Officinae Giugno - Settembre 2011

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Scegliamo la terza, seguendo la nostra guida che ci stupisce, provoca, affligge, sferzandoci e irridendoci, come uno stuolo di anime che deve capire, che deve crescere, decriptando ciò che vede, interpretando i simboli. Il sentiero nel tunnel di verde finisce in un prato e la vista che ci si offre è mozzafiato. Una enorme nave di tufo, con tanto di poppa con cassero, tolda e prua giace adagiata sull’erba, con a fianco un teatro romano, con i gradoni degradanti fino al suo bagnasciuga, e in cui la bocca del proscenio è un enorme mascherone da cui esce, di nuovo, un filo d’acqua che svanisce per poi rinascere dall’altra parte della nave, dove un laghetto più grande sembra voler far galleggiare questa barca di anime, pronta a salpare verso la Gloria degli Dei. Cominciamo a scendere verso la nave. Un orologio alto come una torre, con le lancette che vanno all’indietro, ci avvisa di non cercare più il Tempo. Stiamo entrando in una dimensione a-temporale dove il Tempo del Mito, che esisteva prima dell’inizio della Storia, quando nacque il tempo lineare, ci accoglie in uno spazio sacro. Subito dopo passiamo vicino ad una grandissima statua di una donna, con i seni scoperti, che ritroveremo dopo, scoprendone la valenza, alla fine del percorso. Le api d’oro, applicate sulla poppa della nave, ci ricordano che è in natura che abbiamo incontrato i primi architetti. Il simbolo delle api, sacre in molti Riti, ritorna come uno stemma dell’architetto Buzi, che vuole quasi comunicarci la sacralità della sua opera. Cominciamo a scendere, scendere in un tunnel buio, dove una grata e un burattino argentato attaccato alle sbarre ci fa capire che stiamo scendendo nella prigione dei sensi, nei tunnel della memoria, nel gabinetto di riflessione. Ma si ritorna fuori, alla luce, dopo la

putrefazione delle tenebre e si comincia a salire lentamente una scala larga, comoda, dove la numerologia e le misure dei gradini sono un trionfo di simbolismo. Si vede bene la nave, adesso, adagiata sul laghetto, più in alto di noi, un po’ lontano. Crea un colpo d’occhio che fonde arte e coscienza, senso estetico e simbolo parlante. Si desidera solo raggiungerla, lasciare i tunnel alle spalle, infilarsi in quella barca che, sentiamo, ci porterà lontano. Il nostro psicopompo ci guida ancora, ci sospinge, ridendo a volte con una risata stridula che vorrebbe impaurirci. Ci ricorda le crisi della nostra vita, le chimere che abbiamo inseguito, i sentieri sbagliati che abbiamo intrapreso. “Un pazzo” diranno alcuni. No, la voce di una coscienza forte, che accusa, che ricorda, che spinge. Non siamo abituati a un eloquio così, colpisce alcuni molto sfavorevolmente. Si sentono accusati, non comprendono. Ma il nostro giullare dice cose molto vere, ridendo ci castiga, ci connette con pensieri lontani. Arriviamo alla scala musicale che ci porta verso l’alto, come solo la musica può fare, rappresentazione di una scala di connessione tra la Terra e Dio. Saliamo i gradini di questa scala a chiocciola che si allarga maestosamente, dandoci l’impressione di spazio vuoto, di maestosità. In alto, di nuovo troviamo un tunnel. Usciamo poi sotto la prua, dove un trionfo di omaggi alle divinità ci sovrasta: templi sacri di ogni parte della terra, di ogni forgia e collocazione temporale. Il Tempo e lo Spazio si annullano in questo conglomerato di inni al Dio, lasciando soltanto la sua Idea, la sua luce invitante

per proseguire il cammino. Entriamo in un cunicolo nuovamente, usciamo in un piccolo spazio. Per terrà è disegnata la forma di un utero, dove l’uomo vitruviano si adagia come a invitarci a rinascere. Proseguiamo di poco e per terra troviamo la sagoma di un cuore : anche quello dobbia-

Simbolismo mo percorrere per la nostra nuova nascita, per poter far nascere un uomo nuovo. Si apre una porticina: siamo fuori, nel prato, nella luce. Siamo usciti dal fianco della Donna con il seno scoperto, alta, maestosa, la Madre Terra che ci ha nuovamente partorito come esseri nuovi, che tutto hanno provato e che hanno ritrovato la strada. Alle nostre spalle, in un omphalos, un cipresso bruciato da un fulmine ci connette a G.A.D.U, in un rapporto di energia violenta, bruciante tra terra e cielo. Andiamo via in silenzio, troppo è stato visto e troppo è stato sentito in quei recessi profondi che, solitamente, rimangono in silenzio dentro di noi, incapaci di aprirsi spontaneamente per far entrare la luce. Attraversiamo di nuovo il cortile, la chiesa di Francesco, il giullare di Dio, rimane dietro di noi, immota, orante nel silenzio della sera che ormai ci ha coperto. Il portone si è chiuso dietro di noi, siamo di nuovo nel bosco. Ma questa volta non lo sentiamo come una selva oscura. Scarzuola, con il suo creatore, ci ha donato qualcosa, possiamo andare avanti senza più paura. Scarzuola, loc. Montegiove di Montegabbione (TR)

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