Napoletani di sapere l’ora che s’aveva ad eseguire questa giustizia, che perciò s’erano portati li nostri Fratelli cosi secreti, attesa che la signora Vice Reina haveva impetrato dal signor Viceré suo sposo che questa giustizia si dovesse eseguire secretamente, si per esser ella della prosopia di S. Domenico il quale fu di casa Gulman, stanco perché essendo il Frate de l’ordine di S. Domenico, e figlio della Religione e detta santa devotissima del Alito, e della divozione del Rosario, fu perciò gagliardamente patrocinato dalli principali padri del ordine suo, suplicando S. E. di haver mira, al honore della Religione, il che ottennero con molta loro sodisfatione. Passati alcuni giorni fu di nuovo avisata la nostra Compagnia, dal signor Cappellano Maggiore che li padri ritornassero in castello, et al Padre Governatore parve di mandarci il Fratello Barberiis il quale era destinato per confessore, e condusse seco il Fratello Terracina, e giunti di nuovo nel castello, dopo molti discorsi, l’Afflitto si confessò dal nostro Fratello Barberis; ne per questo cessò di dimandare ingratia per sua consolatione prima che morisse, un padre dell’ordine di S. Domenico, essendoli il giorno prima o pure l’istessa matina intimata la sentenza di morte nella qual sentenza si determinava il luoco dove s’havesse da eseguire, che era nel Mercato, il che non seguì poi, per intercessione com’hò detto di S. E. la quale l’impetrò prima che dovesse morire nel cortile del castello nuovo con ordine espresso, che non vi facessero entrare nessun forestiero, benché fusse della Natione Spagnola. Hor mentre s’attendeva le cose necessarie, ecco che alli 4 d’ottobre su le 23 ore e mezza si mandò l’avviso per la (ABGN, Ms. 76, c.39 r.) andata de nostri Fratelli in castello, et al Padre Governatore parve di mandare per compagno del nostro Fratello Barberiis, il nostro Fratello Quaranta li quali giunsero in castello molto tardi, benché il signore Cappellano Maggiore mandò a posta così tardi; acciò li Fratelli nostri restassero in castello insino al’ultimo della vita del Afflitto sicome si vidde dal esito del negotio, restorno dunque li nostri Fratelli nel

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castello la notte molto ben trattati dal tenente; e per quella notte s’attese da nostri Fratelli a consolare il misero Afflitto, che di hora in hora aspettava la morte; la matina poi delli 5 d’ottobre, furno mandati dal nostro Padre Governatore due altri de nostri Fratelli in castello, che furno il Fratello Maranta, e per suo compagno il Fratello Aytona, e gionti in due seggie ben serrate dov’era l’Afflitto lo ritrovarno seduto in una seggia di paglia, guardando un crocifisso, che davanti li stava, era coi ferri nei piedi, e con manette ale mani, il quale consolatosi un pezzo con li Fratelli, non s’attese ad altro per quel tempo che fu permesso ai nostri Fratelli che al ragionare di cose spirituali, e dovendosi l’Afflitto quella matina comunicarsi per viatico, prostrato, con la faccia per terra orò più di un buon quarto d’ora, in questo essendo apparecchiato, salì il primo parochiano col Santissimo Sacramento, et il frate volendosi comunicare poferì le parole con tanto ardor di spirito che fu meraviglia, agiungendo sempre atti, et oratio-

ni giaculatorie di molta motione, e tenerezza partito il padre parochiano, discorse un poco con li nostri Fratelli, et essendoli accennato, o passo di scrittura, o sentenza di padri spirituali ripigliando necavava il senso morale, nel che si faceva scorgere che non era stato nella religione huomo ordinario, apportando anco molta edificatione a chi lo sentiva; intanto, entrarno nella carcere i signori Consiglieri Sgerro, e Mugnos l’uno commissario, l’altro fiscale de la causa del reo, li quali mostrarono haver con passione del Afflitto, l’andarno con amorevoli parole, disponendo, che volesse palesare quel tanto che contro lui costava in processo, senza che fossero forzati venire al atto del tormentarlo tanquà cadaver, essendo così comandato dalle leggi e da S. E. l’Afflitto mostrò in questo la sua figurata costanza, e rigratiò infinitamente le signorie loro con un molto affetto, et energia, dicendogli, che lui non meritava tanta cortesia, conoscendo, che le signorie loro l’havevano fatto e facevano officio non di teneri giudici ma di tremen41


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do padrone, et in questo prostosi a piedi loro li volle in ogni conto baciarli i piedi, inteneriti di nuovo li signori giudici di quest’atto, proruppero a lacrime et insieme gli astanti, e fra questo mentre non si lasciò di ponere al ordine l’istrumenti per tormentare l’Afflitto; et tacendo di nuovo l’Afflitto fatta istanza in vincentis Iesus Christi, che da (ABGN, Ms. 76, c. 39 v.) nostri Fratelli si supplicasse alli signori Giudici, che volessero intercedere appresso S. E. che prima di morire potesse vedere almeno uno de padri del suo ordine, onde ottenuto ciò con molto stento, essendosi andato più d’una volta da S. E. se li concesse di parlare al padre Maestro Gravina in presenza però di essi signori Giudici, e de nostri Fratelli, e fatolo venire l’istesso Giovedì 5 ottobre alle 19 ore in circa, entrò nella carcere e veduto le miserie del povero frate proruppe a lacrimare, et abraciandolo lo baciò nella fronte dandoli la sua benedizione, con farlo certo che non si saria mancato da la Religione di S. Domenico de farli tutti l’officii, non privandolo de soliti suffragii, soliti a farsi a ciascun frate che more nel grembo de la reli42

gione, egli li ne baciò per forza li piedi e ragionatoli un pochetto in disparte il padre Gravina se licenziò, non senza lacrime di tutti due e degli astanti, usciti per allora anco li signori Giudici restò assai consolato il Reo, e volle riconciliarsi. Ritornati poi li signori Giudici alle 20 hora in circa vollero interrogare il Reo, e li nostri Fratelli s’appartarno calandosi nella chiesa, ove li fu recato di far colatione nella sacristia e qui si riposarno da un’ora in circa, che furno richiamati su e nel entrar del cancello de la carcere ritrovarono li signori Giudici, che molto mal sodisfatti si partivano, non avendo potuto cavar di bocca al Reo cosa di momento, dicendo che con molto lor disgusto era necessario venire al atto de tormenti; partiti li Giudici entrarno li nostri Fratelli dove ritrovarno l’Affitto un poco turbato, et a prima vista parve non capire consolatione, poi ragionando ragionando restò consolatissimo, perfino alle 24 ore quando ritornarno li signori Giudici con li ministri per tormentare il povero Reo, e fatto appartare li nostri Fratelli, essi se ne uscirono fora e si trattennero fora il cancello, sperando che si sarebbero sgraditi fra due hore al più tenen-

do per fermo, che l’Afflitto havrebbe sorretto li tormenti benché atroci, per mostrare una intatta costanza, ma succedi il contrario, poiché aspettato che hebbero insino a mez’ora in circa si chiarirno, che l’Afflitto haveva già cominciato a scoprire il fatto, e trattenutosi per infono alle 3 ore di notte, furno per compassione d’un caporale introdotti in un camerino oscuro ove fatta colatione si trattennero tutta la notte per insino alle undici ore, che finì la depositione, e fratanto, chi recitò l’officio, chi il rosario, altri cercava di riposare e non era possibile, altri passava per la camera, et in tutta la notte non si fece altro che rumore di chiave, e catenacci e cocci de ministri che assordivano il mondo. Sonate le 11 ore uscirno fora li signori Giudici (ABGN, Ms. 76, c. 40 r.) ferno richiamare li Fratelli a consolare l’Afflitto, il quale sopra il suo solito strappontino, tutto addolorato se ne giaceva, con li soliti ferri e manette, ricevé li nostri Fratelli e credo non senza vergogna essendosi smaltito per invitto e costanza alli tormenti, al fatto andò altrimenti, fu consolato da nostri Fratelli e dal hora impoi si


strinse la prattica d’attendere e non pensar ad altro che a ben morire, aspettando si d’ora in punto l’esecuzione della sentenza, per l’assistenza de la quale fu fatta infinite volte istanza da nostri Fratelli al signor Cappellano Maggiore, che volesse avvisar la nostra Compagnia lo giorno, o l’ora della esecutione, acciò pose venir la Compagnia o parte conforme comandava, ad assistere al moriendo per far il nostro solito esercitio per beneficio, et aiuto particolare de quel poverello, et havendo promesso di farlo, non seguì per il nuovo ordine che giunse sicome si dirà appresso; fatto giorno il Venerdì 6 ottobre, celebrarno conforme solevano la messa nella cappella della Natività del Signore posta dentro la parochia, in un luoco remoto e secreto, ove calarno, a due a due, restando sempre due con l’Afflitto, et al fine della messa fu fatta da nostri Fratelli istanza chel padre parochiano, che dovesse di nuovo comunicar l’Afflitto li fu risposto che il signor Fiscale havrebbe mandata risolutione di quel tanto s’haveva a fare, et havendo li nostri Fratelli sospettato quel che poi soccedi, cioè che di prossimo havrebono fatto esequire la sentenza, incalzarno gagliardamente al mantenere l’Afflitto unito con la volontà di Dio, quando giunsero alle carceri due altri de nostri Fratelli mandati dal Padre Governatore cioè M. di Siracusa e Caccavello, li quali arrivarono a tempo poichèa pena havevano cominciato a discorrere con l’Afflitto, quando il carceriere entrò dentro, et avisò la repentina morte accendandolo ad uno de nostri Fratelli il quale avvisasse il nostro Fratello Barberiis confessore e gli altri Fratelli incominciarno a fare il solito officio, che da nostri Fratelli si fa quando un condannato esce fora per giustiziarsi e fatto inginocchiare il Reo, che con molte lacrime e sospiri cercava a Dio perdono de peccati suoi s’attendeva al solito officio, quando entrò nella torre il tenente verso le 16 ore in circa, accompagnato da un Agozino Reale, e due soldati spagnoli e un paggio senza cappa e senza cappello; portava il tenente nelle mani un biglietto, che fattolo leggere da quel paggio alla presenza del Afflitto, conteneva la breve, che si comandava che quello che stava carcerato nel castello nuovo, che si (ABGN, Ms.

76, c. 40 v.) faceva chiamare Tomaso, fosse subito strozzato dentro l’istesso carcere dove si trovava, e che dopo morto il suo corpo fusse sepelito nella chiesa parrochiale detta di Santa Barbara sita nel cortile del castello nuovo, nella sepoltura de sacerdoti; sentita dall’Afflitto questa sentenza stando in ginocchio, prostrandosi baciò la terra, poi con amorevoli e dolci parole ringraziò prima Dio, e poi il tenente de favori fattili mentre era stato carcerato, et anco lo supplicò che in suo nome ringraziasse S. E. della gratia che li faceva, mentre lo faceva morire così onoratamente, meritando egli assì più penosa, et acerba morte così per i suoi peccati, come per haverli caduto in pensiero di machinar contro il suo Re e suoi ministri, e che di ciò ne li baciava con ogni affetto li piedi, intanto escolpò Fra Tomaso Campanella sicome sta posto di sopra. Dopo compostasi fe’ un poco d’oratione, nella quale fe un atto di dolore di avere offeso Dio. Fra tanto non cessarono li nostri Fratelli di confortarlo efficacemente, fra li quali fu M. di Siracusa, il quale si ritrovò presente a questo fatto, e stava in atto ragionando e standosi in questo uscito fuora il tenente entrarno nella torre due Ministri di Giustizia li quali portarno l’istrumenti di morte, e postoli subito un fazzoletto avanti gli occhi, furno pregati dal Afflitto che lo lasciassero svelato fino a tanto che dicesse un paternoster et un’Avemaria guardando una divota immagine di Nostra Signora del Rosario, il che li fu concesso, e finite le sopra dette orationi fu avertito dal padre Confessore a voler confessare come vero Cristiano l’Articoli della Santa fede, il che fe’ con alta voce, dopo M. di Siracusa li fe’ dire la orationcina solita da dirsi da nostri Fratelli alla scala o al talamo, e come pervenne al invocazione della Vergine, il ministro li buttò una cordella al collo, et al proferire il nome di Gesù gli la strinsero uno da una lata e l’altro dal’altra, stentò un poco, e si mantende per un paternoster inginochioni, poi caduto che fu il ministro se li pose sopra lo stomaco con le ginochia, e con un’altra cordella che li pose al collo lo finì di soffocare voltando con un bastoncino, et in questo mentre

non si cessò da nostri Fratelli di onorare, recitando le litanie, et altre orationi poste nel greviario, per (ABGN, Ms. 76, c. 41 r.) agiutare li morienti; spirato che fu, e cantatosi da nostri Fratelli il Miserere, et il

Storia Deprofundis conforme a solito si partirono da costello portati in una caroza ferrata, non cessando si come a solito recitarli il Vespri de Morti. Questo povero Afflitto non fe’ mentione d’altri parenti, che del padre sicome sta posto di sopra, ma si bene disse che lasciava una sorella di latte, chiamata Cornelia Ranci d’anni 22 in circa in capillo, e pregò li nostri Fratelli che avessero suplicato la nostra Compagnia a voler soccorrerla di qualche lemosina, per potersi collocare. Vi intervennero in questa Giustizia li seguenti Fratelli Quaranta, Maranta Barberiis, Aytona M. di Siracusa Caccavello Al patibolo M. di Siracusa Al officio Barberiis” (ABGN, Ms. 76, c. 41 v.) ______________ Bibliografia: Abstract da: Antonella Orefice, I Giustiziati di Napoli dal 1556 al 1862 nella documentazione dei Bianchi della Giustizia. Prefaz. Antonio Illibato, Ed. D’Auria, Napoli 2015. Note: 1 Archivio dei Bianchi della Giustizia di Napoli (ABGN), Manoscritto (Ms ) 76, carte (c) 38-41, recto (r) e verso (v). 2 Cf. L. Amabile, Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Napoli 1882.

P.38: Ritratto di Tommaso Campanella; p.39: Frontespizio della ‘Citta del Sole’; p.40/42: vedute della città di Napoli, olio su tela, XVIII sec.

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Una passeggiata nell’arcano Il giardino di Boboli e i suoi segreti Adriana Alessandrini, Enrico Bertorino, Andrea Scartoni 44


L’

autunno è una stagione piacevole a Firenze, ma dal tempo capriccioso. Il sole, quando si concede, offre temperature miti e piacevoli, molto lontane dall’afa estiva creando le condizioni perfette per chi ha la pazienza di scoprire o riscoprire una città che offre ogni volta che la si visita qualcosa di nuovo e inaspettato; una bellezza nota ma al tempo stesso pudica nel rivelare i nobili tratti. Il fascino di Boboli è sfuggente ma ricercato. I giardini appaiono quasi anonimi a un primo sguardo, ma varcate le mura che li separano dalla città e dal chiasso delle vita moderna, lo spettatore si troverà come immerso in un luogo senza tempo. La frastornante bellezza di Palazzo Pitti distrae, le sue sale ricche di opere affascinano nugoli di turisti, ma il giardino attiguo spesso silenzioso è parco nel rivelare la propria bellezza; solo una colta curiosità saprà rivelare a occhi che sanno vedere ciò che si cela oltre la comune materialità. La passeggiata compiuta a Boboli1 è l’ultimo passo di un percorso di studi sul parco, caratterizzato in primis dalla lettura di libri a questo dedicati, da un successivo riscontro concreto in loco e, infine, dal confronto con alcuni emeriti visitatori con cui abbiamo condiviso questa esperienza. La conformazione del giardino di Boboli che possiamo apprezzare oggi è il frutto di molteplici modifiche subite nel tempo quali ampliamenti, spostamenti di statue, realizzazione di nuovi viali. Tuttavia, l’attuale conformazione del giardino nonché il suo patrimonio scultoreo mantengono un’elevata carica simbolica nonostante i rimaneggiamenti subiti nel tempo. Se si vuole comprendere Boboli, non è possibile esimersi da un’analisi del contesto storico e culturale che ha permesso la creazione di un tale capolavoro dell’architettura del verde. Il giardino di Palazzo Pitti ha come padre e mecenate Cosimo I de’ Medici, il primo della dinastia a dar lustro a questo spazio naturale. La gioventù del futuro Granduca è stata assai modesta, e non vi era alcuna aspettativa per una sua successione alla guida dei Medici. Cosimo, figlio di Giovanni detto delle Bande Nere, vive nei primi anni della sua adolescenza nel Mugello con la madre conducendo una vita modesta in condizioni economiche precarie, origi-

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nate dal comportamento del padre Giovanni, capitano di ventura e coraggioso combattente, ma dai costumi dissoluti e indifferente alle difficoltà della famiglia. Si deve a Maria Salviati, madre di Cosimo, l’educazione del figlio soprattutto dopo la prematura scomparsa di Giovanni, caduto per mano dei Lanzichenecchi combattendo nel nord d’Italia. Cosimo cresce in compagnia dei cugini Giuliano e Lorenzo (futuro uccisore del Duca Alessandro de’ Medici) lontano da Firenze ed estraneo alla vita politica della città. Negli anni dell’adolescenza di Cosimo, infatti, Firenze vive un periodo di incertezze politiche mentre l’Italia è tormentata da guerre e dalla contesa tra Carlo V e Clemente VII: quest’ultimo infatti preferisce Alessandro, nipote illegittimo (per alcuni il figlio naturale), alla discendenza del ramo cadetto dei Medici a cui Cosimo appartiene. Alla morte del padre di Cosimo, Maria Salviati decide di abbandonare la residenza del Trebbio nel Mu-

gello temendo per l’incolumità del figlio, data l’incertezza del dominio mediceo su Firenze e la fredda ostilità del Papa. Cosimo visita così Venezia e Bologna, dove assiste all’incoronazione di Carlo V per poi visitare Roma e conoscere il cugino Alessandro. La restaurazione medicea avviene nel 1530 con Alessandro de’ Medici, protetto di Clemente VII, seguita dal matrimonio con Margherita d’Austria, figlia illegittima dell’Imperatore2. Cosimo in quegli anni di relativa tranquillità appare un cortigiano appartato e oscuro, chiamato da Clemente VII a un ruolo di sudditanza e contegno. Lo stesso Alessandro preferisce a Cosimo suo cugino maggiore Lorenzo, ben prima della sua breve e tirannica salita al potere fiorentino, condividendo con lui una vita dissoluta e un rapporto di morbosa vicinanza. Negli anni a seguire il rapporto tra Alessandro e Lorenzo si deteriora lentamente fino a trasformarsi in odio palese per quest’ultimo a seguito di una dispu45


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ta ereditaria dove il Duca, pronunciandosi contro il cugino favorito, lo costringe a una condizione di indigenza. L’assassinio di Alessandro a opera di Lorenzo nel 1537 lascia Firenze senza eredi diretti e la fuga di Lorenzo e di suo fratello Giuliano, di fatto, rendono Cosimo l’unico potenziale erede legittimo della famiglia Medici. Ma la sua salita al potere non è affatto facile né priva di ostacoli. Dopo la morte di Clemente VII al soglio pontificio è infatti salito un Farnese, Paolo III, senza dubbio ostile ai Medici e che aspira alla costituzione di un stato farnesiano nell’Italia centrale. L’Imperatore detiene la patente ducale decaduta con la morte di Alessandro e a Cosimo preferisce Giulio, il figlio illegittimo di Alessandro di soli tre anni, che sarebbe stato guidato da una corte di stretta osservanza imperiale. Gli ostacoli per Cosimo, seppur grandi, non sono solo questi. Molti fiorentini illustri sono fuoriusciti da Firenze e osteggiano il ritorno dei Medici, sperando di affrancarsi da tale dinastia con un ritorno alla Repubblica. Cosimo tuttavia ha anche degli alleati nella milizia cittadina e nelle famiglie nobili fiorentine, che per convenienza gradiscono una Firenze affrancata dalla dipendenza di 46

Spagna o di Francia che in questi anni si contendono il potere in Europa. Cosimo è lesto a presentarsi a Firenze dopo la morte di Alessandro, senza rivendicare direttamente la candidatura, ponendosi al servizio della città, pronto a perseguire l’uccisore del cugino, proteggere la vedova e il figlio. Il Senato di Firenze, per arginare la difficile situazione di vuoto politico creata dalla prematura morte di Alessandro, concede con malavoglia a Cosimo il titolo di “Capo e primario della città” ma gli impone, per limitare il suo potere, un luogotenente tra i membri del Senato. Cosimo ha bisogno di legittimare il proprio potere: chiede quindi a Carlo V la mano della vedova Duchessa Margherita d’Austria e la patente Ducale. L’Imperatore prende tempo e alla fine, pronunciandosi con un compromesso, dà l’avvallo alla nuova reggenza di Firenze, imponendo il suo dominio sulle fortezze della città e anche di Livorno senza però rilasciare la patente. Intanto i fuoriusciti fiorentini sostenuti dai Francesi si stanno organizzando per riportare Firenze alla Repubblica con la forza delle armi, ma le loro speranze si infrangono con la sconfitta nella battaglia di Montemurlo. Questa vittoria di Firenze permette a Cosimo

di rafforzare il suo potere interno alla città, cercando al tempo stesso di consolidare la sua posizione fuori dall’Italia affrancandosi dal soffocante giogo imperiale. Passano otto anni prima che Carlo V conceda la patente ducale a Cosimo, rifiutandogli a più riprese sia la mano di Margherita d’Austria sia le fortezze con cui tiene in scacco la Toscana. Cosimo dal canto suo rifiuta la mano di Vittoria Farnese, matrimonio caldeggiato dal Papa stesso, e trova un compromesso con l’Imperatore prendendo in moglie Eleonora di Toledo, la secondogenita del Viceré di Napoli. Cosimo con questo matrimonio rafforza la sua posizione legandosi a una delle più importanti consorterie spagnole: ne ricava così vantaggi, politici ed economici, rilevanti3. Una conoscenza diretta delle questioni cittadine e del territorio permettono a Cosimo di sovrintendere in prima persona agli interventi e avere un polso chiaro e fermo sui domini. Nel 1543 Cosimo inizia ad assumere un ruolo primario nelle forze filo-imperiali in Italia e, con il ritorno in guerra di Spagna e Francia, il Duca approfitta del bisogno di liquidità finanziaria dell’Imperatore comprando le fortezze di Firenze e Livorno con l’esborso di una conside-


revole somma. I sogni di grandezza non toccano solo i Medici ma anche altre famiglie fiorentine come i Pitti che ambiscono a rivaleggiare nell’immagine con i Signori di Firenze. Proprio questa rivalità impone agli orgogliosi Pitti la costruzione di un palazzo talmente grande da costringerli alla bancarotta. Beffa del destino, il palazzo, nel 1550, viene acquistato da Eleonora di Toledo, moglie del Duca di Firenze, diventando la principale residenza dei Medici. L’impianto principale del giardino di Boboli, alla cui realizzazione – che occupò tutta la seconda metà del Cinquecento se si escludono i molti rimaneggiamenti occorsi fino al XVIII sec. – parteciparono oltre a Cosimo I anche i Granduchi Francesco I e Ferdinando I, rispecchia fortemente la diversa visione politica e culturale dei tre Principi. Siamo infatti in un momento di rottura con il passato: se ormai il Medioevo è lontano, anche il primo Umanesimo si è evoluto, da Petrarca siamo giunti a Erasmo e la vita politica muta in favore di una figura del Principe che “... lungi dall’essere nuovo sulla scena, aveva diviso [fino ad allora] [...] con il papato il dominio del mondo occidentale e difeso il nobile ideale della Cristianità [...] nel momento in cui la potenza di quel grande ideale unificatore cominciò a perdere forza, si aprirono al principe nuove possibilità di esercitare il suo dominio ed egli [...] impose la sua autorità”4. In tale contesto anche le città si trasformano, si “[riconfigurano...] in chiave di autoritratto del principe”5 come pure i giardini, che aristotelicamente devono “sucitar stupore e maraviglia” divenendo specchio delle virtù del Principe. Se però Cosimo I era ancora legato ai valori propri dell’Umanesimo, che nel giardino vedevano un ritorno all’otium classico, caratterizzato dalla semplicità organizzativa con pochi elementi artificiosi, con Francesco I, dedito allo studio dell’alchimia, delle scienze, del soprasensibile “curioso dei segreti della materia, raffinato collezionista”6, Boboli si arricchisce di giochi d’acqua, grotte, artifizi teatrali, senza però giungere a quell’abbandono fantastico tipico del giardino di Pratolino, vera opera d’arte del Nostro Francesco. Con la successione al Granducato di Ferdinando I, avvenuta nel 1589, in piena Controriforma, il cardinale avvia una politica di restaurazione

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morale che coinvolge anche il giardino, con nuovi allestimenti, viali dal tracciato più razionale, figure pagane che assumono un nuovo senso moralistico, in un contesto di formalismo che diviene manifestazione del potere. Ma dietro alle peculiarità di Boboli — come di molti altri giardini cinquecenteschi ricchi di labirinti, emblema dell’intrico esistenziale; di grandi prati che alludono alle valli dei poemi cavallereschi; di angoli più nascosti e segreti, spazi edenici che richiamano l’hortus conclusus medievale, e di zone boschive e selvatiche — vi è sicuramente il modello di giardino “ideale” immaginato e descritto da Francesco Colonna nell’opera Hypnerotomachia Polyphili la

cui editio princeps uscì a Venezia nel 1499 per i tipi di Aldo Manuzio. Si tratta del viaggio iniziatico intrapreso da Polyphilo alla ricerca della donna amata, Polia, attraverso un giardino che si dipana ai nostri occhi come il più meraviglioso e fantastico, caratterizzato da tutti i topoi del cammino iniziatico, quali il labirinto, il bosco, gli ostacoli e gli elementi di aiuto, attraverso i quali occorre passare per arrivare a quella trasformazione interiore e ascendere così alla Verità, alla sapientia. Se il cammino della saggezza, che simbolicamente nei giardini principiava da un labirinto, da un bosco o da un angusto passaggio, per attraversare la giusta via e giungere alla meta finale, simboleggiata 47


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dal cuore della villa, in questa nostra passeggiata si è scelto di intraprendere il cammino percorrendo l’asse oriente-occidente, quel percorso discendente che parte dal Prato dell’Uccellare per giungere all’ingresso di Porta Romana7. Questo ampio spazio verde è delimitato da due file di alberi che rievocano l’immagine di colonne perimetrali dei templi antichi, a 48

sottolineare la sacralità del luogo in cui ci troviamo e del percorso che stiamo per intraprendere. Spiccano inoltre una colonna in marmo e un cedro del Libano, entrambi dall’elevato grado simbolico. La colonna, infatti, fin dall’antichità ha rappresentato quell’elemento verticale di congiunzione tra la terra e il cielo, tra l’alto e il basso; veniva utilizzata per delimitare la soglia di uno spazio sacro, varcando la quale si abbandonava il mondo profano per entrare in una nuova “dimensione”, sacra. Al cedro del libano si possono associare vari significati simbolici: quello che pare più attinente al nostro viaggio e al luogo in cui ci troviamo è l’incorruttibilità, come richiamo all’integrità che la nostra anima dovrà conservare fermamente per giungere alla meta, superando le tentazioni che incontreremo. Il Prato dell’Uccellare8, il cui nome rievoca le facoltà possedute dall’Augure Romano di leggere e interpretare il volo degli uccelli, portatori di segnali e messaggi divini, è allora il punto di partenza del nostro cammino lungo il “Viottolone”, un viale discendente, delimitato da imponenti cipressi9, al termine del quale possiamo intravedere il nostro traguardo, ancora solo vagamente intuibile. Questo percorso,

come vedremo, sarà disseminato di elementi che evocano le virtù da conquistare, ma anche di ostacoli e prove che tenteranno di distogliere la nostra anima e il nostro cuore dal nobile obiettivo che intendiamo conquistare. Per questo riteniamo possa essere messo in relazione con l’acronimo V.I.T.R.I.O.L.: Visita Interiora Terrae Rectificandoque Invenies Occultum Lapidem, che richiama il percorso di ricerca interiore da compiersi attraverso operazioni di rettifica e purificazione, per giungere alla conquista della pietra nascosta dentro di noi. Iniziamo la nostra discesa consapevoli che il viaggio sarà aspro e non privo di difficoltà, come dimostra la presenza di una statua, la prima di una lunga serie, che raffigura Aristogene10: il suo pugnale sguainato e la fiera postura fanno da monito ricordandoci che dovremo procedere guardinghi e con cautela lungo tutto il nostro cammino. Dopo pochi passi ecco la prima tentazione: un sentiero laterale, che si apre sulla sinistra, invitante grazie alla fitta vegetazione costituita in buona parte da lecci, sembra voler offrirci un percorso riparato, protetto; in realtà rappresenta un’inutile deviazione per allontanarci dalla ricerca della nostra pietra nascosta.


In passato nel giardino di Boboli vi erano ben quattro labirinti, dei quali oggi non resta che una piccola traccia nella parte alta del Viottolone, sulla sinistra. Come il labirinto è presente in alcune cattedrali, nella zona antistante l’ingresso, simbolo delle prove da superare per giungere al Tesoro nascosto, a quella pietra Filosofale così ambita quanto irraggiungibile, così, a Boboli, questo Tempio a cielo aperto, i labirinti, come pure altri percorsi laterali, rappresentano gli ostacoli da oltrepassare, e un monito per non deviare dal nostro cammino11. Recuperata la retta via, proseguiamo la nostra discesa soffermandoci di fronte a un gruppo di quattro statue: Esculapio, Igea, Autunno e Estate. Il periodo autunnale e quello estivo rappresentano i periodi dell’anno durante i quali vengono raccolti i frutti del lavoro compiuto. Assai frequente è la presenza, all’interno del nostro giardino, di statue riconducibili a contesti agrari per ricordare che solo dal duro lavoro, dall’attenta preparazione della terra e dalla successiva amorevole semina possiamo ottenere i frutti sperati, quel raccolto portatore di vita. Queste due stagioni segnano anche due particolari momenti astronomici: il solstizio d’estate, quando il Sole raggiunge il suo culmine, è la circostanza in cui si ha la massima irradiazione solare e trionfo della luce; l’equinozio d’autunno è invece il momento in cui le forze del mondo risultano in armonia, e luce e oscurità sono in equilibrio. Le altre due statue, Esculapio, dio della medicina, e Igea, divinità della salute, rappresentano due aspetti della stessa saggezza e ci mostrano quelle virtù sapienziali senza le quali il nostro cammino non potrebbe procedere fruttuoso: la sapienza e la conoscenza12. Come già detto, questo giardino nasconde messaggi a chi non ha ancora conquistato le giuste qualità per accedervi: proprio la statua di Igea, infatti, nella parte retrostante, nasconde agli occhi di chi solo “vede” ma non “osserva” la sua simbologia più importante: un ramo che sale dal basso e si divide in due più piccoli i quali, intrecciandosi tra loro, giungono a cingere la testa della divinità. Il ramo può rappresentare il simbolo di Esculapio, ossia il bastone attorno al quale è sovente raffigurato il serpente. Tra le molte statue che incontriamo lungo la nostra discesa, spiccano le quattro sculture di

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Andromeda, Dioniso, un saggio e un console. Andromeda, sulla cui storia ci soffermeremo in seguito, rappresenta la conquista della libertà ottenuta grazie all’intervento dell’eroe che sconfigge il mostro e spezza le catene che la tenevano prigioniera. Dioniso, spesso associato al vino, al nettare d’uva e alle frivolezze terrene, nasconde in realtà una simbologia ben più profonda, legata a una sapienza filosofica e ai misteri celebrati nei rituali dionisiaci. A completare il messaggio evocato da Andromeda e Dioniso, ecco le statue di un saggio e di un console, che recano entrambi in mano il rotolo della Legge. Emblema del sacro e filosofico, il saggio; delle norme che regolano la vita sociale, il console. Giunti al termine della discesa del Viottolone, davanti a noi si apre uno spazio pianeggiante, da cui appare ben più visibile la nostra meta, quella

pietra nascosta che inizialmente ci appariva assai lontana. Siamo ora circondati da quattro statue che riassumono le qualità che dovremmo aver conquistato in questo nostro cammino. Nuovamente abbiamo di fronte Esculapio, stavolta in posa fiera e dominatore del serpente che cinge il suo bastone, per ricordarci che dovremo mantenere sempre il dominio sugli istinti più bassi, dominandoli con sapienza. Il nostro sguardo poi volge verso quella figura femminile seminuda, con le braccia che coprono la parte superiore del corpo e la cui posa ci evoca un senso di pudore. Gli anelli che le cingono le caviglie e le braccia evocano la mitologia di Andromeda, liberata da Perseo dopo aver sconfitto il mostro che era posto a sua guardia. Ci sono così indicate le virtù da possedere per proseguire nel nostro cammino: l’umiltà e la purezza d’a49


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nimo, che possiamo conquistare solo dopo esserci liberati dalle catene del vizio, attraverso un processo di purificazione. La terza statua è una ninfa, che reca in mano quello che appare come un cucciolo di cane, simbolo di eterna fedeltà verso il segreto al quale tendiamo. Tale figura richiama quella conoscenza della natura indispensabile per elevare la nostra condizione: scienza unita a sapienza, qualità virtuose necessarie per realizzare la grande Opera. L’ultima statua ha una posa che ci invita al silenzio, al riserbo, alla segretezza. Questo concetto è assai caro a tutti 50

gli ordini Iniziatici, ivi compresa la Libera Muratoria, dove il segreto iniziatico non è trasmissibile in alcuna forma, ma è unicamente conquistabile attraverso la ricerca interiore e l’intuizione. Siamo altresì invitati alla prudenza: ciò che stiamo per conquistare, se rivelato, potrebbe non essere compreso dal mondo profano, affaccendato nella conquista di quei “metalli” di cui i Liberi Muratori si liberano prima di varcare la soglia del Tempio, per purificare l’anima dal superfluo, dalle forze disarmoniche. Il mondo profano è ben simboleggiato da due statue che incontriamo

poco oltre e che rappresentano il gioco del Saccomazzone e il gioco della Pentolaccia. Ed è proprio in questo momento, quando, muovendo i passi verso quell’isola su cui troneggia la fontana di Oceano, ci lasciamo alle spalle quel lungo e periglioso cammino che abbiamo testé compiuto, che un raggio di sole improvviso illumina il nostro gruppo: è una Luce calda, intensa, proveniente da ovest che ci induce a soffermarci e a riflettere. Sono attimi carichi di emozione, di energia vitale, che hanno aggiunto alla giornata, fino a quel momento assai gradevole, qualcosa di magico e misterico. E chi, come noi, compie un cammino sapienziale di ricerca interiore non può credere che questi attimi, che questi momenti siano stati casuali. Incoraggiati da questa calda accoglienza della Luce, perseveriamo nel proseguire il nostro cammino e giungiamo innanzi all’isola, circondata dall’acqua, da cui “emerge” maestosa la fontana di Oceano, capolavoro del Giambologna. A questo luogo sacro si accede tramite un vialetto, chiuso da un cancello e delimitato da un portale con due coppie di colonne. Ritroviamo nuovamente, dopo il Prato dell’Uccellare, la simbologia delle colonne, a delimitazione di quel varco da attraversare per giungere a un luogo sacro. E l’accesso a questo luogo è fedelmente sorvegliato da due leoni e da due capricorni posti alle sommità delle colonne. Oceano è l’acqua primordiale, la sorgente perpetua da cui tutto ha origine e da cui tutto procede. E il modo di procedere delle acque, a volte sotterraneo, a volte alla luce del sole, è paragonabile al percorso che tradizionalmente compiono gli Ordini iniziatici, secondo le condizioni ambientali e del contesto storico in cui operano. Osservando questo luogo ampio, verde, ricco di acqua e statue campestri, il nostro animo ha trovato la serenità conquistata dopo aver percorso un cammino dentro noi stessi, dopo aver resistito alle tentazioni che si sono poste innanzi a noi conquistando così quelle virtù che le statue ci hanno indicato. Questo luogo può simboleggiare ciò che gli Iniziati vanno cercando: una Verità forse irraggiungibile ma verso cui si deve sempre tendere, attraverso continue operazioni di putrefazione, di rinascita e di sublimazione per realizzare la nostra grande Opera. Da questo momento in poi, dopo aver varca-


to l’ultimo portale nel Prato delle Colonne, il nostro cammino incontrerà simbologie che evocano virtù ormai conquistate, come la statua di Flora, divinità della fioritura, che ha una mano e lo sguardo rivolti verso l’Alto, oppure Dioniso, rappresentato con una pelle di animale sulle spalle, simbolo di rinascita a nuova vita. Il nostro percorso si conclude innanzi alla statua di Perseo, l’eroe vittorioso che ha spezzato, dopo aver sconfitto il mostro, le catene che imprigionavano Andromeda, restituendole la libertà. Questa scultura ci ricorda che anche noi possiamo divenire eroi, spezzando le catene del vizio e dell’errore, conquistando quelle virtù regali che abbiamo incontrato nella nostra discesa e liberando così la nostra anima. Questo cammino, tuttavia, come si è detto, è un percorso personale, individuale: sarebbe impossibile compierlo se non fossimo guidati da quella Luce generatrice di vita e ordinatrice del caos. A parere di chi scrive, il raggio di sole che ha illuminato il nostro viaggio, mentre stavamo per entrare in quel luogo incantato, custode geloso della pietra nascosta, dopo le fatiche superate, ha inondato la nostra “passeggiata esoterica” di un’emozione senza eguali. Nulla è casuale a questo mondo.

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\ La visita di cui vi abbiamo narrato, organizzata dalla Consulta Giovani Massoni delle Provincie di Arezzo e Firenze, è stata fortemente caldeggiata dalla Sr. Giovanna Lobaccaro, Coordinatore C.G.M. della Regione Toscana; ringraziamo di cuore lei e tutti coloro che con noi hanno voluto condividere questa esperienza. _______________

Note: 1 E. Fasano Guarini, Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze, granduca di Toscana in Dizionario Biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984. 2 Tale unione sancisce una tregua tra Papato e Impero e il conseguente riconoscimento Ducale del nuovo Signore di Firenze. 3 La pazienza di Cosimo viene premiata dal tempo; ci vogliono infatti quasi dieci anni per allontanare gli elementi ostili interni al Senato di Firenze e, con una attenta politica di com-

promessi, concede dove può, autonomia alle famiglie nobili fiorentine nelle cariche di governo ma al tempo stesso accentra sotto il suo controllo molte decisioni non solo legate al potere legislativo ma anche civile e penale. 4 Cfr. J.H. Shennan, Le origini dello stato moderno in Europa 145-1725, Bologna 1991, p. 11. 5 M. Fagiolo, Effimero e giradino: il teatro della città e il teatro della natura in Il potere e lo spazio. La scena del principe. Contributi all’Esposizione “Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento”, Firenze 1980, p. 46. 6 M. Mastrorocco, Le mutazioni di Proteo. I giardini medicei del Cinquecento, Firenze 1981, p. 93. 7 Questo diverso cammino è stato suggerito dalla lettura del volume di Costanza Riva, Boboli il giardino alchemico, Siena 2012, da cui sono stati tratti molti spunti e suggerimenti. 8 Questo luogo potrebbe allora essere consi-

derato come un “tempio verde”, sacro, da attraversare per poter intraprendere il cammino dentro Boboli, ma anche dentro noi stessi. 9 Anche queste piante hanno assunto nei secoli un alto valore simbolico, tanto da essere spesso collocate in aree sacre come i cimiteri, i chiostri dei monasteri o dei conventi, etc. 10 Ammiraglio ateniese morto dopo il 406 a.c. 11 Tali prove e avvisi ricordano molto da vicino il percorso che deve compiere il profano e che ha inizio dal gabinetto di riflessione. 12 Le quattro statue quindi esplicano il lavoro da compiere con intimo amore e le qualità iniziatiche da conquistare lungo tale percorso: dalla terra da arare, per poi deporvi il seme da cui nascerà la vita, alla sapienza da raggiungere.

P.44/51: Firenze, Giardino di Boboli (p.44 foto P.Del Freo).

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Le metamorfosi di Pinocchio e la Fata turchina II parte

Paolo Aldo Rossi

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inocchio e la Fata ‘latomistica’ Nella storia di Pinocchio, dove sono presenti sia il termine babbo e mamma [Geppetto e la Fata Turchina], non compare mai il termine ‘dio’. «Dio esiste. — aveva scritto Giuseppe Mazzini — Noi non dobbiamo né vogliamo provarvelo: tentarlo, ci sembrerebbe bestemmia, come negarlo, follia. Dio esiste, perché noi esistiamo»1 e per Carlo Lorenzini la questione era chiusa. Poteva anche chiamarsi, per i fratelli massoni, il Grande Architetto dell’Universo, ma in una fiaba non era il caso di inserirvelo, anche perché «Dio vive nella nostra coscienza, nella coscienza dell’Umanità, nell’Universo che ci circonda». Il nipote di Collodi ci ricorda che lo zio raccontò alla madre di avere fede in Dio, anche se in tema di religione la ragionava un po’ a modo suo2 e nel nostro Ottocento essere laicisti (non necessariamente anticlericali) e credenti voleva dire appartenere alla Massoneria. Il Grande Architetto dell’Universo era il Demiurgo (δημιουργός) o l’artefice divino ordinatore del mondo (ma letteralmente ‘chi lavora per il popolo’, il faber) e Collodi inizia il racconto non da un dio onnipotente, ma da due fabbri, da due artefici3 o falegnami, che hanno a che fare con del legno grezzo e non levigato di cui Mastro Ciliegia vuole fare la gamba di un tavolino mentre Mastro Geppetto vuole farne un burattino vivente; l’uno lavora con l’ascia e la pialla e l’altro con l’intaglio. Questo ricorda certamente Orazio nel Libro I, Satira 8, vv. 1-3: «Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum, cum faber, incertus scamnum faceretne Priapum, maluit esse deum. deus inde ego» [«Un tempo ero un tronco di fico, un legno buono a nulla, quando un falegname incerto se farne uno scanno o un Priapo, decise per il dio»4]. Dal pezzo di legno da catasta i due mastri vogliono fare cose diverse ma alla fine Geppetto «con il suo bravo pezzo di legno … se ne tornò zoppicando a casa» [la classica deambulazione massonica avanzando di tre passi in avanti con il piede sinistro e riunendo a squadra il piede destro]. Per prima cosa dà un nome alla creatura che sta per intagliare: quindi Geppetto è nomoteta o legislatore del

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linguaggio5 e sa che soltanto l’uomo di cui viene pronunciato il nome è vivo e come dice la Bibbia avendogli dato un nome significa possederlo6 e Pinocchio è il nome che deriva dal pinolo, il seme del pino marittimo contenuto dalla pigna, che è forte ma leggera. E proprio su di un pino Pinocchio sale, con un cammino tipico del Maestro che si muove nello spazio, ma solo per questa volta sale intenzionalmente su un albero (piano verticale) per sfuggire agli assassini, al contrario dell’Apprendista che procede solamente su piani orizzontali. «Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino». Gli fa gli occhiacci di legno che si movevano e lo guardavano fisso, il nasone che cresceva e che non finiva mai, la bocca che cominciò subito a ridere e a canzonarlo, tirando fuori la lingua; quin-

di gli fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani. Però mancava qualcosa di importante … «voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli». La credenza nasce dall’ascolto: fides ex auditu ovvero pistis ex akoès (Romani 10,17) e come poteva udire un burattino, a cui mancano le orecchie, ascoltare qualcuno che gli ricordava la voce della coscienza e, tramite questo senso sociale, la vita morale? Nel rituale per diventare da apprendista a compagno d’arte, l’udito è importante perché finora quello che avevi imparato ti proveniva in gran parte da questo senso … Pinocchio non è sordo, ma gli manca il fondamentale organo 53


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per l’ascolto, ossia del prestare orecchio a livello psichico … e sarà così fino a quando gli spunteranno le orecchie d’asino allorquando rivede la Fata, che però sparisce subito: «Si sentí come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente». Quando perde la sua forma asinina mangiata dai pesci Pinocchio vede di nuovo la Fata sotto forma di capretta turchina che 54

«spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscir fuori dell’acqua». Ma deve ancora essere messo nel Gabinetto di Riflessione per dare inizio a una nuova iniziazione: «Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro».

Lì trova un Tonno Politico che non sa dargli aiuto, per il momento, che a parole, ma seguendo il piccolo chiarore che vedeva baluginare da lontano. «trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata». Se Geppetto è il maestro che porta con sé, presenta al mondo e cura con sollecitudine paterna Pinocchio, la Fata turchina (la Massoneria Azzurra, quella con i gradi di Apprendista, Compagno e Maestro) gli sta vicino da quando ha ricevuto l’iniziazione e la morte rituale (l’impiccagione alla Quercia Grande) e l’accompagna nella vita successiva che inizia proprio da lei che manda un Falco a staccarlo dal nodo scorsoio sentendogli dire: «Ora mi sento meglio!...», poi chiama un Cane barbone per riportarlo a casa, con una carrozzina tirata da cento pariglie di topini bianchi, e quindi manda a chiamare i tre medici (anche se ha già sentito che non è ancora morto perbene). Pinocchio deve bere la medicina amarognola e sgradevole, ma resa dolce dallo zucchero [la Coppa delle Libagioni che viene offerta al recipiendario prima dolce e poi amara]. Pinocchio si era sottoposto alle prove: dell’aria con il pulcino che gli sfugge, dell’acqua con il vecchietto che gli versa addosso una catinella che lo innaffia dalla testa ai piedi e del fuoco sopra il caldano che gli brucia i piedi7; quindi va a scuola … non proprio! va al teatrino delle marionette dove i burattini gli confermano: «È il nostro fratello Pinocchio!” È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffío dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.» Questo è quello che avviene nella stanza dei passi perduti della Loggia dopo che il profano è accettato dai fratelli, finché non esce fuori il burattinaio (il Venerabile): «Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro


rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme» (la spada fiammeggiante?). Mangiafuoco «specie con quella sua barbaccia nera a uso grembiale» [è il grembiule che i fratelli indossano, come segno distintivo e simbolo iniziatico della Libera Muratoria nei suoi 3 gradi], non era un cattivo uomo, anzi … a sentirsi chiamare Signore, Cavaliere, Commendatore [si vedano in massoneria il Rispettabilissimo, Illustrissimo, Venerabilissimo, Elettissimo, Potentissimo …], non ci sente, ma di fronte a quell’Eccellenza cede e gli fa la grazia: «Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio» [il Maestro Venerabile pone la spada fiammeggiante sul capo del Neofita … poi lo aiuta ad alzarsi lo abbraccia e lo bacia e gli dice “tu sei mio fratello” e questo segna l’iniziazione di un apprendista]; e i burattini cominciarono a saltare e a ballare: «Era l’alba e ballavano sempre». Pinocchio decide di andare a scuola e mettersi a studiare «a buono» o per davvero. Ma incontra il Gatto e la Volpe che lo persuadono a non andarci per avere più monete o metalli. Il Gatto, compagno furfante della Volpe, è cieco [troviamo ‘la benda’, che ricopre gli occhi dell’iniziando], mentre la Volpe, a sua volta, è zoppa [e ciò evoca un altro simbolo massonico legato a questo concetto e infatti, il profano che sta per accedere all’iniziazione, deve avere gamba e ginocchio destro nudo e piede sinistro scalzo e i primi passi dell’iniziazione vanno eseguiti zoppicando, solo dopo di ciò il cammino può diventare regolare]. L’iniziando porta al collo una corda con un nodo scorsoio … La bella Bambina dai capelli turchini, una bonissima Fata, una buona mamma, la sorellina, la donna («mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma»), la capretta dal manto turchino, e infine una visione onirica dell’epifania finale ... la Fata Turchina è tutte queste cose per cui il burattino le domanda: «Ma come avete fatto a crescere così presto?— È un segreto.— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio.- Ma tu non puoi crescere - replicò la Fata. - Perché? - Perché

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i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.- Oh! sono stufo di far sempre il burattino! - gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. - Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo... - E lo diventerai, se saprai meritarlo... - Davvero? E che posso fare per meritarmelo? - Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.» È un segreto, cioè un concetto non divulgabile e non enunciabile, un contenuto ‘pieno di significato e privo di spiegazione’, la cui conoscenza è possibile soltanto attraverso l’esperienza vissuta. «Il mistero della massoneria — scriveva Giacomo Casanova —, di fatto, è per sua natura inviolabile. Il massone lo conosce solo per intuizione, non per averlo appreso, in quanto lo scopre a forza di frequentare la loggia, di osservare, di ragionare e dedurre. Quando lo ha appreso, si guarda bene dal far parte della sua scoperta a chicchessia, fosse pure il suo miglior amico massone, perché se costui non è stato capace di penetrare da solo il segreto, non sarà nemmeno capace di profittarne se lo apprenderà da altri. Il segreto rimar-

rà dunque sempre tale. Ciò che avviene nella loggia deve rimaner segreto, ma chi è così indiscreto e poco scrupoloso da rivelarlo non rivela l’essenziale. Del resto, come potrebbe farlo se non lo conosce? Se poi lo conoscesse, non lo rivelerebbe8.» Il numero tre compare molte volte [allorché un libero muratore — i fratelli dei tre puntini — si faceva conoscere doveva farlo bussando tre volte e replicare senza errori a tre domande e l’Apprendista, nel Rito Scozzese e Francese, aveva l’obbligo della cosiddetta triplice batteria — una sorta di battimano —, mentre il novizio aveva la necessità di effettuare almeno tre viaggi superando la paura della morte e dell’Acqua, del Fuoco e dell’Aria]. Tre sono le pere e i torsoli avuti da Geppetto, tre gli starnuti di Mangiafuoco, tre le volte per ordinare il cibo da parte della Volpe e tre i violentissimi colpi dati nella porta di camera dell’Osteria del Gambero Rosso dove Pinocchio era in sonno. Il burattino impiccato dopo tre ore ha sempre gli occhi aperti e la Fata per chiamare il Falco batte per tre volte le mani insieme con tre piccoli colpi, il Can Barbone porta un nicchiettino a tre punte gallona55


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to d’oro e vengono chiamati i tre medici. Nella storia, ispirata a Goethe, Pinocchio aspetta un’ora, due ore, tre ore, ma il Serpente è sempre là. Il Colombo gli dice che ha visto Geppetto tre giorni prima sulla 56

spiaggia del mare e i compagni gli ribadiscono: la scuola, la lezione e il maestro sono i nostri tre grandi nemici. Pinocchio dice a Lucignolo «io che son venuto a cercarti a casa tre volte!» prima di anda-

re con lui nel Paese dei Balocchi e diventare un asino e l’Omino di Burro gli racconta che un ciuchino, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati, sa dire qualche parola, mentre a lui per apprendere gli esercizi circensi ci erano voluti tre mesi di lezioni (è inutile che tutti ricordino Apuleio!) In mare viene ingoiato dal Pesce Cane, che ha tre filari di zanne, e alla fine di tutto gli viene indicato che tre campi distante di lì, c’è l’ortolano Giangio presso il quale Pinocchio con il proprio duro lavoro aiuta Geppetto e la Fata. L’Isola delle Api industriose (l’Officina in cui «tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare») è il luogo dove ogni abitante è operoso e quindi le api, che suggeriscono il nome a questo paese, naturalmente fanno il miele9. La colazione in casa della Fata, per celebrare l’evento, cioè il passaggio da burattino a ragazzo perbene, si presenta così: «la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori». Il numero non è a caso. Hiram, l’architetto del Tempio di Salomone, riportò l’immagine scolpita della melagrana intorno ai capitelli delle due Colonne: «E fece due ordini di melagrane attorno all’uno di quei graticolati, per coprire il capitello ch’era in cima all’una delle colonne; e lo stesso fece per l’altro capitello. I capitelli che erano in cima alle colonne nel portico erano fatti a forma di giglio, ed erano di quattro cubiti. I capitelli posti sulle due colonne erano circondati da duecento melagrane, in alto, vicino alla convessità ch’era al di là del graticolato; c’erano duecento melagrane disposte attorno al primo, e duecento intorno al secondo capitello.» (1 Re 18-20) Non a caso i panini preparati dalla Fata sono duecento più duecento, come le melagrane, e anche le duecento tazze di caffè e latte ricordano questo numero addirittura nel valore cromatico: il caffè è nero, mentre il latte è bianco come il pavimento del Tempio a forma di scacchiera. Il Gabinetto di Riflessione è nero, così come lo stomaco del Pescecane, vi sono delle ossa, un cranio, un tavolino su cui giace un pezzo di pane, una brocca d’acqua e del sale. Non manca la volta stellata [sul soffitto del tempio è dipinto il cielo, la notte e le stel-


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le]: «poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna». Per terminare: Le metamorfosi (Metamorphoseon libri), o L’asino d’oro (Asinus aureus) di Apuleio di Madaura che tutti conoscono — come Pinocchio — «Lector, intende: laetaberis», ossia «Lettore capisci che ti divertirai»10 e Collodi chiosa: «Quello che accadde dopo, è una storia così strana da non potersi quasi credere». «A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro», Publio Ovidio Nasone, (Metamorfosi I, 1) e Orazio «un Priapo, decise per il dio»11. ______________ Note: 1 G.Mazzini, Doveri dell’uomo, intr. di Giano Accame, ASEFI Editoriale Srl, Pubblicazioni Terziaria, Milano 1995, cap. 2: Crediamo che Dio è Dio, e l’Umanità è il suo Profeta. 2 Paolo Lorenzini “Collodi Nipote”, Collodi e Pinocchio, Salani, Firenze 1954. 3 Dēmiurgòs: δήμιος (dèmios), cioè “della gente”, ed ἔργον (èrgon), ossia artigiano pubblico. Coloro che fanno un lavoro che esige ingegno e abilità manuale. «Un mestiere – dirà il Grillo - tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane». 4 Lo ricorda anche Bertolt Brecht in Leben des Galilei.

5 Chi sa il nome è padrone delle cose: «tu mi sembri asserire che colui che sappia i nomi, sa anche le cose» [Cratilo, 435 e]; «i nomi significano a noi l’essenza del tutto che va e si muove e scorre» [Cratilo, 437a] - o che permane. 6 «Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui» (Genesi 2:20-21). 7 E lo ripete. Come quando sfugge agli Assassini (salta un fosso pieno d’acqua, si arrampica per aria su di un pino ed evita il fuoco che gli inseguitori avevano appiccato) … come quando sale su un colombo che lo porta al di là del mare, entra in acqua e viene catturato da un pescatore verde che sta per arrostirlo sul fuoco etc … 8 Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero

Chiara (a cura di), trad. Giancarlo Buzzi, Giacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, VII voll. di cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni (a cura di), Mondadori, Milano , 1983, III voll. Ultima edizione: Mondadori, Milano 2001. 9 Di acacia o robinia il miele toscano per eccellenza (in gergo per acacia s’intende la ‘cascia toscana’ o la robinia pseudoacacia). «I know the Sprig of accahsia», il ramo d’acacia segna il transito tra la ‘seconda morte’ e la ‘terza nascita’, inizio al mondo speculativo. «Conosco il ramo d’acacia, e tutto ciò che esso cela». 10 Apuleio, Metamorfosi (L’asino d’oro), traduzione di Marina Cavalli, Mondadori, I 11 E Orazio aveva di cognome Flacco e l’autore delle Metamorfosi aveva come nome di famiglia Nasone

P.52: Burattino in legno, collez. privata; p.53/57: Illustrazioni di Pinocchio da un volume dei primi del ‘900.

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Parigi 2015 La conferenza mondiale sui cambiamenti climatici: l’architettura del clima, il contributo massonico Jean Marc Schivo

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alcolo infinitesimale, derivata, integrale, successione variabile, basi per il calcolo dello sviluppo di un modello, di un sistema continuo, calcolo riguardante i processi fisici, matematici, statistici e economici. Questi sono solo alcuni degli argomenti sviluppati da Gottfried Wilhelm Von Leibniz, nato a Lipsia nel 1646, matematico, filosofo, scienziato, giurista, storico, magistrato, genio tedesco di portata universale, anticipatore della teoria evoluzionistica di Darwin e di quella dell’inconscio di Freud. Rosacroce, come altri importanti esponenti del pensiero filosofico dell’epoca, sviluppa una serie di teorie che, una volta codificate, consentono di mettere in comunicazione mondi differenti unendoli tramite il calcolo, la matematica e la filosofia. Il concetto che “nulla è separabile nel mondo” verrà sviluppato in tutte le sue ricerche non solo in termini matematici e avrà un riscontro pratico in molti settori tra cui l’economia. Le nuove scoperte nel campo della fisica permettono a Leibniz di poter meglio verificare le sue teorie. Oltre agli aspetti puramente meccanici secondo lui la materia possiede una sua estensione e una sua energia che riesce a relazionarsi con tutte le altre forme di vita. Questa visione universalistica degli elementi infinitesimali che governano le leggi della natura lo porta a sviluppare il concetto di monade, forma sostanziale degli esseri infinitesimali, ognuna con la propria specifica identità nel tentativo di dare una definizione dinamica al concetto di Grande Architetto dell’Universo e alla forza generatrice di ogni forma di vita. Ci troviamo nel cuore degli elementi che costituiscono questa particella della natura nel senso più esteso del termine: “Ogni monade è stata creata imperfetta perché l’imperfezione di una sarà la relativa perfezione dell’altra”. Dalla perfezione suprema del “Grande Architetto dell’Universo” deriva che, creando l’universo, ha scelto il miglior piano possibile, nel quale la più grande varietà possibile è congiunta con il massimo ordine possibile ... e ciò perché nell’intelletto divino, in proporzione alle loro perfezioni, tutti i possibili pretendono all’esistenza: il risultato di questa pretesa deve essere il mondo attuale, il più perfetto possibi-

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le”. (Principi della natura e della grazia, G. Wilhelm Von Leibniz, 1666). In questo approccio alla descrizione del mondo e delle sue interconnessioni ritroviamo un’anticipazione storica del concetto di biosfera, ovvero l’insieme degli infiniti elementi presenti nelle zone del nostro pianeta le cui condizioni ambientali consentono lo sviluppo della vita. Vita apparente e vita nascosta nei meandri degli atomi, distribuita in una fascia di circa 20km che va dalle profondità dell’oceano fino a una altitudine di circa 10.000m, spazio estremamente limitato e prezioso nel quale tutte le specie viventi, visibili e non, devono condividere la propria esistenza. In questa realtà ogni azione prodotta dall’uomo o dalle 59


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altre forme di vita produce una reazione che modifica lo status di tutto l’insieme. È l’opposto di una visione di un mondo concepito per parametri separati e non comunicanti sia dal punto di vista politico, sia culturale o scientifico per mantenere lo status quo più facilmente controllabile. Da ormai centinaia di anni la biosfera è di fatto il silenzioso osservatore di se stesso che progressivamente diventa sempre più povero di risorse, capacità rigenerative e possibilità di cresci60

ta. Il XIX secolo in particolare segna una significativa accelerazione di queste caratteristiche. La crescita demografica, le necessità alimentari, la messa in rete dei trasporti delle grandi città in un sistema urbanizzato in continua espansione hanno fortemente influenzato lo sfruttamento delle risorse naturali sia dei combustibili fossili sia dei materiali più rari, contribuendo, grazie anche a un processo di industrializzazione su sempre più vasta scala, al progressivo impoverimen-

to delle riserve naturali e alla devastazione di molti ecosistemi impossibilitati a potersi rigenerare in modo naturale. Ancora oggi, pur parlando continuamente di globalizzazione, i governi perseguono una politica di crescita economica per elementi separati, circoscritta a una visione territoriale nazionalista finalizzata per lo più a accumulare riserve energetiche sottratte a altri, senza tener conto della complessità delle relazioni tra tutti gli elementi presenti nella biosfera e della dislocazione delle risorse primarie che risultano controllate da pochi e distribuite senza un criterio equo. A distanza di secoli dall’intuizione di Leibniz e dal concreto meccanismo universale di interrelazioni che regola ogni attività energetica del pianeta, aspetto poco compreso dalla moltitudine delle persone, ritroviamo nella realtà di internet un nuovo metodo educativo che si avvicina molto a questa realtà. Internet rappresenta infatti un’infrastruttura globale intelligente che collega ogni angolo del pianeta. Dall’energia alla ricerca, alla cultura fino alla comunità associativa Internet moltiplica i suoi nuclei, le sue monadi, mettendo in relazione ogni cosa e ogni essere in un unico sistema per gettare le basi di una nuova informazione condivisa e costruire lentamente una nuova coscienza collettiva che vada oltre i confini puramente geografici e politici delle nazioni in una virtuale allegoria del funzionamento della grande foresta pluviale. Capire questo meccanismo significa rendersi conto che si sta entrando nell’era della partecipazione, collaborazione e condivisione. Questa consapevolezza, presente soprattutto nei giovani, inizia a estendersi ai differenti settori della vita, non solo nei social network, ma anche nella comunità scientifica e economica rafforzando la convinzione che il buon funzionamento degli ecosistemi e della biodiversità dipendono dalla sostenibilità delle relazioni fra ogni sua parte. La biosfera rappresenta di fatto l’unico organismo planetario il cui stato di salute determina anche lo stato di salute di ogni essere vivente. Rispetto a quanto verificatosi nel XIX secolo stiamo assistendo all’incremento sempre più veloce dello sfruttamento delle risorse energetiche di tutto il pianeta, da quelle fos-


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sili a quelle naturali. Gli attuali 7,5 MLD di abitanti diventeranno, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, circa 9,5 MLD entro il 2050 fino a raggiungere gli 11,5 MLD nel 2100. Il 70% sarà concentrato nelle aree urbane e in megalopoli che cresceranno in numero e estensione. Questa crescita concentrata e disomogenea darà inevitabilmente luogo a una domanda energetica che entro il 2050 aumenterà del 50% rispetto a quella attuale con picchi di consumo di incontrollabili proporzioni. Tale crescita sarà dovuta sia all’incremento di popolazione sia alle aumentate necessità alimentari e se verrà affrontata con le attuali modalità non farà che incrementare in maniera vertiginosa il riscaldamento globale del pianeta. Alla vigilia dell’era industriale la concentrazione complessiva di carbonio nell’atmosfera, compresa nei precedenti 650.000 anni tra le 180 e 330 ppm (parti/milione), ha raggiunto le 400 ppm nel 2013 con un andamento simile a quello del metano del protossido, gli altri principali gas serra. Negli ultimi 10.000 anni di vita dell’uomo sulla terra la soglia di sicurezza è stata di 280 ppm. L’obiettivo dei governi di qua al 2050 sembrerebbe essere quello di contenere le emissioni di CO2 entro le 450 ppm nella speranza di limitare il surriscaldamento globale del pianeta a 2°C. Situazione che porterebbe comunque già a conseguenze devastanti entro i prossimi 35 anni. Purtroppo

queste già allarmanti previsioni sembrano essere ormai ampiamente superate e qualora anche la Conferenza Mondiale sul clima, che si terrà a Parigi nel mese di dicembre 2015, non dovesse portare all’immediata attuazione di adeguati provvedimenti si può presumere che il previsto aumento di 4.5°C della temperatura entro il 2100 modificherà in modo sostanziale l’intero pianeta. Difficilmente la biosfera riuscirà a gestire senza conseguenze un tale cambiamento in così poco tempo dato che il ciclo idrogeologico del pianeta verrà sostanzialmente modificato. Ogni aumento di 1°C produce infatti un aumento della capacità di assorbire l’umidità da parte dell’atmosfera pari al 7% con conseguenze devastanti sulla distribuzione delle precipitazioni. A piogge molto più intense, concentrate e violente in certe aree si contrapporranno precipitazioni scarse o del tutto assenti in altre con periodi di siccità sempre più prolungati. La destabilizzazione delle dinamiche di questi ecosistemi porterà inevitabilmente, come sta già avvenendo, alla riduzione e alla perdita della biodiversità che raggiungerà 1/3 delle attuali specie viventi entro il 2050. L’incremento dei tornado e della loro intensità, lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai rappresentano il più evidente segnale di cambiamento climatico. La riduzione delle distese glaciali dell’Antartide e della Groenlandia è già

oggi responsabile per un 25% dell’innalzamento del livello degli oceani. Nei prossimi anni questa tendenza si intensificherà e la conseguente diminuzione della superficie bianca riflettente porterà a un maggior riscaldamento e a un’inevitabile accelerazione dello scioglimento dei ghiacci in un circolo vizioso difficilmente modificabile. La sola calotta artica contiene abbastanza acqua per far innalzare il livello del mare di oltre 60 metri. Quanto ai ghiacciai di montagna la riduzione del loro volume sarà del 50% entro il 2030 e del 90% entro il 2100. La continua emissione di acqua dolce in mare influenzerà le correnti oceaniche di profondità che sono originate dalla differenza di temperatura e salinità dell’acqua (circolazione termoalina) con pesanti ripercussioni sulle condizioni climatiche continentali. Anche il permafrost artico, che occupa un quarto dell’emisfero settentrionale e contiene serbatoi per circa 1700 miliardi di tonnellate di carbonio, il doppio di quello presente attualmente nell’atmosfera, con il previsto aumento della temperatura sarebbe oggetto di uno scioglimento accelerato con conseguenze incalcolabili. Gli oceani assorbono oggi un terzo della CO2 rilasciata nell’atmosfera, ma il progressivo aumento di questo fenomeno sta producendo la cosiddetta “acidificazione degli oceani”, ovvero una modificazione del ph marino, che sta già pro61


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vocando la morte di alcuni tratti della grande barriera corallina. Diminuzione radicale di produzione di ossigeno, perdita di habitat, aumento delle aree desertificate, impoverimento delle risorse marine dovute a tecniche di pesca intensiva e incontrollata nelle acque internazionali, saranno aggravati da uno dei più temibili eventi per la vita sul nostro pianeta: una crisi idrica mondiale. L’acqua rappresenta il 71% della superficie del pianeta di cui il 97,3% salata e solo il 2,7% dolce. Oggi già 1 miliardo di persone nel mondo è soggetto a carenza idrica costante. Entro il 2050 è previsto un incremento del 55% della richiesta di ac62

qua potabile per necessità agricole, industriali, energetiche e domestiche. Di conseguenza, verosimilmente entro il 2050, la scarsità di acqua potabile diventerà cronica per oltre 2.8 mld di persone con conseguenze devastanti sui flussi migratori che saranno di gran lunga più imponenti di quelli odierni. Un numero incalcolabile di “Profughi ambientali” verrà determinato principalmente dalla carenza di acqua e dalle mutate condizioni climatiche. Infine nei prossimi 30 anni gran parte delle specie minacciate, circa il 25% dei mammiferi e il 15% degli uccelli, potrebbe estinguersi. Queste sono le allarmanti

anticipazioni fornite da organismi quali Nazioni Unite, UNESCO e altre sulle molto più complesse realtà che dovremo inevitabilmente affrontare in una sfida globale. Dal 30 novembre all’11 dicembre 2015 195 governi si ritroveranno a Parigi alla Conferenza sul clima indetta dalle Nazioni Unite. L’obbiettivo è quello di sottoscrivere un nuovo documento che sancisca una nuova intesa sul taglio delle emissioni e sulla riduzione del riscaldamento globale sperando che non sia fallimentare come quella di Copenaghen 2009. In questo contesto politicamente instabile è sempre più necessario contribuire anche con visioni alterna-


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tive e con concreti approcci trasversali per cambiare le coscienze degli uomini e creare una Catena d’Unione capace di sostenere queste necessità planetarie. Il contributo massonico In questo clima l’invito delle Obbedienze Massoniche a prendere coscienza della gravità della situazione e della necessità di una collaborazione tra tutti gli esseri viventi per un modo di vivere più responsabile verso le energie che governano gli equilibri del nostro pianeta rappresenta un evento storico che caratterizza il contesto della Conferenza di Parigi. L’appello lanciato dal Grande Oriente di Francia a cui hanno aderito anche altre Obbedienze, descritto nel documento che verrà presentato durante la Conferenza, si può riassumere in questi termini: “La Massoneria non può restare inattiva di fronte a queste minacce che caratterizzano l’evoluzione dell’umanità e la sopravvivenza stessa delle condizioni di vita dell’uomo, un appello rivolto a tutte le Obbedienze, ai Fratelli e alle Sorelle di ogni continente per ridestare in loro l’impegno verso i valori umanistici che ci caratterizzano, è un nuovo modo di vivere che dobbiamo sviluppare così come

la consapevolezza che le decisioni in termini di politica climatica e energetica devono essere condivise da tutti i cittadini. I firmatari del documento prendono quindi atto che la società civile non può più aspettare che i governi prendano le loro decisioni assecondando i loro ritmi politici e i loro accordi economici.” È necessario un orientamento prioritario verso il soddisfacimento dei bisogni fondamentali degli esseri umani in termini di bisogni alimentari, salute, logistica, formazione e lavoro nel rispetto della dignità di ogni individuo garantendo a ognuno le stesse opportunità per poter sviluppare la propria libertà creativa e espressiva. In particolare il documento dichiara: “Noi, firmatari di questo appello, chiediamo che le decisioni politiche dei leader mondiali siano orientate principalmente verso il soddisfacimento dei bisogni fondamentali di ogni essere umano dall’alimentazione alla salute, alla casa, all’istruzione, al lavoro nel pieno rispetto per la dignità e in modo che tutti gli esseri abbiano pari opportunità di sviluppare le loro capacità e le potenzialità creative. Durante tutto lo svolgimento della Confe-

renza di Parigi in cui i governi, le associazioni di cittadini, le imprese e i rappresentanti eletti degli enti locali in tutto il mondo si confronteranno sulle scelte da intraprendere chiediamo di: – Mettere l’uomo al centro delle decisioni, fornendolo delle capacità di partecipare alle scelte che lo riguardano e di avere il pieno controllo sul proprio destino. – Ripensare il rapporto dell’uomo con la natura di cui è parte, garantire l’equilibrio e l’armonia tra le sue attività e il rispetto degli ecosistemi, della biosfera e della biodiversità che è il nostro bene comune. La Città di domani, che ospiterà la maggior parte delle popolazioni umane, dovrà diventare luogo di espressione e di tutela di questo rapporto tra natura e attività umane. – Lottare contro le disuguaglianze e la povertà nel mondo per garantire una redistribuzione più equa della ricchezza e delle risorse; prevenire e porre rimedio agli effetti negativi dei cambiamenti climatici sul pieno godimento dei diritti umani e in particolare sui gruppi più vulnerabili. – Far progredire la giustizia climatica garantita da nuovi diritti universali in materia di ambiente, tra cui il principio di 63


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prevenzione, garantendo, in caso di catastrofi sull’ambiente e sulla vita delle persone e delle collettività, un ripristino alla vita e alla libertà poiché senza questi valori non vi è né libertà né giustizia. – Costruire un accordo per la solidarietà internazionale tra il Nord e il Sud, sulla base di una visione comune di sviluppo sostenibile e di solidarietà, la sola che può portare al miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini e metterli nella condizione di controllare liberamente il proprio destino; – Decidere di mettere fine allo sfruttamento di tutti i combustibili fossili e investire subito e risolutamente in energia sostenibile a beneficio dei territori garantendo alle comunità locali la competenza di prendere iniziative in termini di sviluppo energetico sostenibile. – Stabilire una fiscalità ecologica, progressiva e ambiziosa, dirottando i prele64

vamenti obbligatori che attualmente pesano sul lavoro su altri settori ancora basati sul consumo di risorse naturali e sulle emissioni di sostanze inquinanti. – Affermare con decisione che il benessere individuale e collettivo non può essere ridotto al semplice concetto di sviluppo definito dalla società dei consumi basato su indicatori economici superati. I criteri di valutazione delle politiche pubbliche devono tener conto della qualità ambientale e umana di cui quel territorio necessita. Otto punti per una visione universale che individua l’uomo come l’unico artefice capace di modificare lo status degli eventi e di attuare una vera rivoluzione climatica basata su giustizia, solidarietà e uguaglianza che sono di fatto le uniche leve capaci di garantire a ogni essere vivente il rispetto dei principi di libertà, laicità e condivisione in un programma concepito per aggregare non solo le Ob-

bedienze, ma anche tutta la società civile che si identifica con questi principi universali. Forse non è un caso che il pensiero tenda a ricostruire l’armonia secondo otto punti, otto proposte viste da un’altra angolazione secondo questo numero collegato alla coesione costruttiva, all’armonia dei cicli universali e dei contrari e all’equilibrio del tutto. La nuova economia mondiale dovrà essere necessariamente una “economia climatica” cioè consapevole dei limiti delle risorse, della necessità di condivisione dei beni primari e della democratizzazione dell’accesso alle risorse e alle fonti di energia rinnovabile. Questa sfida ci obbliga a spezzare il circolo vizioso che ci lega a una crescita incontrollata a favore di una nuova coscienza globale legata alla comprensione del funzionamento della biosfera maturando la consapevolezza di essere anche noi un’insieme organico di interazioni. Come in una nuova iniziazione, è una nuova scoperta che ci consente di interagire con tutti gli strumenti che la Natura ci mette a disposizione saremo così portati a costruire un nuovo sistema di vita e una nuova visione urbana capace di ricucire le fratture esistenti tra i diversi ecosistemi. In quest’ottica il percorso massonico e iniziatico dei differenti Gradi da cui scaturiscono queste proposte rappresenta, oggi come in passato, una realtà che riesce a attingere alle parti più profonde della natura lasciando a ogni uomo la libertà di confrontarne l’unicità del linguaggio e del suo potenziale sviluppo. L’Apprendista e i quattro elementi Come possiamo comprendere i codici della natura, la realtà della materia e la sua capacità di trasformarsi ai nostri occhi e utilizzarne le risorse nel giusto modo se non compiendo i viaggi disposti per l’Apprendista, risvegliando i nostri sensi e la capacità di intuire il linguaggio della terra, dell’acqua, del vento e del fuoco immergendoci in questi quattro mondi non solo simbolicamente, ma concretamente? Stranamente la conoscenza di noi stessi passa attraverso questo processo che allarga i limiti del nostro patrimonio corporeo e sensoriale, comprendendo ciò che va adoperato o lasciato integro, assecondato e preservato. Al di là delle parole, dei libri e della memoria la riscoperta di questo nuo-


vo modo di comunicare e di apprendere dagli elementi della natura permette all’Apprendista di adoperare un nuovo linguaggio dimensionale inciso in maniera infinitesimale nel suo organismo. È la ricerca che porta l’uomo a decodificare la riscoperta dell’unità come concetto di riconciliazione con il tutto, come centro universale, unità assoluta che comprende ogni elemento naturale, il passato, il presente e il futuro della vita e della biosfera. È la ricerca della forza del Binario come strumento indispensabile per mettere a confronto e comprendere il dualismo che anima gli ecosistemi e infine è l’individuazione del Ternario che ricolloca correttamente ogni suo elemento in questa avventura universale. Il viaggio dell’Apprendista è il viaggio inevitabile oltre la soglia del Tempio, un viaggio nella biosfera che attraverso i quattro elementi ci aiuta a comprenderne in profondità le interazioni. Il Compagno e lo studio della biosfera È Il risveglio di queste sensazioni e un nuovo modo di gestire i cinque sensi. È l’incontro con l’altro, i cinque sensi sono rinati, lo guidano nella visione di ogni forma in movimento sia essa vento, parola o perfino roccia, e gli consentono di avvertire sensazioni finora mai provate responsabilizzandolo verso ogni sua azione nei confronti del mondo esterno e della natura. Nel suo terzo viaggio le arti liberali costituiscono le strade che gli consentiranno di acquisire i mezzi per costruire i valori di base di ogni società civile realizzando un elemento unico che si rinnova di continuo mediante un linguaggio che le accomuna nonostante le loro diverse peculiarità. “La conoscenza della natura è data all’uomo dalla scienza. Con essa comprende la successione dei fenomeni naturali e le proprietà della materia, con essa conosce ugualmente le leggi della vita e quelle che governano le relazioni degli esseri viventi e della società” (Plantageneto). La grammatica compone con i suoi simboli, linguaggi e codici dalle infinite variazioni come una moltitudine di fiori e piante dà luogo a paesaggi mutevoli. La retorica esalta nella costruzione di un discorso il tempo finale della condivisione, così come la natura permette a tutte le specie di vivere in armonia nella sinergica struttura di un micro ambiente. La logi-

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ca considera l’interazione tra due tesi o principi, talvolta opposti, come lo strumento indispensabile per raggiungere la verità e l’equilibrio esattamente come mare e lago, foresta e prateria, deserto e roccia, espressioni di vita e di bellezza, ci fanno apprezzare la necessità della dualità. L’aritmetica permette la comprensione dei valori, delle quantità, delle possibilità di sviluppo di ogni forma vivente. La geometria consente di comprendere le proporzioni, la struttura portante, la diversificata bellezza e le infinite possibili aggregazioni costruttive della natura. La musica ne traduce i suoni in racconti per l’eternità e ci insegna a leggere e scrivere racconti con linguaggi differenti che tutte le forme viventi possono anch’esse percepire. Infine l’Astronomia ci aiuta a comprendere l’universalità della natura oltre ogni limite per co-

glierne come eterni apprendisti le infinite verità. L’iniziazione e la ricerca massonica ci prospettano quindi una nuova comprensione dei fenomeni naturali e una conoscenza che porta l’uomo verso un nuovo modello di collaborazione sociale. Come accade nell’ecosistema di un bosco, la ricchezza del patrimonio acquisito contamina questo nuovo sapere e con esso altre forme di vita, altri uomini. Una nuova società prende piede e si struttura come un territorio che integra elementi naturali, risorse e necessità umane, un nuovo territorio a energia positiva che non altera né il clima né le risorse, ma al contrario ne esalta e preserva le caratteristiche. Il Maestro e l’energia del pianeta Quest’uomo finalmente responsabile, rinato e padrone dei molteplici linguaggi della natura compie questo viaggio non 65


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più per se stesso, ma per gli altri, per la collettività a cui appartiene e per garantire il giusto sviluppo sostenibile. Nel suo ecosistema, in questo tempo e in questo spazio, è contenuta la speranza di una società collaborativa e di un modo differente di affrontare la sfida ai cambiamenti climatici partendo dai valori sopra elencati che mostrano come le basi della ricerca iniziatica siano fortemente connesse ai meccanismi essenziali del nostro pianeta. Nell’era dell’urbanizzazione intensiva le distanze fra uomo e natura sono diventate sempre più importanti in conseguenza di una distorta concezione della possibilità di utilizzare all’infinito le ricchezze del pianeta delegando a una tecnologia fortemente energivora il compito di ridurle. La possibilità di contenere gli effetti negativi sul clima coinvolge necessariamente il tema delle città che sono attualmente responsabili del 60% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. La riformulazione di un nuovo sistema di vita urbano non può essere però disgiunto da un piano di sviluppo economico alternativo, naturalmente sostenibile, dotato di una visione basata su una 66

politica che esprima la concezione di “Comunità biosferica condivisa” (La terza rivoluzione industriale, Jeremy Rifkin) basata sull’interconnettività dei sistemi agricoli, industriali locali e commerciali. Il processo di trasformazione sviluppato dall’Apprendista e dal Compagno caratterizza la nuova dimensione di un’economia collaborativa che il maestro saprà adattare al mondo urbano, a quello agricolo, così come ai grandi ecosistemi diventando il garante di un reale controllo climatico. Si fa strada un’organizzazione basata essenzialmente sulle energie rinnovabili, non più vincolate al controllo da parte di pochi, ma equamente distribuite. Il sole, l’acqua, il vento, il calore geotermico, le biomasse, le onde e le maree oceaniche possono essere sfruttate su scala planetaria, in gran parte in modo gratuito, mantenendo un’economia sostenibile con alte prestazioni per tutti. L’energia dovrà in conseguenza essere gestita in maniera collaborativa e non gerarchica grazie a una diversificata rete di economia circolare. Nell’economia del XXI secolo, pensata per potersi auto-ri-

generare, tutti i materiali in uso saranno di due tipi: biologici in grado di essere reintegrati nella biosfera o tecnologici che possono essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera. Un sistema dunque (quello dell’economia circolare) in cui tutte le attività a partire dall’estrazione e dalla produzione saranno organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse per qualcun altro. Questo passaggio da un regime energetico basato sui combustibili fossili alle energie rinnovabili distribuite ridefinirà anche il concetto stesso di relazioni internazionali. I conflitti per l’accesso alle fonti di energia saranno così meno probabili trasformando la competizione in cooperazione. Il mondo passerà in questo modo da “Un’economia geopolitica a una politica della biosfera“ (La terza.. cit.). La qualità della vita dovrà trovare necessariamente il suo fondamento in questi parametri che generano utili economici dalla collaborazione reciproca. La felicità socializzata sarà così basata su un costruito che è espressione di ricchezza e diversità nate dalla partecipazione attiva di tutta la comunità. L’accampamento e il clima dell’era collaborativa “Non dobbiamo cercare, ma trovare; non dobbiamo giudicare, ma osservare e comprendere, respirare e elaborare quanto abbiamo inalato. Dal bosco e dal prato che si falcia in autunno, dal ghiacciaio e dal campo giallo di spighe, attraverso tutti i sensi deve fluire in noi vita, vigore, spirito, significato, valore. Una escursione in luoghi panoramici deve promuovere in noi la cosa più alta, l’armonia con il cosmo, e non deve essere uno sport né uno sfizio. Noi non dobbiamo osservare e valutare la montagna, il lago, il cielo con un generico interesse, ma muoverci tra queste realtà che, come noi, sono parte di un tutto e forme fenomeniche di un’idea, con chiari intendimenti e sentendoci come a casa propria, ognuno con le sue capacità e con i mezzi conformi alla sua cultura, uno come artista, l’altro come naturalista, un terzo come filosofo. Noi dobbiamo sentire il nostro essere particolare, e non solo quello corporeo, affine al tutto e inserito nel tutto. Solo allora abbiamo rapporti reali con la natura” (La natura ci parla, Hermann Hesse). Questa visione è un approccio all’attua-


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zione del principio di una governance fatta per “istruire gli uomini per dar loro la felicità e la libertà” in una società planetaria dove le forze viventi interagiscono e si confrontano in maniera costruttiva realizzando una nuova coscienza globale. Come accade in un accampamento unico in cui le tecnologie della comunicazione sono in grado di garantire connessioni tra i differenti mondi attraverso un linguaggio allargato, la biosfera potrà interagire a ogni livello con uomini finalmente consapevoli. Il Sublime Principe del Real Segreto (32°) raggruppa attorno a sé questo accampamento fatto di idee, di speranze e di uomini capaci di arginare l’incontrollata alterazione climatica del nostro pianeta. Gli altri aspetti simbolici di una realtà attenta alle forze che controllano l’evoluzione della vita vengono svelati in queste nove tende, contenitori sociali, luoghi d’incontro della nuova città virtuale interconnessa dove imparare l’arte di: 9. associarsi raggruppando e valorizzando tutte le diversità (1°-2°-3°); 8. educa-

re se stessi prima di concorrere a rigenerare la società (4°-5°); 7. educare gli altri allo stesso modo in cui vorremmo essere educati (6°-7°); 6. consolidare i valori di pace e uguaglianza tra tutte le classi (8°); 5. apprendere che tutto è passeggero, che le istituzioni restano e che i rapporti sociali e etici sono alla base della fondazione della città (9°-10°-11°); 4. sviluppare ogni programma di gestione secondo una visione unitaria e globale (12°-13°); 3. diffondere con il massimo impegno le conoscenze acquisite nei differenti ambiti che caratterizzano il tessuto della città (14°); 2. saper garantire i sistemi di produzione e sviluppo della città per un corretto controllo gestionale (15°-16°); 1. saper organizzare poli di ricerca e di formazione per sostenere modelli di sviluppo per le collettività limitrofe (17°-18°). In questo viaggio sempre più ristretto ritroviamo oltre agli stendardi le icone di una comunicazione diversa che ci aiutano a scoprire nuovi orizzonti e ci guidano a apprendere e gestire l’arte di: governare nell’interesse della collettività (19°20°); 4. condividere il lavoro tra tutte le

parti sociali come condizione primaria di vita, di sviluppo e progresso(21°-22°); 3. preservare i valori individuali che rappresentano la libertà di espressione (23°24°-25°); 2. diffondere i principi di solidarietà con azioni e programmi partecipativi (26°-27°-28°); 1. impedire la formazione di centri di potere e ideologie lontani da una visione globale del mondo, a immaginare un’inversione di rotta climatica globale e a costruire una società basata sul confronto. Una nuova utopia? “Una carta del mondo che non contiene il paese dell’utopia non è degna nemmeno di uno sguardo. Perché non contempla il solo paese al quale l’umanità approda di continuo. E quando vi getta l’ancora, la vedetta scorge un paese migliore e l’umanità di nuovo fa vela. Il progresso è la realizzazione di tutte le utopie” (L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Oscar Wilde 1891). P.58: Veduta aerea di Parigi; p.59: Monumento di Leibniz; p.60/63: Cambiamenti climatici; p.64: I quattro elementi, illustrazione XVI sec; p.65: Le sette arti liberali, illustrazione XIV sec; p.66: Accampamento del 32° grado (illustrazione di P.Del Freo); p.67: Isola di Utopia e suo alfabeto.

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Memorie e simboli nel progetto di Firenze Capitale Renzo Manetti

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uando fu incaricato del progetto di ampliamento di Firenze, per farne la capitale del Regno di Italia, Giuseppe Poggi era un architetto stimato, all’apice di una brillante carriera professionale. Padrone di un neoclassicismo sobrio e elegante, apprezzato dai suoi committenti che rappresentavano le maggiori famiglie dell’aristocrazia fiorentina, aveva sfruttato intelligentemente i viaggi in Europa, avvenuti almeno a due riprese fra il 1845 e il 1846 e attorno al 1862, come mezzo di promozione professionale. La partecipazione alla campagna del ’48 e alla battaglia di Curtatone lo aveva avvicinato alla nuova classe politica che avrebbe governato la città dopo l’annessione al Regno d’Italia. Suo fratello Enrico era senatore del Regno e lo aveva probabilmente raccomandato per il progetto della sistemazione della piazza San Carlo a Torino che, se anche non ebbe seguito, aveva contribuito a farlo conoscere anche fuori di Firenze. Il fratello gli aveva inoltre fornito contatti di alto livello a Londra e Parigi, attraverso i quali aveva ottenuto, nel corso dei suoi viaggi, informazioni di prima mano sulle grandi trasformazioni urbane di quelle capitali. Il 24 novembre 1864, il Poggi ricevette l’incarico di predisporre il

piano di ampliamento della città. Già il 31 gennaio 1865 egli presentava al re Vittorio Emanuele II, in visita a Firenze, il suo progetto. Il re ne fu così favorevolmente impressionato che insignì l’architetto dell’ordine di San Maurizio. Questi aveva infatti avuto la lungimiranza di non limitarsi a un semplice piano di ampliamento, che si preoccupasse cioè di individuare solo le strade e i lotti edificabili, ma si era posto l’obiettivo di progettare una capitale all’altezza delle altre grandi nazioni europee. Nel progetto di ampliamento di Firenze, il

Poggi potè sviluppare il tema a lui caro del grande passeggio verde attorno alla città che, attingendo a quanto aveva visto nelle grandi capitali europee, ma anche alla tradizione toscana, concepì come una sequenza di parchi e luoghi monumentali, che dovevano richiamare le memorie recenti e lontane del nuovo stato unitario: “Nel progetto del Poggi il suo grande viale dovrebbe essere una via Sacra, lungo la quale sorgessero a diversi tratti o colonne o altri monumenti commemorativi i più bei fasti della rigenerazione nazionale … Nel69


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la piazza disegnata presso la Zecca Vecchia vicino al luogo ove si eseguivano le condanne capitali … un monumento a Beccaria; a porta S.Gallo una colonna commemorativa la battaglia di S.Martino; … nella piazza Savonarola la statua del fiero domenicano; … nella piazza delle Cascine la statua equestre del re; … nella piazza sugli spalti di S.Miniato un monumento a Michelangelo” (‘La Nazione’ del 12 febbraio 1865). Ma ben più della memoria patria, il vero motivo conduttore del Viale fu quello del giardino e del verde. Ecco dunque il viale delle mura aprirsi al fiume e alla collina di fronte, con il grande cannocchiale verde che da piazza Beccaria raggiungeva lo stabilimento balneare dell’Arno, permettendo alla Porta alla Croce un colloquio distante con l’alto obelisco della Porta a San Niccolò e con i bastioni dell’acropoli sacra di San Miniato. Più oltre il viale inglobava, circondandolo, il cimitero degli Acat70

tolici, isola verde di alberi e di monumenti funerari di foscoliana memoria, dalla quale il tema romantico dell’urna faceva vibrare corde riposte della memoria collettiva. Lì presso, dietro al nuovo ingresso monumentale disegnato dal Poggi stesso, il gran parco della Gherardesca si concedeva alla vista, non più nascosto dalla barriera delle mura, ma semplicemente recintato con una cancellata di ferro. Alla porta San Gallo il vecchio Parterre settecentesco, collocato fra il Mugnone e l’arco trionfale dei Lorena, costituì l’asse prospettico alberato, sul quale il Poggi formò l’immagine della grande piazza, nella quale riuscì a raccordare ben nove strade che vi convergevano. All’estremità opposta, dopo aver circondato di giardini le rosse mura della Fortezza, il viale si concludeva sul fiume, aprendosi al vastissimo parco delle Cascine. L’antica tenuta granducale era rimasta sempre estranea alla città, dalla quale l’avevano sepa-

rata prima le mura medievali, quindi una brutta cinta daziaria dopo la costruzione del quartiere ottocentesco delle Cascine. Il Poggi ne fece un vero parco urbano, al cui ingresso il viale si apriva nella monumentale piazza intitolata al re. La statua del sovrano, coronata dei simboli delle principali città d’Italia, avrebbe dovuto collocarsi all’incrocio degli assi prospettici del viale, del ponte di ferro e del quartiere costruito pochi anni prima. Le piazze, create attorno alle porte medievali superstiti, divennero i nodi monumentali dell’anello verde. È chiara la matrice europea del Viale del Poggi. Del resto Firenze era una città cosmopolita, nella quale già nel 1841 risiedevano ben duemila stranieri, specialmente russi e anglosassoni. Nel 1861 vi si era tenuta la prima Esposizione Nazionale italiana. Già negli anni precedenti alla decisione di spostarvi la capitale del Regno, l’amministrazione aveva pensato a un piano urbanistico di ammoder-


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namento della città che guardasse all’Europa. Così nel 1862 il gonfaloniere Bartolommei aveva inviato l’architetto Luigi Del Sarto, capo dell’Ufficio d’Arte del comune, a compiere un tour nelle principali capitali europee. Fu probabilmente nello stesso 1862 che anche Giuseppe Poggi effettuava il suo secondo tour europeo. Il Piano di Ampliamento del 1865 fu dunque influenzato dal Ring viennese che si veniva realizzando dal 1857, demolendo le vecchie fortificazioni per sostituirle con un sistema di viali destinati a ospitare i grandi edifici pubblici; un progetto che il Poggi conosceva, come dimostra una bella veduta prospettica a colori di sua proprietà conservata nel Fondo Poggi dell’Archivio Contemporaneo Vieusseux. Ma il riferimento culturale andava soprattutto alla grande ristrutturazione urbana di Parigi voluta dal barone Hausmann fra il 1841 e il 1845. Lo stesso Poggi paragonava spesso il suo Viale ai boulevards parigini, che anzi intendeva superare per ampiezza e ricchezza. L’influenza della Parigi di Hausmann non deve far dimenticare la profonda impressione che il Poggi aveva ricevuto dai soggiorni londinesi, accentuata dai frequenti contatti con

la ricca e colta colonia inglese di Firenze. Non sembra azzardato affermare che il sistema londinese di parchi e verde urbano, fra Regent’s Park, S.James Park e Hyde

Park, matrice di insediamenti residenziali per l’alta borghesia, possa essere stato per il Poggi ancor più determinante della suggestione parigina e rappresentare la 71


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vera matrice culturale di quella singolare idea di città diffusa nel verde, che caratterizzò sempre la sua opera di urbanista, fra Firenze, Genova e Sanremo. Questi sono dunque i riferimenti culturali essoterici. Ma non è tutto qui. Dal progetto del Poggi traspaiono anche altre influenze, questa volta di natura esoterica. Nel tracciato del viale delle Mura si notano frequenti biforcazioni che, come i bracci di una Y, formano triangoli. Mi sono sempre chiesto quale fosse la ragione di un andamento stradale, le cui motivazioni funzionali non mi erano del tutto chiare. In un saggio di diversi anni fa, Marcello Fagiolo commentava il piano urbanistico della capitale degli Stati Uniti di America, che era stato progettato dal francese L’Enfant su indicazioni dello stesso presidente George Washington, secondo un indiscusso simbolismo massonico. Egli poneva in evidenza come nella griglia quadrata degli isolati si potesse riconoscere il simbolismo del pavimento a scacchi del tempio e nelle strade diagonali che lo intersecavano quello del compasso. Ricordava inoltre come nella struttura urbana di Washington fosse impressa la forma della Y, che interpretava come la “mistica lettera pitagorica simboleggiante la scelta esistenziale della virtù (in riferi72

mento al mito di Ercole al bivio tra la via del Vizio e quella della Virtù)”. Leggendo quel saggio mi colpì già da allora l’analogia con il progetto di ampliamento di Firenze che prevedeva, nella maglia sostanzialmente quadrata degli isolati residenziali, frequenti biforcazioni a Y del viale delle mura, a contrassegnarne i punti nodali. Troviamo la grande Y impressa nella biforcazione del viale Belfiore dalla Porta al Prato verso la ferrovia (dove Poggi aveva progettato un viadotto, quasi una grande porta, in stile egizio), nel viale Mazzini che si sdoppia nel viale Segni, come nel triangolo tracciato dalla “Etoile” di piazza Beccaria verso l’Arno: se accettiamo l’interpretazione di Fagiolo, i luoghi deputati ai costruttori della Patria sembrano così essere accostati alla conquista della Virtù. La divaricazione triangolare dei viali richiama con tutta evidenza anche la figura del compasso che, come è noto, è uno degli elementi cardine della simbologia massonica: è lo strumento infatti che permette di delineare nella cupola e nel cerchio l’immagine della volta celeste e di penetrare la struttura intima del cosmo, quella geometria che sfugge alla serena sicurezza dei numeri interi. Per questo in Massoneria il compasso è diventato simbolo dell’essenza spirituale.

Simbolo di virtù e di spirito eterno, l’impronta del compasso e della Y ben poteva dunque adattarsi a quel Pantheon degli eroi della Patria che il Poggi intendeva delineare nel viale. I rapporti con la cultura anglosassone e il fascino che questa sembra aver esercitato sul nostro potrebbero spiegare un simbolismo di questa natura. Non risulta che Giuseppe Poggi fosse massone, ma è certo che lo fosse o lo fosse stato il suocero Pasquale Poccianti. Iscritto dal 1814 alla Loggia “Napoleone” di Livorno, il linguaggio massonico del Cisternone di Livorno è stato già messo in evidenza da Carlo Cresti e Dario Matteoni: la grande calotta semisferica che sovrasta l’edificio rimanda all’immagine della volta celeste, quasi abside laica aperta a dischiudere alla città i misteri cosmici. Fu massone anche l’architetto Luigi Del Sarto, iscritto alla loggia “Concordia” di Firenze, direttore dell’Ufficio d’Arte del Comune durante i lavori per il trasferimento della capitale e autore del progetto di riordino del centro storico, complementare a quello di ampliamento del Poggi. Nel 1853 Giuseppe Poggi conobbe Federico Stibbert e ne ottenne l’incarico per ristrutturare la villa di Montughi. Lo Stibbert fu anch’egli affiliato alla loggia “Concordia” e negli anni ’70 volle realizzare


intorno alla villa un parco misterico, costruito in funzione di un’evidente simbologia massonica, del quale fu ancora una volta progettista il Poggi. Un percorso iniziatico introdotto da due colonne, con chiaro riferimento alle colonne Joachim e Boaz, vi si conclude in un laghetto, sulla cui sponda si eleva, preceduto da una teoria di enigmatiche sfingi, un tempio egizio allineato sull’asse est – ovest, rivolto a Oriente. Nell’interno fu dipinta, come nei templi massonici, una volta stellata. A Firenze era già stato realizzato un altro parco esoterico, progettato da Luigi Cambray Digny per il marchese Pietro Torrigiani. Sia l’architetto che il committente erano massoni, iscritti alla loggia fiorentina “Napoleone” che si era costituita nel 1841. Nel giardino i motivi neoegizi e una statua di Osiride scandivano un ricco simbolismo massonico che, nella torre realizzata nel 1821 dall’architetto Baccani, si concludeva nell’allegoria dei tre livelli iniziatici. Lo stesso Cambray Digny per un altro massone, il marchese Strozzi Ridolfi, aveva riprogettato il giardino ermetico degli Orti Oricellari, dimora che era appartenuta a Bianca Cappello, amante prima e sposa morganatica dopo del granduca alchimista Francesco. Acquistati successivamente dalla principessa Orloff, questa incaricò Giuseppe Poggi di ristrutturare palazzo e parco. Il Poggi eseguì il restauro della vasca posta ai piedi di un’ermetica statua di Polifemo e quello del Pantheon, realizzato appena pochi anni prima dal Digny in memoria degli accademici che avevano eletto gli Orti a luogo di filosofici incontri. Fu massone anche quel conte Ugolino della Gherardesca per il quale Giuseppe Poggi elaborò verso il 1860 vari progetti, fra i quali l’ingresso al grande parco dal nuovo viale delle mura. Marco Dezzi Bardeschi ha ben delineato il clima culturale dal quale, nella prima metà dell’Ottocento, scaturirono progetti intrisi di simbolismo ermetico e iniziatico anche fra coloro che massoni non erano: “Dall’incontro tra architetti e committenti massoni escono … opere singolari di ‘architettura parlante’ nelle quali neoegizio ideologico e neogotico rituale legato al rinnovato culto delle origini autoctone e all’esaltazione del mito delle antiche repubbliche italiane del medioevo si intrecciano … con l’insistente, sistematico riferimento alla ‘prisca filosofia’ di Pitagora e

all’elogio della ‘setta italica’ degli antichi investiganti. Per i giovani architetti fiorentini che esordiscono in questi anni il viaggio a Roma e il contatto con l’ambiente della massoneria (soprattutto di stampo anglo – francese) assume un’importanza decisiva”. Ecco dunque apparire le sistemazioni egizie del Parco delle Cascine a opera di Giuseppe Manetti, che scrive un saggio su “Arte sublime e filosofica che i moderni hanno obliato del tutto” e progetta come percorsi iniziatici i parchi delle ville di Poggio a Caiano e del Poggio Imperiale; ecco dunque Giuseppe Del Rosso pubblicare un Saggio sull’architettura egiziana, nel quale sostiene come l’architettura etrusca, in virtù di una filosofia più profonda di quella greca, derivasse direttamente da quella egizia. Non sorprenda dunque che, proprio negli anni in cui veniva progettando il parco per Stibbert, Giuseppe Poggi elaborasse un progetto di viadotto ferroviario sotto il nuovo viale di Firenze in puro stile egizio, così distante da quello neoclassico al quale improntava tutti i disegni per la Capitale. Né l’attenzione che egli pose alla difesa e alla conservazione delle porte medievali delle mura, che molti avrebbero voluto demolire, come memoria della tradizione patria. Marco Dezzi Bardeschi ha inoltre messo in evidenza come nella metà del XIX secolo il simbolismo esoterico si legasse strettamente ai moti rivoluzionari e indipendentisti: “Per quanto possa sembrare a prima vista singolare ora è proprio la massoneria occultista a alimentare le istanze rivoluzionarie … Secondo Babeuf o secondo lo stesso instancabile Buonarroti, sarà solo un circolo esclusivo di adepti a poter penetrare i sacri misteri nel mondo e a trasformarlo e a rigenerarlo dalle sue ingiustizie … Già dai tempi di Bonneville e degli anni della rivoluzione francese il segreto della fraternità e dell’uguaglianza degli uomini riposa sulla geometria assoluta, sull’arcano del numero e delle forme simboliche perfette (triangolo, cerchio, piramide, sfera)”. Giuseppe Poggi, nei Ricordi, afferma indirettamente di aver respirato quel clima durante i moti del 1848 e di avervi creduto: “In quei tempi si aveva la illusione (vera illusione) di far l’Italia per la via delle segrete associazioni e delle parziali sommosse e rivoluzioni”. Associazioni come la Carboneria venivano allora equiparate a quelle massoniche: Pio VII,

in una bolla del 13 agosto 1814, affermava che “la carboneria è solo il nuovo nome che si è data la massoneria”. Non intendo con questo suggerire che il Poggi potesse esser massone, bensì ipotizzare che dal suocero, dall’ambiente in cui operava e dai suoi stessi committenti pos-

Architettura sa aver assimilato e applicato al suo piano urbanistico, più o meno consapevolmente, suggestioni e simboli che caratterizzavano la cultura massonica. ______________ Bibliografia essenziale: Giuseppe Poggi Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze 1882 Firenze, tipografia di G.Barbera. Giuseppe Poggi Ricordi della vita e documenti d’arte Firenze, 1909 presso Bemporad e figlio. Emil Kaufmann L’architettura dell’Illuminismo, 1966 Torino, Einaudi. Franco Borsi La capitale a Firenze e l’opera di G.Poggi 1970 Firenze, Colombo. Silvano Fei Nascita e sviluppo di Firenze città borghese, 1971 Firenze, G&G Editrice. Leonardo Benevolo Storia dell’architettura moderna 1971 Bari, Laterza. Firenze e Livorno e l’opera di Pasquale Poccianti nell’età granducale a cura di Franco Borsi, Gabriele Morolli, Luigi Zangheri, 1974 Roma, Officina Edizioni. AA.VV. Pasquale Poccianti architetto, 1774 – 1858, 1974 Firenze, Centro Di. Carlo Cresti, Luigi Zangheri Architetti e Ingegneri nella Toscana dell’Ottocento 1978 Firenze, Uniedit. AA.VV. Il disegno della città. L’urbanistica a Firenze nell’Ottocento e nel Novecento 1986 Firenze, Alinea. Giuseppe Poggi e Firenze. Disegni di architetture città 1989 a cura di Gabriele Morolli e Renzo Manetti, Firenze, Alinea. AA.VV. Massoneria e Architettura 1989 a cura di Carlo Cresti, Foggia, Bastogi. Dario Matteoni Pasquale Poccianti e la Gran Cisterna di Livorno 2001 Livorno, Silvana Editoriale. Fulvio Conti La Massoneria a Firenze dall’età dei Lumi al secondo Novecento 2007 Bologna, Il Mulino. Paola Maresca Simboli e segreti nei giardini di Firenze 2008 Firenze, Pontecorboli. P.68: Carta topografica di Firenze, 1835; p.69/72: Firenze capitale, foto d’epoca.

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Massoneria

In cammino verso la Casa della Sapienza Genova, 24 ottobre 2015 - Convegno Nazionale Veronica Mesisca

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ophia, sola e malinconica [poiché caduta] nelle tenebre, diventò Sabaoth*”, il prigioniero incatenato nelle profonde oscurità della celebre caverna platonica, oggetto del mito ellenico erto a emblema sapienziale del nostro vecchio continente. Proprio da questa caverna, infatti, al Convegno Nazionale di Studi sulla Filosofia Antica tenutosi a Genova, il Ven. mo e Pot.mo S.G.C.G.M. Antonio Binni ha dato avvio al Cammino verso la Casa della Sapienza, oggetto dei lavori, perché è, nel ventre tenebroso della terra, che Sophia inizia il lungo viatico di risalita, assunto in forma di faticosa ascesa per colui che, nel tendere alla luce, è condannato al visita interiore terrae gnosticamente rappresentato dall’abissale inganno dell’Arrogante arconte. La verità, infatti, postilla il Serenissimo Gran Maestro ad apertura del convegno, è che il savio non è al sicuro nella propria luce, ma corre pericoli come il resto della moltitudine. Tuttavia la saggezza, essendo in grado di disarmare la sventura, viene ricercata al di là del caso … di quel caso che, nel testo di Giovanni, è il “caos delle tenebre materiali*” in cui Sophia sprofonda, soffrendo più degli altri esseri, perché proprio nella coscienza dell’essere in catene risiede l’infelicità che permetterà poi a Shabaot di riconquistare la 74

luce da cui proviene, indi finalmente salvarsi … o liberarsi, secondo il mito di Platone. Questo viaggio di ritorno a chokmah, nello sfaccettarsi tra le venti alla venti possibilità sephirotiche, assume simbolicamente innumerevoli forme di strade che confluiranno poi, come esplica il Serenissimo Gran Maestro, in un’unica sorte, visto che i raggi della circonferenza, nella loro perfetta uguaglianza, sono destinati a confluire nell’unico centro. Così viene dato avvio alla ruota che, a Genova, è iniziata a girare scandendo i lavori come orologio svizzero in un continuo alternarsi di radianti percorsi filosofici tra i quali, primus inter pares, quello illustrato dalla prof.ssa Luisella Battaglia della saggezza epicurea che, nel celebre giardino ateniese, prende forma di governo saggio delle passioni, inteso non come annullamento, bensì come equilibrio ricercato mediante l’originale interrogativo del de-sidus-ĕris. D’altra parte, in un disegno di sostanziale egalitarismo con sembianze di democratico reame e conseguente moltiplicazione delle brame, inevitabilmente il savio si distingue come colui che è capace di porsi la domanda circa le conseguenze delle stesse, poiché consapevole che il conseguimento del desiderio implica necessariamente un insieme di piaceri e dolori, propri o altrui, la cui somma complessi-

va potrebbe non tradursi in quell’Isola dei Beati o Fonte dell’Abbondanza, illustrate, nel proseguo, dalla prof.ssa Sonia Maura Barillari tramite Luciano di Samosata. L’autore siriano cresciuto dai sofisti, nella sua Storia Vera, apertamente dichiarata falsa a inizio opera, trasporta il lettore oltre le Colonne d’Ercole del mondo materiale, fino a giungere, dopo una serie di vicissitudini con gli arconti dell’immaginario, sulla terra del latte e del miele che, nel caso, assume le vesti di Isole dei Beati con tratti cuccagneschi ove, tra abbondanza di cibarie, bevande e fertilità, sono situate le origini occidentali del sacro, successivamente rammentate dal prof. Mariano Bianca. Antichi Misteri e relativi riti iniziatici, inizialmente dedicati alle grandi dee generatrici, si sono infatti tradotti in cerimonie rivolte a Demetra, così come a Dioniso, celebrate tramite simboli fallici, baccare e sostanze allucinogene con conseguente stati d’ebrezza, estasi e furore. L’Isola dei Beati si connota in tale analisi come il conseguimento di un viaggio iniziatico volto allo svelamento delle cose sacre … il viaggio dantesco guidato dallo ierofante, quale gondoliere nel canale del meriggio, capace di ricondurre, magari con l’ausilio di kykeon, phalmakos, ololiuhqui, ambrosia e simili, alla luce esterna la spelonca, riaprendo la psiche all’essen-


za del cosmo. Come, infatti, ricorda il prof. Paolo Aldo Rossi, anche i primi sciamani greci di origine euro-asiatica usavano le piante allucinogene per trasferire la coscienza attraverso il tempo e lo spazio, da cui l’ovvia deduzione di un’anima libera – anzi, liberabile – dal corpo fisico, poiché in grado di muoversi indipendente da esso. Pare opportuna, a questo punto, una digressione: i funghi allucinogeni, ai quali può essere ricondotta la maggior parte di codeste antiche miscele, sembra che in effetti siano in grado di elevare il senso mistico scindendo l’io fisico dal metafisico … una scissione, tuttavia, non priva di pericoli come ben noto al tempo odierno. Parrebbe, infatti, che la moderna “nevrosi europea” – come definita dal saggista tedesco Gottfried Benn – dovuta ad una percezione scissa della realtà che enfatizza il senso di solitudine dell’essere umano e lo obbliga all’emarginazione psicologica, generi individui incapaci di sentirsi parte del mondo che, per la necessità di integrarsi in un tutto, o anche solo di un piccolo gruppo, induce ad avvalersi di sostanze estatiche, mutevoli lo stato di coscienza poiché capaci di scinderlo da quello percettivo della desolata società a-ieratica moderna, ove il sacro è esotico, se non addirittura effimero. Questo fenomeno di abbaglio odierno invita ad una riflessione circa la grande durata dei Misteri Eleusini che, al di là delle vicissitudini storiche, hanno sopperito al bisogno innato dell’uomo – anche nato schiavo o di cultura volgare – di soddisfare un desiderio spirituale che, negli psichedelici di cui il kykeon è probabile espressione, trova risposta immediata poiché agenti diretti sullo stato coscienziale. Tuttavia già nella saggezza antica era risaputo che, senza ierofante e relative ierofanie, non c’è kykeon capace di ricondurre Sophia alla luce, ma solo un nuovo abbaglio dell’Arrogante che, come annuncia il testo gnostico, torna a “maggior tormento*”. Difatti in tale epoca, oltre limitare l’uso di miscele allucinogene mediante un’assoluta e rispettata segretezza, era noto che un individuo non purificato, o comunque opportunamente preparato, sarebbe inevitabilmente caduto nel baratro di una follia mortale se avesse assunto lo stupefacente, poiché questo avrebbe potuto indurre solo la fase dionisiaca di smembramento della psiche, senza aver poi modo di conseguire lo stato sacro apollineo della ricomposizione con il significato ultimo del rito iniziatico. Rimanere con Dioniso, oggi come allora, è condanna alla

morte dell’io ... a quel vuoto impresso nello sguardo tipico degli esseri smarriti nell’illusione. Analogamente al potere delle droghe di indurre uno stato di coscienza superiore, le parole poetiche hanno la capacità di rendere possibile il passaggio da visibile a invisibile, così come da materia a immaginario, delineando indi lo spazio orfico, illustrato dalla prof.ssa Ida Li Vigni, ove si realizza il viaggio di Sophia. In virtù di questa stupefacente caratteristica, le parole poetiche hanno, infatti, anche la prerogativa di illudere il possesso del reale, poiché esse suggeriscono, non significano… Sirene dei naviganti, tali verbi incantano la mente facendosi ingannevoli traghettatrici verso un amore che, nel non essere vero eros – stando all’interpretazione platonica del mito –, si svela essere immagine basso-riflessa che, con voracità leonina, inghiotte Sophia nell’Ade. Questo dono verbale di Orfeo, lungi dall’essere parola di verità di Cassandra, diventa così colpa e condanna dell’eroe culturale. Il poeta, come l’artista, si connoterebbe in codesta ottica, successivamente esplicata dal prof. Oscar Meo, come l’imitatore del sapiente, l’illusionista prestigiatore del reale richiamato nel Il Sofista di Platone, ove il filosofo si distingue per la capacità di andare al di là dell’essere e dell’icona visibile, rivolgendo lo sguardo al cielo in direzione del vero sublime… giungendo, così, sulle Nuvole di Aristofane, ove trasporta il prof. Davide Susanetti. Nelle Nuvole, stando alla commedia, sarebbe collocata la Casa della Sapienza, o Phrontistérion che dir si voglia, che assume sembianze infere, contrarie ed opposte alla vita. In questo spazio pare avvenga la separazione coscienziale che permette l’esperienza dell’invisibile e dell’extracorporeo tramite l’esercizio del morire in vita, concepito come via iniziatica atta a superare i limiti consueti della effimera condizione umana… a patto, ovviamente, che codesta via venga intrapresa con onesti intenti, come evince da uno Strepsiade incarnante la rozza coscienza della nuova epoca, ormai lontana dall’intellettualismo aristocratico dei valori “campati per aria”. Sarà poi il prof. Valerio Meattini a ricongiungere nuvole e gleba con Il Menone di Platone, ove viene illustrato, attraverso il celebre esperimento maieutico di risoluzione geometrica, che anche lo schiavo, emblematicamente legato al terreno, possiede in forma innata la luminosa verità dei cieli a cui la reminiscenza può condurre in forza dell’intelletto. Codesto richiamo al divino, secondo

il filosofo accademico, è evocato dalla bellezza che, diversamente dalla saggezza, è virtù visibile del mondo fenomenologico, capace di promuovere il processo di anamnesi atemporale che, differenziandosi dal criterio di rammemorazione cronologica, implica il riconoscere, rinascere e ricostituire il vero su-

Massoneria blime dell’origine. Così, se di verità trascendente si è giunti a parlare, a Genova, tra i vari percorsi non poteva mancare un accenno a quello di Pistis legata finalmente a Sophia dal prof. Giuseppe Ivan Lantos nel pensiero filosofico ebraico in cammino, anch’esso come Mōsheh ben Maimōn, lungo la via che intreccia l’inderogabilità di fede dello Shemà Israel all’ellenismo razionale di un sapere invadente… una via che, con la scrittura della Guida ai perplessi di Rambam, invita, già dal titolo, alla lettura: se, difatti, meravigliati si rimane purtroppo raramente, perplessi si è davvero molto spesso. Invero, sovente rimaniamo incatenati in attesa di quel prigioniero che, dopo esser uscito alla luce, ha la grazia di tornare nell’ombra per meravigliare i fratelli e suscitare un stato coscienziale forse non dissimile da quelli allucinanti sopra citati. Il prof. Dino Cofrancesco nel suo intervento ha affrontato il tema della filia e del suo particolare significato come fondamento della polis greca, ponendo il problema della sua applicabilità alla comunità civile attuale. Codesto pare sia dovere morale del prossimo, oltre che obbligo del Libero Muratore, senza tuttavia dimenticare che – ricordando un ammonimento personale dell’Ele.mo e Pot.mo Gran Segretario Vittore Morigi tratto da Platone – il saggio, prima di tutto, è l’uomo in grado di stupire se stesso. Difatti, come ricorda a conclusione il nostro Serenissimo Gran Maestro, la Verità, nel non poter passare da una mente all’altra come acqua dalla coppa de Il Simposio, necessita della scintilla offerta dallo stupore per generare l’Arte e i suoi strumenti di elevazione ... viatici che, se nella presente breve epitome possono difettare, a Genova, certamente non sono mancati per chi, Fratello nella passione di Sophia, è in cerca del medesimo universo. ______________ * Pistis Sophia, a cura di L.Moraldi, Milano, 1999.

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La grande opera Le grand oeuvre M. Couton, a cura di Sabato Cerchia, prefazione e introduzione di A. Binni, postfazione di V. Mesisca, illustrazioni a. c. di L. Sperticato, con un contributo di G. Silvestri, L’Arco e la Corte, Bari, 2015, pp. 134, illustrato, € 15,00.

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olti anni fa conobbi un’alchimista, viveva in una vecchia colonica, gialla di licheni e rosa dagli anni. Quando lo incontrai rimasi deluso, mi aspettavo un vecchio astato, forse un po’ curvo, con la barba fluente, il naso aquilino, lo sguardo magnetico e l’aspetto burbero, invece mi venne incontro un signore perfettamente rasato, sorridente e gentile. Mi fece visitare il laboratorio, la biblioteca e la specola, quindi m’invitò in una sala arabescata di ombre e cullata dal silenzio. Qui iniziò a parlare e tutto acquistò un senso: l’ometto dall’aspetto ordinario divenne il vecchio dalla folta barba e mentre discorreva, l’atanor iniziò ad ardere, i liquidi a scorrere lungo le storte e nei lambicchi, i libri ad animarsi e a raccontare la storia antica dell’uomo e dei suoi percorsi, oltre i veli

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dell’apparenza, oltre gli orizzonti della fragilità. Mi è venuto in mente questo episodio della mia vita, quando mi sono ritrovato in mano Le grand oeuvre, splendido testo ermetico, circonfuso di mille misteri. Non è raro, infatti, imbattersi, nel corso di un’indagine a carattere storico o letterario, in citazioni bibliografiche di cui si sospetta una provenienza autoriale, per le quali risulta, però, assai difficile rinvenire una qualche notizia o indicazione utile per risalire alla fonte. Può apparire un’impresa da titani avviare una ricerca di cui più o meno si conosce l’inizio ma non il punto di arrivo. Il coraggio dimostrato dal curatore di questa opera, che, da poche pillole di saggezza scovate in una diversa pubblicazione, è riuscito con fatica a rintracciare prima il testo originario e successivamente le edizioni a stampa, tutte in lingua francese, è oltremodo lodevole, data anche la difficoltà nel verificare la paternità del testo stesso. Il nome dell’autore, Nicolas Charles Coutan e del traduttore, M. Coutan che ha realizzato la versione francese dal caldaico, appaiono quasi identici: si tratta di omonimia? O “M.” è abbreviazione di Monsieur o di altro pseudonimo? Poco citato dai dizionari biografici, in cui si riscontra per lo più il nudo elenco delle sue pubblicazioni, il nostro Nicolas Charles Coutan sembra essere passato quasi inosservato nel corso del tempo, dato anche l’esiguo numero di edizioni delle sue opere in lingue diverse dal francese. Sabato Cerchia – che giustamente ha optato per inserire come responsabilità autoriale il nome di M. Coutan, il solo a comparire nel frontespizio della princeps del 1775 – grazie all’ausilio di valenti collaboratori, con notevole volontà è riuscito a recuperare dall’oblio questo scritto, fornendone la traduzione in lingua italiana con testo a fronte in francese; è un grande merito e motivo di orgoglio anche se, a onore del vero, il fatto che non si conoscano traduzioni italiane de Le grand oeuvre non significa che non siano mai state pubblicate: l’universo bibliografico è infinito e la Storia del libro antico a stampa insegna che sicuramente dovevano esistere molte più

edizioni di quante se ne conoscano oggi. Tanto più che al momento dell’uscita de Le grand oeuvre di M. Coutan la pubblicazione di testi dal contenuto di natura ermetica non era certo effimera. Si pensi, solo per citarne alcuni, a Les Clefs de la philosophie spagirique di Lebreton, edite a Parigi nel 1722; a l’Histoire de la philosophie hermetique di Nicolas Lenglet Du Fresnoy, stampata la prima volta nel 1742; ai quattro volumi della Bibliothèque des Philosophes Chimiques editi da André Cailleau tra il 1740 ed il 1754 e all’uscita, nel 1757, sempre a Parigi, del Dictionnaire Mytho-hermétique di Antoine Joseph Pernety. Secondo le parole del professor Antonio Binni, Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia, che ha curato la Prefazione al testo, “I sommari rimandi fatti a quel vasto e variegato fenomeno identificato con la denominazione generica di alchimia non devono, però, trarre in inganno il Lettore”: Le grand oeuvre, pur dai contenuti sicuramente alchemici, rimane infatti “un’opera essenzialmente ermetica” e destinata a un pubblico di lettori “capaci di comprenderne i dettami”, ma la cui comprensione può essere sicuramente resa più accessibile, se si pone particolar attenzione, oltre alla suddetta Prefazione del Nostro Serenissimo, ai due contributi che chiudono la pubblicazione. Nel suo Il filosofo lavora incessantemente Giorgio Silvestri elabora un’esegesi del testo ricca di approfondimenti e consigli che risultano ancor più utili per un pubblico di iniziati. In Post-Scriptum Veronica Mesisca esplica con un linguaggio dotto ma estremamente comprensibile le finalità del lavoro svolto, motivandone le scelte e volgendo un sentito ringraziamento ai numerosi collaboratori. Tutto ciò rende Le grand oeuvre un volume straordinario, un’opera strappata al silenzio dei secoli, uno di quei tomi riposti dall’immaginazione nel torrione dell’abbazia di Adso da Melk e di Guglielmo da Baskerville: “una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono […] i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell’abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano cre-


scere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano a strapiombo”. Poco importa in quale scrigno sia stato rinvenuto il nostro volume, quale biblioteca lo abbia conservato, rilevante è il fatto che alcuni argonauti della conoscenza lo abbiano riscoperto, chiosato e proposto a tutti coloro che desiderano compiere un viaggio nelle arcane dimensioni dello spirito. L. Pruneti

è di aver descritto in sole 46 pagine vicende complesse sul rapporto Chiesa-Massoneria con un metodo scientificamente corretto perché basato sull’analisi di fonti storiche, ma con un linguaggio chiaro e fruibile anche da coloro che ignorano più o meno totalmente la vicenda. E ancor più apprezzabile è l’obbiettivo con cui l’indagine è stata svolta: non un’analisi rivolta in modo esclusivo a rievocare e indagare un passato remoto o prossimo, ma proiettata al futuro, per scoprire la via migliore che conduca alla costruzione di un dialogo tra Chiesa e Massoneria “entrambe [...] accomunate dalla difesa dei valori della nostra civiltà, di fronte ad una dilagante decadenza dell’etica e della coesione sociale [...]” e giungere così “alla tolleranza, al rispetto [...] come armi efficaci contro il dilagare dell’integralismo”. Integralismo che ancora una volta ha dato al mondo intero una dimostrazione di forza e devastazione, lasciando la nostra società, così assetata di valori etici e sociali, in balia dell’incredulità, all’ombra del Sospetto. A. Alessandrini

Cattolici e Massoneria. Un dialogo necessario Renzo Manetti, Firenze 2015, pp. 46, € 7,00.

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volte bastano poche righe per esplicare concetti dai contenuti profondi e di non immediata comprensione. Ma la sintesi è un’Arte e non si può insegnare. Il volume Cattolici e Massoneria. Un dialogo necessario di Enzo Manetti, docet! Non è il primo né sarà l’ultimo contributo su una tematica storicamente tanto legata ai Liberi Muratori e tanto complessa. Sono molte le pubblicazioni che hanno analizzato in ogni dettaglio la storia, la documentazione e i protagonisti di questo contrastato rapporto tra Chiesa Cattolica e Massoneria, con il fine ultimo di informare un ampio pubblico di lettori o specialisti del settore. Come è ovvio, molti di questi scritti possono rimanere oscuri o non del tutto comprensibili a un pubblico poco edotto su tali tematiche; coloro che, poi, sono mossi a queste letture da mera curiosità, ne possono ricavare un’idea distorta o rimanerne del tutto indifferenti. Il merito del lavoro di Renzo Manetti

1914-1915: il liberalismo italiano alla prova, l’anno delle scelte. Convegno di studi. a cura di Aldo A. Mola, Dronero 2015, 260 p.

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el centenario dallo scoppio della Grande Guerra, si è svolto a Torino, presso Palazzo Lascaris, il Convegno “1914-1915: il liberalismo italiano alla prova” organizza-

to a memoria di quella che si può definire una “catastrofe epocale” che cambiò repentinamente il volto del nostro paese, e per illustrare, grazie ai contributi di eminenti relatori, come anche l’Italia abbia vissuto la sua fase liberale che le ha consentito di portare a compimento il suo cammino unitario. Suffragio semiuniversale, alfabetizzazione, politica industriale, consolidamento del concetto di Stato sono solo alcune delle riforme politiche, economiche e sociali realizzate durante la cosiddetta “età giolittiana” (19011914); ma, come è sempre accaduto e accadrà in futuro, nella storia dell’uomo le “età dell’oro” hanno avuto vita breve, lasciando il testimone a lunghi periodi di buio assoluto connotati da una profonda assenza di ideali sociali e politici e di valori morali. Con la sconfitta della politica di neutralità che Giolitti aveva sostenuto in merito all’ingresso del nostro Paese nel Primo Conflitto Mondiale, si aprì un nuovo e opposto periodo storico per l’Italia, le cui conseguenze sono sicuramente avvertibili ancor oggi. Il cosiddetto “Anno delle scelte: 1914-1915” che ha visto la vittoria delle minoranze interventiste è stato scrupolosamente analizzato, sotto ogni possibile sfaccettatura, durante il Convegno internazionale organizzato dalla XVI Scuola del Centro Giolitti (Cuneo-Cavour, 14-15 novembre 1914), i cui atti sono raccolti nella seconda parte del presente volume. L’idea del curatore Aldo A. Mola di riunire in una sola pubblicazione le relazioni di queste due importanti iniziative è stata sicuramente brillante, poiché la storia non si sviluppa per eventi isolati: ogni fatto storico, mai distaccato dal suo contesto culturale, sociale, economico e politico, è concatenato al precedente e prepara avvenimenti futuri. Non si deve dimenticare altresì che, in tutto questo, il protagonista assoluto è l’uomo che “... malgrado gli infiniti condizionamenti (le cause e le concause) [...] è sempre libero (anche di sbagliare)” e, pertanto, solo un approccio che non tralasci alcuna via di indagine può dare come risultato una buona conoscenza del passato, avulsa da ogni pregiudizio e coinvolgimento emotivo. La lettura dei contributi, tutti usciti dalla penna di illustri studiosi del settore, sarà sicuramente di arricchimento per chi ogni giorno naviga nei mari di un passato non troppo remoto e ancora tutto da indagare e per coloro che invece – dediti a altri interessi – siano in qualche modo attratti dalla conoscenza dei prodromi della crisi che affligge l’Italia di oggi. A. Alessandrini

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Le imperfezioni del cuore Debora Badii, Roma, pp. 211, € 13,90.

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utto ha inizio dal ricordo di un episodio, apparentemente insignificante, vissuto dalla protagonista in tenera età e che riaffiora durante la sua permanenza in un reparto ospedaliero, probabilmente psichiatrico, in un contesto di estremo dolore e disagio. La storia che viene presentata ripercorre diacronicamente momenti della vita dell’Io narrante femminile così traumatici da condurla a compiere un atto estremo, con il conseguente ricovero in una struttura specializzata. Attraverso il supporto dei medici, richiamando alla memoria episodi cruciali di vita vissuta prima con la sua famiglia di origine e, successivamente, con il marito e i figli, la protagonista ricostruisce il puzzle di un’esistenza caratterizzata da momenti dolorosi, scelte errate e cambiamenti importanti, nei quali il lettore – soprattutto la lettrice – può in parte o totalmente riconoscere esperienze da lui – o lei – vissute. La protagonista, dopo aver finalmente compreso le motivazioni all’origine di tutto il suo disagio interiore, riesce a ricordare e accettare l’atto estremo da lei compiuto, sfociato nella distruzione della sua casa coniugale con la conseguente totale perdita dei rapporti familiari con i due figli. Il racconto è incentrato sulla descrizione di questo lungo e doloroso viaggio interiore durante il quale affiorano ricordi confusi che l’Io narrante, con grande fatica, riesce a riordinare e capire giungendo alla consapevolezza e finalmente all’accettazione del suo fallimento come madre e don-

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na, causato da un matrimonio contratto con un uomo sbagliato, egoista e al quale lei ha dedicato, non ricambiata, tutta se stessa. Odio e amore; fallimento del rapporto di coppia, con dirette conseguenze sulla vita dei figli; svalutazione da parte dell’Io narrante, in questo caso una donna, del proprio modo di essere e di affrontare la quotidianità, sono le tematiche alla base di questo romanzo dalla struttura tutta particolare. L’incipit del racconto è, infatti, caratterizzato da un Prologo che mostra al lettore un momento particolare dell’infanzia dell’Io narrante – segnalato dall’indicazione di una data seppur non completa – dal quale si possono evincere alcune caratteristiche peculiari del suo carattere, nonché i prodromi dello sviluppo della narrazione. Il primo capitolo è caratterizzato dall’alternanza tra il racconto

di episodi di vita quotidiana contemporanei al tempo della narrazione, e di uno o più eventi passati che ne sono stati l’origine primaria; entrambi i momenti sono segnalati con datazioni, quali, a esempio, “Ieri, 201..”, “Allora, 196..”. I successivi tre capitoli hanno invece una diversa struttura: la trama del racconto è svelata attraverso la “visione” di una serie di fotografie che rievocano nell’Io narrante momenti e fatti che sono stati cagione della tragicità degli eventi futuri. Gli ultimi tre capitoli del romanzo descrivono cronologicamente le vicende che hanno coinvolto la protagonista, in vista dell’Epilogo che si potrebbe definire “di Formazione”: questa ha finalmente ricordato le scelte di vita compiute e ne ha compreso la tragicità, accettandone pertanto tutte le conseguenze. L’uso di una scrittura abbastanza consapevole, con una terminologia diretta, non desueta, permette al lettore di seguire accuratamente lo svolgersi della trama, anche se l’ampio spazio dedicato alla descrizione degli stati d’animo non è in ugual misura utilizzato per le ambientazioni. La tragicità degli eventi narrati, una specifica visione del mondo, i rapporti con i genitori, con il compagno, con i figli richiamano situazioni che nel mondo odierno possono risultare familiari, almeno per un ampio pubblico femminile, tanto da condurre una lettrice a immedesimarsi, in parte, nella voce narrante. Trattandosi di un romanzo di formazione, l’obiettivo dell’Autrice, plausibile e accettabile, era con ogni probabilità coinvolgere una determinata tipologia di lettori e ciò è dimostrato dal fatto che la figura di “uomo” ne esce quasi del tutto sconfitta. A. Alessandrini


R.L. Arbana Oriente di Tirana

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l giglio è presente nello stemma di Tirana e faceva parte del blasone della famiglia nobile degli Skuraj che ha governato la città. Gli Skuraj, inoltre, hanno avuto grande importanza nel risorgimento nazionale del 1912. Il giglio significa purezza, candore e, il colore dorato ne sottolinea la caratterizzazione e dedicazione alla perseveranza (candore, perseveranza purezza, dovrebbero essere tutte doti del Libero Muratore). Gli otto nodi (invece dei sette che ci sono nel Tempio), sono da un lato un simbolo della Massoneria, ma sono otto per il richiamo numerologico che unisce la tradizione occidentale e quella orientale, come l’Albania è terra di pacifica convivenza e integrazione tra le due culture.

R.L. Avvenire Oriente di Avola

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ossa il vostro cuore infiammarsi d’amore per i vostri simili; possa questo Amore, simboleggiato dal fuoco, improntare le vostre azioni, il vostro Avvenire”. Recto: Avvenire: dal latino “advenire” letteralmente “verso ciò che sarà, l’insieme delle situazioni o delle condizioni che si presenteranno nel futuro”. Il concetto di Avvenire nelle nostre menti si materializza come un “Uroboros”, noi vogliamo rappresentare l’eterna ciclicità delle cose tutte, che hanno inizio da una fine precedente, e una fine che genera un nuovo ini-

zio. Noi vediamo il movimento come tempo, il tempo come movimento, da cui è facile immaginare l’ulteriore passaggio verso l’eterna circolarità degli elementi tutti: perennemente caduchi, perennemente fecondi. Sul nostro simbolo sono presenti i simboli dei tre elementi, il teschio umano e il motto “Arcana Intellego”. Essi sono tutti indissolubilmente legati al concetto della circolarità del tempo, essi sono e devono essere nostri strumenti di crescita, essi hanno una valenza ed una portata esoterica fondamentale per la ricerca della “Via smarrita” di ogni massone libero muratore. Il Massone libero muratore deve spogliarsi del proprio velo di Maya, per “compredere i segreti dell’Arte Reale” (Arcana Intellego). Egli deve operare il processo del “solve et coagula” per giungere alla Verità. In fine il “teschio umano”. Simbolo della caducità e della temporaneità dei nostri corpi, Noi vogliamo che esso sia uno stimolo per andare oltre il limite del mondo terreno. La morte non è dunque che un aspetto della vita umana, e la distruzione di una forma materiale, essa è il preludio per la costituzione di un’altra vita spirituale, animica, affettiva o nel ricordo dei posteri. Il nostro Io è un infinito e sconfinato mare, noi non vogliamo dire “abbiamo trovato la verità”, ma piuttosto “abbiamo trovato una verità”, non vogliamo affermare “abbiamo trovato il sentiero dell’anima”, vogliamo affermare piuttosto “sul nostro sentiero abbiamo incontrato l’anima in cammino, poiché l’anima cammina su tutti i sentieri”. “L’anima non va su di una linea, e non cresce su di una canna. L’anima si svolge in mille petali come un fiore di loto” (Kahlil Gibran da “L’anima in cammino’’).

R.L. Armonia Oriente di Rieti

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l sigillo di Loggia è di forma rotonda, sul lato frontale, all’interno di una cornice circolare, è incisa la scritta che indica il nome dell’obbedienza di appartenenza: la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori. Sempre all’interno della stessa cornice, in basso tre stelle a cinque punte delimitano lo spazio. Nella parte centrale del sigillo è collocato un triangolo che contiene tre rappresentazioni simboliche: Un’ Archipendolo, una Bilancia (il cui giogo è sorretto dal filo a piombo dell’Archipen-

dolo), Squadra e Compasso con al centro la lettera G posizionato esattamente al centro dei due piatti della Bilancia. Esternamente al Triangolo nella parte superiore, sono rappresentate due figure: sul lato sinistro di chi osserva il sigillo un ramo d’olivo e sul lato destro due spighe di grano. Sotto la base del triangolo, tre incisioni sovrapposte indicano: il nome della loggia, la “Rispettabile loggia Armonia”, il nome dell’Oriente, l’Oriente di Rieti, il numero identificativo della Loggia (ancora da attribuire) Sul retro all’interno della cornice circolare sono incisi i motti “Ingredere Omnia Fausta Ferens” e “Audi, Vide, ‘face”. Nella parte centrale è posizionata una Stella a Sei Punte (risultante di due triangoli intrecciati tra loro) che contiene una Stella a Cinque Punte.

R.L.Amantia Oriente di Valona

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mantia è una delle città più antiche dell’Albania. Le sue rovine si trovano a soli 35km dalla città di Valona, vicino al villaggio di Ploçe, a destra del fiume Shushica. Amantia fu fondata alla fine del V secolo a.C. ed è posizionata su una collina dove i resti ancora visibili mostrano l’andamento della cinta muraria. La città illirica fortificata copre una superficie di tredici ettari. Gli archeologi durante gli scavi hanno rinvenuto le tracce di una delle più importanti città dell’ antichità. Sono stati ritrovati molti frammenti antichi, tra cui i più importanti sono una testa di marmo, probabilmente Alessandro Magno, e un’altra, in calcare, in cui ipoteticamente si riconosce lo Zeus di Dodona. Una grossa tabula con un iscrizione in greco e in latino è murata su una fontana. All’età cristiana appartengono due capitelli di tipo bizantino, con croce su un lato. Oltre alla cinta muraria, all’Acropoli e alle porte della città, sono stati scoperti anche il tempio di Afrodite, una necropoli monumentale, una chiesa costruita nel I sec. d.C. e lo stadio. Lo stadio è il monumento meglio conservati ad Amantia: scoperto nel 1956, ha una forma rettangolare con una lunghezza in direzione Est-Ovest di oltre 40m.

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I Fregi ad oggi pubblicati La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ Amantia Or∴di Valona R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Araba Fenice Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ Arbana Or∴di Tirana R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Armonia Or∴di Rieti R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Avvenire Or∴di Avola R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavalieri del Tempio Or∴di Roma R∴L∴ Cav.dell’Ord.S.Andrea Or∴di Roma R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corda Fratres Or∴di Padova R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ Dalmatia Or∴di Spalato R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure

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R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ Eos Or∴di Bari R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Roma R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Bandiera Or∴di Cosenza R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno-S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Piombino R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Hercules Or∴di Cagliari R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino

R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Iliria Or∴di Fiume R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Ipazia Or∴di Genova R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Janua Coeli Or∴di Napoli R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ L’Aurore de Lombardie Or∴di Milano R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liburnia Or∴di Fiume R∴L∴ Liguria Or∴di Ospedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Metamorphosis Or∴di Udine R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco

R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo R∴L∴ Paolo Ventura Or∴di Lamezia Terme R∴L∴ Parmenide Or∴di Salerno R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Pitagora Or∴di Guidonia R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Principe A.DeCurtis Or∴di Rovato R∴L∴ Principi RosaCroce Or∴di Milano R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Rinascita Or∴di Crotone R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Stupor Mundi Or∴di Taranto R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Bergamo R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Verum Quærere Or∴di Prato R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Brescia R∴L∴ Virgo Or∴di Roma R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo



via San Nicola de’ Cesarini, 3 — 00186 Roma


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