
3 minute read
Lo sporco su cui interrogarsi
Benedetta Fallucchi racconta il suo originalissimo libro L’oro è giallo, occasione per riflettere sul corpo femminile e sul posto che occupa nella propria cultura di riferimento
di Anna Maria Rengo
Advertisement
oro è giallo”: questa l’evidente constatazione che dà il titolo al libro di Benedetta Fallucchi (edito da Hacca). Ma, tempo di sfogliare qualche pagina, o forse addirittura di scorrere qualche riga, l’associazione di pensiero, parlando di “giallo”, non è più con l’oro, ma con tutt’altro elemento.
La domanda, al momento di parlare con l’autrice del libro, nasce dunque spontanea, visto che il tema trattato è decisamente non scontato. Come mai ha deciso di scrivere un libro dedicato a una delle parti del corpo di cui meno si parla, la vescica?
“Il libro parte dalla vescica in quanto origine delle fissazioni della voce narrante, è vero, ma è presto evidente che si tratta di un espediente per parlare di altro. La protagonista di L’oro è giallo, benché priva di nome, è dotata infatti di un corpo e negli anni ha sviluppato un rapporto complesso con tutto ciò che circonda il normale atto dell’urinare: era perciò inevitabile mettere in risalto la vescica come organo su cui si concentra il suo racconto. Tuttavia, ciò che sta davvero al centro del testo è un tema più ampio. A partire dalla sua biografia, infatti, il personaggio femminile scopre come l’indagine sulla minzione apra le porte a molteplici significati, relativi alla relazione che la propria cultura intrattiene con lo sporco e, all’interno di questo schema, il posto che occupa il corpo della donna, spesso marginalizzato o nascosto”.
Mentre si assiste sempre più diffusamente alla manifestazione pubblica dei propri orientamenti sessuali, le funzioni fisiologiche restano avvolte in un alone di discrezione. Pensa che anche queste saranno sdoganate e lo auspica?
“Le funzioni fisiologiche non possono che essere avvolte da un alone di discrezione. Senza voler prendere in considerazione rituali e tradizioni diverse, si può dire che, a partire dal XIX secolo, grazie ai progressi della medicina e della scienza, la nozione di igiene è diventata cruciale. Allo stesso tempo, però, bisogna cercare di identificare se e come i progressi abbiano avuto un impatto sulle società, e se e come tendano a riprodurre classificazioni discriminanti. La nostra idea di igiene, infatti, progredisce con il progredire della scienza ma si appoggia, a volte si fonda sulle stesse paure a cui vuole dare risposta. Il corpo è rimasto particolarmente incastrato in questo meccanismo, tanto più quello femminile. Secondo il sociologo Norbert Elias, all’aumentare del benessere, della longevità, è corrisposto anche un innalzamento del senso del pudore, della vergogna, dell’imbarazzo. Apparentemente c’è una maggiore liberalità rispetto ai comportamenti sessuali, eppure il rapporto dell’uomo contemporaneo con la propria fisicità è molto più improntata al disgusto di quanto non lo fosse, per dire, l’uomo medievale. A me interessava esplorare questa contraddizione con gli strumenti della letteratura (e non certo parlare del possibile sdoganamento delle funzioni fisiologiche!)”.
Lei scrive per Yomiuri Shimbun, il maggiore quotidiano giapponese: come si trova ad accostarsi a una cultura così distante dalla nostra? Quali sono i punti in comune e le differenze?
“Io lavoro per un quotidiano giapponese, sì, ma lavoro in Italia e raccontando l’Italia ai giapponesi, in appoggio ai corrispondenti che di volta in volta vengono inviati da Tokyo a Roma; la mia visione resta dunque parziale. Negli anni ho sviluppato un legame ambiguo con il Giappone, che è per me un altro paese del cuore ma anche una nazione matrigna. Stranamente di punti in comune tra Italia e Giappone ve ne sono più di quanto immaginiamo, a partire dall’invecchiamento della popolazione e da una certa rigidità delle strutture sociali e dei ruoli. Benché in modo molto diverso rispetto all’Italia, la società giapponese è profondamente gerarchizzata e permangono degli atteggiamenti di profondo conservatorismo. La differenza più macroscopica, che sperimento quasi quotidianamente sul lavoro, ha a che fare comunque più con le strategie di adattamento alla realtà: essendo abituati a fronteggiare inefficienze e caos, di norma gli italiani sono infatti dotati di una flessibilità che manca ai giapponesi, i quali, a loro volta, eccellono nella prevenzione e nell’organizzazione. Queste dinamiche contraddittorie, calate nella delirante quotidianità romana, sortiscono spesso effetti di involontaria comicità”.
Dopo aver legalizzato il gioco d’azzardo, in Giappone stanno per nascere dei casinò. Pensa che avranno successo tra i giapponesi? Com’è la loro indole per quanto riguarda il gioco e il divertimento in genere?
“Quando penso ai giapponesi e al gioco, la prima immagine che si offre alla mia mente sono gli sterminati corridoi tappezzati di rumorose e coloratissime macchine del pachinko davanti a cui sostano le categorie umane più disparate. Tradizionalmente, il gioco di azzardo non è visto di buon occhio, il pachinko è sempre stato lecito proprio perché, in caso di vincita, non eroga soldi ma altri premi. Così, a impressione, e quindi vale poco, direi che la creazione di casinò forse risponde più al tentativo di attirare (e trattenere) i turisti occidentali che non a qualcosa di destinato a radicarsi nella società giapponese. Ma sono pronta a ricredermi!”.