

Mario Pacifici Una cosa da niente

Quando arrivarono i carabinieri, lo trovarono ancora lì, rattrappito su uno scalino, la testa fra le mani.
Rispose a monosillabi alle loro domande, ma intanto non riusciva a liberarsi di un pensiero.
Quell’uomo si era ucciso mentre gli parlava, forse proprio in risposta alle sue parole.
Man mano che le idee gli si schiarivano, si sentiva pervadere da un violento senso di colpa. Lottò, per non lasciarsi sopraffare.
Cosa c’entrava lui, in fondo, con quell’uomo? E cosa gli aveva mai detto, di così grave? Lui non aveva nulla contro gli ebrei, questo era chiaro, ma c’erano leggi e regolamenti precisi. Che colpa ne aveva lui, se era tenuto a farli rispettare?
E poi, cosa c’era mai di tanto terribile in quelle leggi? Forse che qualcuno aveva torto loro un capello? Mentre formulava questi pensieri, un senso di estraneità gli cresceva così forte dentro da sgretolare la morsa di angoscia da cui si era sentito irretito.
No, si disse infine con sollievo e con determinazione, lui non aveva proprio nulla di cui rimproverarsi.
Mario Pacifici
Una cosa da niente
dello stesso autore:
La pedina
Rachele e Giuditta
La porta aperta
ISBN 979-12-221-1013-4
Prima edizione agosto 2025
ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2029 2028 2027 2026 2025
© 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma
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Mario Pacifici Una cosa da niente
racconti
Introduzione
Nel 1938 il regime fascista introdusse in Italia una serie di provvedimenti “in difesa della razza” che colpirono drammaticamente tutti gli ebrei del regno.
I cittadini ebrei furono cacciati dalle scuole, dalle università, dall’esercito e dal pubblico impiego, mentre un’infinità di vessatorie disposizioni rendeva la loro vita impossibile in ogni campo. Persero il lavoro, e con esso la sicurezza di un dignitoso sostentamento. Coloro che possedevano aziende o terreni se ne videro spogliati. Furono proibiti anche i matrimoni misti.
Al di là e al di sopra di tutto questo, gli ebrei furono privati della dignità e della speranza. L’emancipazione che avevano conquistato nel corso del Risorgimento fu cancellata di colpo, e per loro si riaprirono idealmente i cancelli di quei ghetti in cui avevano conosciuto angustie e umiliazioni per secoli.
I decreti, le leggi e le circolari ministeriali, a tutti noti col nome di “leggi razziali”, furono emanati da un regime dispotico e totalitario, ma ebbero anche il sostegno delle istituzioni e il consenso talvolta distratto della popolazione.
Se è vero che l’iniziativa politica fu di Mussolini, è altrettanto vero che fu il Parlamento a varare la legislazione razziale e che il re non fece mancare la sua firma di ratifica.
Tranne Benedetto Croce e pochi altri, gli intellettuali che pur sedevano in Parlamento o che affollavano le università non furono capaci di levare la propria voce per denunciare il vulnus che veniva inferto alla cultura giuridica italiana.
Oggi, di tutto questo molti italiani hanno solo una vaga percezione, e il mito inossidabile degli “italiani, brava gente” lascia poco spazio a una valutazione critica dell’accoglienza che le leggi razziali ebbero nella società.
Il governo, si dice spesso, concesse qualcosa all’alleato nazista, imponendo al popolo italiano misure razziali estranee al suo modo di sentire. È per questo, si dice ancora, che la disciplina razziale fu applicata in Italia solo “all’acqua di rose”. Non c’è nulla di più falso.
Le leggi furono applicate, nella scuola come nell’esercito, con un puntiglio e uno zelo degni di miglior causa. Qualcuno può considerarle poca cosa solo perché le paragona alle successive persecuzioni e deportazioni. È vero, in Italia non ci fu una “notte dei cristalli”, ma il dramma degli ebrei si consumò nel silenzio di tutti, con la connivenza di tutti. Se dopo l’8 settembre del ’43 ci furono in Italia innumerevoli esempi di coraggio ed eroismo, in difesa degli ebrei perseguitati, non ce ne furono molti, prima di quella data, in difesa degli ebrei discriminati.
Ci fu solo silenzio.
10 giugno 1940
Gabriele Della Pergola si guardò intorno.
La sala d’aspetto era buia e polverosa, pervasa da un odore arcaico di fumo stantio. Due logori divani e una scrivania con le sue sedie ne erano tutto l’arredamento. Dalle pareti scrostate pendevano vecchie locandine di viaggio e calendari illustrati con le immagini di città lontane.
Buffo, pensò Della Pergola, che tutte le sue speranze dovessero riprendere il via da un posto come quello.
D’altro canto, per quanto modesta, quella era pur sempre una scuola di lingue, e con i suoi magri risparmi non avrebbe potuto permettersi di meglio.
Scrollò le spalle.
Non aveva bisogno di ambienti lussuosi. Doveva solo imparare l’inglese, e in fretta. Se davvero fosse riuscito a espatriare, se davvero lo avessero imbarcato su un piroscafo per l’America, sapere qualche parola della lingua lo avrebbe aiutato.
Diede un’occhiata all’orologio e sbuffò spazientito.
Dalle altre stanze giungeva il suono confuso di qualche conversazione, il ticchettio di una macchina da scrivere e soprattutto, incongrua, la musica di una radio tenuta ad alto volume.
O forse no, forse la musica proveniva dall’esterno. Da un altro appartamento o dagli altoparlanti piazzati in strada. O forse da ognuno di quei luoghi.
L’ingresso del responsabile lo colse alla sprovvista.
Della Pergola lo salutò ossequioso, ma ricevette in risposta solo un mezzo grugnito.
«Siete qui per il corso d’inglese, non è vero?» gli chiese il responsabile, prendendo posto dietro la scrivania.
Della Pergola annuì, fissando quell’uomo dimesso e di bassa statura che lo guardava senza espressione attraverso le spesse lenti di un paio di occhiali in finta tartaruga. Poteva avere cinquant’anni e nascondeva l’ampia calvizie sotto un ridicolo riporto fissato dalla brillantina. Stringeva fra i denti un bocchino d’osso, desolatamente privo della sua sigaretta, e aveva i baffi, le labbra e le dita segnati dal giallo della nicotina. Sul risvolto della giacca teneva appuntato l’immancabile distintivo del partito.
«Qui potete verificare gli orari, i prezzi e le condizioni» disse facendo scivolare sulla scrivania un foglio stampato.
Della Pergola lo scorse rapidamente, annuendo in silenzio.
«Va bene» disse alla fine.
Prese dalla tasca il portafoglio e sfilò cinque biglietti da venti lire, che dispose ordinatamente sulla scrivania, uno accanto all’altro.
«La retta del primo mese» spiegò.
Il responsabile guardò i soldi, vagamente contrariato.
Che bisogno c’era di snocciolare le banconote in quel modo? Non si fidava di lui? Le raccolse, comunque, con una sola manata e se le mise in tasca, ma poi si bloccò tendendo l’orecchio alla radio.
La musica si era interrotta e ora parlava un annunciatore.
«Siamo in attesa di trasmettere il discorso alla nazione di sua eccellenza il primo ministro Benito Mussolini».
La radio tornò a trasmettere musica e il responsabile abbozzò un sorriso di circostanza.
«C’è ancora tempo, ma è meglio affrettarci».
Tirò fuori dal cassetto una scheda e la inserì nella macchina da scrivere.
«Nome e cognome».
Della Pergola glieli disse, ma vide la mano del responsabile bloccarsi sopra i tasti.
L’uomo sollevò lentamente lo sguardo su di lui e arricciò il naso per manifestare tutta la sua perplessità.
«Razza?»
Della Pergola scosse il capo senza parlare.
Il responsabile sospirò. Era sconcertato. Un contegno ragionevole, da parte di quell’ebreo, avrebbe evitato a entrambi l’imbarazzo di una scena penosa.
«Questa è una scuola ariana» precisò con sussiego «non accettiamo studenti di razza ebraica».
Estrasse di tasca le cinque banconote e le dispose di nuovo sul tavolo, una accanto all’altra.
Della Pergola non le toccò.
«Voglio solo imparare un po’ di inglese. Non vi creerò alcun problema».
Il responsabile intrecciò le mani e socchiuse gli occhi, sospirando.
«Vi prego di non insistere. Abbiamo delle disposizioni ministeriali».
Della Pergola piegò il capo, senza replicare. Rimase qualche istante in silenzio, ma poi sembrò riaversi. Si alzò e raccolse dignitosamente le banconote dal tavolo. Le mani gli tremavano.
Il responsabile attese paziente.
«Cercate di capire, non c’è nulla di personale, ci atteniamo semplicemente alle direttive. Dipendesse da me, non avrei nulla in contrario, ma…»
Della Pergola non lo ascoltava più. Si diresse verso la porta, camminando come un automa.
Era stordito e confuso. Avrebbe dovuto provare rabbia, pensava, ma sentiva solo una frustrante umiliazione.
Si fermò prima di imboccare la porta e si lasciò cadere sul divano. Aveva bisogno di riordinare le idee.
Il responsabile gli rivolse un cenno di assenso.
«Fate pure con comodo. Io, intanto, se non vi dispiace…» E si dileguò discretamente, chiudendosi la porta alle spalle.
Della Pergola rimase a lungo seduto. Aveva fatto il vuoto dentro di sé, impedendosi di pensare e di riflettere. Voleva prima calmarsi, poi avrebbe esaminato la situazione e avrebbe preso una decisione.
Seduto, immobile, si limitava di tanto in tanto ad aprire il pugno della mano e a controllarne il tremito. Quando fosse cessato, pensava, sarebbe stato di nuovo padrone di sé, e allora…
Dopo un po’, comunque, decise di andarsene.
Si avviò verso la porta ma, giunto sull’uscio, si fermò di nuovo.
La radio non trasmetteva più musica. Ora si udiva solo la voce dell’annunciatore, sommersa dalle ovazioni della folla.
Pensò di fermarsi e di ascoltare. In fondo non aveva fretta, e l’idea di rientrare nella sua stanza in affitto lo faceva star male.
Si rimise sul divano e tese l’orecchio alla radio.
Le ovazioni erano cessate, la voce di Lui si levava stentorea e roboante.
«L’ora delle decisioni irrevocabili batte al cielo della nostra patria».
Dalla radio giungeva il boato della folla in delirio.
«La dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Francia e di Inghilterra».
Della Pergola si prese la testa fra le mani.
«La guerra».
Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di luglio 2025 con un processo di stampa e rilegatura certificato 100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI
MARIO PACIFICI ha esordito nella scrittura vincendo il premio del Festival della Letteratura Ebraica con il racconto Una cosa da niente , incluso in questa raccolta a cui dà il titolo. Con Gallucci ha già pubblicato i romanzi storici La pedina e Rachele e Giuditta , e l’albo La porta aperta , con le illustrazioni di Lorenzo Terranera, dedicato alla storia vera di Ferdinando Natoni, Giusto tra le Nazioni.
In copertina
© Richard Tuschman / Trevillion Images
Art director: Francesca Leoneschi
Graphic designer: Pietro Piscitelli / theWorldofDOT
«La chiamate una cosa da niente tradire migliaia dei vostri cittadini? E che ne sapete voi dei drammi che hanno causato le vostre modeste misure in difesa di questa mitica integrità razziale?»
Nel 1938 le leggi razziali fasciste sconvolgono la vita degli ebrei. Chi si trova dall’altra parte, quando non ne approfitta, si adegua presto con l’alibi dei tempi difficili e sono ben pochi a indignarsi: tanto, alla fine, rispetto agli sforzi della nazione, sono “cose da niente”.
In questi racconti amari e rivelatori, Mario Pacifici mostra come nell’animo di ogni ebreo siano comunque rimaste intatte la dignità, la lealtà alle proprie radici, il coraggio e infine l’ironia, che smaschera le ipocrisie e permette, a volte, di farsi beffa anche dei mali più insopportabili.