Intrecci

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INTRECCI

Francesca Re

La mia attività preferita, da piccola, era frugare tra le cose trovate in casa. L’ultima stanza della casa, che funge da ripostiglio, cela una vasta quantità di reperti come vecchie fotografie e oggetti personali appartenenti alla mia famiglia. Attendevo il momento di ritrovarmi da sola a casa per poter scavare nei ricordi, selezionarne alcuni, conservarli per poterli poi osservare e studiare con cura.

Mi piaceva perdermi nei diari segreti, nelle lettere d’amicizia e d’amore, fantasticando sulle storie che nascondevano. Passavo le mie giornate traducendo lettere scritte con alfabeti inventati. Cercavo di mettere insieme i pezzi per creare una storia. Infine chiedevo di raccontarmela. Non sono mai stata brava a raccontare le storie, non mi definisco una brava narratrice, ma mi affascina ascoltare le storie degli altri.

L’interesse per le storie personali è un tratto che mi contraddistingue anche oggi. Trovo che le storie, raccontate da chi le ha vissute, siano un mezzo potentissimo per esprimere sentimenti e avvolgere chi le ascolta in tempi e situazioni lontane.

01. Calimero

Calimero

Era un vecchio scimpanzé di dieci anni che viveva nello zoo del castello della nostra città. Era sempre stato solo, in una gabbia relativamente grande.

Un giorno, lo zoo prese una scimpanzé femmina per fargli compagnia. Per farli conoscere e ambientare, la femmina fu tenuta in una gabbia vicina a quella di Calimero. Lui, vedendola senza poter avere contatti, si agitò al punto da divellere le spesse sbarre della sua gabbia. Scese dalla torre ovest del castello, attraversò il vigneto urbano, superò al semaforo l’incrocio delle strade. Ruppe il cruscotto di un’auto ferma con un pugno, ferendosi. Poi proseguì in direzione del nostro condominio, che distava circa 10 minuti dal castello. Forse fu attratto dal verde e dal grande giardino centrale.

Salì dalle scale trovando il portone condominiale aperto, lasciando impronte di sangue su tutti i gradini. Giunto in cima fino all’ultima porta, la nostra, e trovandosi in un luogo chiuso, senza modo di entrare, tornò indietro. Fece dunque il giro raggiungendo il grande giardino centrale e si arrampicò sulla terrazza di casa nostra. Io e Michele, mio fratello, all’epoca frequentavamo il liceo e stavamo studiando nelle nostre camere.

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Sentii un rumore, una sorta di urlo, chiamai Michele e corremmo in sala a vedere cosa stesse succedendo. In sala c’era una grande porta finestra che dava su un balconcino. D’impulso mi venne la tentazione di aprirla, ma per fortuna scostai solo la tenda. Mi ritrovai davanti alle fauci spaventose di questo enorme scimpanzé che urlava.

Vidi i poliziotti nel parco avvisarci e farci segno di uscire immediatamente dall’appartamento. Scendemmo subito in giardino, dove si trovavano i poliziotti e la guardia forestale. Lo scimpanzé aveva trovato una cassetta di mele che mia mamma aveva lasciato sul balcone. Ne mangiò alcune e le altre le utilizzò come munizioni da lanciare ai poliziotti che cercavano di catturarlo. Nel frattempo, mia madre tornò a casa da lavoro e vedendo le tracce di sangue per le scale e non trovando nessuno in casa pensò al peggio. Lo scimpanzé fu catturato dopo circa un’ora con fucili caricati con sonnifero, corde e reti. Dopo poco tempo, grazie anche allo scalpore suscitato da questo fatto, la cittadinanza si sensibilizzò in merito alle condizioni in cui vivevano gli animali nel castello, e lo zoo di Brescia chiuse per sempre.

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02. Cira

Simona, anche detta ‘Cira’, è stata la mia migliore amica del liceo. Siamo cresciute insieme, era come se fossimo sorelle; eravamo inseparabili. Simona è sempre stata una persona vivace, brillante, spumeggiante e piena di energia.

Dopo il liceo, le nostre strade si sono un po’ divise: io ho studiato restauro a Brescia, mentre lei è andata a Roma per dedicarsi alla recitazione nell’Accademia Nazionale “D’Amico”. Dopo gli studi è rimasta a vivere a Roma con il suo compagno, mentre io mi sono sposata e sono rimasta incinta di Caterina, la mia prima figlia. Qualche anno dopo, ci siamo riviste quando Simona aspettava Neve, la sua bambina. Poco tempo dopo ci siamo di nuovo perse di vista. La vedevo un po’ triste, sospettavo ci fosse qualcosa che non andasse, ma non potevo immaginare cosa fosse.

Quindici anni dopo, ho scoperto che in quel periodo stava affrontando problemi giudiziari molto pesanti. Era accusata di cose assurde. La famiglia del suo compagno, da cui nel frattempo si era separata, stava tentando di ottenere la custodia della bambina, dal mo-

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Cira

mento che il padre poteva vederla solo con la sorveglianza dei servizi sociali.

Quando Simona ha saputo di essere incastrata per cose che non aveva fatto, ha finto di collaborare con le autorità, per poi fuggire con la bambina, che all’epoca aveva 4 anni, senza lasciare alcuna traccia. Non avevo sue notizie, nessuno le aveva. Sapevo solo che, improvvisamente, era sparita.

Nel nostro quartiere correva voce che fosse scappata, portando via la bambina al padre, ma nessuno sapeva il vero motivo. I suoi genitori abitavano nel mio quartiere e ogni tanto incontravo sua madre con cui ero molto legata. Quando la vedevo, ero tentata di chiederle di Simona, volevo sapere come stesse, cosa fosse successo. Ero certa che lei avesse sue notizie, ma non volevo metterla a disagio. Quando ci incontravamo, infatti, parlavamo di tutto tranne che di Simona.

In questi anni ho pensato spesso a lei, mi chiedevo dove fosse, se stesse bene. Ero quasi sicura che fosse in Sud America; anni prima era stata in Argentina e se ne era completamente innamorata, me ne parlava sempre. Quindici anni dopo, ho saputo che Simona era tornata a Brescia: il caso era andato in prescrizione, ormai era libera. Sono riuscita ad ottenere il suo contatto e

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le ho chiesto di vederci. Ero così agitata, non mi sembrava vero poterla rivedere dopo così tanto tempo.

Sono passati molti anni, ma è come se non ci fossimo mai separate. Al giorno d’oggi, mi sembra surreale riaverla accanto a me, vedere la persona che è diventata, vedere sua figlia ormai così grande.

Non è cambiato niente; il nostro rapporto è sempre quello, sempre speciale. Ogni domenica, davanti ad un caffè, ci aggiorniamo sulle novità e ricordiamo le esperienze vissute insieme.

03. Terra del Fuoco

Terra del Fuoco

Io e mio marito ci trovavamo in Sud America, d’estate, per un viaggio. Fra i vari luoghi che abbiamo visitato, quello che ci ha più colpiti è stato la Terra del Fuoco.

Avevamo letto su una guida e ci era stato consigliato dalla gente del posto, che, più a sud rispetto a dove ci trovavamo noi, esisteva un locale che faceva delle ostriche spettacolose.

Così decidemmo di andarvi. Ci mettemmo in marcia con la macchina che avevamo preso in affitto. La strada si fece sempre più stretta, fino a che non ci trovammo di fronte ad una distesa di pecore. Non c’era un pastore, non c’erano altri animali, solo un gregge infinito di pecore.

Non sapevamo cosa fare, non c’era un’altra strada e scendere dall’auto per cercare di smuovere la situazione era completamente inutile. Il tempo che abbiamo aspettato seduti in macchina mi è sembrato infinito. Finchè finalmente si fece buio e le pecore pian piano inziarono ad allontanarsi. Ci rimettemmo in marcia appena la strada fu libera.

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Dopo altri 40 minuti di strada arrivammo al locale delle famose ostriche.

Ci trovammo finalmente davanti all’ingresso, ma ...il locale aveva ormai chiuso!

Non ci volevamo credere, era stato tutto inutile. Abbiamo spiegato la situazione ai gestori del locale, che, dispiaciuti, si sono resi subito disponibili per trovarci una sistemazione alla meglio, con due brande in uno stanzino del ristorante.

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04. Il cielo in una stanza

Il cielo in una stanza

Io e il papà eravamo fidanzati da pochi mesi quando lui ha saputo di essere stato preso per un anno di tirocinio presso la Cornell University di New York . Lui voleva rinunciare, ma io l’ho convinto che fosse una bella occasione, doveva assolutamente farlo ed era importante per il suo futuro. Io appena potevo lo andavo a trovare, il periodo in cui mi sono fermata di piu è stato l’estate del 97. avevo trovato anche lavoro in uno studio di restauro a Soho.

Quando tornavo a casa, nel tragitto dal posto in cui lavoravo verso casa nostra, passavo sempre davanti a questo negozio di giocattoli gigantesco, molto famoso a NY all’ epoca. C’erano tanti giochi per bambini ma anche cose per adulti, un po’ particolari, innovative, che in Italia arrivavano con anni di distanza. Un giorno vidi queste stelline che si caricavano con la luce del sole e di notte rilasciavao la luce. Le avevo attaccate sul soffitto della nostra stanza, avevo ricreato le costellazioni.

Quella sera, quando Alessandro è rientrato a si è trovato in mezzo ad un cielo stellato.

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New York

New York

All’età di 27 anni ho trascorso un’anno della mia vita a New York, precisamente nel quartiere di Manhattan, per un periodo di formazione post Laurea in Medicina presso il New York Hospital. Erano gli anni 90 ed allora non era così facile rimanere in contatto con i propri familiari in Italia, causa assenza di telefoni cellulari oltre alla differenza di fuso orario di 6 ore. Ricordo che con i miei genitori ci mantenevamo in contatto anche scrivendoci delle lettere

I miei genitori ad un certo punto decisero che sarebbero venuti oltreoceano a farmi visita per qualche giorno. Non avevano mai fatto un viaggio così lungo nella loro vita, e se mio padre conosceva un minimo di espressioni in inglese, mia madre non ne conosceva nemmeno una parola (a scuola aveva studiato francese come lingua straniera). Il giorno fatidico in cui sarebbero arrivati a New York, dopo le 8 ore di volo previste, ci eravamo dati appuntamento “alle uscite”dell’aeroporto JFK.

Per me era un periodo difficile in cui ero molto impegnato in ospedale, ero stanco e dormivo poco.

Quella mattina partii da casa all’orario previsto e

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salii contento sulla metropolitana diretta all’areoporto. Feci regolarmente il cambio di treno previsto e mi diressi all’appuntamento.

...Mi risvegliai un’ora dopo e appena aprii gli occhi vidi l’oceano! Non era previsto nel mio viaggio! Mi resi conto di non essere sceso alla fermata prevista ma di essere arrivato al capolinea.

Non avendo mezzi per poter avvisare i miei genitori, ripresi la metropolitana in senso inverso e mi presentai all’appuntamento fissato con più di un’ora di ritardo, con la coda fra le gambe.

Avevo lasciato i miei genitori non abituati a viaggiare e senza conoscenza dell’inglese, da soli in un areoporto straniero senza poter comunicare con nessuno. In un periodo diverso mia madre si sarebbe sicuramente arrabbiata, ma in quel momento la gioia di rivedermi e di non essere più sola in quel posto sconosciuto la fece comunque sorridere e venirmi incontro per abbracciarmi dissimulando la paura che aveva avuto fino a quel momento.

Non mi riprese nemmeno per quello che avevo combinato e nei giorni successivi diventò una storia da raccontare e riderci sopra.

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Luca

Io e Luca ci eravamo conosciuti al mare quando avevo 20 anni, nell’estate dell’88. La mia famiglia e io andavamo a Pineto, un piccolo paesino vicino a Pescara, tutte le estati.

Avevo il mio gruppo di amici, ci conoscevamo fin da piccoli.

Luca però, poiché aveva quattro anni più di me, faceva parte del gruppo dei ragazzi più grandi. Ci eravamo conosciuti al falò di Ferragosto, che facevamo sempre in una spiaggia libera all’inizio del paese. Quell’anno si era deciso di unire i due gruppi per festeggiare insieme. Quell’estate io e Luca ci siamo innamorati. Lui era di Piacenza, mentre io abitavo a Brescia. A quel tempo né io né lui possedevamo un’auto, quindi non era così semplice incontrarsi. Ci trovavamo spesso a metà strada, a Cremona. A volte, invece, ci trovavamo a Milano, dove lo zio di Luca aveva una casa. Mi prendeva in giro, mi chiamava “peppiola”, un neologismo che aveva inventato lui.

Una sera, tornando a casa in treno da uno dei nostri incontri, mi ritrovai in borsa una palla da baseball.

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Luca

La riconobbi; era una palla che Luca conservava gelosamente. Era stata utilizzata in una partita di campionato in cui aveva segnato un punto fondamentale per la squadra, ci teneva molto. Sulla palla c’era scritto: “Di peppiole come te non ne fanno più... che fortunato!!!”

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GIAPPONE

Verso fine giugno del 1993 ebbi l’onore di essere invitata in Giappone in rappresentanza del Ministero della Pubblica Istruzione italiana per partecipare ad un convegno internazionale e per far visita alle scuole locali.

La mia permanenza era prevista per circa 20 giorni, durante i quali avrei avuto l’opportunità di immergermi completamente nella cultura giapponese

Ci dirigemmo verso un locale tradizionale, caratterizzato da un tavolo basso e sedute costituite da cuscini bassissimi che poggiavano direttamente sul pavimento. La serata si svolse in questo suggestivo ma scomodo ambiente. Era stata una lunga giornata, sognavo di tornare all’abitazione in cui alloggiavo e farmi una bella dormita. Dopo ore di intrattenimento, feci ritorno alla residenza in cui alloggiavo. La proprietaria di casa mi accompagnò nella mia camera, rivelando un letto basso, interamente realizzato in legno e appoggiato direttamente a terra. Il cuscino, era composto da fagioli rossi. Era il rituale giapponese del sonno.

Quella notte, tra il letto basso e il cuscino insolito, si rivelò la dormita più impegnativa della mia vita.

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SCARABEI

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Da piccola sognavo di fare l’archeologa. Passavo ore sui libri di storia a leggere le scoperte delle tombe egizie. Le ore passate immersa nei libri di storia, soprattutto quelli che narravano delle tombe egizie, erano il mio rifugio. Sognavo di scavare tra i misteri sepolti dell’antichità.

Avevo tre scarabei che conservavo con molta cura, erano i miei porta fortuna. Il primo l’avevo acquistato al British Museum da ragazzina in viaggio con i miei genitori. Quel primo scarabeo divenne il custode dei miei sogni d’avventura.

Altri due invece mi erano stati portati come souvenir dall’Egitto, il primo da Simona, la mia migliore amica del liceo, che era a conoscenza del mio sogno nel cassetto e aveva scelto il regalo perfetto durante un viaggio con la sua famiglia. L’ultimo, invece, arrivò da mio padre, che aveva intravisto il riflesso del mio amore per la storia nelle luci scintillanti di un bazar egiziano. Ogni scarabeo porta ancora con sé il peso di una storia, di un viaggio, di un’amicizia. Sono le reliquie di un sogno che non fu realizzato, ma che mi indirizzò verso nuovi orizzonti.

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Scarabei

ĆEVAPČIĆI E CIPOLLE 09.

ĆevapČiĆi e cipolle

Era il 15 agosto del 2000, il giorno del matrimonio del figlio della sorella della nonna Antonietta, la madre adottiva di nostro papà. La festa si svolgeva in Slovenia, a Veliki Otok. Ero ancora molto piccolo, ma ho un ricordo indelebile di quella festa.

Il matrimonio era diverso da quelli a cui siamo abituati in Italia, le tradizioni slovene aggiungevano un tocco unico. La sposa, visibilmente felice, si ingozzava di ĆevapČiĆi e cipolle crude, piatti tipici sloveni che conferivano un sapore autentico alla celebrazione.

Dopo la cerimonia, ci siamo diretti verso una località incantevole, immersa nel verde di un bosco. Il pranzo si svolse in mezzo alla natura, creando un’atmosfera magica e rilassata.

Tuttavia, l’evento più memorabile di quel giorno avvenne quando la madre dello sposo si allontanò per recarsi al bagno. Quello che si trovò davanti fu un incontro inaspettato: un imponente orso. La sorpresa la fece urlare, e subito tutti si precipitarono verso di lei. Fortunatamente, l’orso, probabilmente più spaventato di quanto fosse la madre dello sposo, si girò e corse via nel fitto del bosco.

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10. LA SIGNORA FALASCHI

La signora Falaschi

Mi ricordo che ero bambino, erano i primi anni 70 e io e la mia famiglia andavamo tutti gli anni a Cervia in Emilia Romagna, per il mese di agosto. Prendevamo in affitto un appartamento sul lungomare dalla signora Falaschi, che era diventata ormai un’amica di famiglia.

Tutti gli anni, io, mia sorella e mio fratello, verso fine luglio domandavamo ai nostri genitori di partire per il mare qualche giorno prima del previsto.

Nostro papà ci rispondeva dicendo che non si poteva perchè il mare ancora non c’era. La signora Falaschi, infatti, si occupava di riempire il mare per il giorno del nostro arrivo. Qualche giorno prima inziava con il secchiello a riempire di acqua il mare, in modo che noi potessimo farci il bagno.

Noi, bambini, credevamo a questa storia inventata da nostro papà.

Appena siamo entrati in età scolare, finito l’asilo ci siamo resi conto come tutto ciò fosse impossibile, come facevano gli altri bambini ad andare al mare senza che la signora Falaschi glielo riempisse?

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Sandro

Giovanna Jacotti

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CALIMERO
02 CIRA
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03 TERRA DEL FUOCO
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YORK
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05 IL CIELO IN UNA STANZA
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06 LUCA
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Semeraro p. 64 08 SCARABEI
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Marisa
p. 74 09 ĆEVAPČIĆI E CIPOLLE
Re p. 80 10 LA SIGNORA FALASCHI
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Elena
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