Il mistero del Capitano Brett - anteprima

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Il mistero del Capitano Brett

Il mistero del Capitano Brett

Il mistero del Capitano Brett

traduzione di Maria Baiocchi

La mia giovinezza è stata tutta una tenebrosa tempesta, Solcata qua e là da un sole luminoso; Il tuono e la pioggia hanno fatto un tale scompiglio Che nel mio giardino rimane solo qualche frutto vermiglio.

Charles Baudelaire, Il nemico

Mi ricordo di quel periodo della mia vita in cui il tempo sembrava non voler esistere.

Di quel viaggio interminabile.

La nostra famiglia attraversava un momento delicato. Mio padre doveva andarsene in un altro continente per un viaggio d’affari.

Mia madre soffriva per una gravidanza complicata.

Il suo stato di salute andava peggiorando e per lei fu deciso un soggiorno in un sanatorio dove io non potevo accompagnarla.

Non era né consigliabile né auspicabile.

Passando da un treno all’altro, mi persi in una geografia di luoghi e non avevo più la minima idea di dove mi trovassi. E poi venne la notte.

Il finestrino dello scompartimento divenne uno specchio scuro che smisi di contemplare, stanco di non vedervi altro che il mio riflesso.

E quel treno sfrecciava veloce, in direzione della città di L… nella quale dovevo risiedere per qualche mese almeno.

assopirmi.

Rimuginando quei pensieri sconsolanti, finii per

Il controllore venne a svegliarmi.

«È arrivato, mio giovane amico!»

Senza la benevolenza di quel brav’uomo, avrei potuto finire il mio viaggio disperso da qualche parte in Oriente!

Scesi sul binario, carico come un mulo. Spintonato da una folla di viaggiatori affaticati e sfiniti, mi misi in marcia, ancora addormentato, senza sapere bene dove andavo.

«Hyéronimus! Hyéronimus, dove sei, ragazzo mio?» sentii chiamare dal fondo del binario.

Ho dimenticato di

Mi chiamo Hyéronimus Perthuis.

Eccomi qua, com’ero a dodici anni, quando sembravo forse più piccolo della maggior parte dei ragazzini della mia età.

Anche se a volte potevo apparire timido agli occhi degli altri, ogni tanto sapevo dar prova di una sorprendente audacia. Volevo infatti andare in giro per il mondo, senza lasciarmi ingannare da chicchessia.

E quello che mi aveva appena chiamato non era altri che mio zio Timothéus, venuto a prendermi alla stazione. Aveva quindici anni più di mio padre, lo conoscevo appena.

«Sei proprio tu, Hyéronimus?

Come sarai stanco! Lascia che prenda i tuoi bagagli, andiamo, vieni!»

Fermò un tassì e fummo trasportati, in piena notte, sotto una pioggia battente, verso quello che il Destino riservava a tutti e due.

I Pirati del Canale della Gazza

Villa Perthuis. Sì, portava fieramente il nome della nostra famiglia. Mio zio vi abitava e la coccolava come un’antenata venerabile.

Ma la casa aveva i piedi freddi e la faccia umida, ed era silenziosa durante il giorno. Constatai, senza grande sorpresa, che mi ci annoiavo da morire.

Lo zio Timothéus era storico di formazione e archivista comunale di mestiere.

Quando non era al lavoro, si chiudeva nella vasta sala che gli serviva da studio e il cui accesso era proibito a tutti tranne che a lui stesso.

Credo che lì non facesse altro che sognare, tormentato dal ricordo del mondo.

Il resto della casa era pieno di oggetti bizzarri che costituivano una collezione, una sorta di gabinetto delle curiosità.

Ma poiché mi fu – dolcemente ma fermamente – chiesto di non toccarli, persero il poco interesse che avrei potuto accordare loro.

Fortunatamente per me, c’era Mathilda. Era una piccola donna gioviale, energica, al tempo stesso dolce e sbarazzina.

Veniva alla villa la mattina e la sera.

Era lei che in verità governava la casa, come alla fine compresi.

Da vera maga, ci preparava pietanze deliziose sempre canticchiando e scherzando. Il suo buonumore era contagioso.

Intuendo la mia insaziabile ghiottoneria, mi faceva delle cialde e delle crêpes che divoravo mentre lei leggeva i giornali o mi raccontava

storie inventate per divertirmi.

Sfortunatamente, passava soltanto qualche ora con me e io rimanevo solo per la maggior parte del tempo.

La camera rivestita di legno sotto il tetto era piccola ma confortevolmente arredata.

La cambusa, come la chiamavo... ci passavo quasi tutto il tempo, cercando di studiare quei pochi libri che avevo portato con me.

Invano. Ero irresistibilmente attratto dalla finestra e dal rumore di quella città sconosciuta.

Il tempo si era messo al bello. Il cielo blu era percorso da nubi gigantesche che lo attraversavano maestose.

Aprii la finestra per poterle seguire con lo sguardo. Filavano verso ovest, verso il mio paese e gli esseri che mi erano più cari.

Il vento irruppe facendo volare le mie carte.

Il vento.

Sì, so che fu il vento a farmi prendere la decisione insensata di uscire da quel bozzolo di calma e di noia che non potevo più sopportare.

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