La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo, 2016

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La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo: l’impiego dei nuovi materiali siliconici e considerazioni sull’esigenza di fondamentali parametri operativi

Introduzione

Il grande dipinto absidale del Duomo di Este del Gian Battista Tiepolo, Santa Tecla intercede per la liberazione di Este dalla Pestilenza, del 1759, ha subito nel corso dei secoli ricorrenti restauri e manutenzioni, sintomatici purtroppo di una permanente instabilità conservativa della sua materia compositiva (Foto 1). Un dato di rilievo è la grandezza del dipinto: stiamo parlando di una tela con una superficie di trenta metri quadri. Attualmente l’opera è in fase di restauro1 e, senza trattare le varie problematiche conservative, in questo articolo verrà affrontato primariamente il delicato problema della pulitura della policromia. Dovremmo però più precisamente parlare di rimozione piuttosto che di pulitura, poiché stiamo asportando delle sostanze filmogene non originali, sebbene storicizzate nel tempo.

La rimozione di materiali incoerenti con l'originale, spesso atta a riportare ad una corretta lettura cromatica la policromia alterata dagli interventi di “manomissione”, può talvolta giustamente essere considerata un gesto illegittimo, una sorta di “eccesso di potere” della D.L. e del Restauratore sull’opera. Ebbene, in tal caso, e non per avallare le scelte operative qui condotte, era nel destino dell’opera “subire” tale operazione. La policromia si manifestava diffusamente colma di fessurazioni e sollevamenti, una grande condizione di fragilità meccanico-strutturale amplificata dall’effetto “peeling” o meglio “strappo”, che le spesse vernici, ed ulteriori sostanze filmogene aggiunte nel tempo, avevano prodotto e continuavano a produrre sugli strati policromi originali, generando situazioni di degrado e continue perdite di materia. Di fatto non si trattava solo di una volontà di recupero cromatico dell’originale, ma anche di un intervento di stabilizzazione materico strutturale (Foto 2a, 2b, 2c, 2d).

Le condizioni fisico-strutturali dell’opera suggerivano quindi sia un assottigliamento degli strati di sostanze filmogene sul verso (verniciature, stuccature, ridipinture, etc.), sia dei materiali aggiunti dai restauri trascorsi sul recto della tela (foderature), per garantire all’opera un equilibrio conservativo migliore [1]. Inoltre l’intero Duomo di Este è attualmente impegnato nel restauro delle superfici architettoniche interne; esse stanno per essere riportate ad un equilibrio cromatico e ad una dimensione scenografica originale di estrema luminosità. Per questi aspetti le operazioni sull’opera si devono estendere oltre la mera operazione conservativa: deve essere tenuto presente anche l’equilibrio che l’opera avrà con l’architettura alla fine dei restauri. La condizione conservativa dell’opera, senza un intervento sulla policromia, avrebbe peggiorato la fruizione della tela una volta ricollocata nella nicchia absidale, poiché messa a confronto con un contesto totalmente restaurato.

Prima di affrontare le analisi scientifiche abbiamo attentamente studiato l’opera con analisi preliminari a luce naturale, ultravioletta e ad alti ingrandimenti. Ciò ci ha dato modo di esaminare la materia e avanzare delle supposizioni in merito alle modalità tecniche impiegate dal Tiepolo (Foto 3a, 3b, 3c, 3d).

Successivamente è stata condotta la campagna diagnostica. Grazie a questo primo esame abbiamo potuto guidare alcune tipologie di analisi scientifiche e ottenere conferme o meno sulle ipotesi avanzate.

Una campagna diagnostica completa di analisi quali Raggi X, Infrarosso2, UV3 e XRF per campiture di colore4, indagini chimiche e stratigrafiche su microprelievi con lettura al SEM-EDS5, ed infine l’analisi dei leganti organici del medium pittorico mediante l’impiego della Gas Massa6 (Gas-cromatografia e spettrometria di massa), ha permesso di dare alcune conferme ed ipotesi operative pensate dal grande artista e di fornire una serie di risultati incrociati di fondamentale importanza. Tutto ciò, unito allo studio della conducibilità, del pH e ad un’analisi morfologica ad alti ingrandimenti della superficie pittorica, ha permesso d’individuare i parametri essenziali entro cui poter lavorare sulla policromia, proiettandoci verso l’uso dei materiali siliconici, non in quanto mero ampliamento delle possibili metodologie di pulitura, ma in quanto necessario nuovo sistema da intraprendere a fronte delle peculiari difficoltà

48 49 Franco Del Zotto, Vera Fedrigo
1 Visione generale Pala di Santa Tecla 2a, 2b, 2c, 2d Sequenza di ingrandimenti che testimonia la condizione della policromia prima dell'intervento di restauro: inglobamenti di materiale filmogeno, fessurazioni, cadute di colore 3a, 3b, 3c, 3d Sequenza di ingrandimenti che testimonia la condizione della policromia prima dell'intervento di restauro Foto 2a Foto 3a Foto 2c Foto 3c Foto 2b Foto 3b Foto 2d Foto 3d
testimonia
condizione
colore
Foto 4a Foto 4c Foto 4b Foto 4d Foto 4e Foto 4f 5a, 5b Sequenza di ingrandimenti che testimonia la frantumazione del colore e le cadute di colore Foto 5a Foto 5b
operative che presentava l’opera. Foto
Sequenza di ingrandimenti che
la
della policromia prima dell'intervento di restauro: sollevamenti e precaria adesione del
alla preparazione

Sequenza di ingrandimenti sulla policromia prima dell'intervendo di pulitura in cui è possibile osservare la frantumazione del colore, le fessurazioni, le microscaglie di colore cadute e la grande quantità di vernici e sostanze filmogene

Considerazioni conservative

Un intenso regesto di documenti, recentemente oggetto di tesi [2], ci permette di ricostruire l’intensa vita conservativa della grande pala del Tiepolo, fornendoci dei dati fondamentali. La comunità, le istituzioni e i diversi organismi locali nei secoli hanno sempre posto grande attenzione conservativa nei confronti di tale tela. L’importanza dell’opera, dell’autore e della qualità tecnica, gli intrinseci problemi conservativi dovuti alla particolare forma concava della tela, la peculiare tecnica strutturale e la singolare tecnica pittorica adoperata, hanno tutti, a loro modo, giocato un ruolo importante all’interno dei problemi di conservazione della tela. Essa prima del restauro si presentava su di un telaio concavo inserito nella nicchia absidale che andava a coprire ciò che restava del reale impianto strutturale pensato dal Tiepolo: un assito di larice curvo sul quale inbullettò direttamente la tela. Per quanto visibile inizialmente ad occhio nudo e al microscopio, anche la tecnica pittorica rivelava delle particolarità di non poco conto. Una tela alquanto rada ed una preparazione assai sottile evidenziavano delle scelte tecniche fondamentali: dare quanto meno peso possibile all’impianto "tela strati policromi", e offrire strutturalmente all’insieme una maggiore elasticità. Infatti il peso ridotto e l’elasticità intrinseca servivano a ridurre i movimenti strutturali dell'opera dettati dalle variazioni microclimatiche. La risposta comportamentale della materia pittorica e della tela agli agenti esterni allontanava, o meglio, riduceva al massimo, la possibilità di cedimenti meccanici e strutturali al suo interno.

8a, 8b Pennelli in setola sintetica adoperati per le operazioni di pulitura

Foto 11a

Tassello di pulitura sull'ala dell'angelo in cui si osservano le fasi di pulitura intermedia e finale alla luce naturale

Foto 13

Risposta dell'emulsione V17 alla fluorescenza ultravioletta dopo il suo impiego a confronto con l'emulsione prima dell'utilizzo

Foto 8a Foto 14a

Foto 9

Osservazione della policromia dopo la prima fase di pulitura con SSG-C12

Foto 11b

Tassello di pulitura sull'ala dell'angelo in cui si osservano le fasi di pulitura intermedia e finale alla luce ultravioletta

Foto 10

Fresa da hobbistica con esempi di punte costruite per utilizzarla per la creazione delle emulsioni

Per aiutare a prevenire inoltre il fisiologico irrigidimento della materia, tipico negli strati policromi con oli essiccativi, e per proteggere la fibra dai processi di polimerizzazione degli stessi, il Tiepolo, con ampia probabilità, necessariamente ebbe bisogno di ridurre gli oli essiccativi e di aggiungere dei “plastificanti”, additivati da ulteriori plausibili sostanze proteiche usate per la realizzazione del medium pittorico. Quest’ultimo, per sua natura, favorì indubbiamente i processi elettrostatici di adesione dello sporco carbonioso (i processi di combustione delle candele), e del particellato atmosferico su di una superficie pittorica morfologicamente molto variabile e discontinua7

Già sul finire dell’ottocento l’annerimento fu tale che, viste le lamentele della comunità8, il parroco dell’epoca, assistito da una serie di volontari, decise di “lavare” l’opera in una sola notte, armandosi di acqua calda, secchi, spugne e scale. Quasi sicuramente furono impiegate delle sostanze basiche additivate all’acqua, come di consuetudine per l’epoca. L’intervento comunque non fu salvifico per l'opera ed in breve tempo non fece altro che amplificare le problematiche strutturali (cedimento della fibra tessile), e di conservazione (superficie pittorica ammalorata con evidenti cadute di colore), oltre a creare delle chiazze disomogenee sulla superficie dell'opera. Questo primo improprio “atto di manutenzione” ha innescato una serie di interventi a cascata durante i decenni successivi, andandosi ad intervallare alle vicissitudini storiche del XX secolo. In estrema sintesi l’opera subì tre grandi restauri nel 1893, nel 1924 e nel 1932. L’opera sistematicamente sopportò aggressive puliture, velinature, foderature sfoderature e rifoderature. Nel primo restauro subì inoltre un cambio di forma, da concava a planare per poi essere riportata curva solo nel ‘24.

In tutti gli interventi la policromia fu inoltre oggetto di stuccature, ridipinture ed ulteriori verniciature [2].

Foto 12a

Foto 8b Foto 14b

Tassello di pulitura in cui si osserva un tassello di pulitura finale alla luce naturale

Foto 12b

Tassello di pulitura in cui si osserva un tassello di pulitura finale alla luce ultravioletta

Altresì dobbiamo considerare una serie di spostamenti avvenuti durante le guerre mondiali per portare in sicurezza il bene, ed inoltre gli spostamenti per due grandi mostre nel ’44 e nel ’71 dei quali si riscontrano sull’opera i più recenti interventi manutentivi (verniciature e ritocchi).

14a, 14b

Visione a due diversi ingrandimenti dello strato pittorico prima della pulitura

Da quanto in calce riportato possiamo comprendere il motivo per cui l’opera si presenta ai giorni nostri con ben tre livelli di foderatura che tentano di sanare le problematiche di stabilità ed equilibrio dell’impianto strutturale e policromo. Inoltre la documentazione archivistica ci aiuta a comprendere gli interventi subiti sullo strato pittorico: una sovrapposizione di materiali incoerenti con l’originale (ritocchi, ridipinture, stuccature, sudiciume, residui carboniosi e colle di varia natura), tutti ricoperti da strati di vernice ingiallita. A ciò dobbiamo aggiungere inoltre la diffusa presenza di sollevamenti e la precaria adesione del colore alla preparazione (Foto 4a, 4b, 4c, 4d, 4e, 4f), incentivata, durante gli antichi interventi di restauro, dalle grandi forze di compressione, dal calore e dall’umidità usate nelle fasi di foderatura. La pressione adoperata dai mezzi per la stiratura ha dato luogo a fenomeni di frantumazione del colore (Foto 5a, 5b), e questo ha comportato una modifica del comportamento reologico della materia originale, provocando dei notevoli problemi conservativi. L’umidità è stata la principale fautrice di tutti i problemi conservativi innescati. Inoltre anche l’uso delle colle animali prevedeva l’apporto di acqua, altresì le sostanze pulenti

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo
7c Foto
Foto
µ
La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo Foto
7a Foto
7b
7d Foto 6 Visione di un campione stratigrafico a 250
m (foto Stefano Volpin) 7a, 7b, 7c, 7d

Foto 15a

15a, 15b

Foto 15b

Visione a due diversi ingrandimenti dello strato pittorico dopo l'intervento di pulitura

Foto 16a

Foto 16b

Foto 17a

17a, 17b

Foto 17b

Foto 16c

Foto 16d

Inoltre dalle analisi chimico stratigrafiche e dalle analisi dei leganti mediante la gas massa (vedere nota 5), si evince che le campiture di colore possono presentare medium compositivi diversi a seconda della zona: in alcuni casi si presentano oli essiccativi ed in altri no, in alcune campiture c’è olio di lino come medium, in altri solo materiale lipidico e proteico quali latte (o derivati) e colla animale, inoltre in un caso potrebbe essere riscontrata anche la presenza di uovo sempre misto ad olio di lino e colle. In tutti i casi la presenza della colla animale può essere sintomatica dell’uso di colle utilizzate nei vari restauri antichi. Questa disomogeneità compositiva assieme ad una disomogeneità strutturale e meccanica, data dalla grande variazione di strati e dal loro diverso spessore, comportava aspetti conservativi disomogenei da zona a zona. Sintetizzando questi dati potremmo entro certi limiti dire che il Tiepolo abbia adoperato una sorta di emulsione oleo-proteica. Durante le analisi al microscopio, eseguite su tutta la superficie, ci siamo accorti della presenza di una particolarità: in alcune zone si potevano notare alcuni “micro-granelli lattiginosi” o meglio “boccioli” che ricordavano, per comportamento e aspetto, del materiale ceroso. Analizzandoli al SEM si ravvisavano infatti delle grosse “vesciche” poco riflettenti, contenenti quindi del materiale organico (la visione al SEM ci fornisce un particolare effetto di esplosione di queste vesciche, grazie al fenomeno di alto vuoto durante la conduzione dell’analisi). L’ipotesi della sostanza cerosa è stata poi ulteriormente confermata dalle analisi gascromatografiche in cui si ravvisano segnali di cera.

Foto 16e

Osservazione della pellicola pittorica prima e dopo l'intervento di pulitura finale 18a, 18b

16a, 16b, 16c, 16d, 16e, 16f

Foto 16f

Sequenza di diversi passaggi di pulitura con diverse emulsioni di Velvesil Plus®

La policromia come abbiamo visto ha subito una miriade di trattamenti di natura chimica e fisica, ma anche una serie di giustapposizioni di materiali incoerenti quali colle animali, stuccature, ridipinture, vernici pigmentate e non. In tal senso in tutte le stratigrafie si evidenzia la presenza di due spessi strati di vernice bruna foto-ossidata e quindi non volutamente pigmentata. Comunque la superficie non è omogenea ed in alcune zone troviamo anche vernici colorate o meglio ridipinture molto diluite, quelle che nei regesti antichi venivano chiamate “vernici speciali”. Per concludere con le analisi condotte si sono infine anche confermate che ci sono ridipinture ottocentesche dagli elementi chimici riscontrati all’analisi XRF

Foto 18a

Foto 18b

Test di comparazione alla luce naturale e alla fluorescenza ultravioletta delle emulsioni V10, V11B e dell'emulsione di V10 e V11B in rapporto 1:1. Come si vede dalla foto la miscela combinata di V10 e V11B è risultata la più efficace sia alla luce naturale che alla luce ultravioletta

erano tutte a base acquosa, e per finire le stesse foderature necessitavano di acqua nell’impasto. L’acqua, oltre ad essere stata massicciamente impiegata è stata anche usata calda sia nelle colle di consolidamento o di foderatura, sia nelle fasi di svelinatura o stiratura (dove si trasforma in vapore). Inoltre dobbiamo considerare la pressione (o meglio il carico a compressione), indotto durante le fasi di foderatura, sempre con la partecipazione dell'acqua e del calore.

La diagnostica: risultati e riscontro delle verifiche operative preliminari

La campagna diagnostica ha dato luogo a diverse conferme delle ipotesi fatte con le analisi preliminari compiute sulla superficie a luce visibile, UV e IR e osservando tutta la superficie a grandi ingrandimenti. Analizzando gli strati policromi dall’interno verso l’esterno, come primo strato troviamo la preparazione della tela. Essa presenta delle peculiarità: è stesa in due strati, è composta da una terra naturale e non dalla consueta argilla, inoltre è assente la Biacca, tradizionalmente invece aggiunta al composto per velocizzare l’essiccamento. Il legante sembra essere di natura esclusivamente proteica e non oleica (dato confermato dai test istochimici e dalla gas massa). La preparazione infine è coperta da un sottilissimo strato di colla come ulteriore strato di preparazione alla stesura degli impasti cromatici. Al di sopra di tali strati troviamo gli strati di colore: nei campioni prelevati possiamo trovare stesure singole, ma anche stratificazioni di più stesure (Foto 6). Qui le analisi chimiche e quelle all’XRF confermano la classica tavolozza tiepolesca: una ristretta gamma di colori quali Biacca, Terre Naturali, Vermiglione, Terra Verde, Giallo di Napoli, Blu di Prussia e Blu Oltremare Naturale.

Considerazioni operative

Dai capitoli precedenti si comprende quali e quanti trattamenti e vicissitudini abbia subito l’opera e soprattutto la sua policromia: danni fisici dettati dal calore e dalla pressione nelle fasi di foderatura, danni chimici nella fasi di pulitura acquosa (talvolta anche calda per ottenere maggiore potere disgregante), con soluzioni ammoniacali aggressive. Nelle foderature oltre all’apporto di acqua è stato sicuramente usato del calore per la stiratura, che ha ulteriormente favorito la penetrazione dell’umidità all’interno della pellicola pittorica. Inoltre dobbiamo considerare anche trattamenti con colle animali, verniciature, ridipinture, ecc. La storia conservativa ha quindi in qualche modo accelerato o meglio coadiuvato quelli che possono essere considerati i fisiologici processi di invecchiamento chimico fisico e biologico dell’opera originale (policromia e fibra tessile).

A distanza infatti di più di 250 anni possiamo permetterci di pensare la policromia dell’opera come un olio vecchio, in cui i materiali compositivi diventano più polari e acidi, dove il legante è idrolizzato e i componenti sono diventati molto più ionici, colmi di saponi metallici e sali, quali frutto dei naturali processi ossidativi. In concerto dobbiamo considerare che tale fenomeno è oltremodo accompagnato dai processi di invecchiamento degli altri componenti del medium pittorico, quali la colla animale e la probabile presenza dell’uovo in alcune campiture. Tutte queste sostanze danno vita durante il processo di invecchiamento ad una serie di ulteriori composti organici saponificabili, i quali devono essere tenuti in considerazione nelle fasi di pulitura/ rimozione per non innescare processi estrattivi e dissociativi sull’originale. In altri termini un olio polimerizzato e ossidato dal tempo, si comporta come se fosse un acrilico contemporaneo, in cui dobbiamo porre molta attenzione a non innescare processi di estrazione dei tensioattivi “mobili” dispersi nello strato pittorico. Dobbiamo considerare inoltre che siamo in presenza di una tecnica pittorica molto particolare, una tecnica mista, in cui la policromia non è semplice olio più pigmento ma è una miscela di composti che risultano essere molto sensibili anche all’ambiente acquoso. Il Tiepolo ha usato sistemi di emulsioni di olio con proteine quali latte e uovo in percentuali differenziate a seconda dei pigmenti utilizzati ed inoltre ha preferito l’uso di oli essiccativi solo in alcune campiture. Siamo, quindi, di fronte ad una policromia totalmente disomogenea dal punto di vista compositivo, qualitativo, morfologico e quantitativo: una materia che cambia da zona a zona, passando da campiture eseguire con una monostesura di colore ad altre con

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo

sovrapposizioni di campiture di diverso colore. La superficie stessa è altresì differente da zona a zona: in alcuni casi molto ruvida, in altri liscia, in alcuni casi di spessore rilevante ed in altri molto sottile.

Un'altra caratteristica importante di cui dovevamo tener conto era il comportamento della preparazione rossa, in alcuni punti a vista a causa delle cadute di colore, delle spatinature varie e della morfologia stessa dell’opera. Essa era estremamente sensibile ed alterabile in presenza di ambiente acquoso poiché poteva innescare dei processi estrattivi dei materiali costitutivi. Bisognava quindi operare considerando gli opportuni parametri di pH, conducibilità e costanti di stabilità dei chelanti (se impiegati), oltre che al metodo con cui operare: se in forma libera, gelificata, in emulsione o con tecniche di idrobofizzazione ed emulsioni siliconiche. Se poteva essere facile, in linea teorica, individuare il metodo corretto per eliminare le vernici superficiali foto-ossidate, era altresì assai più complicato intervenire sullo strato di sporco e sui residui filmogeni di resine e sostanze idrofile che si trovavano più a contatto con l’originale. In tali fasi operavamo in un range di solubilità assai simile a quello dei composti originali. Dovevamo quindi trovare il giusto metodo operativo ed un protocollo d’intervento coerente, cercare di essere quanto più selettivi possibili sulle sostanze filmogene da asportare, spesso inglobate e compenetrate nelle fessurazioni e nel fitto craquelure della policromia in maniera disomogenea (Foto 7a, 7b, 7c, 7d). L’operazione doveva altresì essere eseguita considerando sia lo stato conservativo della policromia (con craquelure, frantumazioni, spatinature e sollevamenti vari), sia considerando tutti i parametri operativi sopradescritti.

Test effettuati e intervento di rimozione delle sostanze filmogene

Per scelta, come primo indirizzo del nostro lavoro, abbiamo deciso di operare con materiali a bassa e bassissima tossicità, per lavorare in sicurezza nei confronti dell’operatore. Infatti sebbene il laboratorio adottasse un metodo di aspirazione dei vapori solventi puntuale, la posizione di lavoro dell'operatore sull’opera, sdraiato prono poco sopra la zona soggetta alla pulitura e a diretto contatto con i possibili vapori dei solventi adoperati, non era una condizione di lavoro favorevole.

I primi strati da rimuovere, e quindi d'analizzare, erano quelli di vernice superficiale foto-ossidata, unita agli ultimi ritocchi di più recente fattura. Siamo partiti con un test di solubilità utilizzando solventi organi neutri quali Ligroina, Acetone ed Etanolo9. L’azione di solubilizzazione delle vernici già cominciava attorno alle miscele LA3, LA4 o LE2, LE3, quindi con un valore di polarità Fd di 82-77 per le miscele LA, ed una Fd 85-79 per le miscele LE. Nello specifico, quindi, una miscela attorno ad un Fd di circa 68-70 era ottimale per la solubilizzazione selettiva dello strato di vernice superficiale. Andando poi ad individuare tale valore nel diagramma di solubilità, abbiamo constatato che l’Fd 68 è la zona limite di solubilità per le Resine Terpeniche fotossidate, e quindi questo test ci dava delle informazioni interessanti che andavano a confermare le analisi chimico-stratigrafiche.

Traducendo il dato in un metodo operativo, potevamo considerare l’utilizzo di un Solvent Surfactant Gel C-12 a polarità modificata10, quale migliore strumento operativo, grazie alle garanzie di minor diffusione verticale e maggiore potere solvente all’interfaccia rispetto ad un solvente gelificato, dovute alla capacità emulsionante e detergente delle sostanze con cui era composto il gel (un gelificante dal grande potere emulsionante ed un tensioattivo). Nello specifico venne creato un SSG C-12 ad una Fd attorno 7375. L’SSG formulato era quindi circa 5 punti più apolare rispetto l’Fd riscontrata come miscela corretta alla solubilizzazione, poiché era possibile sfruttare la maggiore efficacia all’interfaccia (grazie al tensioattivo che aumenta l’angolo di contatto con la materia e grazie al potere emulsionante del gelificante scelto), quale valida sostituta di alcuni punti di Fd [3]. Nello specifico l’SSG C-12 è stato ottenuto mettendo in sostituzione dell’Ethomeen C-12 il PEG (2) Cocamine11, apportando delle diminuzioni di quantità12 e utilizzando il Pemulen TR2® come polimero emulsionante. La ricetta ottimizzata, sebbene specificatamente tarata con piccole variazioni di polarità a seconda delle campiture e delle zone da trattare (per esempio le campiture rosse necessitavano dell’impiego di un Fd più alta per lavorare in sicurezza probabilmente a causa del diverso quantitativo di olio e/o altro medium adoperato per la campitura), è stata così costruita: White Spirit 55 ml, PEG 12,6 ml, Pemulen TR2® 1,8 gr, poco meno di 0,5 gr di acqua demineralizzata. Successivamente sono stati aggiunti gradualmente e a piccole dosi distanziate nel tempo, Etilacetato 38 ml, ed infine Etanolo 7 ml (Tabella 1).

RICETTA SSG-C12

White Spirit 55 ml

PEG 12,6 ml

Pemulen TR2® 1,8 gr

Acqua demineralizzata poco meno di 0,5 gr Etilacetato 38 ml Etanolo 7 ml 7 ml

L’SSG così strutturato non ha mai manifestato problemi di stabilità a causa dell’eventuale interazione con gli ioni calcio della policromia, grazie probabilmente all’interfaccia di ulteriori sottili vernici che componevano lo strato pittorico. Per l’applicazione a pennello abbiamo utilizzato dei pennelli di setola sintetica di misure assai piccole e molto morbidi, compatti e tenaci ai solventi, così da minimizzare i processi abrasivi sulla superficie pittorica13 (Foto 8a, 8b). Successivamente abbiamo eseguito una pulitura a secco dei residui di gel attraverso una rullatura di tamponcini di cotone. Per la fase di lavaggio del SSG sopradescritto abbiamo utilizzato del White Spirit o dell’Isoottano, sempre a tamponino (spesso cercando di “rullare” il tamponcino sulla superficie piuttosto che compiere movimenti circolari per non potenziare i processi abrasivi). Solo dove necessario, e cioè nelle zone più spesse e compatte di vernice, abbiamo aggiunto un 1-2% di Acetone per facilitare l’eliminazione dei residui (Foto 9). Questo metodo ha dimostrato una perfetta selettività operativa e ha consentito di rimuovere in un unico passaggio, od al massimo in due ove necessario, lo strato di vernice fotossidata senza interagire con le ulteriori sostanze filmogene presenti sopra la policromia. Spostando ora il ragionamento su di una seconda fase di rimozione di ulteriori sostanze filmogene presenti sulla superficie originale, dovevamo da subito considerare la necessità di spostare i test di solubilità verso l'ambiente acquoso. Infatti come abbiamo già descritto in precedenza, sia per la natura eterogenea dei medium, che della morfologia della superficie pittorica, sia per i trattamenti subiti, che per i vari materiali adoperati nei diversi restauri, ereditavamo un comportamento reologico dei materiali costitutivi totalmente discontinuo, e constatavamo una distribuzione diffusa di materiale incoerente, a macchia di leopardo, su tutta la superficie pittorica. Consci di ciò abbiamo messo in pratica una mappatura della policromia in base alle campiture di colore e allo stato di degrado, effettuando una serie di misurazioni di parametri quali pH e conducibilità. Abbiamo riscontrato delle oscillazioni abbastanza ampie nelle misurazioni, soprattutto testando il pH. Quest’ultimo è stato misurato attraverso due diversi sistemi poi messi a confronto: una serie di misurazioni sono state eseguite ponendo 2 gocce di acqua demineralizzata sulla superficie per un paio di minuti (usando una pipetta Pasteur), e successivamente misurate con un piaccametro con elettrodo planare, a contatto. Un’atra serie di misurazioni sono state invece condotte mediante l’uso di dischetti di 3% di Agar-Agar in acqua demineralizzata. In tal modo abbiamo potuto appurare che le misurazioni in acqua libera avevano valori di pH qualche decimo di punto più bassi rispetto alle misurazioni condotte con l’Agar-agar in dischetto. Il range di pH del dipinto con l’acqua libera va da 4.8 a 5.8, mentre il range di pH con l’Agar-agar va da 5.2 a 5.9. La nostra considerazione è che la capillarità dell’acqua libera consente di estrarre ioni anche dal materiale un po’ più sottostante e, così facendo, ci consente di comprendere che la preparazione dell’opera potenzialmente possiede un pH leggermente più acido della policromia soprastante. La conducibilità invece non ha rilevato oscillazioni enormi e le misurazioni effettuate configurano la superficie dai 0,40 ai 0,80 mS/ cm. Nello specifico il valore 0,80 mS/cm é stato riscontrato nelle zone di preparazione rossa a vista, mentre i restanti valori tra lo 0,40 ed lo 0,60 mS/cm sono stati riscontrati nelle campiture di colore. Gli strati di colore, quindi, dimostravano una conducibilità elevata per un “olio invecchiato” e ciò non negava la presenza dell’olio, la preparazione invece si discostava ancor di più dai parametri di un olio antico, ciò dimostrava che essa aveva una composizione diversa dagli strati di colore, come confermavano anche le analisi.

Le sostanze da rimuovere a questo livello operativo erano completamente frammiste tra loro: resine, colle, tenaci ridipinture proteiche, stuccature idrofile e non, oltre che sporco residuo, tutte a contatto tra loro e con l’originale, inglobate e spesso schiacciate dentro la pellicola pittorica e assai vicine ad una preparazione molto sensibile all’ambiente acquoso. Siamo quindi partiti con dei primi test di miscele acquose tamponate a

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo Tabella 1. Ricetta SSG-C12

diversi pH, mantenendoci sempre in ambiente acido. Successivamente abbiamo testato l’uso di chelanti quali l’acido citrico e il Dietilentriamminopentaacetico14, sempre in ambiente acido e compiendo prove di solubilità in ambiente basico solo per le spesse zone di ridipinture. In queste zone era necessario un assottigliamento dello strato prima della rifinitura in ambiente acido, più a diretto contatto con l'originale. In altre parole in alcune zone era necessario procedere per dimezzamenti successivi delle sostanze filmogene da eliminare, e per fare ciò era necessario usare diverse miscele calibrate a seconda dei casi. I test successivamente sono stati valutati anche in base al metodo di applicazione e abbiamo quindi testato le miscele in forma libera, gelificata ed in emulsione W/O. I test davano dei risultati non molto soddisfacenti poiché le sostanze acquose gelificate comunque potevano dare luogo a dei fenomeni di leaching sulla superficie pittorica.

Abbiamo ulteriormente testato anche delle microemulsioni [4], le quali sembravano dare degli ottimi risultati (soprattutto in termini di velocità operativa), ma sono state solo utilizzate come test per comprendere la necessità di un metodo operativo che desse modo di lavorare con due fasi solventi separate simultaneamente. Tuttavia questi composti avevano al loro interno una grande quantità di tensioattivo e per questo motivo vennero accantonati, inoltre il tensioattivo residuo sulla superficie dopo i lavaggi era di difficile rimozione.

Per questa ragione abbiamo spostato l’ago della bilancia verso emulsioni senza tensioattivo, grazie all’utilizzo di emulsionanti quali il Pemulen TR2® per le W/O e lo Xantano per le O/W. Nello specifico le O/W gelificate Xantano a diversi tamponi di pH e con diversi chelanti, sono state molto interessanti nei risultati. Le nostre prove sono sempre state fatte in ambiente acido o vicino alla neutralità, poiché con questi pH tali emulsioni manifestavano già capacità disgregativa dei materiali filmogeni. I test con l’emulsione O/W in Xantano sono stati eseguiti seguendo un protocollo preciso: innanzitutto sono state testate le soluzioni gelificate di solo Xantano e solo successivamente sono state trasformate in O/W grazie all’aggiunta di piccole quantità di Alcool Benzilico. Quindi a seguire le miscele gelificate in prima battuta erano composte da 100 gr di gel di Xantano al 2% in acqua demineralizzata, a cui venivano aggiunti 20 gr di soluzioni tamponate o di soluzioni chelanti tamponate. Le soluzioni adoperate per il test sono state rispettivamente due di acido citrico allo 0,5% in acqua demineralizzata tamponate a pH 5 e pH 6, due di DPTA sempre allo 0,5 % in acqua demineralizzata tamponate a pH 5 e 6, ed infine due di acido citrico e DPTA allo 0,5% in acqua demineralizzata a pH 5 e 6. Dai test la soluzione gelificata più efficace sembrava essere quella con la presenza dei due chelanti tamponati a pH 6, poiché riusciva ad assottigliare anche le patine giallastre oltre che i residui carboniosi e tutti i vecchi interventi con sostanze idrofile di facile solubilizzazione in ambiente acquoso. Tuttavia anche tutte le altre emulsioni davano risposte sulla rimozione di tali sostanze, ma con azione più limitata. Questi gel continuavano ad avere un grave problema di fondo, ossia la loro rimozione e lavaggio finale, che purtroppo doveva essere compiuta in ambiente acquoso, operazione che vanificava la volontà e la necessità di apportare meno acqua possibile alla superficie. Un ulteriore test è stato eseguito aggiungendo una piccola percentuale di Alcool Benzilico (5%) a questi gel, creando così delle emulsioni gelificate O/W (Tabella 2). Questi test hanno dato dei risultati efficaci anche in quelle zone di sostanze filmogene dove il solo gel di Xantano non era sufficientemente attivo da solo. Si dimostrava quindi con questa ultima proposta operativa, la necessità di operare con dei metodi che prevedessero sia la componente acquosa che solvente.

Tabella 2. Schema delle soluzioni acquose gelificate e delle emulsioni di Xantano

SCHEMA TEST CON SOLUZIONI GELIFICATE E EMULSIONI DI XANTANO A pH 5.0 e 6.0 *

Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr

Xantano 2 gr Xantano 2 gr Xantano 2 gr Xantano 2 gr Xantano 2 gr Xantano 2 gr

Acido citrico 0,5 gr Acido citrico 0,5 gr Acido citrico 0,5 gr Acido citrico 0,5 gr

DPTA 0,5 gr DPTA 0,5 gr DPTA 0,5 gr DPTA 0,5 gr

Dovevamo inoltre considerare che la policromia originale era alquanto discontinua e decoesa: era necessario procedere, come per il SSG, con un metodo che fosse capace di lavorare solo all’interfaccia, senza diffusione per capillarità nelle discontinuità della superficie. Queste macroemulsioni lavoravano comunque più superficialmente delle precedenti e avevano una compattezza elevata grazie al fatto di essere state generate utilizzando una fresa da hobbistica: un emulsionatore di piccolo taglio, con la possibilità di inserire fruste di forma diversa a seconda delle esigenze e di variare il numero dei giri (Foto 10). Le emulsioni prodotte in questo modo, vuoi per la possibilità di variare i giri, vuoi per la tipologia di frusta, risultavano molto più stabili nel tempo.

Un altro test è stato condotto con un Resin Soap [4] lasciato agire per qualche minuto. Esso permetteva di ammorbidire gli strati di sostanze resiniche da asportare per affinità, ma rimaneva comunque difficile la rimozione ed inoltre il materiale da eliminare frammisto ad altre sostante continuava a rimanere parzialmente “coperto” dagli altri strati filmogeni. Abbiamo inoltre escluso dai test il cosiddetto “rimedio universale” che in questi casi viene comunemente usato: i solventi dipolari come il Dimetilsolfossido o il Propilencarbonato15, capaci di ottenere risultati maggiori sulla solubilità di materiali “misti”. Non furono eliminati solo per la loro ritenzione e persistenza sulla materia compositiva (in questo caso esclusiva del DMSO) ma anche per la loro alta capacità ionizzante e dissociante che avrebbe potuto agire indiscriminatamente su molteplici materiali costitutivi. Abbiamo scoperto infatti che il medium del Tiepolo è una sorta di emulsione oleo-proteica e sia il DMSO che il PC potevano lavorare ad “ampio spettro” su entrambe tali componenti.

L’eterogeneità morfologica e strutturale, il pH, la conducibilità avvaloravano la necessità di operare con attenta selettività, ma anche con un sistema di protezione dell'originale e cioè con un metodo di idrofobizzazione della superficie. Si rendeva quindi necessario usare qualcosa per saturare la materia originale ed impedire la penetrazione di qualsiasi composto andassimo ad utilizzare per la pulitura. Si poteva tentare questa operazione con del Ciclododecano [5], ma il suo uso avrebbe comportato alcune problematiche: a) necessità di scaldarlo ad alte temperature, b) tempo impiegato per le fasi di pulitura sempre variabile, c) differenti comportamenti della materia pittorica a seconda delle zone, d) il suo parziale potere solvente poteva interagire con parte delle materie originali, e) arbitrarietà dei tempi di sublimazione in materiali così eterogenei, f) la tossicità amplificata dal metodo di lavoro a stretto contatto con la superficie.

Per eliminare tutte queste problematiche ci siamo indirizzati prima verso l’utilizzo di solventi organici neutri a bassissima polarità, quali l’Isoottano. L’apolarità dava modo di saturare senza interazioni la superficie pittorica, prima di procedere con test di pulitura attraverso l’uso di emulsioni W/O. Questo sistema aveva comunque fornito ottimi risultati qualitativi, permettendo di arrivare ad una pulitura corretta con una certa garanzia di azione. Ulteriori prove con l’impiego di Ligroina in sostituzione dell’Isoottano non hanno dato risultati uguali a causa della grande volatilità della stessa e degli effetti di sbiancamento immediato sulla policromia. Un ipotesi su tale fenomeno potrebbe essere che la Ligroina abbia potuto solubilizzare in parte alcune componenti cerose contenute nella policromia e dare vita a fenomeni di leaching.

Nel momento in cui siamo venuti a conoscenza dei nuovi materiali siliconici impiegati nel restauro, abbiamo potuto compiere degli ulteriori test utilizzando solventi siliconici come il D4, il D5 o loro miscele e polimeri siliconici come il Velvesil Plus®. Essi da allora sono stati continuo oggetto di studio nel nostro laboratorio. Da subito siamo partiti con dei test di idrofobizzazione della superficie, riproponendo i test con i prodotti fino a quel momento considerati più efficaci, cioè le macroemulsioni gelificate. Solo successivamente abbiamo testato anche la nuova serie di sostanze acquose e di solventi in Velvesil Plus®. In questo modo abbiamo potuto comparare i risultati, compresi quelli ottenuti in precedenza, e osservare le diverse specifiche dei materiali impiegati.

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 6

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5

*è possibile preparare i test anche ogni mezzo punto di pH

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 6

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 6

L'idrofobizzazione si è rivelata essere un ottima procedura, perché dava modo di lavorare esclusivamente in superficie e creava una barriera alla penetrazione dei prodotti adoperati. Inoltre l’impiego di un solvente a bassa tossicità ci dava anche una maggiore tranquillità operativa che un solvente come l’isoottano, per quanto poco tossico.

Abbiamo testato sia il D4 che il D5 come possibili idrofobizzanti. Tra tutti abbiamo scelto di adoperare il D5 per il tempo di lavorabilità di circa 15 minuti (l’evaporazione totale è invece di circa 2 ore), un tempo ottimale per il metodo di lavoro scelto. Inoltre il D5 era l’unico senza alcuna indicazione di rischio umano.

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo

Questo test ha in più portato a pensare anche ad un processo d’idrofobizzazione anche per la prima fase di pulitura a SSG, per ottenere una maggiore sicurezza operativa.

A seguire quindi ci siamo apprestati a testare il Velvesil Plus®, inizialmente riscontrando alcune difficoltà operative, probabilmente motivate dall’apprensione nell’uso di un nuovo materiale. In altri termini usavamo pochissimo prodotto e con troppa poca soluzione interna; inoltre non distendevamo il materiale sulla superficie in maniera corretta da poter avere un’azione efficace sullo sporco. Nel momento in cui abbiamo cominciato a usare il metodo corretto e abbiamo applicato uno studio preciso del pH e della conducibilità (come sopra illustrato), al fine di scegliere le soluzioni con cui lavorare, il risultato è stato decisamente superiore. Precisiamo che il gel siliconico qui analizzato non è esclusivo, ne esistono un’infinità di tipi, impiegati nell’industria cosmetica per la creazione di differenti prodotti, tuttavia noi ci siamo apprestati a testare solo il Velvesil Plus® e cercare di comprende quali possano essere gli approcci operativi più corretti con un gel siliconico come questo.

Il nostro intervento di pulitura aveva selettivamente indagato l’uso delle emulsioni in Velvesil Plus®, adoperando soluzioni acquose con chelanti e tamponi per l’emulsione W/O (Water in Oil) e il solo uso dell’Alcool Benzilico come ambiente di lavoro a solvente per quella che potrebbe essere chiamata l’emulsione O/O (Oil in Oil).

Per la scelta della soluzione acquosa siamo partiti dall’uso delle miscele con chelanti tamponati, orientandoci anche in questo caso verso l’ambiente acido, poiché stavamo trattando un olio invecchiato. Come per i test effettuati con le soluzioni ed emulsioni di Xantano in precedenza anche qui abbiamo operato con diverse miscele: due di acido citrico rispettivamente a pH 6 e 8, una miscela di acido citrico e DPTA a pH6 ed infine una soluzione di DPTA a pH 8.0 (Tabella 3).

Tabella 3. Schema test miscele acquose a pH 6.0 e 8.0

SCHEMA TEST CON SOLUZIONI A pH 6.0 e 8.0

Soluzione A Soluzione B Soluzione C Soluzione D

Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr Acqua demin. 100 gr

Acido citrico 0,5 gr Acido citrico 0,5 gr Acido citrico 0,5 gr DPTA 0,5 gr Acido Borico 0,5 gr DPTA 0,5 gr Acido Borico 0,5 gr

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 6

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 8 Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 6 (iniziare con 2M perché ne va parecchio) Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 8

La scelta di fermarci al solo uso delle fasi in emulsione è ben motivata dalla necessità di lavorare più possibile all'interfaccia. L’impiego di solventi miscibili con il Velvesil Plus® avrebbe dato vita a dei semplici solventi gelificati, alzando la soglia di diffusione del solvente nella materia originale. Un gel di questo tipo avrebbe avuto un comportamento simile a quello di un SSG, anche se con il grande vantaggio di non contenere tensioattivo.

Dai test fatti abbiamo potuto riscontrare una buona operatività delle miscele di acido citrico e DPTA, sia a pH 6 che a pH8, quest’ultimo aveva un azione leggermente superiore nelle zone con strati più spessi di sostanze filmogene da rimuovere. Le miscele che si sono riscontrate più attive sono state la C e la D (come da tabella 3), le quali sono state gradualmente aggiunte al Velvesil Plus® per creare le due emulsioni. La ricetta finale in entrambe prevedeva 10 gr di Velvesil Plus® e 4 gr di soluzione. Tali emulsioni, vennero denominate rispettivamente con la sigla V10C e V10D. Successivamente abbiamo indagato il comportamento del solvente in emulsione, testando il Velvesil Plus® con l’Alcool Benzilico. Anche in questo caso siamo approdati ad una ricetta finale che prevedeva 20 gr di Velvesil Plus® e 5 gr di Alcool Benzilico, miscela che prende qui il nome di V11BE (Tabella 4).

Tabella 4. Schema emulsioni di Velvesil Plus®

SCHEMA EMULSIONI DI VELVESIL PLUS®

V10C V10D V11BE

Velvesil Plus® 10 gr Velvesil Plus® 10 gr Velvesil Plus® 20 gr Soluzione C 4 gr Soluzione D 4 gr Alcool Benzilico 5 gr

Queste due ricette si sono dimostrate ottime per la loro alta specificità: ognuna delle emulsioni agiva su materiali diversi in maniera puntuale. Dobbiamo considerare che in molti casi ci trovavamo a dover asportare sostanze amalgamate fra loro (resine, colle, forse materiali cerosi, residui carboniosi, etc.), ed era quindi necessario lavorare con un emulsione con entrambe le fasi (solvente e acquosa) al suo interno. Per questo motivo abbiamo testato l'operatività delle due emulsioni unendole in un'unica emulsione. Il risultato è stato molto soddisfacente, la doppia emulsione (allo stesso tempo solvente in solvente ed acqua in olio) andava a fornire un potere emulsionante delle sostanze filmogene omogeneamente coerente con tutte le varie sostanze da rimuovere, senza innescare processi di solubilizzazione dell’originale. Possiamo quindi parlare di una miscela combinata di V10C (W/O) + V11BE (O/O), ed una di V10D (W/O) + V11BE (O/O). Tutti i test di pulitura sono stati opportunamente controllati al microscopio prima durante e dopo le operazioni (Foto 11a ,11b, 12a, 12b).

I parametri delle miscele acquose però sono stati riaffrontati poiché in un dipinto ad olio (sebbene qui misto ad altri componenti) i valori sono diversi da quelli di un acrilico. Nel nostro caso c’era bisogno di operare a pH minori al 6.0 per avvicinarsi a condizioni più sicure di operatività a contatto diretto con l’originale. Per questo motivo abbiamo ampliato la gamma delle soluzioni, testando una soluzione tamponata di acido citrico a pH 5.0 e un’altra di acido citrico e DPTA sempre a pH 5.0. Nello specifico la prima miscela, denominata “0A”, era composta da 100 gr di acqua demineralizzata, 0,5 gr di acido citrico e aggiunta di soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5.0. La seconda miscela, denominata “0C” era composta invece da 100 gr di H2O demineralizzata, 0,5 gr di acido citrico, 0,5 gr di DPTA e aggiunta di soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5.0 (Tabella 5).

Tabella 5. Schema Test con soluzioni a pH 5.0 e conducibilità

SCHEMA TEST CON SOLUZIONI A pH 5.0 E CONDUCIBILITÀ 0A 0C

Acqua demin. 100 gr

Acqua demin. 100 gr Acido citrico 0,5 gr Acido citrico 0,5 gr DPTA 0,5 gr

Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5 Soluzione 1M NaOH per arrivare a pH 5 Valore di conducibilità: 2,3 mS/cm Valore di conducibilità: 4,1 mS/cm

Le due miscele si sono dimostrate entrambe solventi per alcune tipologie di sporco (con azione perfetta sulle colle animali) e nello stesso tempo rispettose della materia originale, tuttavia la seconda miscela OC si è dimostrata essere più efficace grazie alla presenza di un potere chelante maggiore dovuto alla presenza del DPTA.

Confrontando nuovamente i dati sia i valori di pH che di conducibilità delle miscele erano coerenti con l’originale: la miscela aveva lo stesso pH della policromia, attorno al 5.0, ed una conducibilità non superiore a 10 volte la conducibilità dell’originale. Nello specifico l’originale presentava una conducibilità tra 0,80 e 0,40 mS/cm e le due miscele avevano rispettivamente valori di 2,3 mS/cm e 4,1 mS/cm, coerenti con i valori della policromia originale (vedere tabella 5 ). Dopo questi test abbiamo creato delle

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo

ulteriori emulsioni W/O combinando la miscela 0A e 0C con il Velvesil Plus®. Dopo le prime calibrazioni per raggiungere la corretta percentuale di prodotto le ricette delle emulsioni erano le seguenti: 10 gr di Velvesil Plus® e 3,5 gr di soluzione 0A, miscela denominata “V16”, 10 gr di Velvesil Plus® e 3,5 gr di soluzione 0C, miscela denominata “V17”( Foto 13 ), ( Tabella 6 ).

Tabella 6. Schema soluzioni di Velvesil Plus® a pH 5

SCHEMA EMULSIONI DI VELVESIL PLUS® A pH 5 V16 V17

Velvesil Plus® 10 gr Velvesil Plus® 10 gr Soluzione 0A 3,5 gr Soluzione 0C 3,5 gr

È facile quindi intuire che queste miscele calibrate sono state usate selettivamente a seconda dei parametri e delle zone da trattare. La pulitura infatti presentava un metodo differenziato da zona a zona con successioni di emulsioni diverse a seconda delle problematiche. Nello specifico nelle zone con residui di colle il V16, con solo lo 0,5% di acido citrico tamponato a pH5, era già sufficiente alla solubilizzazione e liberazione delle stesse, lasciandone però in minima parte alcune tracce nelle fessurazioni delle frammentazioni del colore. Questo livello non deve essere inteso come un limite nella pulitura, bensì come un livello massimo entro cui non spingerci per non compromettere la coesione del colore ( Foto 14a, 14b, 15a, 15b ). Come abbiamo già descritto molte zone della materia policroma erano frantumate, ciò che teneva uniti gli stati di colore e gli stessi con la preparazione erano le resine e i collanti impiegati nei restauri antichi. Per noi quindi era sì importante togliere superficialmente queste materie filmogene, ma era altresì importante mantenere inalterata la loro presenza all’interno degli strati pittorici, per permettere un mantenimento della forza strutturale della materia stessa. In altre parole il nostro compito era quello di pulire e liberare strutturalmente la superficie della policromia il più possibile, per evitare peeling e tensioni superficiali eccessive alle scaglie frantumante, mantenendone l’adesione per mezzo delle colle già esistenti.

In altre situazioni invece, ove la policromia presentava maggiori stratificazioni di vernici e altre sostanze oleose, era necessario operare con delle emulsioni a solvente. Il V11BE con l’alcool Benzilico operava degnamente in questo senso e riusciva anche a rimuovere le antiche ridipinture oleose. In altre zone era necessario piuttosto operare con le doppie emulsioni (composte sia da una fase acquosa che una solvente) per riuscire a rimuovere differenti sostanze frammiste. Per questo motivo abbiamo creato un ulteriore emulsione mista in cui è stata unita l’emulsione V17 di citrico e DPTA tamponati a pH 5.0 con l’emulsione V11B, composta di Alcool Benzilico.

Per ogni zona, e a volte centimetro per centimetro, si doveva cambiare modus operandi: si applicavano emulsioni differenti da zona a zona, si procedeva con diversi passaggi alternando o combinando diverse emulsioni tra loro, si impiegavano tempi di rimozione e di applicazione diversi. Va precisato che in alcuni casi il numero delle applicazioni era molto elevato, tuttavia necessario per poter procedere selettivamente con le rimozioni (Foto 16a, 16b, 16c, 16d, 16e, 16f). Data la variabilità degli interventi e quindi la difficoltà di memorizzare la prassi operativa da zona a zona, diventava indispensabile registrare le successioni e l’efficacia di ogni applicazione in maniera sistematica. Questo è stato fatto, producendo una griglia comportamentale a cui attenerci per i risultati, mettendo in relazione la composizione materica dell’opera e i prodotti ed i metodi adoperati.

Tornando al metodo di costruzione delle emulsioni abbiamo riscontrato delle precisazioni importanti: le emulsioni doppie, o combinate, potevano essere costruite sia preparando l’emulsione acquosa e l’emulsione solvente a parte e poi combinandole, sia costruendole da subito direttamente in un'unica emulsione, perché in qualsiasi caso le fasi si mantenevano separate. Abbiamo notato, inoltre, che l’aggiunta di qualche goccia di D5 aiutava a disperdere meglio le particelle pulenti nel gel, e stabilizzare perciò l’emulsione. In tutte le fasi di preparazione si è ravvisata sempre la necessità di lavorare il prodotto in piccole dosi per riuscire ad

ottenere una buona miscelazione (non più di 50 gr di prodotto alla volta). Per miscelare le varie parti e ottenere un’emulsione compatta e stabile nel tempo, è stato adoperato un micromiscelatore a velocità variabile, come già spiegato in precedenza. Questa caratteristica era migliorativa non solo della stabilità e durabilità delle emulsioni create ma anche dell’efficacia stessa del prodotto.

Un altro dato importante da precisare era il metodo di utilizzo delle miscele. Come prima cosa si operava l’idrofobizzazione passando con un pennello morbido imbibito di D5 sulla superficie. Successivamente si applicava l’emulsione od il mix di miscele di emulsioni scelte per operare, e si massaggiava il tutto sempre mediante un pennello di piccole dimensioni molto morbido in fibra sintetica. Se necessario, sempre per creare una maggiore capacità disperdente delle particelle, si poteva aggiungere qualche goccia di D5 all’emulsione che si stava adoperando. Eseguita questa fase si effettuava un primo intervento di rimozione con il pennello stesso ed un successivo intervento di rimozione a secco con dei tamponcini di cotone, compiendo la minima pressione possibile sulla superficie. Il lavaggio dei residui veniva poi eseguito sempre bagnando la superficie con del D5 e facendo “rullare” il tamponcino di cotone. In tal modo l’asportazione dei residui non andava a creare alcun effetto abrasivo sulla policromia: un metodo più rispettoso per l’opera, sebbene più lento in termini di tempo. Tali operazioni venivano ripetute più volte, a seconda delle necessità, anche in un numero elevato di passaggi. Grazie all’idrofobizzazione ed all’operatività del Velvesil Plus® come emulsione “distanziata dalla superficie”, abbiamo potuto operare in maniera talmente selettiva sulla materia originale da permettere l’eliminazione dei diversi materiali filmogeni incoerenti, senza penetrare al di sotto delle micro scaglie della policromia stessa (Foto 17a, 17b). Ciò ci dava la possibilità di fermarci con la rimozione delle sostanze incoerenti in maniera controllata e al punto desiderato. In altri termini abbiamo potuto decidere di lasciare una minima porzione di materiale incoerente sull’originale, penetrato nelle fessurazioni della policromia. Nondimeno non dobbiamo dimenticarci di un altro importante elemento da tenere in considerazione, oltre a come preparare le miscele: la quantità di soluzione o di solvente che si poteva aggiungere al Velvesil Plus® nella creazione delle ricette. Dalle nostre prove ci siamo accorti che il massimo rapporto in peso di acqua trattenibile dal Velvesil Plus® poteva arrivare a 4 gr di soluzione acquosa su 10 gr di Velvesil Plus®, senza destabilizzazioni del gel (cioè un rapporto di 4 a 10). Questo dimostrava la possibilità di superare la soglia del 25% di acqua in Velvesil Plus®, mantenendo la fase emulsionata. Altra caratteristica di cui ci siamo accorti durante le sperimentazioni, è la funzionalità del D5 come stabilizzante nella creazione di emulsioni (parlando sempre di poche gocce di prodotto). Le emulsioni additivate da poche gocce di D5 risultavano leggermente meno dense, ma allo stesso tempo più stabili soprattutto durante le fasi operative. Il D5 ha infatti questa funzione di repulsione elettrostatica delle particelle di entrambe le fasi presenti e garantisce una distribuzione interna migliore16. L’azione di questo solvente modifica la polarità del Velvesil Plus®, come si può vedere dalle condizioni del parametro di solubilità δ di Hildebrand. Questa modifica inoltre permetteva di inserire un ulteriore piccola quantità di sostanza acquosa e/o di Alcool Benzilico al gel, senza alterarne la consistenza, e senza uscire dal diagramma di fase dell’emulsione.

Considerazioni sul comportamento del Velvesil Plus® alla fluorescenza UV

Un commento particolare merita la risposta alla fluorescenza UV con tali emulsioni, prima e dopo l’uso. Dai test fatti su diverse zone dell’opera è risultato che ripassando il Velvesil Plus® sulle zone già pulite con i primi metodi di emulsioni gelificate di Xantano, il Velvesil Plus® utilizzato, solo dopo pochi massaggi a pennello, risultava molto fluorescente. Si presentava ai nostri occhi un acceso colore tra il bianco ed il giallo canarino alla luce UV. Probabilmente ciò era dovuto alla grande capacità emulsionante e disperdente del Velvesil Plus®, che riusciva ad effettuare una ulteriore pulitura dei residui, benché la percezione ad occhio nudo della superficie pittorica alla luce UV non mostrasse più la presenza di sostanze filmogene fluorescenti.

Abbiamo in questo test comparato tre diverse miscele mettendo a confronto il comportamento del V10, del V11B e della miscela in parti uguali di V10 e V11B. Pur essendo le emulsioni tutte molto riflettenti all’UV la miscela composta dalla soluzione acquosa e dall’alcool Benzilico risultava la più fluorescente di tutte (Foto 18a, 18b). Ciò affermava che tale tipo di emulsione, per la sua doppia natura acquosa e solvente, amplificava in qualche modo la capacità di solubilizzazione delle singole emulsioni.

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo

La rimozione di sostanze filmogene in un dipinto di Gian Battista Tiepolo

Se poi conduciamo un’ulteriore prova comparativa e testiamo sempre in una zona adiacente a quella sopracitata anche l’uso di sistemi di emulsioni gelificate in Xantano (vedere tabella 2), e le stesse con l’aggiunta di un 5 o 10% di Alcool Benzilico, scopriamo che queste non danno risultati significativi alla fluorescenza UV. In tutti i casi abbiamo sempre idrofobizzato la superficie prima dell’applicazione ed utilizzato lo stesso numero di giri di pennello nella fase di pulitura. Un risultato simile ci fornisce un dato fondamentale: per quanto il Velvesil Plus® potesse sembrare il sistema meno invasivo e più all’interfaccia possibile, era allo stesso tempo il più efficace per il suo intrinseco potere emulsionante e disperdente. Per concludere possiamo tranquillamente dire che grazie a questi nuovi polimeri siliconici ingegnerizzati, riusciamo a creare dei materiali molto efficaci e capaci di rendersi utili non solo in fase di pulitura superficiale ma anche di rimozione, riuscendo a mantenere sempre una sorta di distanza dalla superficie interessata. In breve è si coinvolgente adoperare e scoprire materiali nuovi, ma il limite da superare non è solo la paura del nuovo e la conoscenza dei prodotti e della chimica, ma anche il come usiamo questi prodotti: facciamone una questione di metodo. Forse è proprio qui che noi restauratori possiamo e dobbiamo fare la differenza nella ricerca di settore.

BIBLIOGRAFIA

1. E. FrancEscutti - F. DEl Zotto. A noi tutti sarebbe obbligo sacrosanto di tramandare quest’opera che tanto ci onora intatta ai più tardi nepoti. In: Giambattista Tiepolo “il miglior pittore di Venezia”, a cura di G. Bergamini, A. Craievich, F. Pedrocco, Catalogo della Mostra Villa Manin di Passariano - Codroipo 15 dicembre 2012 - 7 aprile 2013, Udine 2012, pp. 297-320.

2. Erika crosara Contributo per la storia conservativa della Pala di Este di Giambattista Tiepolo. I Restauri di Giovanni Zennaro, Antonio Acerbi, Franco Steffanoni, Tesi di Specializzazione Università degli studi di Udine, Scuola di specializzazione in Beni storico-artistici. Relatrice: Dott.ssa Elisabetta Francescutti, Anno Accademico 2013/2014.

3. P. crEmonEsi - E. signorini Un approccio alla pulitura di dipinti mobili, I Talenti - Metodologie, tecniche e formazione nel mondo del restauro, 29, Il Prato, Padova 2012.

4. r. WolbErs La pulitura di superfici dipinte. Metodi acquosi. Il Prato, Padova, 2005.

5. H.m. HanglEitEr - l.F. saltZmann Un legante volatile: il Ciclododecano. In: L’attenzione alle superfici pittoriche. Materiali e metodi per il consolidamento e metodi scientifici per valutarne l’efficacia, Atti del Congresso del CESMAR7 Colore e Conservazione, Milano 2006, Il Prato, Padova 2008.

1 La proprietà dell'opera è la Parrocchia di Este (PD), sotto la tutela dell'Ufficio Beni Culturali della Curia di Padova. La Direzione lavori del restauro è seguita dal Segretariato Regionale del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per il Veneto e dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso.

2 Analisi Radiografiche e fotografie all’Infrarosso eseguite da Davide Bussolari.

3 Analisi fotografiche agli ultravioletti eseguite da Franco Del Zotto.

4 Analisi XRF eseguite da Gianluca Poldi e Stefano Volpin.

5 Indagini chimiche e stratigrafiche e analisi Sem-EDS eseguite da Stefano Volpin.

6 Analisi Gas-cromatografia e spettrometria di massa eseguite da Antonella Casoli in collaborazione con l’Università di Parma.

7 C’è una grande variabilità negli strati di colore e nella tecnica con cui ha eseguito alcune campiture di colore: nei bianchi il colore è steso a corpo e “arricciato”, picchiettando il pennello, nelle ampie campiture del cielo il colore invece è molto “tirato”, talvolta talmente sottile da rendere quasi visibile la preparazione sottostante.

8 Francescetti 1924. La minuta, parziale, dell’articolo di Francescetti si conserva in BCE, Fondo Francescetti, AA V 43 e vedere bibliografia [2].

9 Da qui in poi convenzionalmente abbreviati con i rispettivi codici miscela: LA per le miscele di Ligroina e Acetone, LE per le miscele di Ligroina ed Etanolo e AE per le miscele di Acetone e Etanolo. Il numero indica la percentuale (1= 10%, 2= 20%, 3=30%, e così via) del solvente polare (Acetone o Etanolo) nell’Idrocarburo.

10 Da qui in poi abbreviato in SSG C-12.

11 Polietilenglicole (2) Cocamine.

12 Poiché sia per l’Ethomeen C-12 che per il PEG si riscontra in letteratura scientifica che il quantitativo idoneo per la neutralizzazione completa di 2 g di Pemulen TR2 sia 14 ml e non più 20 ml.

13 Il nostro laboratorio ha svolto una serie di test sulle tipologie e composizioni di pennelli in commercio per scegliere una campionatura adatta alle diverse nostre esigenze: abbiamo testato diverse fibre, diverse resistenze e diverse forme di fibre oltre che la loro capacità contenitiva e abrasiva.

14 Da qui in avanti abbreviato con la sigla DPTA.

15 Da qui in avanti abbreviati con la sigla DMSO e PC.

16 Comunicazione personale di Richard Wolbers durante il Workshop di gennaio 2016 in Lodi.

Franco Del Zotto

Restauratore

Diplomato presso Villa Manin di Passariano (UD), Socio e Direttore tecnico ditta CRAC s.n.c., Docente a contratto presso l’Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Dipartimento di Scienze Pure e Applicate DiSPeA. Vive e lavora a Rivignano Teor (UD). franco.delzotto@gmail.com

Vera Fedrigo

Restauratrice

Socia ditta CRAC s.n.c., Assistente a contratto presso l’Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Dipartimento di Scienze Pure e Applicate DiSPeA. Vive e lavora a Rivignano Teor (UD). vera.fedrigo@yahoo.it

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Franco Del Zotto, Vera Fedrigo
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