Dossier Veneto 2009

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LA SCINTILLA CHE ACCENDE VERONA


LA SFIDA DELL’EFFICIENZA

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Ogni città vive di energia. E ogni energia ha bisogno di essere prodotta e distribuita. A Verona è Agsm che se ne occupa. Dal dibattito su Ca’ del Bue, alle nuove strategie dell’azienda, il presidente Gian Paolo Sardos Albertini parla ai cittadini. Perché su certi temi una corretta informazione è indispensabile di Sarah Sagripanti

a una gestione che non si preoccupava dell’efficienza, dovuta principalmente a logiche monopolistiche, a una imprenditoriale, focalizzata sul business e sui risultati economici. Una sfida importante per le società multiservizi nate sulla scia della privatizzazione dei servizi pubblici locali. Una delle più importanti in Veneto è Agsm, il cui unico socio è il Comune di Verona. Una società moderna, efficiente, improntata a criteri manageriali, che si occupa di produrre e distribuire, attraverso una controllata, energia elettrica, gas e teleriscaldamento alla città, oltre ad occuparsi dell’illuminazione pubblica e della gestione degli impianti termici. «Tutela dell’ambiente e attenzione alla clientela sono i principi guida del nostro approccio con il libero mercato. Per questo seguiamo la politica del risparmio energetico e investiamo sulle energie rinnovabili», spiega l’avvocato Gian Paolo Sardos Albertini, presidente del gruppo. Quali sono le maggiori sfide che una società come la vostra deve affrontare? «La nostra sfida è la stessa di qual-

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siasi altra società commerciale, ovvero essere competitivi sul mercato. Per raggiungere questo obiettivo nel nostro settore, uno dei fattori discriminanti è il prezzo di acquisto del gas e dell’energia elettrica alle migliori condizioni. È in questa logica che, nel mercato liberalizzato italiano, si era affermata la tendenza ad avere aggregazioni e fusioni fra operatori locali, perché maggiore è la quantità di gas che si riesce ad acquistare, minore è il prezzo». Agsm ha in progetto di realizzare aggregazioni o alleanze con altri operatori? «Nel 2008 avevamo aderito ad un progetto di Veneto Sviluppo per creare un’unica aggregazione tra i tre più importanti operatori della regione. Il progetto di fusione prevedeva la formazione di quattro società divise per settore, ma purtroppo non si è raggiunto l’accordo. Da parte nostra, stiamo lavorando per creare sinergie con Vicenza e Trento, in modo da ottimizzare i servizi. Non è detto però che non si possa pensare ad una fusione societaria. L’altro fronte su cui stiamo lavorando è l’ipotesi di far entrare, come partner di minoranza, un grande operatore italiano o estero, che possa garantire l’approvvigionamento della materia

Nella pagina a fianco, l’avvocato Gian Paolo Sardos Albertini, presidente del Cda di Agsm Spa, società multiutility della città di Verona

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LA SFIDA DELL’EFFICIENZA Agsm Verona

«SUL TOTALE DELL’INQUINAMENTO PRODOTTO IN VENETO, I TERMOVALORIZZATORI INCIDONO SOLAMENTE PER LO 0,8 PER CENTO. QUANDO BERLUSCONI INAUGURÒ L’IMPIANTO DI ACERRA, DISSE CHE ENTRAVA IN FUNZIONE UN IMPIANTO “CHE INQUINA MENO DI TRE AUTOMOBILI”. NON È ANDATO MOLTO LONTANO DALLA REALTÀ»

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prima a prezzi vantaggiosi. Più in generale, tuttavia, l’attuale crisi economica ha ridimensionato la tendenza a formare grandi aggregazioni e oggi si sta rivalutando la presenza degli enti pubblici». Perché secondo lei? «Con la Finanziaria 2008 si era pensato che privatizzare e liberalizzare tutto fosse la soluzione ideale. In realtà la crisi economica ha dimostrato che la presenza dello Stato in certi servizi essenziali è fondamentale, perché un pubblico ben gestito porta due importanti vantaggi. In primo luogo crea degli utili che tornano ai cittadini, in secondo luogo, lontano da una visione puramente privatistica, si ha maggiore riguardo per la tutela della salute e dell’ambiente. Per questo noi seguiamo la politica del risparmio energetico, anche se dal punto di vista strettamente imprenditoriale andrebbe contro il nostro interesse». Per quanto riguarda la produzione di energia, quali strategie mettete in atto? «I progetti più importanti riguardano i settori dell’energia rinnovabile, in particolare l’eolico e il fotovoltaico, oltre all’idroelettrico. Ma è considerata energia rinnovabile anche quella che si otterrà con la realizzazione del termovalorizzatore di Ca’ del Bue, un impianto che brucerà circa 500 tonnellate giornaliere di rifiuti della provincia di Verona per produrre energia elettrica e che soddisferà le esigenze di 45mila famiglie. Quello di Ca’ del Bue è uno dei quattro impianti veneti individuati dal Piano regionale dei rifiuti. Il bando di gara per la sua realizzazione scadrà in agosto e mi auguro che tra alcuni anni l’impianto possa entrare in funzione». Contro la realizzazione del termovalorizzatore si sono levate diverse voci di protesta. Secondo

lei perché la realizzazione di grandi progetti si scontra sempre con l’opposizione della popolazione locale? «Si tratta dell’effetto Nimby: ovunque si faccia qualcosa in Italia, nasce il comitato del no. La gente teme nascano pericoli per la salute ed è per questo che è importante la corretta comunicazione. La commissione che la Regione ha nominato per predisporre il progetto ha previsto anche un piano di comunicazione. Per una maggiore trasparenza, inoltre, abbiamo fatto partecipare alle riunioni della commissione un rappresentante dei tre Comuni adiacenti all’impianto». Dal punto di vista della salute e dell’ambiente, quale impatto creerà il termovalorizzatore? «L’impianto sarà dotato delle migliori tecnologie oggi disponibili e avrà un sistema di controllo rafforzato. Oltre a quelli normalmente svolti per l’acqua e l’aria, tramite il Comune di Verona abbiamo stipulato un’ulteriore convenzione con l’Istituto superiore della sanità per il monitoraggio del “punto zero”: prima che l’impianto entri in funzione, verificheremo lo stato di fatto dell’inquinamento circostante a Ca dè Bue. In questo modo, a posteriori, avremo modo di controllare se ci sarà stato un suo aumento». Si sente di rassicurare i cittadini in merito alle emissioni che il termovalorizzatore rilascerà nell’ambiente circostante? «Una recente indagine della Regione Veneto ha dimostrato che l’inquinamento della nostra pianura Padana è dovuto per il 30 per cento al traffico automobilistico, per un altro 30 alle industrie, per un ulteriore 30 agli impianti di riscaldamento domestici e per il restante 10 all’agricoltura. Nell’ambito degli impianti industriali, i termovalorizzatori incidono sola-



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LA SFIDA DELL’EFFICIENZA Agsm Verona

In questa pagina l’impianto di Ca’ del Bue. Nella pagina precedente, dall’alto, in senso orario, il parco eolico Casoni di Romagna, un tetto fotovoltaico, ancora l’impianto di Ca’ del Bue e la centrale idroelettrica Diga di Ala

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mente per il 3 o 4 per cento, il che significa lo 0,8 sul complessivo. Quando Berlusconi inaugurò l’impianto di Acerra, disse che entrava in funzione un impianto “che inquina meno di tre automobili”. Non è andato molto lontano dalla realtà. La stessa Legambiente recentemente ha pubblicato uno studio sulle nanoparticelle: rispetto a quelle già presenti nell’atmosfera, i termovalorizzatori ne emettono una quantità inferiore rispetto ad un impianto di riscaldamento domestico». Si è parlato anche della possibilità di realizzare, in alternativa, un impianto di trattamento a freddo. «La commissione regionale aveva preso in esame tutti i sistemi diversi dalla termovalorizzazione, tra i quali il trattamento a freddo. Questa possibilità è stata esclusa, perché attualmente non esistono in Italia impianti che diano garanzia e affidabilità. L’unico esistente al mondo è sperimentale, lo abbiamo visionato in Israele. Né rappresentano la diversa alternativa all’incenerimento impianti come quello di Vedelago, dato che si limitano a trat-

tare a freddo la parte dei rifiuti conseguente alla raccolta differenziata. In Veneto ve ne sono circa venti del medesimo tipo e una loro maggiore diffusione sarà legata all’aumento della raccolta differenziata. E anche se il Veneto, tra le Regioni più virtuose, si è posta l’obiettivo per il 2012 di arrivare al 65 per cento di differenziata, ci sarà sempre una percentuale di indifferenziata che dovrà essere smaltita: l’unica soluzione è quindi il termovalorizzatore dato che dal 2010 non si potranno più realizzare discariche per rifiuti solidi urbani». Come vi state muovendo per una corretta comunicazione su queste tematiche? «Predisporremo una lettera da inviare ai cittadini, faremo dibattiti pubblici, incontri televisivi, un workshop con la Regione e tutto ciò che sarà necessario. È evidente che sarà difficile fermare le potreste, soprattutto se dettate da paure irrazionali. Ma per questo vogliamo dedicare tutto il tempo necessario ad una corretta informazione, coinvolgendo i cittadini in ogni fase del progetto».




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Una strada da percorrere fino in fondo L’assenza di dialogo con l’opposizione e una serie di eventi d’emergenza non hanno impedito al governo Berlusconi di andare avanti con la propria agenda. Rispettando la tabella di marcia delle riforme di giustizia e Costituzione. Niccolò Ghedini, avvocato penalista e parlamentare Pdl, delinea i futuri passi in questa direzione di Marilena Spataro

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a riforma della giustizia in campo civile e penale procede speditamente e nel rispetto del calendario previsto dall’attuale esecutivo. Inoltre, con la recente approvazione della legge sul federalismo fiscale è stato compiuto un primo, importante passo nella direzione delle riforme costituzionali, anch’esse nell’agenda degli impegni che il governo Berlusconi si è assunto davanti agli italiani. E che certo non intende eludere, sebbene in questo anno siano stati tanti gli eventi negativi e le emergenze, primo tra tutti il terremoto in Abruzzo, che ha dovuto affrontare. «In tema di giustizia il provvedimento che il governo intende varare sulla separazione delle carriere dei giudici renderà indispensabile anche il varo di un’importante riforma d’interesse costituzionale che va a incidere sulla struttura del Csm, il quale peraltro non ha dimostrato uno straordinario funziona-

mento nel corso di questi anni. Attuare il giusto processo e dare maggiori garanzie al cittadino, questi sono i punti cardine in materia di giustizia su cui lavorare adesso» sottolinea Niccolò Ghedini, deputato del Pdl. L’avvocato penalista ha portato con sé sugli scranni di Montecitorio la passione e la professionalità che da sempre lo animano nell’esercizio della professione forense, cosa che lo ha reso uno dei giuristi più stimati e ascoltati di questa legislatura. Pensa che riuscirete a mantenere l’impegno di varare le riforme della Costutizione e dell’ordinamento giudiziario in questa legislatura? «Assolutamente sì. Il governo ha già varato parecchie riforme pur essendoci stato nel corso di quest’anno un forte impegno per far fronte alla crisi economica e a gravi emergenze, come quella del terremoto in Abruzzo, a causa delle quali si sono dovute po-

Niccolò Ghedini è giurista, avvocato penalista e deputato del Pdl

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Niccolò Ghedini

«IL PROCESSO CIVILE AVEVA DELLE URGENZE BEN MAGGIORI RISPETTO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE, QUINDI CREDO CHE SIA STATO GIUSTO MANTENERE LE ATTUALI SCANSIONI TEMPORALI»

sporre alcune attività legislative. Il processo civile aveva delle urgenze ben maggiori rispetto alla riforma costituzionale, quindi credo che sia stato giusto mantenere le attuali scansioni temporali. Su questi temi tutto l’esecutivo sta lavorando in maniera molto intensa e credo che prima della pausa estiva si riuscirà a presentare un testo agli operatori del diritto su cui confrontarsi e su cui discutere in modo da poterlo poi portare in Consiglio dei ministri quanto prima». Di recente il premier ha rilanciato il tema della riduzione del numero dei parlamentari. Secondo lei riuscirà ad avviare anche questa riforma? «Nel corso della legislatura 20012006 avevamo varato un provvedimento che prevedeva il taglio dei parlamentari; testo che purtroppo è stato affondato dal centrosinistra con il referendum. Noi riproporremo questa modifica puntando a una diminuzione dei parlamentari e dei senatori, che il presidente Ber-

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lusconi vorrebbe portare rispettivamente a 400 e a 200. Certamente far partire nell’immediato una simile riforma, soprattutto per quanto riguarda il Senato, non è facile. Si potrebbe trattare quindi di una riforma che andrà a regime nei prossimi anni. In ogni caso essa è fortemente voluta da questo governo. Quanto al resto, vedremo. C’è già molto da fare con le riforme in cantiere: abbiamo, infatti, da completare la riforma sul federalismo fiscale, che sta molto a cuore al nostro premier». Rispetto alle leggi che in qualche modo vanno a modificare gli assetti istituzionali, intravede all’orizzonte qualche ostacolo? «Penso vi sia una maggioranza abbastanza coesa nell’attuale alleanza di governo, quindi non vedo difficoltà all’orizzonte». Quali sono i vantaggi giuridici e politici che dalla prevista riforma costituzionale deriveranno al sistema e all’organizzazione dello Stato?

«Da un punto di vista pratico si esalterebbe la terzietà del giudice e la sua indipendenza e al contempo si rimarcherebbe anche l’autonomia del pubblico ministero dal giudice. Credo che questo sia un passaggio molto importante per la garanzia dei nostri cittadini; dal punto di vista politico significherebbe poter armonizzare l’articolo 111 del 99, cioè quello relativo al giusto processo, con gli articoli 24 e 3 della Costituzione, dettami di particolare valore in quanto voluti dai padri costituenti». Tra le forze dell’opposizione intravede oggi qualcuna che possa dare un contributo costruttivo in direzione di queste riforme o pensa che sarete costretti ad andare avanti da soli? «Con l’Unione dei democratici di centro sembra vi siano degli spazi di dialogo e sarebbe auspicabile che con loro si trovasse un tavolo di discussione, con l’Idv assolutamente questo è impossibile e, ormai, mi sembra sia lo stesso anche per quanto riguarda il Pd».



28 L’INCONTRO Piero Longo

La libertà di espressione un diritto non un alibi Si può diffamare qualcuno lanciandogli offese dal palco di un comizio? Oppure strumentalizzando immagini private per distorcere la verità e togliere consensi? La libertà di espressione, quando oscilla tra il contesto politico e quello mediatico, talvolta trascende i limiti dell’informazione e, come afferma l’avvocato Piero Longo, «spesso anche quelli della decenza» di Giusi Brega

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Nella pagina a fianco, Piero Longo, avvocato penalista e docente universitario di diritto e procedura penale

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a delegittimazione dell’avversario è uno strumento antico nella gestione della “lotta” politica. Perché attaccare l’antagonista con diffamazioni e offese pesanti è infinitamente più facile che instaurare un rapporto aperto e costruttivo. L’avversario ne esce ferito, mortificato. O peggio, rilancia. Con buona pace del confronto. Con l’avvento dei mezzi di comunicazione, sempre più diffusi e sempre più immediati, la diffamazione dell’avversario ha adottato nuove strategie sfruttando appieno la tecnologia. Ecco allora apparire sui giornali foto di politici immortalati durante momenti di vita privata, carpite da giornalisti armati di potenti teleobiettivi dopo ore di appostamento davanti alla porta di casa. Foto usate per insinuare dubbi, lanciare accuse, suscitare ilarità. «È

normale che nella competizione politica le critiche possano assumere toni aspri» – sottolinea l’avvocato penalista Piero Longo. Tuttavia, le polemiche «non dovrebbero mai toccare la vita privata e, con essa, i valori essenziali protetti dalla Costituzione». La libertà di espressione è sacra, ma «non va usata come alibi». Parlando di diffamazione, qual è il corretto equilibrio fra il diritto di cronaca e i diritti della personalità? «Non sussiste il delitto di diffamazione quando nella competizione politica è esercitato il legittimo diritto di critica, anche se questo si traduce in toni oggettivamente aspri e polemici, oppure opinioni espresse con termini pungenti, purché oggetto della critica sia un aspetto della dimensione pubblica del destinatario, anche duramente contestato e le frasi usate non siano


volgarmente e gratuitamente offensive. Per esempio non si potrà mai dire di una persona che “non è un essere umano” perché questo tocca un bene che non è soltanto privato, ma è anche pubblico e ha rilevanza costituzionale. Nella logica dell’aspra contesa dovrebbero tutti astenersi dal superare questi limiti, che, si badi bene, sono limiti che nascono dall’educazione, dal buonsenso accompagnato dal buongusto. Cose che evidentemente non tutti posseggono». Il giornalista è sempre legittimato a divulgare informazioni o fotografie che reputa opportuno rendere di dominio pubblico dietro lo scudo della “libertà di stampa”? «Quello della libertà di stampa è un discorso articolato. Non credo che riportare tutto quello che si vede e si sente sia sempre legittimo e lecito.

Soprattutto, quando il contenuto della notizia supera i limiti dell’informazione, e a volte della decenza, diventando una specificazione inutile, un pettegolezzo. La stampa dovrebbe “autoeducarsi” nel presentare notizie offensive, perché lo fa non per “dovere di cronaca”, ma per soddisfare la curiosità talvolta morbosa di chi legge i giornali e vuole trovarvi solo commenti feroci. Non vedo cosa abbia a che fare questo con la libertà di stampa». L’utilizzo che la stampa, italiana e straniera, ha fatto di alcune foto di Silvio Berlusconi pubblicate durante la campagna elettorale può essere considerato conforme alla legge? «Fotografare i momenti privati della vita di qualcuno, ad esempio il premier che passeggia nella sua villa, e renderli di dominio pubblico è reato. Se invece nella villa si

«IN ITALIA I GIORNALISTI, AGGRAPPANDOSI AL PRINCIPIO DELLA LIBERTÀ DI STAMPA, PENSANO DI POTER PUBBLICARE TUTTO. IN REALTÀ PUBBLICANO TUTTO PERCHÉ IL SISTEMA SANZIONATORIO ITALIANO, ANCHE CON LE NUOVE LEGGI CHE SONO IN FASE DI PREPARAZIONE, RIMANE ABBASTANZA MODESTO»

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L’INCONTRO Piero Longo

LA VITA PRIVATA È INVIOLABILE Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata che si svolgono nei luoghi indicati nell’articolo 614 (domicili privati, ndr), è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde mediante qualsiasi mezzo d’informazione al pubblico le notizie o le immagini, ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo. I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da 1 a 5 anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o a un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione d’investigatore privato.

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sta svolgendo una riunione politica, allora la captazione delle immagini e delle notizie è lecita. Perché non è vita privata». Quelle foto, indubbiamente private, sono però state pubblicate sia all’estero sia in Italia. «Le foto, sequestrate in Italia, sono state pubblicate in Spagna dal quotidiano El Paìs: occorre verificare se, al di là della scelta opinabile, poteva farlo in base alla legislazione spagnola, che è diversa dalla nostra. Ma quello che mi sconcerta è il ragionamento fatto dai giornali italiani, tipo La Repubblica: “Siccome le ha pubblicate El Paìs le pubblichiamo anche noi”. E no. In Italia diffondere mediante un mezzo di informazione notizie o immagini ottenute attraverso la violazione della privacy è un reato ai sensi del comma 2 dell’art. 615 bis del codice penale, punito con una pena


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da 6 mesi a 4 anni. Forse i giornali non lo sanno. Forse lo sanno. Ho persino il dubbio che gli uffici legali di certi giornali non funzionino bene o, se lo fanno, non vengano ascoltati. In realtà il giornale che acquista e pubblica foto ottenute in questo modo potrebbe rispondere di ricettazione. All’obiezione di certi direttori di giornali “questa è una notizia” io rispondo “pubblicala”, ma poi te ne assumi la responsabilità e le conseguenze. Non può esserci una mancanza assoluta di limiti». Che tipo di sanzioni comporta per il giornalista o il suo editore l’eventuale accertamento di un’avvenuta diffamazione? «In Italia i giornalisti, aggrappandosi al principio della libertà di stampa, pensano di poter pubblicare tutto. In realtà pubblicano tutto perché il sistema sanzionato-

rio italiano, anche con le nuove leggi che sono in fase di preparazione, rimane abbastanza modesto. In Inghilterra se un giornale pubblica cose che non avrebbe dovuto divulgare viene chiuso per un paio di giorni. Ma la stampa anglosassone funziona meglio perché da parte dei giornalisti c’è una forma di “autoriservatezza”. E poi perché nei giornali inglesi c’è una netta distinzione tra la stampa scandalistica e la stampa che, invece, dovrebbe fare informazione seria. In Italia questa distinzione non c’è». Ritiene che ci siano i margini per norme più severe al riguardo? «Non ritengo opportuno aggravare le norme quanto, piuttosto, far rispettare quelle esistenti. Quando si querela qualcuno per il reato di diffamazione a mezzo stampa accade sovente che le procure della Repubblica siano particolarmente

pigre. Tengono le pratiche nel cassetto, per tirarle fuori molto tempo dopo. Questo perché c’è un rapporto molto forte tra il potere del giornalismo ufficiale e la magistratura. Si sono mai viste foto di un magistrato mentre sbadiglia o con gli occhi strabuzzati, pubblicate dalla Repubblica o dal Corriere?». Quali sono i tempi medi di durata di un processo per diffamazione nel nostro Paese? «I tempi per i processi per diffamazione sono molto lunghi e c’è la tendenza a non considerarli di grande importanza. Discorso logico se li si paragona a un omicidio. In ogni modo, con questa scusa – o per questa ragione – i tempi si dilatano molto. Tant’è vero che molte volte si arriva alla prescrizione. Che è, nel suo termine massimo, di sette anni e mezzo».

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Felice Casson

L’obiettivo fallito e il progetto da rifare Dalla sicurezza dei lavoratori alla discussione di leggi in Commissione giustizia al Senato. E i problemi del partito, perché le polemiche tra i leader e le lotte di potere ormai sono insostenibili. Per Felice Casson, senatore del Pd, bisogna cambiare passo: «Approvata la linea del partito non ci può essere spazio per contrasti e discussioni» di Concetta S. Gaggiano

l mesotelioma è una malattia che dovrebbe essere nota ormai a tutti, insieme a un nome, amianto, e a un’inchiesta, quella sul petrolchimico di Porto Marghera, aperta nel 1994 dall’allora giudice Felice Casson, ora senatore del Partito democratico. Da quell’estate del 94 certo qualcosa si è mosso in Italia, la coscienza civile degli italiani soprattutto, e la consapevolezza che quando si parla di sicurezza sul lavoro nessuno può far finta di non vedere perché è un tema che interessa tutti. «Quelle vicende hanno insegnato molto perché dopo le indagini e i processi per i morti al petrolchimico, quelli da amianto alla Fincantieri Breda e per le fughe di sostanze cancerogene dai camini di Porto Marghera, c’è stato un aumento consistente di sensibilità da parte dell’opinione pubblica, degli amministratori e degli organi di controllo», precisa il senatore. Casson da politico non ha tradito il suo impegno per la sicurezza dei lavoratori e come primo atto della sua vita da par-

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lamentare ha presentato un disegno di legge proprio sulla questione. Che cosa prevede il suo disegno di legge in tema di sicurezza sul lavoro? «La legge si pone tre obiettivi: il primo è l’istituzione di un fondo a favore delle vittime dell’amianto e di tutti coloro che sono stati esposti a questa fibrakiller per qualsiasi motivo, ambientale o perché familiari di operai. Il secondo riguarda una questione più strettamente ambientale: nel 1992 è stata approvata una legge che imponeva il censimento e la bonifica dei siti inquinati da amianto, cosa che poche amministrazioni hanno fatto. La nostra proposta cerca di intervenire prevedendo defiscalizzazione e altri aiuti per fare in modo che ci sia innanzitutto l’individuazione e poi la bonifica dei siti. Il terzo punto riguarda la sorveglianza sanitaria: in Italia circa mille persone l’anno muoiono di mesotelioma e circa tremila di tumore polmonare a causa dell’amianto e il picco è previsto tra il 2015 e il 2020.

Felice Casson è capogruppo del Partito democratico in Commissione giustizia


Chiediamo una sorveglianza sanitaria, del tutto gratuita per gli esposti all’amianto, in grado di diagnosticare per tempo la malattia e di poter seguire le persone colpite in tutto il loro iter». In tempi di crisi, spesso, la tutela dei lavoratori passa in secondo piano. Cosa si sta facendo in Italia per impedire questo effetto collaterale? «In questi giorni stiamo valutando nelle commissioni del Senato la nuova normativa del governo in materia di sicurezza sul lavoro. Si tratta di un testo negativo, perché prevede una diminuzione dell’attenzione nei luoghi di lavoro piuttosto preoccupante, in riferimento soprattutto alla fondamentale fase dei controlli e delle verifiche, oltre che all’aspetto delle sanzioni. Con la repressione non si risolvono tutti i problemi; ma se si riscontrano violazioni, le sanzioni devono avere un senso. Ancora

una volta le indicazioni e le misure proposte dal governo vanno nella direzione opposta. Inoltre, alcune norme prevedono un alleggerimento della responsabilità penale per i vertici delle società coinvolte. Secondo l’opinione di molti giuristi, se venisse approvata la norma sulla deresponsabilizzazione dei manager, si correrebbe il rischio di vanificare anche i processi in corso, come quello riguardante la ThyssenKrupp di Torino. Il segnale che invece noi vogliamo lanciare è esattamente l’opposto: nonostante siamo in un periodo di crisi non si può abbassare la guardia sulla sicurezza nei posti di lavoro. E ciò, oltre che per un’irrinunciabile scelta culturale e di giustizia, anche perché la mancanza di sicurezza per i lavoratori comporta dei costi per il settore pubblico, che sono considerevoli». Parlando invece di politica, il

«BISOGNA TORNARE NELLE PIAZZE, NEI COMUNI E A CONTATTO CON LA GENTE, NON LIMITARSI A VIVERE DALL’ALTO E DALL’ESTERNO LA REALTÀ ITALIANA. QUINDI, RIPARTIRE DAL TERRITORIO E PENSARE MENO A GIOCHI DI POTERE CENTRALI»

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Felice Casson

«QUELLE VICENDE HANNO INSEGNATO MOLTO PERCHÉ DOPO LE INDAGINI E I PROCESSI C’È STATO UN AUMENTO CONSISTENTE DI SENSIBILITÀ DA PARTE DELL’OPINIONE PUBBLICA» DOSSIER | VENETO 2009

quadro di equilibri emerso dalle Europee è stato oggetto di valutazioni contrastanti e, spesso, all’insegna del relativismo. Cosa serve, ora, al Pd? Qual è il prossimo passo? «Innanzitutto il congresso autunnale: c’è assolutamente biso-

gno di mettere in ordine idee, programmi e soprattutto organigrammi. Io sono convinto della necessità di una struttura organizzata. Con questo non dico che bisogna tornare al modello della Dc o del vecchio Pci, ma un minimo di struttura che colleghi il territorio con la direzione centrale ritengo sia indispensabile. Poi ci devono essere delle idee chiare su tutti i temi fondamentali, dal welfare alla giustizia, dall’economia all’educazione, dalla sicurezza alla politica estera, e una volta approvata la linea del partito non ci può essere spazio per violenti contrasti e discussioni, a cui negli ultimi mesi ci è toccato assistere». Molti, anche all’interno, sostengono che il problema del Pd è un’eccessiva “distanza” dalla gente comune. Se questo è vero, come ricucire il rapporto con la società civile? «Bisogna tornare nelle piazze, nei comuni e a contatto con la gente, non limitarsi a vivere dall’alto e dall’esterno la realtà italiana. Quando sono in giro per l’Italia, mi rendo conto che la gente ci aspetta, e dopo aver ragionato insieme, i cittadini hanno anche le idee più chiare e più voglia di impegnarsi per l’interesse collettivo. Quindi, il nostro obiettivo deve essere ripartire dal territorio e pensare meno a giochi di potere centrali».



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Giampiero Massolo

L’ambasciatore Giampiero Massolo, rappresentante personale del presidente del Consiglio per il prossimo G8. A destra, Silvio Berlusconi propone per la prima volta il trasferimento del vertice a L’Aquila

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Una sottile arte sullo scacchiere internazionale Gli equilibri geopolitici mutano di continuo, così come la natura delle minacce. Ma è il lento svolgersi della storia, la sua evoluzione sotterranea, a regolare davvero il gioco. Guardando al prossimo G8, lo “sherpa” Giampiero Massolo riflette sul quadro diplomatico attuale. E sul ruolo dell’Italia in questo scenario di Daniela Panosetti

S «CREDO POCO AI RIVOLGIMENTI, E MOLTO DI PIÙ AI LENTI PROCESSI DI EVOLUZIONE STORICA CHE SI SNODANO NEI DECENNI A PARTIRE DA QUELLE CHE FERNAND BRAUDEL CHIAMAVA LE FORZE PROFONDE»

olo insieme è possibile affrontare le grandi sfide globali. Questo è il messaggio principale che vogliamo lanciare da L’Aquila». È un appello di unione e di realismo, quello che parte dall’ambasciatore Giampiero Massolo, segretario generale della Farnesina e, soprattutto, uno degli sherpa, i consiglieri diplomatici dei potenti, incaricati di traghettare i governi gli otto “grandi” verso il vertice di luglio. Un incarico difficile, senza dubbio, ma che dopo il trasferimento dalla Sardegna in Abruzzo assume un valore simbolico non indifferente, sollevando un’idea che è anche e prima di tutto un auspicio. E cioè che «la solidarietà e la sobrietà» oggi messe in campo diventino direttrici stabili dell’azione internazionale. Anche e soprattutto sul piano economico. Lei ha iniziato la carriera diplo-

matica nel 1978, vivendo dunque in prima linea i forti rivolgimenti degli ultimi trent’anni. In che modo si è evoluto il rapporto tra Stati e popoli, con la globalizzazione? «Spesso, anche prima di entrare in diplomazia, ho sentito la frase “nulla sarà più come prima” dinanzi alle grandi cesure storiche. E molte volte, anche dopo eventi come il crollo del muro o l’11 settembre, abbiamo dovuto constatare che nelle relazioni internazionali “molto”, anche se non tutto, era “come prima”. Credo poco ai rivolgimenti, e molto di più ai lenti processi di evoluzione storica che si snodano nei decenni a partire da quelle che Fernand Braudel chiamava le forze profonde. E questo vale anche per la globalizzazione, fenomeno non nuovo, ma che si presenta con nuove modalità. La

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Giampiero Massolo

Dal 2007 Giampiero Massolo ricopre la carica di segretario generale della Farnesina

vera sfida di oggi non è la globalizzazione, ma la sua accelerazione e la gestione delle sue ricadute politiche e istituzionali, che incidono profondamente sui rapporti fra Stati e popoli, chiamando i governi a ridefinire nozione e portata dei rispettivi interessi nazionali in coerenza con la governance dei problemi globali». Com’è cambiata la diplomazia e il peso dell’Italia in Europa? «È cambiata la domanda di diplomazia, così come i fattori di instabilità, e la Farnesina ha dimostrato di sapersi adeguare. Le minacce sono diventate asimmetriche, e la sicurezza dei cittadini deve essere tutelata sempre di più su fronti lontani, a partire da quegli avamposti che sono le ambasciate e i consolati, che oggi rappresentano anche una proiezione competitiva del nostro apparato produttivo. In questo contesto cambia anche l’unità di misura del “peso” dei vari Stati. Oggi contano altri aspetti. Il contributo realista al processo di integrazione. La spinta visionaria e al

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contempo non ingenua all’allargamento. La capacità di costruire ponti con i Paesi alle frontiere dell’Unione. Il richiamo alla comune responsabilità nel fronteggiare sfide che travalicano gli ambiti nazionali e nel soddisfare le aspettative dei cittadini europei. Direi che l’Italia ha le carte in regola: con l’ottimismo del Paese fondatore e il realismo della nazione consapevole dei cambiamenti in atto». Quanto influisce la presenza di uno o dell’altro governo nazionale sul ruolo che l’Italia riveste in questo panorama? «Vi sono, senza dubbio, alcune direttrici di fondo che garantiscono una sostanziale continuità della nostra politica estera. La dimensione etica e dei diritti umani, nella quale siamo in prima fila, e la validità delle grandi scelte del dopoguerra, come quella atlantica ed europeista, ma soprattutto quella combinazione fra intransigenza nei principi ed equilibrio nei rapporti che rappresenta la cifra più genuina dell’azione internazionale dell’Italia,

facendone un attore di pace rispettato nel mondo. Su questa base si innestano da un lato l’indirizzo politico specifico di ciascun governo, dall’altro il dibattito sull’alternativa fra global player e soggetto regionale. Insieme agli altri sherpa, ad esempio, stiamo lavorando per il G8 con affiatamento e responsabilità, e soprattutto con una profonda sintonia rispetto alle tematiche globali. A conferma di come l’azione internazionale dell’Italia per sua natura si dispieghi in un ambito mondiale: un grande compito, che tuttavia siamo in grado di sostenere». Qual è la sfida più difficile per un incarico di tale prestigio? «La sfida non è una, ce ne sono diverse. In primo luogo vogliamo fare del G8 uno dei “luoghi” centrali per ripensare la nuova governance internazionale, far ripartire la crescita mondiale e scongiurare altre crisi future. Poi c’è la sfida specifica del negoziato che prepara il vertice e che, contrariamente a quanto spesso ac-


«INTRANSIGENZA NEI PRINCIPI ED EQUILIBRIO NEI RAPPORTI RAPPRESENTANO LA CIFRA PIÙ GENUINA DELL’AZIONE INTERNAZIONALE DELL’ITALIA, FACENDONE UN ATTORE DI PACE RISPETTATO NEL MONDO»

cade, per il G8 è “a termine”. Prima dell’incontro, infatti, i Paesi devono trovare una linea comune su molte questioni, anche controverse, in modo da poter poi prendere insieme decisioni rilevanti per il futuro del pianeta. Infine, la progressiva apertura del G8, tradizionalmente riservato ai grandi Paesi industrializzati, alle economie emergenti, che ovviamente ne aumenta la complessità». Quali saranno i principali temi di discussione? «Punteremo a rilanciare la crescita mondiale su basi più solide e sostenibili, scongiurando ogni forma di protezionismo e mettendo a punto un insieme di regole comuni su adeguatezza, integrità e trasparenza dell’attività economica e finanziaria internazionale. Berlusconi e Obama, inoltre, presiederanno una riunione dei 16 principali Paesi emettitori di gas serra, con l’obiettivo di far avanzare il negoziato internazionale sulla lotta ai

cambiamenti climatici, in vista della conferenza Onu di Copenaghen a fine anno che dovrebbe portare a un accordo post Kyoto. Affronteremo, inoltre, gli effetti della crisi sui Paesi meno avanzati, oltre a promuovere un partenariato globale per la sicurezza alimentare e un’alleanza tra G8 e Africa per favorire l’accesso all’acqua nei Paesi più poveri». Qual è stata la reazione dei partner internazionali alla notizia dello spostamento del vertice a L’Aquila? «Hanno tutti reagito positivamente, comprendendo molto bene che il trasferimento era basato su ragioni di solidarietà e sobrietà. Solidarietà nei confronti delle popolazioni dell’Abruzzo. E sobrietà per assicurare che l’organizzazione di questi grandi eventi internazionali, che ormai si succedono l’uno dopo l’altro proprio per rispondere in modo tempestivo alle crisi globali, non venga vista come occasione di mondanità, ma di intenso lavoro».

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Mario Giordano

La (d)istruzione scolastica La scuola italiana non supera l’esame. E si prende una bella insufficienza. Un giudizio severo, ma ampiamente giustificato. Per non stupirsene, basta leggere le pagine del saggio inchiesta 5 in condotta, scritto dal direttore de Il Giornale, Mario Giordano di Marilena Spataro

na futura classe dirigente che sa ricamare a macramè o che conosce perfettamente i principi del massaggio shiatsu, ma che ignora le più elementari regole dell’ortografia e della grammatica e che non sa far di conto. Uno scenario che ha dell’inverosimile e che sembra uscito dalla fantasia paradossale degna di un regista come Woody Allen. E che invece, tra non molto, potrebbe diventare una inquietante realtà, se solo si guarda allo stato in cui versa la scuola italiana, così come fotografata da Mario Giordano, direttore del quotidiano Il Giornale e autore del saggio “5 in condotta” «un viaggio inchiesta tra i banchi scolastici della nostra penisola». La speranza di Mario Giordano, che come padre di quattro figli si sente personalmente toccato dalle problematiche della nostra scuola, è che il racconto di questo suo viaggio segni l’inizio di una inversione di tendenza per migliorare la situazione non solo in campo scolastico, ma anche nelle altre istituzioni che oggi in Italia meritano una valutazione che non va oltre il 5 in condotta. Così nella DOSSIER | VENETO 2009

Pubblica amministrazione dove la regola sono gli sprechi e le inefficienze, e alla quale il direttore de Il Giornale darebbe addirittura un bel quattro. Voto che, spiega «va esteso a tante altre istituzioni inutili, per le quali tuttavia oggi si è creata una reazione volta a porre fine agli sprechi, mentre per la scuola è come se l’emergenza non si percepisse». La scuola italiana è da 5 in condotta. Quando è iniziato il suo declino e a chi vanno imputate le maggiori colpe? «Il declino è iniziato con il Sessantotto ed è proseguito negli anni 70. In questi quarant’anni se ne son viste di tutti i colori. Si è continuato a coltivare e anzi ad amplificare i difetti di quel tipo di educazione, abolendo i criteri della meritocrazia e della responsabilità, che non ci hanno permesso di poterci misurare con una scuola seria che, col tempo, è diventata sempre meno seria e meno meritocratica e che, man mano, ha tolto ai professori la possibilità di incidere in senso contrario». Eppure da questa scuola uscirà la futura classe dirigente del nostro Paese. Cosa aspettarsi a

Mario Giordano, direttore del quotidiano Il Giornale. Ha recentemente pubblicato il saggio “5 in condotta”, dedicato al sistema scolastico italiano



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Mario Giordano

«OGNI GIORNO DEGLI INSEGNANTI STRAORDINARI LAVORANO PER MANDARE AVANTI UN SISTEMA SCOLASTICO CHE NON È CROLLATO GRAZIE SOPRATTUTTO A LORO. MA LA SCUOLA CHE VORREI È UNA SCUOLA CHE NON HA BISOGNO DI EROI, PERCHÉ SA PREMIARE CHI LAVORA BENE» DOSSIER | VENETO 2009

questo punto? «Purtroppo se si va davanti alle scuole si può capire a che livello sia la preparazione degli studenti, i quali, ad esempio, sono convinti che in Turchia si parli il turchese e che uno dei sette nani si chiami Dondolo. Ma c’è dall’altro. Se, infatti, si va a leggere i testi degli esami di ammissione in magistratura si può scoprire che, spesso, ci sono errori ortografici e grammaticali. Mi è capitato personalmente di ricevere curricula di laureati che contengono strafalcioni clamorosi. Navigando su Internet ci si può imbattere persino in un importante giovane manager che sostiene che Waterloo sia la principale vittoria di Napoleone. Questa è la classe dirigente che si sta preparando. Ma oggi è necessario avere la capacità di adattarsi a un mondo che cambia sempre più rapidamente e per questo è necessario possedere strumenti e conoscenze di base; a fornirli è chiamata, innanzitutto, la scuola. Una scuola che non

ha la capacità di fornire questa preparazione rischia di amplificare gli effetti della crisi e di far perdere al nostro Paese la sua posizione a livello internazionale condannandolo a un declino sempre più rapido». Sprechi, mancanza di sicurezza, consulenze tanto costose quanto inutili. Da dove ripartire e a quale modello guardare per uscire da questa situazione di malessere? «Il modello cui guardare è abbastanza semplice ed è quello di una scuola che sappia svolgere il suo ruolo istituzionale. Purtroppo questa scuola l’abbiamo trasformata in un grande parco dei divertimenti. Nel primo capitolo del libro mi sono divertito a cercare le attività che si svolgono in tutta Italia: ne è venuto fuori un quadro sconcertante. A scuola si fa di tutto: corsi di frisbee, di danza latino americana, persino di arrampicata e macramè. C’è addirittura una scuola di Genova in cui si tengono dei corsi per insegnare a perdere peso. Ogni anno


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per svolgere queste attività entrano in classe 36mila consulenti per i quali si spendono svariati milioni di euro. È questa la scuola di oggi e questo è il modo con cui si formano i futuri cittadini che, alla fine, si ritroveranno a non saper fare i conti e a non saper scrivere in italiano. Se oggi ci fosse Lucignolo non porterebbe più Pinocchio nel paese dei balocchi, ma a scuola. Quello che occorre è una scuola più seria, meno sprecona e forse anche meno fantasiosa, da dove ripartire tenendo le “vecchie” lezioni di latino, matematica e aritmetica. Segnerebbe l’inizio di una sana controtendenza». Nonostante tutto, esistono ancora oasi, se non di eccellenza, almeno di speranza? «Le scuole eccellenti esistono e nel mio libro ne parlo ampiamente. Do anche atto che ogni giorno degli insegnanti, straordinari e meravigliosi, lavorano tenacemente per mandare avanti un sistema scolastico che ancora non è crollato grazie soprat-

tutto a loro. Purtroppo questi professori sono considerati esattamente come gli assenteisti o coloro che non si impegnano. La scuola è ormai diventata una grande piallatrice dove non si fanno più differenze, né per gli insegnanti né per gli studenti e dove non esiste più una valutazione che premi i migliori. Stando così le cose appare evidente come a scuola più che altrove esistano degli eroi. Ma la scuola che io immagino e che vorrei per il mio Paese è una scuola che non ha bisogno di eroi, ma che sappia premiare chi lavora bene». La riforma Gelmini ha scatenato tra studenti e universitari una rivolta. Cosa è stato frainteso e come la giudica da genitore? «La riforma Gelmini va nella direzione giusta prediligendo i principi di meritocrazia e responsabilità. Le polemiche che ha scatenato sono dovute soprattutto a una mescolanza, che bisognava evitare, tra la riforma delle elementari e quella dell’Università: questo ha alimen-

tato una gran confusione, sulla quale poi alcuni ci hanno marciato. Ma il cinque in condotta, i voti, il grembiule e la meritocrazia sono principi sacrosanti che vanno difesi. Certo, ancora ci sono da risolvere i grandi problemi organizzativi, come la gestione del tempo pieno, che è stato il motivo delle polemiche e della paura per i genitori, nate da una visione sbagliata che trasforma la scuola in una sorta di assistente sociale o di babysitter aggiuntiva. Non conta quante ore i ragazzi passino a scuola, l’importante è quello che imparano. Credo che per il bene del Paese sia migliore una scuola con un orario più breve, ma che formi di più. Attraverso una spassosa ricerca tra gli slogan ironici inventati dagli studenti nel corso degli anni e rivolti ai ministri della Pubblica istruzione ho scoperto che tutte le riforme sono state contestate, a partire da quella di Luigi Berlinguer. Tutte le volte che si tocca la scuola si levano le barricate. Ma il non cambiare la scuola ci sta portando al disastro». Scuola pubblica e scuola privata. Tra fondi, finanziamenti, gestioni, qualità dell’insegnamento è un’eterna polemica. Lei cosa ne pensa? «Penso che la scuola debba essere liberamente scelta dalle famiglie e che a queste si dovrebbe dare la possibilità di scegliere dove far educare i propri ragazzi. Personalmente sono favorevole al finanziamento per le scuole non statali, anche se i miei figli sono iscritti al liceo pubblico, perché spesso la scuola pubblica offre una preparazione diversa, anche migliore».

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Gianluigi Nuzzi

L’ottavo vizio capitale

Nella primavera del 2008, il giornalista Gianluigi Nuzzi ha avuto per la prima volta accesso all’archivio segreto di monsignor Renato Dardozzi, consigliere economico della segreteria di Stato della Santa Sede. Come si legge nel suo ultimo libro Vaticano Spa, Nuzzi ha evidenziato spericolate operazioni finanziarie mascherate da opere di carità e fondazioni di beneficenza di Federico Massari

«NON SI PUÒ ESSERE UN BUON CRONISTA SE NON SI CONOSCE IL PASSATO. IL BELLO DI QUESTO MESTIERE È L’ADRENALINA CHE SI PROVA AD ANDARE A SCOVARE LE ZONE D’OMBRA»

Sopra la copertina del libro Vaticano Spa, scritto dal giornalista Gianluigi Nuzzi

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or. La banca del Papa. Ossia una banca estera impenetrabile, dove non sono autorizzate intercettazioni e perquisizioni, e dove il personale non può essere interrogato, oltre a essere fuori dai filtri antiriciclaggio interbancari e internazionali». Esordisce così l’autore dell’opera di grande richiamo, Vaticano Spa, Gianluigi Nuzzi. Il suo giallo, già in ristampa a pochi giorni dall’uscita nelle librerie della Penisola, spiega nei minimi dettagli gli scandali emersi in superficie durante gli anni di Tangentopoli: «Anni in cui la magistratura di Milano – continua – era impegnata a individuare dentro quali nascosti pertugi avesse camminato la cosiddetta maxi tangente Enimont». Anche in questa delicata faccenda c’era di mezzo la banca

vaticana. Una sorta di paradiso fiscale della quale imprenditori, politici e gente di potere si sono serviti in abbondanza. «Lo Ior – spiega l’autore Gianluigi Nuzzi, incontrato alla presentazione del suo libro a Bologna – ha funzionato come una vera e propria “lavanderia” nel centro della Capitale, utilizzata anche dalla mafia e per spregiudicate avventure politiche. Tengo a precisare che non si tratta di un libro contro la Chiesa ma sugli affari sporchi portati avanti». Come nasce l’idea del libro? «L’idea è nata alla fine del 2007, quando sono stato contattato da alcuni delegati di monsignor Renato Dardozzi, i quali, dopo un lungo confronto di reciproca conoscenza e fiducia, nell’estate del 2008 mi hanno consegnato l’archivio del prelato. Vaticano Spa


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racconta la storia degli intrighi, dei silenzi, dei ricatti e delle congiure che all’interno del Vaticano si consumano sopra una mole impressionante di denaro in contante che entra ed esce dallo Ior. Io ho costruito i fatti attraverso documenti consultabili tutti gratuitamente su Internet all’indirizzo www.chiarelettere.it. In questo modo ogni persona ha la possibilità di farsi una propria idea». Che figura è stata quella di monsignor Renato Dardozzi? «È stata una figura cardine. Si tratta di un sacerdote che ha preso i voti in età avanzata, nel 1974. Essendo lui piacentino,

l’allora segretario di Stato Agostino Casaroli lo introdusse nelle segrete stanze dei sacri Palazzi. Renato Dardozzi ebbe l’incarico di direttore della Pontificia Accademia delle Scienze, dopodiché ne divenne cancelliere. Dardozzi fu uno dei pochi che il giovedì andava a pranzo da Giovanni Paolo II, un uomo che possedeva quattro lauree e parlava cinque lingue, aveva il sarto a Londra: stiamo parlando di un uomo di mondo e di grandi relazioni. Il suo compito più delicato fu quello di occuparsi delle vicende finanziarie più scabrose e imbarazzanti della Chiesa. Fu l’unico sacerdote che chiuse in maniera

estremamente positiva il contenzioso tra lo Ior e i liquidatori del Banco ambrosiano. Da quel momento, Dardozzi divenuto l’uomo di fiducia di Sodano, si occuperà di tutte quelle vicende finanziarie e occulte, di tangenti e di soldi sporchi, che alla fine degli anni Ottanta condizionarono le finanze del Vaticano. Raccolse tutto ciò in un dossier che, secondo la sua volontà, doveva diventare di dominio pubblico soltanto dopo la sua morte». È azzardato affermare che il Vaticano sia stato una sorta di paradiso fiscale? Una vera e propria “lavanderia” nel centro di Roma, utilizzata anche dalla

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Gianluigi Nuzzi

«DA QUEL MOMENTO, DARDOZZI DIVENUTO L’UOMO DI FIDUCIA DI SODANO, SI OCCUPERÀ DI TUTTE QUELLE VICENDE FINANZIARIE E OCCULTE, DI TANGENTI E DI SOLDI SPORCHI CHE ALLA FINE DEGLI ANNI OTTANTA CONDIZIONARONO LE FINANZE DEL VATICANO»

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mafia e per spregiudicate avventure politiche? «Più che il Vaticano, direi lo Ior. Banca che possiede una raccolta di pubblico risparmio impressionante. Oggi gestisce depositi di clienti per 5 miliardi di euro. Questo perché la finanza della Chiesa gode di ottima salute e anche perché la banca vaticana gode di tutti i privilegi degli istituti di credito offshore e però non si sottopone ai controlli sanciti dagli accordi internazionali. Vaticano Spa racconta il marcio e come sia stato poi spostato, e asportato tutto ciò che era stato contaminato. Le anomalie di questa banca, tuttora potrebbero invogliare i malintenzionati a utilizzarla per far transitare il denaro più innominabile».

I soldi di Tangentopoli sono passati dalla banca vaticana e i titoli di Stato scambiati per riciclare denaro sporco. Depositi che raccolgono i soldi lasciati dai fedeli per le sante messe trasferiti in conti personali, con le più abili alchimie finanziarie. Come è potuto succedere tutto questo? «Il processo più importante di tangentopoli fu quello che riguardava Enimont, cioè il processo che azzerò la prima Repubblica. Una maxi tangente che venne pagata da Montedison per divorziare da Eni, e così sciogliere la Enimont. Si è sempre pensato che una parte di questa tangente di 155 miliardi di lire fosse transitata dallo Ior. Dalle carte di Dardozzi si evince come


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la somma fosse ben più alta rispetto a quella che avevano accertato i magistrati di mani pulite. Occorre dire però che i magistrati furono depistati da una unità di crisi interna al Vaticano, che ostacolò il lavoro dei giudici affinché non venissero a conoscenza della vera entità di questa maxi tangente». Il suo è un libro che va contro non alla Chiesa, ma a quelle persone che godevano della fiducia della Chiesa. È così? «È esattamente così. Tant’è vero che ricevo telefonate ed e-mail di apprezzamento anche dal mondo cattolico. Gente che mi ringrazia perché dire la verità e dichiarare come stanno veramente le cose, non fa altro che bene. Raccontare queste verità nascoste può far solo

del bene alla collettività, senza però essere militanti. Io riporto dei fatti lasciando trarre, a chi ha la pazienza di leggere, le proprie conclusioni e valutazioni». Che consigli darebbe a un giovane che si appresta a entrare nell’arduo mondo del giornalismo d’inchiesta? «Essere perseveranti, cercare il più possibile la documentazione e verificare da più fonti le notizie di cui si viene a conoscenza. E poi studiare tanto. Non si può essere un buon cronista se non si conosce il passato. Per esempio: se non si conoscono la storia e le trame degli anni Settanta e Ottanta, sarà impossibile spiegare gli anni Novanta. Il bello di questo mestiere è l’adrenalina che si prova ad andare a scovare le zone d’ombra».

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La nuova base I divide ancora una città intera Camp Ederle fase due. Nell’area dell’aeroporto “Dal Molin” già si lavora per la costruzione della nuova base americana. Ma a Vicenza le polemiche non sono terminate. Il comitato per il No continua a manifestare contro una base ritenuta “devastante”, mentre i favorevoli alla nuova Ederle ne sottolineano i vantaggi economici per il territorio e registrano l’inasprirsi dei toni del dibattito di Lorenzo Berardi

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lavori sono già cominciati, ma il dibattito non si è ancora spento. A Vicenza continua a tenere banco la realizzazione della nuova base americana di Camp Ederle in corso di costruzione presso l’aeroporto Dal Molin. Un tema momentaneamente uscito dalla luce dei riflettori sul piano nazionale, ma che continua a sollevare confronti e contrasti, anche accesi, nella città berica. E mentre i cittadini contrari alla realizzazione della base insistono nel proprio presidio permanente e realizzano blitz all’interno del cantiere, come quello del 6 giugno scorso, il leader del comitato “Sì Dal Molin” Roberto Cattaneo riceve intimidazioni telefoniche. Segnali che indicano come la tensione a Vicenza resti alta, a dispetto dei tentativi di dialogo civile sui quali il sindaco Achille Variati assicura di continuare a lavorare. Proprio a Cattaneo e Variati abbiamo rivolto alcune domande per fare il punto sulla situazione.


CONFRONTI 49 A sinistra, Roberto Cattaneo, leader del comitato “Sì dal Molin” e consigliere provinciale del Pdl. Sotto, Achille Variati, eletto sindaco di Vicenza nel 2008 nelle fila del Pd

Dossier: Della realizzazione della nuova base americana al Dal Molin si parla meno a livello nazionale. Qual è oggi la situazione in città? Variati: «A Vicenza il dibattito e il confronto non si sono mai sopiti, come non è diminuita la preoccupazione di tanti cittadini per quello che consideriamo un errore storico, di cui saranno le generazioni future a pagare il prezzo maggiore».

Cattaneo: «Credo che in passato, a livello nazionale, si sia parlato molto al di sopra delle righe e della verità dipingendo la situazione come un autentico disastro. Non è così e i tecnici non di parte hanno dimostrato esattamente il contrario».

Dossier: Il comitato per il No ritiene che la realizzazione della nuova base avrà “effetti devastanti” per Vicenza. I fautori del sì, invece, controbattono che la costruzione porterà posti di lavoro e benefici economici. Davvero oggi non è possibile trovare una mediazione che accontenti entrambi i fronti? V: «Ogni opinione è legittima e preziosa. Va detto, però, che la complessa galassia dei movimenti contrari alla base, dal pacifismo cattolico al presidio ai comitati di quartiere, ha mostrato negli anni di saper mobilitare decine di migliaia di persone. Il comitato dei favorevoli invece non ha mai avuto occasione di dimostrare se e quanto sia rappresentativo. Non ho mai trovato convincenti le tesi sul “beneficio economico” della base, anche per come nascono queste strutture: cittadelle chiuse, con all’interno tutto quello che occorre ai soldati. Mentre condivido le preoccupazioni ambientali, amplificate dal rifiuto dello Stato a effettuare la valutazione di impatto ambientale che viene sempre eseguita anche per opere di impatto molto inferiore».

C: «Gli effetti devastanti per Vicenza per ora li abbiamo avuti solo con la continua disinformazione e con le sfilate promosse dal comitato del no e da quanti, politicamente antiamericani per principio, hanno creato clamore e gettato discredito sulla città. Si può sempre trovare una soluzione a tutto, ma per farlo bisogna accettare alcuni elementi fondamentali. Anzitutto partire dai fatti concreti e non dalle personali speranze o illusioni. La base si sta realizzando e questo è un dato di fatto. Accertato questo, bisogna essere disponibili al dialogo. Noi lo abbiamo proposto da molto tempo ed è sempre stato rifiutato. Detto questo, l’allargamento della base porterà altro lavoro e quindi benefici economici. Già ora vi sono varie centinaia di lavoratori italiani che operano nella Ederle e tantissime imprese locali che lavorano per le forniture».

Dossier: Il livello dello scontro ha assunto toni particolarmente accesi con minacce e scambi di accuse. Cosa si può fare e cosa si sta facendo per riportare la discussione a un livello civile? V: «Come sindaco faccio il possibile perché la situazione non degeneri. Sin dal mio insediamento ho avviato un percorso verso una consultazione popolare per incanalare le tensioni in un solco democratico: purtroppo il Consiglio di Stato ha bloccato la consultazione quattro giorni prima che si tenesse, con un’ordinanza che noi vicentini abbiamo vissuto come un esproprio di democrazia e di autonomia».

C: «La città non è quella che dipingono il comitato del no e i suoi sodali. Le minacce non sono mai partite dal comitato del sì. Questa è una città legata da più di mezzo secolo alla comunità americana, tanto civile quanto militare. Sono convinto che Vicenza troverà presto in se stessa la capacità di reagire civilmente a un clima, artificiosamente costruito, di rottura e contrapposizione». VENETO 2009 | DOSSIER



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Dossier: L’ufficializzazione dell’accordo con lo Stato per l’ampliamento della Dal Molin risale agli anni di amministrazione Hullweck. Qual è oggi la posizione ufficiale del Comune sulla Dal Molin? V: «Giunta e consiglio comunale hanno messo agli atti la piena contrarietà a questo progetto. Che non è affatto un ampliamento: la nuova base verrà costruita a diversi chilometri dall’attuale Camp Ederle, andando quindi a occupare un altro importante pezzo di città. Il vero ampliamento sarebbe stato e sarebbe ancora possibile, realizzando la nuova struttura nell’area agricola adiacente all’attuale caserma americana. Che non si sia scelta questa via è un mistero e un errore storico devastante: farla accanto all’attuale base avrebbe ridotto di molto le obiezioni. Anche perché non è un’area delicata dal punto di vista ambientale, a differenza di quella del Dal Molin che si sviluppa sopra una delle più grandi falde del Nord Italia».

C: «Sul piano temporale certamente l’amministrazione Hullweck è stata interessata dalla vicenda della base americana, però va chiarito che la questione è stata oggetto di una valutazione favorevole del Governo Prodi poi mantenuta da quello Berlusconi perché tutto ciò che riguarda la Difesa e gli affari esteri è di esclusiva competenza del governo, non delegabile a nessun’altra istituzione locale, provinciale o regionale. Lo dice chiaramente la Costituzione. La posizione ufficiale del Comune è, per quanto ne so, di appoggio al No Dal Molin tanto che il sindaco ha tenuto le sue conferenze stampa proprio nel tendone del presidio del No Dal Molin e non tiene conto né della Costituzione, né delle leggi dello Stato e nemmeno delle sentenze dei tribunali».

Dossier: Quali sono oggi le divergenze di posizione sulla Dal Molin fra una giunta comunale di centrosinistra e una provinciale di centrodestra?

V: «Il progetto riguarda in modo marginale le competenze della Provincia. Certo, su temi come quelli dell’autonomia del territorio e la difesa della terra mi sarei aspettato dalla Lega Nord, che governa da anni la Provincia, una posizione più in sintonia con il suo slogan “Padroni a casa nostra”».

C: «La prima è appiattita sulla posizione oltranzista del presidio antiamericano. Il sindaco continua a proclamarsi, a parole, amico dell’America, ma poi non perde occasione, nel concreto, di cavalcare la tigre dell’antiamericanismo a tutto spiano. La seconda ricerca il dialogo e le possibili sinergie ricavabili da questa vicenda».

Dossier: L’accordo per la realizzazione della nuova base risale al 2006. Dopo la breve esperienza del Governo Prodi, come si sta occupando della questione il nuovo Governo Berlusconi? V: «Tutti i governi che hanno trattato questa vicenda l’hanno fatto senza sforzarsi di ascoltare la città e capire le sue ragioni. Basta guardare una cartina per capire che la scelta del Dal Molin è sbagliata e che altre scelte potevano conciliare la ragion di Stato e quella locale. Purtroppo, Roma è lontana. Anzi, lontanissima».

C: «Va ricordato che è stato Romano Prodi a dare il primo ok alla Base 2 americana. Ora il governo segue la questione tramite il commissario Paolo Costa, nominato proprio da Prodi e confermato da Berlusconi pur essendo un esponente della sinistra. A Costa vanno riconosciuti equilibrio, correttezza, intelligenza e anche tanta pazienza».

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Dal 2007 la missione Unifil è sotto il comando italiano agli ordini del generale di divisione Claudio Graziano. Lo scopo di Unifil è il mantenimento della pace e del cessate il fuoco nel sud del Libano: tra il fiume Litani e la blue line. Quella stessa regione che nel 2006 fu teatro di una sanguinosa guerra tra le milizie sciite Hezbollah e l’esercito israeliano


54 REPORTAGE Il Libano verso la pace

Una scommessa ancora aperta Blue line. Linea armistiziale che lo Stato di Israele ha costituito dopo la guerra del 2006. Tra questa linea immaginaria e la “technical fence” dello Stato ebraico si gioca la partita della pace. In questa zona i nostri soldati si guardano fisso nelle pupille dei militari israeliani per il mantenimento del cessate il fuoco a cura dell’inviato Federico Massari rago uno a drago due zero. Mi senti drago due zero? Affermativo». Quell’instancabile ritornello che, come una vecchia canzone, fluisce dalla radio del mezzo Unifil guidato dal contingente italiano della Brigata Ariete, fa spesso da sottofondo durante gli spostamenti di routine tra le impolverate strade del sud del Libano. Schierata agli ordini del generale di brigata Carmelo De Cicco, comandante del Sector West della missione Unifil nel quadro dell’operazione di peace-keeping Leonte 6, la Brigata Ariete opera per il rispetto della risoluzione Onu 17-01 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Missione che svolge attività operative di controllo del territorio lungo la famosa “blue line”, e il fiume Litani (oltre il quale finisce la zona operativa di Unifil), monitorato dall’11° Reggimento Bersaglieri comandato dal Colonnello Fabio Polli. La risoluzione prevede che Unifil supporti le forze armate libanesi affinché nell’area di responsabilità e di operatività non vi sia la presenza di armi detenute in modo illegale.

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Alle forze armate libanesi compete la responsabilità di tale compito e, come tale, operano in stretto coordinamento con Unifil che interviene in loro sostegno dietro loro richiesta. All’Onu spetta il compito di segnalare eventuali problemi e rendere possibile l’intervento dei soldati libanesi. Lungo la linea blu, i Lancieri di Aosta, guidati dal comandante di reggimento Enzo Gasparini Casari, perlustrano un tratto di dodici chilometri del Sector West di Unifil. La linea non è un confine, ma un solco armistiziale che lo Stato di Israele ha costituito più o meno unilateralmente dopo il 2006, e che ricalca i vari confini che si sono realizzati a seguito delle guerre arabo-israeliane che hanno interessato l’area. Oggi si estende per cento chilometri, dal Mar Mediterraneo fino al Golan siriano, e assume consistenza sul terreno grazie a dei piloni di colore blu, chiamati border pillar. Al momento ce ne sono 198. La loro collocazione geografica è spesso oggetto di riunioni estenuanti che vengono svolte nel settore di competenza 1-32 alfa, in cui vi partecipano gli israeliani, i li-

banesi e il force commander di Unifil, il generale Claudio Graziano, in qualità di mediatore tra le parti. Dall’altra parte della barricata, gli israeliani monitorizzano la linea mediante telecamere e sensori della loro technical fence. Proprio qui un attacco da parte di miliziani Hezbollah a una pattuglia israeliana fu la scintilla che fece scatenare la guerra del 2006. Inoltre, l’esercito dello Stato ebraico, ha ritenuto fondamentale incrementare la propria sicurezza andando a realizzare un sistema di reti elettrificate sul quale sono montati sensori di pressione tarati a 5 kg e sensori sismici. È assolutamente vietato scattare fotografie. Al momento sono in atto attività particolari a ridosso della blue line. Un battaglione di ingegneri cinesi sta effettuando un’attività di sminamento, in modo da bonificare zone in cui verranno collocati altri border pillar già concordati tra i libanesi e gli israeliani. Anche se da due anni la situazione sembra apparentemente tranquilla, i nostri soldati non dovranno mai abbassare la guardia. La scommessa della pace è ancora aperta.


REPORTAGE

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Il generale Claudio Graziano, comandante di Unifil

Foto Media Combat Team: Capitano Federico Roberto Lozzi. Operatore, Giuseppe Liotta

Il nostro compito è mediare al tavolo del dialogo Dalla cessazione delle ostilità, grazie al dispiegamento delle forze Unifil la situazione nel sud del Libano sta costantemente migliorando. L’ultimo tassello alla definitiva proclamazione della pace sarà il cessate il fuoco definitivo. Il comandante di Unifil Claudio Graziano, si dichiara soddisfatto e traccia un bilancio a due anni di distanza dal suo mandato VENETO 2009 | DOSSIER


56 REPORTAGE Il Libano verso la pace

ultimo passaggio della missione Unifil nel Libano del sud sarà il cessate il fuoco permanente. Solo così la politica riuscirà a svilupparsi e la diplomazia potrà cominciare a dialogare». Queste parole intrise di fiducia e, allo stesso tempo, di speranza, fuoriescono direttamente dalla bocca del generale di divisione Claudio Graziano. Negli ultimi due anni, sotto la supervisione del force commander torinese, subentrato nel 2007 al generale francese Alain Pellegrini, nell’area di responsabilità Unifil non si sono più verificati incidenti significativi ma, soprattutto, sono stati impediti atti inclementi al mandato contenuto nella risoluzione 17-01. Risoluzione che prevede che Unifil supporti le forze armate libanesi (Laf ) affinché nell’area a sud del fiume Litani e a nord della famosa blue line, non vi sia la presenza di armi detenute in modo illegale. Ma non è finita. Alle forze Onu spetta anche l’importante compito di informare i soldati libanesi sui problemi di

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PER EFFETTO DELLA RISOLUZIONE 17-01 DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE, SI È COSTITUITO UN TAVOLO NEGOZIALE DENOMINATO TRIPARTITE MEETING, AL QUALE PARTECIPANO UFFICIALI ISRAELIANI, LIBANESI E DI UNIFIL PER DISCUTERE DEGLI ASPETTI TECNICI RELATIVI ALLA CORRETTA APPLICAZIONE DELLA RISOLUZIONE varia natura, in modo tale da rendere possibile un loro diretto intervento sul posto. «Le Laf – continua il generale Claudio Graziano – per 35 anni non hanno più solcato il suolo del Libano meridionale. Si tratta di una porzione di terra che è stata per decenni in mano a gruppi di milizie antagoniste. Adesso, grazie a Unifil, questa regione è ritornata sotto il controllo delle Laf. Per noi è un grande successo». Generale Graziano, come si possono tradurre i rapporti tra Unifil e la popolazione locale? «Il nostro rapporto con i civili è ottimo. Nell’ambito delle Nazioni Unite l’attenzione verso le popolazioni civili è molto diffuso. Nel senso che questa è una missione che anche strategicamente si basa

sul consenso della gente. Questo consenso si costruisce mediante attività di supporto umanitario e avendo relazioni con le municipalità locali. Ma c’è ancora del lavoro importante da svolgere. Nelle aree dove i combattimenti sono stati più copiosi esiste ancora molta diffidenza». Recentemente lei ha affermato che i libanesi e gli israeliani hanno raggiunto un dialogo grazie a voi. Come siete riusciti a mettere intorno a un tavolo nemici che non si parlano da decenni? «Essere riusciti a mettere intorno a un tavolo i libanesi con gli israeliani è uno dei più grandi successi della missione Unifil. I cosiddetti tripartite meeting sono incontri che avvengono a ridosso della blue


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Nella pagina accanto, attività di bonifica del territorio da ordigni inesplosi da parte del 10° Reggimento genio guastatori di Cremona, comandati dal colonnello Giuseppe Poccia. A destra, propaganda Hezbollah. Sotto, martiri Hezbollah caduti in guerra

line, nella base 1-32 Alfa del contingente italiano di Unifil. I rappresentanti dell’esercito libanese e i rappresentanti dell’esercito israeliano, attraverso la mediazione di Unifil, si confrontano su temi come, ad esempio, la sicurezza, edificando così quelle misure di confidenza reciproche che stanno alla base della diplomazia. Attualmente il clima è buono. Sono stati fatti dei passi positivi». Ci son voluti tre anni per ottenere dall’esercito israeliano le mappe delle zone in cui sono state utilizzate le famigerate cluster bomb (le bombe a grappolo, ndr), che hanno provocato disastri fra la popolazione civile. Verrebbe da dire “finalmente”, non trova? «Il fatto che abbiano rilasciato queste carte è un segno di buona volontà e di collaborazione reciproca. Noi dobbiamo sempre prendere atto dei risultati positivi, perché il compito di Unifil è risolvere problemi e non crearli. Adesso occorre verificare la veridicità dei dati in modo da bonificare il più in fretta possibile le aree interessate a favore della popolazione e del Libano. Dal punto di vista della sicurezza Unifil si sta comportando in maniera egregia e le Laf stanno acquisendo sempre di più una certa maturità». Non avete timore di eventuali attacchi al vostro comando? «Noi siamo dei professionisti e siamo consapevoli che potremmo essere soggetti ad attac-

chi. In passato abbiamo ricevuto minacce di qualsiasi tipo. Sicuramente sappiamo che nei campi profughi palestinesi presenti in Libano sono presenti dei gruppi estremisti di natura terroristica che operano contro la stabilità. Guai a non essere costantemente all’erta e vigili su queste eventualità». Si è sentito dire che, nel Libano meridionale, i problemi maggiori arrivano dai campi profughi palestinesi. Avete attività di controllo su queste zone? «Monitorare i movimenti che provengono dai campi profughi palestinesi non risiede nel nostro mandato. Anche le forze di polizia libanesi rimangono esterne a que-

sti campi. Si tratta di luoghi dove povertà e miseria la fanno da padrone. Posso comunque affermare che, potenzialmente, si tratta di zone di concentrazione di rischio. Nel Libano del sud sono presenti quasi 400mila palestinesi». Qual è il vostro rapporto con il partito Hezbollah? «Noi abbiamo esclusivamente rapporti con le istituzioni. Io non parlo con il partito Hezbollah semplicemente perché non è compito mio parlare con i partiti. Io dialogo con il presidente, il sindaco o il ministro. Se un ministro fosse di matrice Hezbollah, non avrei nessun problema a parlare con lui poiché si tratta di un ministro dello Stato».

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Nessuno potrà toglierci la nostra fede Meno di tre anni fa la stampa estera parlava di una Tiro esangue. Adesso l’ex città fenicia sta tornando a uno stato di normalità. In una sala del comune abbiamo incontrato il sindaco Abdel Muhsen Husseini, che ci ha parlato di come la sua città abbia affrontato la guerra dei 34 giorni eguendo la sottile linea di pensiero del sindaco della città di Tiro, Abdel Muhsen Husseini appena terminata la guerra del-

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l’estate del 2006 tra Israele e le milizie sciite di Hezbollah «era normale da parte della stampa estera parlare di una Tiro esangue». Settantaquattro anni, alto

non più di un metro e cinquanta ed ex coltivatore di banane, tre anni fa il suo volto scavato fece il giro del mondo. A un cronista della Cnn che gli


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Nella pagina accanto il sindaco di Tiro, Abdel Muhsen Husseini. In questa pagina, ricostruzione della città e segni di devastazione provocati dalla guerra del 2006

chiedeva insistentemente un parere sulla guerra in atto, lui ironicamente rispose: «Può dire a Bush, da parte mia, che le armi che ha procurato agli israeliani sono molto efficienti. Ringraziatelo e ditegli che adesso potrà passare delle notti serene». Ma non è finita. Il sindaco Husseini non è certo il tipo che la manda a dire. E così rincara la dose. «Voi Stati Uniti – continua – potete bombardare tutto, uccidere tutti quanti, ma la nostra fede non ce la potete levare nemmeno con tutte le armi che avete a disposizione». Alla domanda: qual è la strada per arrivare alla pace definitiva? Husseini ha risposto: «L’attuale governo israeliano non vuole la pace. Gli israeliani si devono mettere in testa che il popolo palestinese

esiste e possiede dei diritti. E inoltre devono capire che le risoluzioni dell’Onu vanno rispettate». Per quanto concerne la situazione attuale del suo Paese, Husseini usa una metafora molto calzante: «La salute del Libano è come la salute di un bambino: un giorno si sente male con la febbre, mentre il giorno successivo si riprende e torna a giocare felicemente. Grazie all’aiuto dei fratelli italiani, il nostro sorriso sta tornando a farsi vedere». Come ha affrontato la città di Tiro la guerra del 2006? «Alle 11.30 del 12 giugno 2006 gli aerei israeliani bombardarono tutti i ponti che collegano il sud del Libano con il resto del Paese. Questo attacco era premeditato, faceva parte di un piano ben preciso. Quando i

miei collaboratori mi informarono che Israele aveva cominciato a bombardare e che i ponti erano andati distrutti, non ci volevo credere. Così andai a vedere con i miei stessi occhi e mi resi conto che eravamo entrati in guerra e bisognava sin da subito darsi da fare: a cominciare dai viveri e dai beni di prima necessità. Ma era difficile perché dopo la rottura dei ponti non riuscivamo a ricevere aiuti dal resto del Paese. Eravamo letteralmente tagliati fuori. La mattina del 13 giugno, 23 persone residenti in un paese vicino a Tiro sono state uccise a causa di un bombardamento aereo. Questa fu la strategia degli israeliani: colpire i civili in modo tale che questi avrebbero lasciato le zone teatro delle operazioni di guerra». VENETO 2009 | DOSSIER


60 REPORTAGE Il Libano verso la pace

Quante persone sono cadute durante questo conflitto? «È triste parlare di numeri adesso. Ma le posso dire che assieme a mio figlio Mohammed, dopo qualche ora dall’inizio delle ostilità passai all’ospedale e vidi che le celle frigorifere erano già piene di cadaveri. Così feci il giro di tutti gli altri ospedali e anche lì le celle erano piene. Ma i morti continuavano ad arrivare a decine. Allora mi rivolsi al macello comunale. Il macello possiede un camion frigorifero e lo portammo nei pressi dell’ospedale governativo. Nel giro di poche ore anche il camion si saturò di DOSSIER | VENETO 2009

morti. A questo punto mi feci mandare altri tir forniti di celle frigorifere, e andammo a recuperare i cadaveri sparsi negli altri villaggi in prossimità di Tiro. Dopodiché feci scavare una grande fossa comune. Le bare di legno le dovemmo pagare di tasca nostra perché eravamo completamente tagliati fuori da Beirut e dal governo centrale. Alcuni corpi erano talmente dilaniati che non si riuscivano a riconosce. Riempire le celle e svuotarle nelle fosse era diventato purtroppo un gesto quotidiano. Quando gli israeliani se ne andarono come ricordo ci lasciarono le cluster bomb sparse per tutto

il territorio. Bombe che tuttora provocano disastri tra i civili». Come si è evoluta la città grazie all’intervento delle truppe internazionali? «In questo momento accantonerei l’argomento sviluppo. Tengo solo a sottolineare che la città di Tiro è tornata a essere un luogo tranquillo e sicuro. Questa tranquillità deriva dalla presenza di Unifil. Questi fattori, sommati, portano allo sviluppo. Io considero questi ragazzi del contingente italiano come dei figli. Hanno sempre portato un grande rispetto alla città di Tiro, e mi hanno sempre considerato come un padre».


REPORTAGE

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L’arma migliore è quella del cuore Unifil ha davanti a sé ancora un lungo cammino. Ma grazie alla professionalità e alla sensibilità del contingente italiano, saprà far fronte a tutte le difficoltà per garantire la stabilizzazione del sud del Libano. Come spiega, dalla base italiana di Tibnin, il colonnello Giuseppe Perrone

Colonnello Giuseppe Perrone Foto: Sergente Alberto Bruno VENETO 2009 | DOSSIER


62 REPORTAGE Il Libano verso la pace

l passaggio dei mezzi Unifil, gruppi di ragazzini dalle gote rubiconde accorrono fuori dalle loro abitazioni per inviare baci ai nostri soldati impegnati nel sud del Libano. Tutti i giorni,

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verso le 17, facendo ritorno nella base di Tibnin, una ragazzina che abita di fronte alla base del contingente cinese al nostro transito stende sulla strada una lunga scia di petali di rosa. Fra il poderoso frastuono emesso dal motore del

Il Tenente Luigi Torres

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mezzo Unifil, una flebile vocina che si ode in lontananza scandisce un commuovente: «Ciao belli, vi amo!». Questo è il popolo libanese. Un popolo che fino a tre anni fa era funestato dalla guerra. La sensibilità dei soldati italiani durante le missioni di pace è riconosciuta in tutto il mondo. Il desiderio comune di mettere al bando la guerra, per costruire un mondo basato sulla pace e la non violenza, fa parte del nostro Dna. «Unifil ha sempre avuto ottimi rapporti con la popolazione libanese, anche in periodi in cui, per fragilità di mandato e carenza di forze, la nostra presenza si traduceva in una dimensione quasi simbolica», afferma il colonnello Giuseppe Perrone della brigata Ariete, uomo che si è sempre distinto per il suo comportamento impeccabile e per la sua professionalità. «Il Paese dei cedri – continua – non fa altro che ringraziare gli italiani per quello che stanno facendo». Quanto ha contribuito il supporto del contingente italiano per far sì che il Libano tornasse a sorridere dopo la guerra del 2006? «L’apporto di Unifil è stato eccezionale. Basti pensare che da circa tre anni, al di là di piccoli incidenti che si sono verificati, la popolazione locale ha vissuto perennemente in un clima di grande serenità. La pace ha permesso loro di implementare quelle attività produttive che, per molto tempo, sono sparite a causa di uno stato di guerra più o meno latente. In questo contesto la presenza dei soldati italiani ha dato un valore aggiunto alla missione Unifil. Questo si è potuto verificare grazie alla tipica sensibilità e professionalità che il popolo italiano possiede e utilizza ogni volta che


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CHIAMATECI SEMPLICEMENTE SOLDATI Nel contingente italiano a Tibnin, un gruppo di donne soldato porta avanti con fierezza l’orgoglio del gentil sesso. Tra la volontà di non essere discriminate e l’iniziale diffidenza degli uomini Oggi le donne nelle Forze Armate sono divenute una vera e propria realtà. Sembrano passati secoli da quel primo esperimento del 1992 quando un gruppo di 29 ragazze furono accolte dall’Esercito presso la caserma Lancieri di Montebello a Roma. Per comprendere meglio la condizione della donna nella veste di soldato, abbiamo chiesto il perché di questa scelta, ad alcune soldatesse che fanno parte del contingente italiano della base di Tibnin, in Libano. Lorena D’ambrosio, attribuisce la sua scelta «alla voglia di fare qualcosa di diverso, che non avessero fatto tante altre donne, e alla voglia di indossare la divisa: personalmente ho sempre collegato l’uniforme a una personalità leale». Mentre la sua collega, il tenente Annachiara Rametta, ammette di aver dovuto rinunciare a qualcosa per riuscire a indossare la tanto agognata divisa militare: «diciamo che ho fatto molte rinunce, ma alla stesso tempo ho fatto più

esperienze rispetto a tutte le mie coetanee. Questo lavoro mi ha dato la possibilità di viaggiare tanto e di conoscere gente. Bisogna avere un carattere un po’ particolare per intraprendere questa vita, perché si tratta di una scelta difficile, soprattutto per noi donne». Altro motivo di curiosità è il discorso legato agli uomini al di fuori del circuito militare. Secondo le ragazze del contingente italiano, spesso e volentieri, gli uomini che non fanno parte dell’Esercito, all’inizio rimangono un po’ spiazzati quando vengono a conoscenza del loro lavoro. «Diciamo che per i ragazzi l’impatto è forte – spiega sorridendo il tenente Annachiara Rametta –. La maggior parte delle soldatesse finiscono spesso, se non sempre, per sposare i colleghi militari. Gli uomini che non conducono una vita militare si pongono tanti dubbi sul nostro lavoro». Mentre per quanto concerne il rapporto tra le donne soldato e i colleghi maschi, Lorena D’Ambrosio,

deve scendere in campo per il mantenimento la pace. La vittoria del contingente italiano è stata quella di essere riuscito a far ragionare le parti, trovando soluzioni gradite sia al Libano che a Israele». Che cosa differenzia il soldato italiano rispetto ai militari di altre nazioni? «In un contesto di questo tipo fare differenze potrebbe risultare fuorviante. Ribadisco che il militare italiano possiede una sensibilità e un approccio a questa tipologia di missione che fa storia a sé. Il militare italiano non è mai invadente

Alcune soldatesse del contingente italiano a Tibnin. Foto del sergente Alberto Bruno

senza usare mezzi termini, spiega che «con i colleghi c’è qualche diffidenza iniziale, superata la quale, i rapporti si normalizzano esattamente come accade in qualsiasi azienda dove uomini e donne lavorano a

ed è rispettoso delle popolazioni e delle culture locali». Qual è il rapporto del contingente italiano con i contingenti stranieri presenti nel sud del Libano? «Si tratta di un ottimo rapporto e di reciproca stima. Tra i vari contingenti esiste la consapevolezza di compiere una missione ad appannaggio di una causa che possiede un valore etico e morale molto elevato». Qual è invece il vostro rapporto con le municipalità presenti nella vostra area operativa?

stretto contatto. Quando c’è serietà e professionalità non esiste distinzione di sesso. Se una persona riesce a dare esempio di bravura e coerenza, sarà presa come punto di riferimento. Indipendentemente dal sesso».

«Le municipalità presenti nell’area sono 107. Si tratta di un numero importante. Con tutti abbiamo rapporti di collaborazione molto proficui, in modo da riuscire a portare avanti al meglio discorsi sullo sviluppo, la società e l’economia. Molto spesso ci consultiamo con i sindaci. I sindaci dei paesi presenti nella nostra area operativa, sono sempre molto attenti alle nostre iniziative, per far sì che i progetti che il contingente italiano porta avanti siano funzionali allo sviluppo sociale e culturale delle loro comunità».

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Giancarlo Elia Valori

Il mare nostrum tra rischi e opportunità Una volta passato lo shock dei mercati, si apriranno nuovi scenari economici e si ristabiliranno gli equilibri geopolitici internazionali. Giancarlo Elia Valori analizza le possibilità di sviluppo dell’Italia e dell’intera area mediterranea di Andrea Pietrobelli

Giancarlo Elia Valori, presidente di Sviluppo Lazio, docente universitario, manager ed economista di respiro internazionale

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a crisi finanziaria ed economica, un virus scoppiato negli Stati Uniti e diffusosi nel resto del mondo, non ha lasciato e non lascerà indenni gli equilibri geopolitici. La burrasca aprirà, infatti, nuovi scenari. «A meno di shock finanziari gravi e imprevedibili – precisa Giancarlo Elia Valori, docente universitario e manager – potremo assistere a una recessione visibile ma non eccezionale per gli Usa, una diminuzione della crescita del Pil nell’Eurozona, che potrebbe essere meno dura di quella Usa ma sarà più difficile da scrollarsi di dosso quando il ciclo economico e finanziario globale ritornerà a correre verso l’alto». Quali saranno invece i mutamenti di carattere geopolitico? «In termini geopolitici, che for-

niscono una prospettiva unica per leggere i fenomeni macroeconomici, la crisi attuale ci porterà a una nuova distribuzione dei potenziali globali: la Cina, se sarà interessata ad avere una relazione privilegiata con gli Usa, e lo sarà, continuerà ad acquisire titoli di Stato Usa e a detenere grandi riserve di dollari, ma userà questi o quelli per regolare da lontano i mercati americani e i tempi di penetrazione cinese in Ue e nei mercati periferici, nei quali il Paese del Dragone diverrà leader mondiale prima e meglio di Usa e Ue». Un altro protagonista dello scacchiere internazionale sarà la Russia. «La Russia stabilizzerà il suo potere sul proprio “estero vicino”, innescando una “relazione speciale”, via Shangai cooperation


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«IL MEDITERRANEO NON È SOLO RADICE DI CIVILTÀ E SFIDA PER IL DIALOGO, MA LUOGO DELL’ANIMA E DEL COMMERCIO»

organization, con l’India e i Paesi del Medio Oriente. Se ci sarà un broker finale delle tensioni occidentali con l’Iran, questo sarà la Russia. Si acutizzerà la creazione di liquidità fuori dall’area Ue e Usa e quindi questo, almeno per quanto riguarda le normative sulla concorrenza e il diritto delle imprese, genererà ibridi tecnici e giuridici sui quali sarà difficile intervenire con quella chiarezza che è tipica degli eredi del diritto romano o della “equità” di tradizione aristotelica». L’Europa sarà in grado di affermarsi e di parlare con una voce sola? «Certamente. L’Ue sarà in grado di parlare con una sola voce sia per esercitare una leadership regionale, sia per competere con quella globale su alcune materie come il riscaldamento climatico,

la riforma del sistema finanziario mondiale e i negoziati sul commercio internazionale. Senza tralasciare però l’importante capitolo delle politiche di sicurezza, soprattutto in Medio Oriente, dove occorre guardare non solo ai Paesi ricchi di riserve energetiche e finanziarie del Golfo, ma alla costruzione di nuovi equilibri di potere regionale che garantiscano la sicurezza di Israele, frenino l’Iran e permettano di stabilizzare sia l’Iraq che l’Afghanistan». E l’Italia, in questo momento cruciale, quali rischi corre e quali opportunità non deve assolutamente lasciarsi scappare? «L’Italia potrà uscire da una crisi che a tutt’oggi ha provocato la chiusura di oltre 300mila aziende, curando però le aree in cui opera con maggiore atten-

zione, con strutture di securizzazione degli investimenti più aggiornate, nonché con un rapporto di maggiore integrazione tra economia e politica e tra economia e cultura. Per il nostro Paese questo vuol dire un’espansione ragionevole nel suo bacino naturale, il Mediterraneo, e una nuova geoeconomia diretta all’automatizzazione e al controllo nazionale dei meccanismi di contatto tra flussi globali e di sistema delle imprese, sia grandi che piccole e medie». Lei sottolinea da sempre l’importanza strategica dell’area del Mediterraneo. Però il nostro Paese, nonostante sia “la portaerei del Mare Nostrum”, risulta ancora tra le nazioni europee meno competitive in questa sfida. Come si giustifica questo ritardo? VENETO 2009 | DOSSIER


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Giancarlo Elia Valori

«L’ITALIA POTRÀ USCIRE DA UNA CRISI CHE A TUTT’OGGI HA PROVOCATO LA CHIUSURA DI OLTRE 300MILA AZIENDE, CURANDO PERÒ LE AREE IN CUI OPERA CON MAGGIORE ATTENZIONE»

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«Perché non è stata ancora ben compresa l’importanza geoeconomica e geopolitica del Mediterraneo, che oggi ha riacquistato la sua centralità nello scenario internazionale del commercio. In tale contesto, il nostro territorio si colloca al centro geografico dell’area mediterranea che, per la prima volta dalla scoperta dell’America, è ritornata ad essere snodo fondamentale nei flussi tra l’Europa e il Far East nonché porta d’accesso del Sud verso l’Atlantico». Come giudica i recenti sviluppi dell’Unione del Mediterraneo? «La macrodinamica che ho ricordato ha innescato un fiorire di iniziative di carattere politico. Tra cui il summit dello scorso anno al Grand Palais di Parigi che ha offerto nuovi sviluppi nel-

l’area del Mare Nostrum, la cui instabilità politica ha causato il fallimento del Processo di Barcellona e la nascita dell’Unione per il Mediterraneo. L’Upm, in un momento storico dello scenario diplomatico mondiale, ha dato impulso all’avvio di politiche per la risoluzione dei rapporti arabo-israeliani, gettando le basi per la strada del dialogo e confronto tra Israele, l’Autorità Palestinese e la Siria. Altro mutamento positivo potrebbe registrarsi nell’area del Nord Africa, il cui equilibrio era stato compromesso dalla tensione tra Marocco e Algeria per la questione del Sahara Occidentale. Ma la partecipazione del presidente algerino a Parigi è la dimostrazione di una volontà reciproca di giungere a un compromesso. Ottimi-


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Nella pagina a fianco Giancarlo Elia Valori in compagnia di Shimon Peres; a sinistra il premier Silvio Berlusconi accoglie Gheddafi durante la sua visita ufficiale a Roma

smo dunque nell’iniziativa francese, che rappresenta sicuramente una tappa fondamentale di un lungo cammino di cooperazione nell’area mediterranea». Il recente accordo con la Libia può essere considerato come uno dei primi passi del nostro Paese oppure un’operazione dal valore prettamente simbolico? «Può essere considerato un accordo importante perché, a seguito delle scuse ufficiali per le vicende del passato coloniale, della restituzione della Venere di Cirene e del pagamento di cinque miliardi di euro in compensazioni, l’Italia beneficerà di una ricaduta diretta sulle intese commerciali nel settore degli idrocarburi. E, in tale quadro, l’Eni ha rinegoziato i sei contratti di esplorazione ed estrazione con la

compagnia nazionale di Tripoli ottenendo un allungamento della concessione al 2042 per il petrolio e al 2047 per il gas». Da anni si assiste anche a una frattura tra la cultura araba islamica e quella occidentale. Lo sviluppo di un progetto per un’area di libero scambio nel Mediterraneo potrebbe aiutare a riportare il dialogo tra questi due fronti? «Certamente, perché il Mediterraneo non è solo radice di civiltà e sfida per il dialogo, ma luogo dell’anima e del commercio. Ritengo quindi determinante il ruolo dell’Europa e delle sue istituzioni comunitarie, che devono prendere maggiore consapevolezza che sui confini meridionali esiste un mondo che non ha trovato e non riesce a scorgere la

strada della sicurezza e del benessere economico, per cui è necessario che l’Ue mobiliti le sue risorse per aiutare a costruire il riscatto dei Paesi della riva sud ed est del Mediterraneo, che sono avvolti dalla spirale della povertà, della violenza, dei conflitti, senza vie d’uscita e con ripercussioni sulla stabilità generale dell’area. L’estensione di questo progetto può rappresentare uno strumento straordinario sia per prosciugare l’acqua dove il pesce del terrorismo integralista trova lo spazio per prosperare, sia per sviluppare una strategia univoca di crescita economica e sociale fondata su una cooperazione che abbia al centro il rafforzamento dei legami storici, ambientali e culturali fra i popoli dell’area euro mediterranea».

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Lorenzo Bini Smaghi

Il sistema funziona se sa guardare lontano «Quando i rischi sono eccessivi, i costi vengono poi pagati nel tempo, e non necessariamente da chi ha commesso gli errori di valutazione». In sintesi, è questa l’analisi di Lorenzo Bini Smaghi su quanto è successo dallo scorso settembre a oggi all’economia mondiale. L’obiettivo, secondo l’economista fiorentino e membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, è prevenire l’instabilità finanziaria e adottare regole chiare e condivise di Concetta S. Gaggiano

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economia mondiale potrebbe iniziare a crescere tra la fine di quest’anno e la metà del prossimo. Dopo i bollettini poco entusiasmanti degli ultimi mesi, si intravede la strada di là dal tunnel. A confermarlo sono in molti tra economisti e addetti ai lavori, ma adesso ciò che occorre rimettere in piedi è la fiducia dei cittadini, negli investimenti e nel sistema finanziario tutto. «Ci vorrà meno debito, più capitale e maggior prudenza nella valutazione del rischio» spiega Lorenzo Bini Smaghi, il rappresentante italiano nel board della Bce. L’economista sprona i governi di tutto il mondo ad agire in stretta collaborazione per avviarsi verso una fase di maggiore regolamentazione e trasparenza. E avverte: «ci vuole più indipendenza della politica dalla finanza». Le parole di Bini Smaghi arrivano proprio quando la Bce emette il consueto bollettino mensile con le stime economiche dell’Eurozona. Il Pil dell’area euro, si legge nel bollettino, dovrebbe essere soggetto a una contrazione tra il 5,1% e il 4,1% nel 2009, e potrebbe crescere nuovamente nel 2010, anno in cui la variazione dovrebbe attestarsi tra il -1% e il +0,4%. Questo decremento, fanno sapere da Francoforte, riflette la flessione delle esportazioni derivante dal crollo del commercio mondiale. Guardiamo al futuro: quando torneremo alla normalità e

come sarà questa normalità? «La normalità non potrà essere simile alla situazione prima della crisi, altrimenti ci sarebbe il rischio di ricaderci. Dipenderà dall’incisività delle riforme che stiamo attuando e dalle lezioni che gli operatori, i risparmiatori, le autorità e gli esponenti politici sapranno trarre dalla crisi che stiamo attraversando». In questi mesi abbiamo assistito a mercati internazionali scossi che hanno messo in evidenza gli effetti di una finanza incontrollabile e incontrollata. Quale dovrebbe essere il suo ruolo nell’economia? E qual è stato finora? «La finanza deve creare strumenti che favoriscano l’allocazione del risparmio verso gli investimenti più adeguati. In effetti, lo sviluppo degli strumenti derivati aveva questo obiettivo, perché consentiva di ridurre il rischio di un investimento. Il problema è che questi strumenti si sono sviluppati in modo tale da diventare molto complessi, non solo per l’investitore stesso ma anche per l’autorità di vigilanza. Il prezzo di questi titoli era elaborato in base a modelli non trasparenti e quando è scoppiata la crisi si è persa la fiducia verso l’intero sistema. Nessuno era in grado di sapere effettivamente quanto valeva il titolo in suo possesso e che rischio rappresentava». Recentemente ha affermato che per poter perseguire l’obiet-


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Lorenzo Bini Smaghi

Lorenzo Bini Smaghi dal giugno 2005 è membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Nella foto, Bini Smaghi con Jean-Claude Trichet, attuale presidente della Banca centrale europea

tivo della stabilità finanziaria una banca centrale deve avere gli strumenti adeguati. Quali sono questi strumenti? «Per poter prevenire l’instabilità finanziaria, una banca centrale deve poter agire direttamente sulla capacità degli operatori di prendere rischi, in particolare attraverso l’indebitamento. Deve innanzitutto avere le informazioni disponibili per individuare e monitorare i rischi che prendono le istituzioni finanziarie, soprattutto quelle di dimensioni sistemiche, e individuare eventuali criticità. Deve poi disporre di strumenti che le consentano di influire sui comportamenti delle istituzioni finanziarie, emanando regolamenti o direttive indirizzate agli intermediari. Un esempio è l’adeguamento dei coefficienti patrimoniali in funzione del ciclo economico oppure la gestione della liquidità, per far fronte a eventuali restrizioni». Etica e finanza: due mondi spesso considerati lontani, a volte in antitesi. Eppure mai come in questi mesi il bisogno di accordare valori morali e interessi economici risulta indispensabile. Qual è l’antidoto etico alla degenerazione del mercato? «La finanza può creare opportunità di ampi guadagni di breve periodo. Quando i rischi sono eccessivi, i costi vengono poi pagati nel tempo, e non necessariamente da chi ha commesso gli errori di valutazione. Per evitare che ciò avvenga è necessario che gli interessi generali di medio-lungo periodo prevalgano sugli incentivi individuali di breve. Per questo ci deve essere una regolamentazione efficace, soprattutto nel settore finanziario che è più soggetto a contagio e all’instabilità. Ci vogliono anche delle pene sicure per chi DOSSIER | VENETO 2009

non rispetta la regolamentazione, e un sistema di vigilanza e supervisione efficace. Negli anni passati la tendenza è stata invece quella di creare pressioni sulle autorità politiche per ridurre questi strumenti, al fine di consentire all’innovazione finanziaria di generare vantaggi diffusi di breve periodo. Il risultato è stata una sottovalutazione dei rischi da parte di molti». Quali insegnamenti si possono trarre da questa pagina nera dell’economia mondiale e come si potrà intervenire in futuro per evitare il ripetersi di tale situazione? «Gli insegnamenti sono molteplici. Innanzitutto, che a fronte di un rendimento più elevato c’è un rischio più alto. Questo vale anche per le banche o gli investitori che realizzano utili sistematicamente più alti. Significa che hanno preso più rischi e vanno dunque vigilati con attenzione. Un altro insegnamento è che la finanza muove enormi risorse, utilizzate anche per fare lobbying nei confronti delle

autorità pubbliche al fine di ridurre il livello di regolamentazione e consentire loro di avere più margini di manovra. La politica ha bisogno di più indipendenza dalla finanza. Un terzo aspetto riguarda la concorrenza fra sistemi finanziari, che spinge a ridurre il livello di regolamentazione al fine di attrarre investitori. La concorrenza nel mondo della finanza comporta dunque un elemento di instabilità, che quando si verifica produce effetti sistemici, data l’elevata integrazione tra i mercati a livello globale. Per far fronte a tale instabilità ci vuole più cooperazione a livello mondiale, ma non è facile perché significa rinunciare alla sovranità». La crisi è profonda e nasce da lontano, ma è anche una crisi sociale. Il sistema finanziario globale va riformulato? «È desiderabile una maggiore cooperazione a livello globale, per evitare la concorrenza regolamentare al ribasso, che riduce i requisiti per gli operatori finanziari. Non è facile, come indicavo sopra, ma


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«LA NORMALITÀ NON POTRÀ ESSERE SIMILE ALLA SITUAZIONE PRIMA DELLA CRISI, ALTRIMENTI CI SAREBBE IL RISCHIO DI RICADERCI. DIPENDERÀ DALL’INCISIVITÀ DELLE RIFORME CHE STIAMO ATTUANDO»

bisogna muovere in questa direzione. A livello globale è stato rafforzato il Financial stability board, che dovrà lavorare in sintonia con il Fondo monetario internazionale. In Europa si stanno riformando i meccanismi di coordinamento tra le autorità di vigilanza nazionali. Non è però chiaro se queste iniziative siano abbastanza coraggiose da produrre effettivamente un sistema regolamentare e di vigilanza efficace. La discussione non è ancora chiusa». Come e cosa regolamentare? «La regolamentazione deve essere efficace, soprattutto a fronte dell’innovazione finanziaria. Quando sono stati inventati i derivati sul credito, i regolatori non ne hanno capito il rischio e non hanno vo-

luto regolamentarli, anche sotto la pressione delle istituzioni finanziarie. La regolamentazione deve dunque essere più flessibile e reattiva, anche nei confronti dei nuovi soggetti, come hedge fund, private equity e banche d’investimento». L’integrazione dei mercati, il coordinamento delle politiche pubbliche, la parità di trattamento per tutte le realtà economiche continentali, sono i principi sui quali l’Europa ha eretto il suo passato. C’è ancora questo nel futuro? «Quando scoppia una crisi è forte la tentazione di ripiegarsi su se stessi e di difendere solo i mercati e le istituzioni nazionali. È una forma di protezionismo, che però

riduce il mercato potenziale nel momento della ripresa economica e dunque alla lunga danneggia. Fortunatamente abbiamo in Europa delle istituzioni che si occupano della tutela della concorrenza e dei consumatori. Bisogna rafforzare queste istituzioni, perché solo così riusciremo a salvaguardare un mercato integrato che è all’origine del benessere europeo». I momenti di difficoltà sono l’occasione giusta per ampliare lo sguardo. Quanto ci riescono le classi dirigenti? «Non è facile, perché la politica ha bisogno del consenso di breve periodo, legato anche alle scadenze elettorali. Ci vuole leadership per convincere i cittadini che alcune soluzioni sembrano avere dei vantaggi immediati ma che poi si pagano. Per questo è necessario darsi regole o istituzioni indipendenti, meno legate alle scadenze elettorali, come la Banca centrale europea, che può fare una politica monetaria di lungo respiro».

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Borsa italiana


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Siamo una garanzia per il Paese Un’intensa attività di sviluppo. Che ha portato la Borsa italiana a diventare un gruppo di sette società. E che con l’integrazione del 2007 con London Stock Exchange ha dato vita al più grande mercato borsistico europeo. Successi questi che fanno guardare al futuro con ottimismo, come spiega l’ad di Borsa italiana Massimo Capuano di Marilena Spataro

anno scorso la Borsa italiana ha celebrato due anniversari importanti: il bicentenario della nascita e i primi 10 anni di privatizzazione. Anni, questi ultimi, durante i quali sono state ammesse 236 società, di cui 193 a seguito di operazioni precedute da offerta di azioni. Inoltre gli scambi medi giornalieri sono passati da 700 milioni di euro del 97 agli oltre 6 miliardi di euro del 2007. Quanto poi agli indicatori di liquidità, questi oggi sono tra i più alti d’Europa. «Si tratta di un risultato di grande soddisfazione tenuto conto che i titoli quotati a Milano sono poco più di 300, ancora troppo pochi considerato il potenziale economico del Paese» spiega Massimo Capuano, amministratore delegato di Borsa italiana, commentando questi dati. E qui illustra strategie e politiche dell’importante istituzione finanziaria da lui guidata. Quali le direttrici strategiche

attraverso cui si è sviluppato il gruppo Borsa italiana? «La società si è strutturata fino a diventare un gruppo composto da sette diverse realtà, ognuna con il proprio ruolo nella filiera del mercato finanziario. L’integrazione con London Stock Exchange, operativa dall’ottobre 2007, rappresenta il coronamento di questi anni di intensa

Massimo Capuano è l’amministratore delegato di Borsa italiana

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Borsa italiana

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A destra e nella pagina a fianco Palazzo Mezzanotte in Piazza Affari a Milano conosciuto anche come Palazzo delle Borse. Il palazzo fu costruito dall'architetto Paolo Mezzanotte con l'intento di unificare tutte i luoghi di attività borsistiche milanesi nel 1932 e da allora ospita la sede della Borsa di Milano

attività di sviluppo». Quali sono i benefici che l’integrazione tra Borsa italiana e London Stock Exchange sta producendo e produrrà alle società quotate e agli azionisti? «L’integrazione ha creato il più grande mercato borsistico europeo. Dal mese di giugno di quest’anno tutte le negoziazioni di azioni, Eft, certificati, covered warrant e obbligazioni sono migrate sulla piattaforma TradElect, dove vengono scambiati anche i titoli delle società quotate al London Stock Exchange. Grazie a questa piattaforma comune è oggi più facile per gli investitori internazionali investire nelle imprese italiane che hanno così accesso al più grande pool di liquidità europeo. Il vantaggio si tradurrà in minori costi per la capitalizzazione delle aziende italiane quotate: in questo periodo è un’ottima opportunità. Sempre dall’inizio di giugno sono stati introdotti i nuovi indici Ftse Italia, che permetteranno di migliorare

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ulteriormente la visibilità dei mercati italiani a livello internazionale. La nascita dell’Aim Italia è uno dei più importanti successi dell’integrazione con il London Stock Exchange e completa l’offerta di Borsa italiana per le piccole e medie imprese che rappresentano la struttura portante dell’economia del nostro Paese. È stato espressamente studiato per meglio soddisfare la necessità di raccolta di capitale da parte delle società e offrire agli investitori una nuova opportunità di investimento. Aim Italia si contraddistingue per il suo approccio regolamentare equilibrato, per un’elevata visibilità a livello internazionale e per un processo di ammissione veloce e poco burocratico. È un mercato costruito su misura per le necessità di finanziamento delle Pmi italiane nel contesto competitivo globale». Cosa pensa del livello di educazione finanziaria in Italia e cosa fa Borsa italiana su questo

tema? «L’educazione finanziaria in Italia può essere sicuramente migliorata e Borsa italiana è molto sensibile e attiva su questo tema. All’inizio del 2000 è nata Academy, una vera e propria corporate university, che attraverso i suoi numerosi corsi, che nel solo 2008 hanno interessato quasi 2.000 allievi, ha l’obiettivo di anticipare e interpretare le evoluzioni dei mercati finanziari. Inoltre, siamo impegnati nell’informazione su tutti i prodotti quotati; la divulgazione delle notizie è gestita attraverso il nostro sito Internet. La società poi organizza la Trading online expo, che è diventata negli anni un’occasione di incontro per i trader professionali e per i piccoli investitori che possono così aggiornarsi e partecipare a corsi gratuiti tenuti da analisti, esperti finanziari ed esponenti del mondo universitario. Un altro aspetto delle attività di education è la costante formazione sulla quotazione in borsa. La quota-


«AL MOMENTO DI CRISI DEI LISTINI, L’EVENTUALE CHIUSURA DELLE BORSE AVREBBE PROVOCATO UN’ULTERIORE DIMINUZIONE DELLA LIQUIDITÀ, TOGLIENDO AL MERCATO TRASPARENZA ED EFFICIENZA»

zione è infatti riconosciuta come sinonimo di crescita, competitività, salute e dinamicità del sistema economico finanziario e del tessuto industriale. A questo scopo, Borsa italiana organizza da diversi anni eventi sul territorio per sensibilizzare le imprese sul ricorso al capitale di rischio e, in particolare , sulla possibilità di quotarsi in borsa. Infine, stiamo anche portando avanti una serie di accordi con associazioni di categoria come Andaf, Associazione nazionale direttori amministrativi e finanziari, Aifi, l’Associazione italiana dei private equity e venture capital e recentemente con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti». In questo particolare momento di crisi dei listini, qual è stato il ruolo dei mercati regolamentati? «Le Borse insieme alle Banche centrali hanno garantito liquidità al sistema finanziario. I mercati regolamentati hanno contribuito a fornire liquidità attraverso il

collaudato modello basato su sistemi di garanzia in grado di assumersi il rischio di controparte. Invece, la chiusura delle Borse avrebbe provocato un’ulteriore diminuzione della liquidità, togliendo al mercato trasparenza ed efficienza». Dalla sua posizione di osservatore privilegiato, come usciranno le borse da questa situazione? «Sono certo che l’exchange industry nel suo complesso uscirà più forte di prima da questo difficile momento. Sono anche convinto che le Borse potranno svolgere il loro compito per rafforzare il patrimonio delle imprese che necessitano di investire e di diversificare le proprie fonti di finanziamento. Il mercato azionario, con la quotazione in borsa, rappresenta infatti per un’azienda un valido strumento alternativo per reperire risorse, imprimere un impulso alla crescita dimensionale e riequilibrare la propria struttura finanziaria».

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Ennio Doris

Non sprechiamo una “buona” crisi L’Italia ha gli anticorpi per superare la burrasca finanziaria. Ora il sistema produttivo ed economico non deve cedere alle sirene del catastrofismo perché, come confermano le parole di Ennio Doris, «questa situazione prima o poi finirà e allora l’economia tornerà a correre» di Andrea Pietrobelli

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Ennio Doris, fondatore e presidente del gruppo Mediolanum e consigliere di amministrazione di Mediobanca

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al momento che i mercati finanziari anticipano sempre la ripresa, può darsi che in questo 2009 si comincino a vedere buoni segnali». Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum, non cede al pessimismo diffuso tra gli operatori finanziari e gli economisti internazionali. «Non lo condivido – sottolinea convinto – perché, da sempre, più è profonda una crisi, più questa contiene in sé gli anticorpi per reagire». Una sicurezza che, pur dinnanzi a una crisi che ormai ha avuto evidenti effetti sull’economia globale, nasce dalla consapevolezza che il sistema bancario italiano ha delle fondamenta solide e, soprattutto «sia molto poco coinvolto, rispetto al resto del mondo, dalla crisi dei derivati finanziari». Prima di diventare il presidente di Banca Mediolanum, lei si è occupato con successo di promozione finanziaria. Alla luce della sua esperienza nel settore,

come spiega l’innesco della crisi internazionale avvenuto negli Stati Uniti? «Tutto è nato dall’avidità e dalla poca accortezza dell’amministratore delegato di Lehman Brothers e dalla poca lungimiranza, anzi dal vero errore commesso dalla Federal Reserve e dal governo americano. Mi spiego. Lehman Brothers è fallita perché per ben tre volte il suo amministratore delegato ha rifiutato di venderla ad altre banche. Contemporaneamente Washington e la Federal Reserve hanno lasciato che la banca fallisse per dare un esempio all’opinione pubblica di punizione esemplare dei manager. Ma se ne sono pentiti amaramente perché hanno dato il via a un effetto domino che ha fatto franare il sistema. Cosa sarebbe successo se fosse stata salvata la banca, possiamo solo immaginarlo. Probabilmente la crisi si sarebbe presentata poco o molto più avanti e magari con effetti non così deva-


Carlo Edoardo Valli, presidente di Confindustria Monza e Brianza

stanti. C’è da dire che fino al giorno del crollo, Lehman Brothers era ritenuta degna di affidabilità e qui si apre tutto un capitolo sulla qualità dei rating e dei controlli». Perché, a suo avviso, i sintomi della crisi non sono stati colti in tempo dalle agenzie di rating internazionali? «Le agenzie di rating hanno accesso ai bilanci che sono la forma ufficiale di rendicontazione e comunicazione finanziaria, ma non hanno accesso alla vera operatività e pertanto da questo punto di vista potrebbero sembrare poco colpevoli. Ma siamo sempre lì, la possibilità e la volontà di approfondimento delle ricerche sono mancate e quindi molta della re-

sponsabilità di ciò che è successo ricade anche su di loro». Sarebbe potuto accadere qualcosa del genere, su scala più ridotta, anche in Italia? «No, il sistema bancario italiano, forse perché più conservatore di quelli anglosassoni, non avrebbe mai corso rischi così grandi. Qualche banca sicuramente soffrirà l’esplosione della bolla finanziaria, ma ci sono i mezzi per superare con tranquillità la crisi». Crede che l’epoca d’oro della finanza strutturata sia terminata e che l’economia reale riprenderà il sopravvento su scala globale? «Lo credo e lo spero. E questo sarà più evidente in Italia dove la propensione al risparmio è altissima e molto con i “piedi per terra”. Pa-

«C’È STATO UN MOMENTO DI EMPASSE NEL QUALE È MANCATA LA LIQUIDITÀ. PASSATO QUESTO MOMENTO, GLI ISTITUTI DI CREDITO AVRANNO L’OBBLIGO MORALE E REALE DI FARE TUTTO CIÒ CHE È IN LORO POTERE PER RIDARE FIATO ALLE IMPRESE E ALLE FAMIGLIE ITALIANE»

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Ennio Doris

«IL SISTEMA BANCARIO ITALIANO, FORSE PERCHÉ PIÙ CONSERVATORE DI QUELLI ANGLOSASSONI, NON AVREBBE MAI CORSO RISCHI COSÌ GRANDI. QUALCHE BANCA SICURAMENTE SOFFRIRÀ L’ESPLOSIONE DELLA BOLLA FINANZIARIA, MA CI SONO I MEZZI PER SUPERARE CON TRANQUILLITÀ LA CRISI»

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rallelamente non si avventurerà più nessuno in operazioni che non abbiano un solido riscontro materiale. Inoltre, le Borse, che rappresentano l’insieme dell’economia di un Paese, tanto per l’Italia quanto per tutto il mondo, diventeranno una visione reale dei fondamentali delle aziende che compongono quell’economia». In uno stato di perdurante difficoltà produttiva ed economica per le imprese italiane, quale deve essere il ruolo svolto dagli istituti di credito? «Ovviamente le banche devono svolgere il loro ruolo che è quello di prestare denaro. C’è stato un momento di empasse nel quale, per motivi di fiducia, è mancata la liquidità. Passato questo momento, gli istituti di credito avranno l’obbligo morale e reale di fare tutto ciò che è in loro potere per ridare fiato alle imprese e alle famiglie italiane, perché solo così può ripartire l’economia. E questa è la loro missione».

Lei è stato uno dei primi in Italia, se non il primo, a fare una pubblicità ad hoc trasmessa nei giorni in cui la crisi economica e finanziaria internazionale monopolizzava giornali e telegiornali. Quanto è importante per una banca la comunicazione in un momento di difficoltà generalizzata e come si riescono a trasmettere fiducia e ottimismo? «Comunicare nei momenti di crisi è fondamentale e determinante per aiutare l’azienda a superare la crisi stessa. Non si deve dimenticare che nel caso di Banca Mediolanum esistono due pubblici, anzi tre: una rete di vendita di oltre 6.000 family banker su tutto il territorio nazionale, più di 1 milione di clienti, e infine l’universo dei non clienti. Per i primi due gruppi è stato fondamentale, in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, vedere che la propria banca è presente, attiva e attenta, con tutta una serie di iniziative come il taglio unilaterale del


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FORMAZIONE, PROMOTORI E DOUBLE CHANCE

tasso dei mutui e il ripianamento delle perdite delle polizze Lehman Brothers dei propri clienti, che nessun altro ha potuto garantire con queste modalità, grazie a un’estrema attenzione al cliente. Questo ha portato risultati immediati e prevediamo ne porterà molti di più in futuro. Non ci si può nascondere nei momenti critici, ma bisogna affiancare i propri agenti dando loro strumenti efficaci per aiutare i clienti. E questo abbiamo fatto, trasmettendo anche fiducia e ottimismo». Quanto tempo occorrerà per recuperare la fiducia degli italiani e del sistema produttivo per riuscire a far ripartire l’economia nazionale? «Questo non si può sapere, può darsi che la crisi duri un anno, come due o tre. Una cosa è certa, prima o poi finirà e allora l’economia tornerà a correre e i mercati conosceranno un periodo molto florido e lungo». Come consiglia di comportarsi

in questa difficile congiuntura a un singolo investitore? Quali sono gli strumenti finanziari più “sicuri” in termini di investimento? «Un’opportunità come questa, con i mercati azionari così bassi, capita una volta nella vita. Chi ha avuto la possibilità di investire nel 29 in America, nel giro di pochi anni ha ottenuto dei guadagni incredibili. Pertanto consiglio a chi può permettersi di non utilizzare il denaro investito per almeno dieci anni di diversificare sui mercati azionari di tutto il mondo, utilizzando lo strumento dei fondi e di frazionare il momento dell’investimento per mediare al minimo i prezzi d’ingresso. In questo modo, in un arco temporale di lungo periodo, i risultati sono certi. L’importante è vincere la propria emotività e magari, ma capisco che sia praticamente impossibile, dimenticarsi per qualche anno di controllare quotidianamente l’andamento dell’investimento».

Sono le leve di cui Banca Mediolanum si serve per contrastare le difficoltà dei mercati. E quelle con i quali attenderà la ripartenza dei mercati finanziari. Mcu, Mediolanum Corporate University, è un istituto educativo che ha come obiettivi la custodia e la trasmissione della conoscenza, della cultura e dei valori dell’azienda. L'istituto basa la pianificazione del percorso formativo di ogni singolo discente partendo dall’analisi degli obiettivi di carriera per poi progettare il percorso di studio che svilupperà contemporaneamente sia il piano professionale sia quello personale. Un luogo, fanno sapere dalla banca, in cui accentrare tutti i percorsi didattici orientati al raggiungimento dell’eccellenza nella relazione con il cliente, nella consulenza finanziaria e nella gestione del risparmio delle famiglie. Dal punto di vista degli strumenti finanziari, invece, per coniugare rendimento e investimento la banca guidata da Doris ha creato Double Chance Xl, il servizio che consente di investire con maggiore tranquillità nei mercati azionari, garantendo un rendimento certo sul conto di deposito dedicato al servizio. Parlando della rete vendita di Banca Mediolanum, nel mese di aprile la rete del gruppo ha raccolto nel segmento gestito 160,291 milioni mentre l'amministrato è stato pari a 446,324 milioni. Nel segmento gestito il comparto dei fondi ha generato un flusso di 75,812 milioni, seguito dall'assicurativo che ha realizzato un flusso di 42,473 milioni. A livello di amministrato invece la liquidità è stata pari a 606,145 milioni mentre il comparto titoli ha generato un deflusso di 159,821 milioni. Infine, l'ad di Banca Mediolanum conferma la possibilità di accrescere la rete di promotori finanziari. «Se c'è qualche opportunità la valuteremo» ha fatto sapere Doris. Infatti Mediolanum potrebbe rafforzare la rete di vendita tramite acquisizioni.

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Banco delle Tre Venezie

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Veneta per nascita global per vocazione Impresa, impresa, impresa. Il Banco delle Tre Venezie vuole diventare un punto di riferimento economico del Nord Est. Per cooperare con chi, nonostante le difficoltà, non ha paura di investire per svilupparsi e crescere. Il presidente Francesco Cervetti traccia profilo e obiettivi del nuovo istituto di credito di Gian Maria Volto

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Francesco Cervetti è stato nominato presidente del Banco delle Tre Venezie l’aprile scorso

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o evidenzia da tempo Confindustria, lo ripetono i sindacati, lo sottolinea la politica, locale e non, di qualsiasi colore essa sia. Per riprendere la via dello sviluppo e scongiurare gli effetti collaterali della crisi serve che il settore bancario agisca in sinergia con il tessuto produttivo. Le imprese devono poter contare su un sistema creditizio che abbia solide fondamenta e sia in grado di sostenere la produttività, soprattutto in una fase di grave rallentamento economico. Ed è proprio per dare una risposta a questa necessità che due anni fa ha preso vita il progetto del Banco delle Tre Venezie. Una scelta certamente coraggiosa, visti i tempi non proprio rosei del sistema finanziario internazionale, ma che si sta dimostrando già vincente. «L’idea di fondare una nuova banca – svela Francesco Cervetti, presidente da qualche settimana – è nata alla fine del 2006 quando le concen-

trazioni e ristrutturazioni del sistema bancario hanno creato, specie nel Nord Est, nuovi spazi e nuove domande da parte della clientela, soprattutto per quanto riguarda Pmi e imprenditori». A oggi la fase di start up è già terminata. Un’operazione conclusa con successo e che ha visto nei mesi scorsi anche l’inaugurazione della sede di Palazzo Pisani Gaudio a Padova. Una “banca del territorio”, quindi, vicina alle aziende e a chi produce. Pronta a dare risposte rapide ed efficaci alle problematiche di liquidità che attanagliano il tessuto produttivo. Ma non una banca che agisce con una filosofia prettamente local, come tiene a precisare Cervetti. «Non bisogna dimenticare che il nostro maggiore azionista è il Banco Espirito Santo di Lisbona, gruppo bancario con forti presenze internazionali. Inoltre il segmento di clientela cui ci rivolgiamo, per definizione, non è propriamente “local”». Del resto, proprio la


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struttura azionaria e organizzativa è probabilmente l’aspetto più originale del Banco delle Tre Venezie. Oltre al Banco Espirito Santo di Lisbona, che detiene una quota di circa il 20 per cento, nell’azionariato dell’istituto di credito patavino troviamo anche la Banca popolare di Cento, con una quota del 14

per cento. Il restante 66% è invece diviso da una cordata di professionisti, imprenditori e alti dirigenti bancari. «Vogliamo essere una banca capace di ascoltare la voce del tessuto produttivo del territorio – continua Cervetti –. Tutto questo nell’ottica di costruire un rapporto personalizzato con ogni azienda

«NON SIAMO UNA BANCA PENSATA PER LE GRANDI IMPRESE, NÉ SIAMO UNA BANCA SPECIALIZZATA SU UN DETERMINATO PRODOTTO. SIAMO PER DEFINIZIONE E SCELTA MULTIBRAND PER I PRODOTTI CHE OFFRIAMO» VENETO 2009 | DOSSIER


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Banco delle Tre Venezie

«L’IDEA DI FONDARE UNA NUOVA BANCA È NATA ALLA FINE DEL 2006 QUANDO LE CONCENTRAZIONI E LE RISTRUTTURAZIONI DEL SISTEMA BANCARIO HANNO CREATO, SPECIE NEL NORD EST, NUOVI SPAZI E NUOVE DOMANDE DA PARTE DELLA CLIENTELA, SOPRATTUTTO PER QUANTO RIGUARDA PMI E IMPRENDITORI» DOSSIER | VENETO 2009

e ogni imprenditore attraverso l’attento esame delle richieste che ci vengono avanzate a cui risponderemo con interventi concordati “su misura”». Sarà appunto radicare nel territorio e istaurare un rapporto virtuoso con gli imprenditori locali una delle sfide maggiori del Banco delle Tre Venezie che, forte della sua originalità, non teme né la concorrenza dei grandi gruppi bancari nati negli ultimi anni né degli istituti di credito del territorio. «In realtà non ci sentiamo in competizione con nessuno – conferma il presidente –. Non siamo una banca retail o pensata per le grandi imprese, né siamo una banca private o specializzata su un determinato prodotto e ca-

nale. Siamo per definizione e scelta multibrand per tutti i prodotti che offriamo, lasciando al cliente la scelta più opportuna e conveniente». Anche perché, precisa il presidente «ogni investitore ha una sua sensibilità, cultura e propensione all’investimento». E, riflettendo sull’andamento dell’attuale congiuntura economico-finanziaria, per Cervetti non mancano le buone occasioni per riagganciare la strada dello sviluppo. «Mi pare che la crisi non registri nuove profondità – osserva –. Ormai possiamo dire che si trova su un terreno pianeggiante. E questo è il momento in cui le imprese si interrogano sul dopo, cioè su quando inizierà la ripresa. Credo


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UNA NUOVA SINERGIA Il momento peggiore è passato. Ora il sistema produttivo veneto deve ridefinirsi per riagganciare la ripresa. Lo conferma Fabrizio Tofanelli, direttore generale del Banco delle tre Venezie di Nino Pozza

che il Veneto, con la sua versatilità e spinta innovativa, reagirà ancora una volta positivamente». Un previsione ottimistica, anche perché storicamente le imprese della regione si sono sempre fatte trovare pronte a reagire nei momenti di difficoltà. Del resto, continua il presidente, nel Nord Est «l’economia reale ha sempre avuto il sopravvento su una finanza che ha contribuito a ritardare la crisi, con la conseguenza di amplificarla e di farne pagare il conto successivamente».

Il sistema economico del Nord Est è in riconversione. Ne è sicuro Fabrizio Tofanelli (nella foto), direttore generale del Banco delle Tre Venezie. «Certamente il noto miracolo del Nord Est è passato – puntualizza – ma la forte spinta in atto su innovazione, ricerca e sviluppo permette di reagire ad un mercato molto selettivo con eccellenze aziendali di alto profilo». Cosa chiedono maggiormente gli imprenditori locali in questo momento da un istituto di credito? «Il radicamento sul territorio e la capacità di ascolto dei bisogni con il recupero dei valori tradizionali». Quello veneto è un imprenditore propenso all’investimento? «L’imprenditoria veneta può essere definita senza alcun dubbio il prototipo della propensione all’investimento. Il distretto produttivo e la filiera sono modelli di provato successo nati in questi

territori». In uno stato di perdurante difficoltà produttiva ed economica per le imprese italiane, quale deve essere il ruolo svolto dagli istituti di credito? «Quello di cinghia di trasmissione fra tutti gli attori e di collante fra le istituzioni». Quale modello di istituto di credito è destinato a imporsi nel prossimo futuro? «A mio avviso non esiste un modello unico bensì vari modelli a seconda del target. Ad esempio Banca di Prossimità per il privato, Banca Corporate con mezzi patrimoniali adeguati ai rischi ingenti e Banca Private dotata di professionalità e accesso ai mercati. L’istituto che dirigo ha scelto una specializzazione trasversale verso aziende e Pmi, professionisti e imprenditori».

Pur in tempi non semplici per il settore bancario, i primi dati di bilancio del Banco delle Tre Venezie, sono positivi e fanno registrare un utile netto di circa due milioni di euro. Non male per un istituto di credito che ha cominciato ufficialmente la sua attività negli ultimi mesi del 2008. Del resto, nella regione del fare, non poteva che nascere un istituto bancario figlio dello spirito d’iniziativa e della grande dedizione imprenditoriale veneta. «Sin qui le sfide sono state certamente

non facili, a cominciare dai problemi organizzativi e procedurali fino alla ricerca di personale con skill adeguati – afferma Cervetti –. Anche se il supporto dell’azionista Cassa di Risparmio di Cento, ci ha permesso di superarli in tempi molto ristretti. Per il futuro ci aspettano le sfide di mercato, ma con le professionalità acquisite e in acquisizione e la base sociale che ci sostiene, oltre 100 imprenditori nordestini, siamo fiduciosi e abbastanza sereni». VENETO 2009 | DOSSIER


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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Renato Brunetta

UNA PA MIGLIORE PER UN’ITALIA CHE VALE La rivoluzione continua. E non si ferma alla lotta agli sprechi e ai fannulloni della pubblica amministrazione. Ma punta a riorganizzare l’intero settore dell’impiego statale. Questo l’impegno di Renato Brunetta. Che si è mosso in questa direzione come nessun ministro della Funzione pubblica mai aveva osato fare di Marilena Spataro


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in dal primo momento in cui Renato Brunetta si è insediato al ministero della Funzione pubblica, di cui è titolare in questa legislatura, ha lanciato la sua sfida all’assenteismo e all’improduttività nel pubblico impiego. E chi immaginava che i primi provvedimenti presi in tal senso, e in tempi velocissimi tra l’altro, avessero guadagnato al nuovo ministro antipatie e impopolarità, specialmente da parte della categoria messa sotto accusa, è rimasto deluso. Tanti, e sempre di più, sono gli italiani, anche tra gli stessi impiegati della pubblica amministrazione, che condividono le sue battaglie e che gli dimostrano simpatia e stima. Basti pensare all’ovazione che lo ha accolto quando è salito sul palco al congresso di nascita del Pdl di fine marzo. Un’ovazione che lo ha incoraggiato ad andare avanti anticipando il risultato dei successivi sondaggi che lo avrebbero indicato come il ministro più amato dagli italiani. Intanto la rivoluzione Brunetta continua. E così sui grandi e piccoli privilegi di quella che era diventata una vera e propria casta di intoccabili, il 15 maggio scorso si è abbattuto come una scure il decreto del Consiglio dei ministri che dà il via libera alla legge delega sul lavoro pubblico prevedendone la riorganizzazione. Adesso il provvedimento sarà sottoposto all’esame e alla discussione delle Camere e andrà alla Conferenza Stato Regioni e al Cnl. Soddisfatto per questo primo successo

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incassato, Renato Brunetta, come da lui stesso più volte annunciato, si prepara ad altre e non certo facili battaglie di moralizzazione della pubblica amministrazione e di lotta agli sprechi, a partire da quella ai manager pubblici, di cui intanto ha già fatto mettere in rete rendendoli visibili a tutti i compensi di 23mila di loro. Ma chi si cela in privato dietro il volto di questo moderno Catone? A svelarlo è lo stesso ministro. E le sorprese non mancano. All’interno di questo esecutivo, lei si è dimostrato sinora uno dei ministri più attivi, capace di proporre iniziative concrete che hanno alimentato un incessante interesse e dibattito nell’opinione pubblica. Da dove nascono tanta decisione e determinatezza nel battersi contro gli sprechi e le inefficienze presenti nello Stato e nei vari livelli della pubblica amministrazione? «Dal fatto che è necessario e dalla sensazione che è possibile farlo solo adesso, all’inizio dell’attività di questo governo, senza perdere tempo e senza lasciarsi imbrigliare dalle mille resistenze corporative. Lo ha capito l’opinione pubblica. Lo hanno capito i colleghi». Nel febbraio di quest’anno un sondaggio pubblicato da Affaritaliani l’ha promossa a “ministro più amato dagli italiani”. Al di là di questa investitura sondaggistica da quali segnali comprende giorno dopo giorno, nel quotidiano, che il

Renato Brunetta è ministro della Funzione pubblica e docente universitario di economia. La sua battaglia contro l’assenteismo e gli sprechi nella pubblica amministrazione ha reso popolare tra gli italiani

«IL SEGNALE PIÙ IMPORTANTE ME LO HANNO DATO I TANTI DIPENDENTI PUBBLICI CHE SI SONO AVVICINATI PER DIRE CHE AVEVO RAGIONE E DOVEVO ANDARE AVANTI» VENETO 2009 | DOSSIER


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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Renato Brunetta

I PUNTI SALIENTI DELLA RIVOLUZIONE BRUNETTA CONTRATTI I 35 contratti esistenti saranno accorpati in due soli comparti: Stato centrale e amministrazioni decentrate

SANZIONI Semplificazione dei procedimenti disciplinari. Ci saranno sanzioni anche a carico del medico che certifica il falso sulla malattia

NEGOZIATI La legge regolerà il lavoro pubblico. Si riduce il potere dei sindacati per questo tipo di contrattazione. Gli accordi raggiunti dalle singole amministrazioni possono essere bocciati dal governo. Per i contratti nazionali è vincolante il parere della Corte dei Conti

RETRIBUZIONI E CARRIERE Annualmente le amministrazioni stabiliranno le graduatorie del merito per dirigenti e impiegati. Il 25% in cima alla graduatoria otterrà l’intero premio, il 50% che sta al centro avrà il premio dimezzato, il resto niente

NUOVI ORGANI Nominata dal parlamento a maggioranza, l’Autorità per la valutazione incentiverà l’adozione di meccanismi meritocratici. I componenti saranno cinque per una retribuzione annua di 300mila euro

CLASS ACTION La normativa sulla class action sarà adottata dopo gli approfondimenti richiesti al Consiglio di Stato e all’Avvocatura relativamente agli effetti sul processo amministrativo e sulla difesa erariale cui la nuova disciplina una volta approvata potrebbe dar luogo

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suo impegno sia apprezzato e faccia scuola? «I sondaggi sono utili, sarei un bugiardo se dicessi di non leggerli o che non mi fanno piacere, ma non si governa in base ai sondaggi. Si fa quel che si ritiene giusto e lo si spiega in modo da attendere un risultato positivo. Il segnale più importante me lo hanno dato, fin dall’inizio, i tanti dipendenti pubblici che si sono avvicinati per dire che avevo ragione e dovevo andare avanti. Alla faccia dei tanti propagandisti che mi dipingevano quasi come un orco». Perché nessuno fra i ministri della Funzione pubblica che l’hanno preceduta ha saputo o voluto contrastare apertamente

il fenomeno dell’assenteismo e della scarsa produttività di alcuni dipendenti pubblici, difendendone di fatto i privilegi acquisiti? «Ci hanno provato, ma con minori risultati. Hanno fallito perché hanno tentato di tenere assieme capra e cavoli: la copertura nei confronti del consociativismo inefficiente e la speranza di portare efficienza a favore del cittadino. Alla fine si sono dovuti rassegnare e attendere la fine dell’esperienza». Una delle caratteristiche che la rendono riconoscibile è quella di saper affiancare all’attività riformistica, spesso inizialmente oscura al grande pubblico, anche gesti e deci-


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IN VENETO LA PA FUNZIONA CON IL PROGETTO CORO «Più voci, ognuna col proprio ruolo, le proprie aspettative, le proprie paure, ma tutte orientate verso la creazione di un’armonia finale, ovvero una società basata su solidarietà, senso civico e rispetto delle tradizioni». È questo il senso del progetto Coro, nonché il motivo per cui è stato scelto questo nome. Si tratta, come spiega Marino Finozzi (nella foto), presidente del Consiglio regionale del Veneto, che ne ha promosso la realizzazione, di «un sistema di consultazione telematica che sfrutta le possibilità del web 2.0 per offrire alla comunità e alle istituzioni uno strumento al contempo di conoscenza reciproca e di partecipazione democratica». Più nel dettaglio, il progetto prevede la diffusione dei progetti di legge in esame e la raccolta dei commenti depositati dagli enti chiamati a consultarli. Con in più, aggiunge Finozzi, «la possibilità di un feed back, attraverso il quale la Pa può valutare in itinere l’effetto delle proprie azioni e, se necessario, riaggiustare il tiro». Il sistema infatti prevede anche una sezione sondaggi, che mira a raccogliere le opinioni di cittadini e stakeholder su leggi vigenti e in corso di definizione, nonché su temi di carattere generale. È questa la grande sfida. «Il pubblico che abbiamo in mente non è quello che semplicemente assiste a un evento, ma che vi partecipa, ascoltando la propria voce per poterla meglio fondere con quella altrui». L’obiettivo insomma, continua Finozzi, è «mettere a punto uno strumento di buona amministrazione basato su una certa forma di conoscenza: non quella tecnica delle ricerche commissionate, ma quella locale, radicata nel territorio e filtrata dai suoi abitanti». E aggiunge: «Qualcuno ha detto che “non ci si può attendere la democrazia da una rivoluzione perché la democrazia è la condizione necessaria per avere una rivoluzione”. Coro è la nostra piccola rivoluzione». Una rivoluzione all’insegna dei quella e-democracy già propugnata a livello regionale dal progetto Ven-e-d. «Perché parlare di democrazia – conclude – è già una manifestazione di vitalità democratica e un segnale importante della sua salute, attuale e futura».

sioni concrete come l’introduzione delle “faccine” per giudicare l’operato degli uffici pubblici oppure la realizzazione dei tornelli per contrastare l’assenteismo. Da dove trae ispirazione per idee così “visibili” e innovative, capaci di produrre da subito effetti concreti nei comportamenti e nelle abitudini degli italiani? «Come spiegavo prima, serve comunicare, raccontando pubblicamente quel che si va facendo. Le idee vengono parlando con i diretti interessati, sia cittadini che dipendenti, e con gli operatori economici. Ascoltando le idee, valutando le soluzioni tecnologiche e, alla fine, producendo una sintesi politica».

In occasione del primo congresso del Pdl tenutosi a Roma, lei è salito sul palco del Palafiera visibilmente commosso e ha parlato di una “rivoluzione moderata” in corso. Cosa ha potuto spingerla a un simile aperto entusiasmo e cosa rappresenta per lei essere uno degli artefici di questa “rivoluzione”? «No, non sono salito commosso, non è che piangessi alla partenza da casa! Mi ha commosso l’accoglienza molto calorosa, la sensazione che il lavoro fatto ogni giorno, chiuso in una stanza con i miei collaboratori, aveva fatto breccia nel cuore dei nostri amici. Quella che ho chiamato “rivoluzione” è una grande occasione per il governo e per tutti gli

italiani». Lei vive sotto scorta ininterrottamente da venticinque anni in seguito alle minacce ricevute dalle Brigate rosse nel periodo in cui offriva consulenze al ministero del Lavoro. Come ha influito e sta influendo questa condizione di limitata libertà sul suo modo di agire, di pensare, di vivere la quotidianità anche al di fuori degli impegni istituzionali? «Non influisce per niente. Vivo sotto scorta, e non è piacevole, ma non ho mai pensato alle minacce ricevute o al delirio di chi le ha concepite. In quanto alla mia vita privata, si chiama così perché è privata. E desidero che resti tale».

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Consip

Innovazione e responsabilità Venti milioni di euro di risparmio energetico, pari a una riduzione di circa 66mila tonnellate nell’emissione di CO2. Ma la sostenibilità è solo uno dei criteri del sistema di e-procurement sviluppato da Consip. L’Ad Danilo Broggi spiega perché razionalizzare la spesa pubblica è possibile. Grazie all’Itc di Daniela Panosetti

onsip, società controllata dal ministero delle Finanze, nasce nel 1997, col compito di fornire consulenza e soluzioni informatiche avanzate per l’innovazione della Pa. Poco più di un decennio dopo, entrambe le sue aree di attività – gestione dei servizi informatici per il ministero e sviluppo di un sistema di e-procurement per l’acquisto telematico di beni e servizi da parte delle amministrazioni – possono dirsi ampiamente coperte. E con ottimi risultati, come dimostrano i dati dell’ultimo rapporto pubblicato. «Solo per fare un esempio – spiega l’Ad Danilo Broggi – nel corso del 2008 il numero di acquisti gestiti attraverso la nostra piattaforma è raddoppiato rispetto al 2007». Merito senz’altro della crescente spinta alla razionalizzazione della spesa pubblica, ma anche del progressivo processo di fidelizzazione che, «vinte le prime, fisiologiche resistenze al cambiamento nella Pa, ha gradualmente consolidato il rapporto con i nuovi strumenti e la

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dimestichezza nel loro utilizzo». Una dinamica che però, precisa l’Ad, «va letta sul lungo periodo, e che segue una progressione non lineare, secondo la tipica curva di diffusione dell’innovazione, che all’inizio cresce con difficoltà, ma superata una certa soglia sale in modo geometrico». Certo è che, una volta avviato, il sistema di eprocurement implementato da Consip ha permesso un notevole risparmio in tutti i settori merceologici, ben 66, «per un totale di circa 710 milioni di euro nel 2008, che diventano quasi un

miliardo se si sommano anche i risparmi di processo legati all’uso della piattaforma, che consente acquisti in tempi anche cinque volte inferiori a quelli richiesti dai canali tradizionali». Un successo dovuto principalmente all’aver coniugato, nella realizzazione, due ordini di fattori: «innanzitutto l’economia di scala – precisa Broggi –, per cui più si aumenta l’entità dell’acquisto, più sale la propria forza contrattuale e dunque la possibilità di spuntare un prezzo migliore». In secondo luogo, «l’uso di una


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Danilo Broggi, amministratore delegato di Consip, società controllata dal ministero dell’Economia e delle finanze. In alto la sede, a Roma

piattaforma in grado di gestire le gare telematiche e far accedere a una serie di convenzioni d’acquisto, con notevoli vantaggi in termini di trasparenza, ma anche nella possibilità di effettuare monitoraggi più accurati, e dunque anche migliori previsioni». Eppure, ammette l’Ad di Consip, anche da un punto di osservazione così ampio, risulta difficile stabilire quali siano gli esempi di amministrazione più virtuosa, che si riscontrano «tanto al Nord quando al Sud, sia nelle piccole che nelle grandi realtà». Non esiste, insomma, «un criterio o una caratteristica comune ai diversi casi “virtuosi”, se non il fatto di aver meglio compreso l’utilità degli strumenti telematici e averli meglio integrati all’interno dei propri sistemi organizzativi e di processo». Quello che emerge chiaramente è invece la crescente attenzione delle Pa per i temi

della sostenibilità. Di qui, il recente inserimento tra le attività di Consip del programma di Green public procurement. «Un criterio di valutazione trasversale che stiamo introducendo in tutte le nostre logiche d’acquisto – spiega l’Ad – in modo che tengano conto, oltre del costo del bene o del servizio, anche della sua sostenibilità ambientale, ad esempio le prestazioni del suo intero ciclo di vita, il grado di efficienza energetica o di smaltimento». Il tutto con evidenti vantaggi in termini sia economici che ambientali. Basti pensare, conclude Broggi, che «solo l’aver iniziato a premiare nei nostri capitolati le etichette energy star 4 ha portato a 20 milioni di euro di risparmio complessivo sui costi energetici della Pa e una riduzione delle emissioni di CO2 di circa 66mila tonnellate». VENETO 2009 | DOSSIER


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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Microsoft Italia

Il digitale che elimina l’attesa Unified communication e dematerializzazione. La strada per una compiuta modernizzazione della Pa passa attraverso comunicazione integrata e documenti digitali. Ma soprattutto una maggiore interattività nei servizi al cittadino. L’analisi di Fabio Fregi, direttore public sector di Microsoft Italia di Agata Bandini

endere più efficiente l’organizzazione interna della Pa, da un lato. E dall’altro migliorare l’efficacia complessiva dei servizi resi al cittadino, in direzione di una maggiore interattività. Sono questi, secondo Fabio Fregi, direttore della divisione public sector di Microsoft Italia, le due sfide che l’Ict è chiamata a vincere, nella modernizzazione della Pubblica amministrazione. Che per realizzarsi in pieno, però, ha bisogno soprattutto di sistemi intuitivi, per un’interazione veloce e immediata. «Perché – ricorda Fregi – come ripete spesso il collega Carlo Iantorno, in Italia ci sono 25 milioni di sportelli della Pa, e sono le famiglie. Sono loro che dobbiamo raggiungere, direttamente nelle loro case». Durante l’ultimo Forum Pa, si è parlato molto di unified communication: di cosa si tratta? «Si tratta di fondere la comunicazione solitamente fatta attraverso il telefono con gli strumenti che il web mette a disposizione, sfrut-

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tando la voce sul protocollo ip. Con questi sistemi è possibile realizzare dei veri e propri incontri virtuali: conversare a distanza e, allo stesso tempo, condividere lo stesso documento, modificandolo se necessario in tempo reale e da entrambi i versanti. Con almeno tre ordini di vantaggi: il risparmio sugli spostamenti, ridotti mediamente del 70% sulla spesa telefonica, dato il minor costo dei sistemi Voip, e quelli legati alla dematerializzazione, ovvero la conversione di documenti da cartaceo a digitale. Si pensi solo a quanto si accorcerebbero i tempi della giustizia: oggi basta che si perda anche un solo fascicolo e il processo deve ripartire da zero. La stessa cosa vale per la sanità, tranne alcune eccezioni. Come l’ospedale di Busto Arsizio, dove la digitalizzazione ha permesso di risparmiare 4,5 milioni di euro». In Italia però il digital divide è ancor abbastanza ampio, soprattutto per certe fasce della popolazione. «In Italia ci sono 20 milioni di pc su 25 milioni di famiglie, una pe-

Fabio Fregi, bolognese, dirige la divisione Pubblica amministrazione di Microsoft Italia dal 2006

«IN ITALIA CI SONO 25 MILIONI DI SPORTELLI DELLA PA, E SONO LE FAMIGLIE. SONO LORO CHE DOBBIAMO RAGGIUNGERE, DIRETTAMENTE NELLE LORO CASE»


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Il sistema interattivo Microsoft Surface, presentato in anteprima nazionale durante l’ultimo Forum Pa

netrazione dunque limitata. Non si può negare quindi che la situazione sia più arretrata rispetto al resto d’Europa, sia nella diffusione della banda larga, infrastruttura fondamentale, sia in quella dei sistemi informatici in generale. Diverso il discorso per le nuove generazioni, ovviamente, nei confronti delle quali la Pa ha un ruolo fondamentale, a partire dalle scuole. Col governo portoghese, ad esempio, abbiamo messo a punto un piccolo pc per i bambini delle elementari. Un’iniziativa simile, come annunciato in diverse occasioni dal ministro Brunetta, dovrebbe partire anche in Italia, col nome di “Compagno di classe” nel corso del 2009 o al più tardi nel 2010». In collaborazione con il ministero del Lavoro avete invece presentato un nuovo sistema basato su Microsoft Surface. Come funziona? «Surface è uno strumento estremamente innovativo, sviluppato per semplificare al massimo l’in-

terazione uomo-computer, rendendola più immediata e intuitiva attraverso l’uso del semplice tatto o del riconoscimento vocale. Si tratta di una sorta di superficie di cristallo, che permette all’utente di “prendere” letteralmente gli oggetti, spostandoli o ampliandoli a piacimento. Un sistema, quindi, particolarmente adatto agli uffici pubblici, che potrebbero così offrire alcuni servizi in modalità self service, e dunque senza richiedere all’utente particolari competenze tecnologiche». L’interazione tra Pa e cittadini rappresenta, in effetti, l’altro importante obiettivo. Quali soluzioni propone Microsoft in questo senso? «Ad esempio Citizen service platform, una piattaforma multicanale che realizza una serie di servizi interattivi attraverso la combinazione di tre strumenti. Il web, prima di tutto, e in secondo luogo il telefono, fondamentale soprattutto per certe fasce di età, meno avvezze alla tecnologia. Infine l’instant messaging, adatto in particolare ai giovanissimi. Interessante in questo senso il servizio “Lisa” attivato dalla Polizia di Stato: un agente virtuale che offre risposte e informazioni sul rinnovo dei passaporti. Un’iniziativa che ci sta molto a cuore, anche perché, in questi tempi di bullismo, vedere ragazzini che aggiungono un agente tra i loro “amici”, è un segnale importante di coscienza civica». VENETO 2009 | DOSSIER


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E adesso guardiamo avanti Credito, ammortizzatori e gioco di squadra. Sono i tre fronti sui quali il Veneto si è mosso con tempestività davanti alla crisi economica. E anche i tre elementi chiave per guardare al futuro con cauto ottimismo. La riflessione di Andrea Tomat, presidente di Confindustria Veneto di Daniela Rocca

L Andrea Tomat, presidente di Confindustria Veneto

-15,6% produzione industriale

a fase economica che stiamo attraversando continua a essere complessa, tuttavia mi sento di poter esprimere un cauto ottimismo. Sono evidenti i primi segnali di rallentamento e sono scongiurati i rischi di un peggioramento sistemico; tuttavia l’estensione, la profondità e la dimensione della crisi richiederanno necessariamente tempo per essere superate». Con queste parole il presidente di Confindustria Veneto Andrea Tomat commenta lo scenario che emerge dall’indagine congiunturale realizzata dall’associazione degli industriali su un campione di circa 900 aziende manifatturiere. L’analisi conferma un primo trimestre del 2009 ancora molto difficile, con un trend negativo per tutti gli indicatori economici: produzione industriale -15,6%, ordini totali 16,1%, occupazione - 3,3% e vendite all’estero -16,6%. Una crisi di questa portata non permette tentennamenti. Per questo ogni inter-

vento, aiuto o stanziamento studiato per agevolare la ripresa deve essere attuato il più rapidamente possibile. Il fattore tempo è fondamentale per la competitività delle imprese. «Le aziende in questi ultimi mesi stanno lavorando duramente per trovare soluzioni a questa difficile situazione congiunturale. Abbiamo bisogno di risposte da parte del governo per trasformare questa crisi in un’opportunità per il Paese. Sono convinto che questa possa essere l’occasione giusta per un vero cambiamento strutturale», precisa Tomat. Come presidente di Confindustria Veneto lei si trova in un osservatorio privilegiato sull’economia regionale. Come e in cosa l’economia veneta si distingue da quella nazionale? «La nostra regione è riuscita in poco tempo a diventare un modello di riferimento nazionale e internazionale, un sistema economico avanzato e multidisciplinare. Il merito


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EMMA MARCEGAGLIA

ACCELERARE LA STRADA DELLE RIFORME Emma Marcegaglia chiede al governo di affrontare in maniera diretta l’emergenza in atto. Riformando, come previsto, scuola, Pubblica amministrazione e mercato del lavoro. Ma sarà importante anche il ruolo giocato dal nuovo Parlamento europeo. In un quadro economico ancora difficile iamo a metà dell’anno e gli effetti della crisi economica internazionale sono ancora sotto gli occhi di tutti. Lo dicono i numeri. Il 10 giugno scorso l’Istat ha comunicato che il Pil italiano è calato del 6% nel primo trimestre 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008 e del 2,6% rispetto al trimestre precedente. L’andamento del prodotto interno lordo nazionale è in linea con i cattivi risultati delle altre economie trainanti del mondo, mentre il Pil dei Paesi dell’area euro è diminuito del 4,8% in termini tendenziali e del 2,5% in termini congiunturali. I dati evidenziano anche una rilevante contrazione dell’import-export e della spesa delle famiglie italiane. Complessivamente si tratta del calo tendenziale più rilevante dal 1980 a oggi con ancora scarse prospettive di ripresa dei parametri economici entro fine anno. «Il dato sul Pil conferma quanto diciamo da tempo: la crisi è pesante e ha colpito pesantemente anche l'Italia». Così commenta le cifre Istat la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che intravede sì «qualche piccolissimo segnale di miglioramento» nei dati sulla produzione industriale, ma ribadisce come la situa-

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«LA NOSTRA REGIONE È RIUSCITA IN POCO TEMPO A DIVENTARE UN MODELLO DI RIFERIMENTO NAZIONALE E INTERNAZIONALE, UN SISTEMA ECONOMICO AVANZATO E MULTIDISCIPLINARE»

zione sia problematica: «Siamo ancora molto lontani se confrontiamo i dati con aprile 2008 – aggiunge –. La crisi c'è, è forte e bisogna dare risposte sia nell'emergenza, sostenendo il credito e gli ammortizzatori sociali, sia nel medio termine con le riforme per ridare slancio alla crescita». Ad elezioni europee appena concluse, Marcegaglia chiede inoltre alla politica di voltare pagina spingendo sulle grandi riforme anche a livello europeo. In quest’ottica, «i nuovi eletti italiani non devono abbandonare il proprio posto perché sarebbe negativo e inaccettabile. L'Europa – prosegue la leader degli industriali – è un fatto serio e importante, la maggior parte delle leggi che vengono varate in Italia nascono dalle direttive europee». Nel guardare al Parlamento Europeo, Emma Marcegaglia non perde di vista la politica interna e chiede al governo di velocizzare le riforme approntate dai ministri Brunetta e Calderoli. Sul tavolo c'è una «battaglia storica», nella quale i disegni di legge Brunetta e Calderoli sono positivi e vanno attuati fino in fondo: «Vogliamo seguirne l'iter per vedere come si realizzeranno, non vogliamo che restino pezzi di carta nel cassetto».

va attribuito ai molti imprenditori, che con l’abitudine non di chiedere ma di fare, hanno sviluppato il nostro territorio attorno ad una spina dorsale forte, fatta di tante piccole e medie imprese capaci di competere a livello mondiale, anche nei settori tecnologicamente avanzati. In Veneto coabitano settori di nicchia e settori maturi. È la regione per eccellenza dei distretti, ma è anche la regione che forse per prima ha sa-

Anche nella scuola e nelle università le riforme vanno continuate: «Il ministro Gelmini deve andare avanti, cambiare la governance e dire basta ai baronati. Serve anche una riforma finanziaria, perché ora si premiano quelle peggiori, non le migliori». La presidente di Confindustria auspica, inoltre, una nuova politica di liberalizzazioni «sull'elettricità, sul gas, sui servizi pubblici dove c'è ancora moltissimo da fare». Tutti temi, questi, che la campagna elettorale delle europee non pare avere affrontato. E per la Marcegaglia il motivo dell'alta percentuale di astensionismo a un voto «che ha dimostrato la lontananza della gente dall'Europa» è da ricercare anche in questa omissione o in questa mancanza di comunicazione con i cittadini. Un errore da non ripetere sul piano nazionale.

puto trasformare una fortissima vocazione all’export in un reale processo di internazionalizzazione delle imprese. Sono tantissime, infatti, le realtà, spesso non conosciute come brand, che hanno come riferimento il mondo». Scendendo nello specifico, qual è la situazione delle province venete dal punto di vista economico-produttivo? Dove gli effetti della crisi si sono sentiti maggiormente e VENETO 2009 | DOSSIER


CONFINDUSTRIA

Fonte: Confindustria Veneto

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- 3,3%

dove, al contrario, si sono avvertiti in misura minore? «La crisi ha colpito tutti i settori, anche quelli che sono da sempre strategici per la nostra regione e che in passato hanno saputo dimostrare grandi capacità di sviluppo e crescita. Mi riferisco in particolare all’occhialeria, alla chimica, al tessile calzaturiero, alla gomma plastica e alla meccanica. Tengono invece i settori dell’alimentare e dell’agroalimentare. L’andamento negativo è dovuto al calo degli ordini e delle vendite dall’estero, due indicatori particolarmente significativi vista la nostra storica capacità di operare a livello internazionale, ma anche al forte aumento dei prezzi delle materie prime». Secondo lei come occorre intervenire sul sistema del credito in

occupazione

ROBERTO ZUCCATO presidente di Confindustria Vicenza industria vicentina non è stata esente dall’andamento negativo che ha contraddistinto in generale il Paese: il primo trimestre ha fatto registrare un calo evidente di tutti i principali indicatori economici. In particolare la produzione industriale ha subìto una flessione pari al 19% e anche le vendite sono calate su tutti i mercati. I primi mesi dell’anno, del resto, sono stati per tutti i più duri. «Un po’ tutti i principali settori della nostra economia hanno risentito della congiuntura sfavorevole. La contrazione della produzione ha riguardato in particolare il tessile-abbigliamento, seguito dal settore delle materie plastiche e dalla meccanica. Solamente l’alimentare continua a mantenersi su livelli produttivi sostanzialmente stabili», commenta Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Vicenza. «Le aspettative che arrivano dalle nostre imprese fino alla pausa estiva non evidenziano particolari segnali di ripresa. Produzione, fatturato ed export dovrebbero rimanere in calo, ma in misura minore rispetto a inizio anno, e questo è un segnale che fa

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sperare. L’auspicio è che si possa intravedere al più presto un’inversione di tendenza. Non ci aspettiamo che questo sia l’anno del “giro di boa”, tuttavia la crisi non ci deve spaventare. Noi più di altri abbiamo risorse che derivano dalla nostra società, dalla nostra tradizione, dalla nostra storia, dalla nostra specifica struttura produttiva. La crisi è un’“opportunità da non perdere”». Ma su quali strade si stanno muovendo gli industriali vicentini? «Per uscire dalla crisi è necessario che allo sforzo del sistema produttivo si aggiunga quello della politica. Qualcosa è stato fatto sul fronte del credito alle Pmi. Penso al potenziamento del fondo di garanzia ottenuto grazie all’opera di pressione della presidente di Confindustria Marcegaglia, all’introduzione dei Tremonti Bond e agli altri interventi previsti per gli incentivi alle aziende. Molto resta ancora da fare». In particolare il presidente ricorda la necessità di risolvere l’annoso problema dei ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione, e la necessità di ripristinare in toto la deducibilità degli interessi passivi, introdurre la de-

tassazione degli utili reinvestiti e dei capitali portati in azienda. E infine conclude: «Vanno fatte le riforme di cui il Paese ha bisogno da anni, a cominciare da una seria e profonda riorganizzazione del mercato del lavoro, dello Stato e del sistema dell’istruzione e della ricerca».


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ANDREA VARDANEGA presidente di Confindustria Treviso n controllo efficace sulla finanza, ma soprattutto una rinnovata dimensione etica e morale «In questi mesi si sono presentati contemporaneamente, come mai era avvenuto in passato, tre elementi: la contrazione dei mercati, il restringimento del credito, la crescita degli insoluti con conseguenti significativi problemi di liquidità per le aziende. Questa situazione ha naturalmente creato tensioni nelle relazioni in ciascuna filiera produttiva, in tutti i principali settori che compongono la nostra economia provinciale». A parlare è Alessandro Vardanega, presidente di Confindustria Treviso. Quali interventi consentirebbero alle imprese di affrontare al meglio la situazione, che si annuncia complessa anche per i prossimi mesi? «Durante l’ultima assemblea ho chiesto pubblicamente che lo Stato e le pubbliche amministrazioni inizino a pagare i propri fornitori in tempi ragionevoli. Il governo deve mirare la propria azione verso le piccole e medie imprese. Chiediamo, in particolare, di ripristinare l’integrale deducibilità fiscale degli interessi passivi, di elevare il limite di

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questo momento, per rispondere alle esigenze delle aziende? «In Veneto c’è stata una tempestiva risposta, e la situazione sta sicuramente migliorando. Insieme alla Regione, all’Abi, con i maggiori istituti di credito, con tutte le altre associazioni produttive, abbiamo istituito un tavolo regionale per monitorare e osservare l’andamento del rapporto banca e impresa, e per riuscire a individuare nuovi strumenti finanziari. Sono soprattutto le aziende di piccole dimensioni che continuano ad avere i maggiori problemi, perché rispetto alle grandi non hanno il peso e le garanzie utili a ricevere grossi affidamenti. È fondamentale continuare ora a garantire loro un miglior accesso al credito tramite il sistema dei Confidi, e studiare in accordo con il sistema

compensazione dei crediti tributari, di ripristinare l’accesso alle agevolazioni fiscali per gli investimenti dedicati all’innovazione, di predisporre un meccanismo per detassare gli utili reinvestiti in capitale sociale o in riserva patrimoniale, di far sì che gli studi di settore tengano sempre conto nel modo più adeguato e veritiero della contrazione dei ricavi causata dalla crisi in atto. Sono provvedimenti che avrebbero un’importante funzione di incoraggiare gli imprenditori a guardare avanti. La voglia di fare, il credere nel proprio lavoro non manca di certo, ed è questo il primo, grande capitale che ci consentirà di ripartire». Dove e come occorre intervenire sul sistema del credito? «È indispensabile ridefinire nuovi standard legali e di controllo per il settore finanziario internazionale. Va detto che Basilea2 non solo ha penalizzato la gran parte delle imprese ma in questa fase di crisi si è dimostrato un ulteriore fattore di criticità in una situazione già altamente complessa. Dalla crisi si esce non solo ponendo in atto nuovi e più efficaci controlli sulla finanza e i mercati, ma anche riscoprendo una rinnovata dimensione etica e morale».

«SONO SOPRATTUTTO LE AZIENDE DI PICCOLE DIMENSIONI CHE CONTINUANO AD AVERE I MAGGIORI PROBLEMI, PERCHÉ RISPETTO ALLE GRANDI NON HANNO IL PESO E LE GARANZIE UTILI A RICEVERE GROSSI AFFIDAMENTI»

-16,6% vendite all’estero


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FRANCESCO PEGHIN presidente di Confindustria Padova uardiamo avanti, forti di un sistema produttivo leggero, diversificato e “intelligente” grazie al mix di manifatturiero e servizi hi-tech «La prima parte dell’anno ha segnato, forse, il punto più basso della crisi con un calo della produzione del 22,4%. Le prospettive delineano una lenta decelerazione della fase recessiva, ma un’inversione di tendenza non si vedrà prima del 2010. Le imprese resistono, lottano sui mercati, credono nella risalita. Un dato su tutti: il 60% conferma gli investimenti per il 2009, in nuovi impianti, innovazione, formazione». Questo è il quadro tratteggiato da Francesco Peghin. Dove si sono più sentiti gli effetti della crisi? «Meccanica, edilizia, sistema moda, legnomobile. Sia pure con criticità diverse, la crisi ha toccato tutti i settori e le dimensioni d’impresa. Il segnale più preoccupante viene dall’export, a causa della recessione dei nostri principali Paesi clienti. Le più esposte sono

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proprio le aziende migliori, più internazionalizzate, che più di altre si sono ristrutturate. È da questa avanguardia che bisogna ripartire: un sistema produttivo solido, legato al “fare” e poco incline alla finanza. Un’industria leggera, diversificata e “intelligente”, dove il terziario è cresciuto a servizio della produzione, aggiungendovi valore, tecnologia, ingegno. E che oggi incarna la ferma volontà di guardare avanti». Come vanno i rapporti delle imprese con il mondo creditizio? «Le imprese sono strette tra riduzione degli ordini e difficoltà di incasso dei pagamenti. Non bisogna far venire meno l’ossigeno del credito. Questa è stata, è e sarà la nostra priorità. Se viene a mancare il credito, tantissime imprese non ce la faranno ad arrivare all’appuntamento con la ripresa. Imprese sane, che avrebbero il potenziale per tornare a crescere dopo la crisi. Da imprenditori, chiediamo che i banchieri tornino a fare il loro mestiere: sostenere l’economia che investe, crea lavoro, prodotti

veri e non castelli di carta. Dobbiamo lavorare insieme. Aiutando anche le imprese a sviluppare una più evoluta cultura della patrimonializzazione e del rating». Quali strategie per il futuro di Padova e della sua provincia? «Il futuro si gioca nella competizione fra aree in grado di affermarsi per le loro specializzazioni, per la capacità di attrarre risorse e competenze. La crisi dà l’opportunità di una seconda metamorfosi del sistema Padova, dopo quella industriale, puntando sui fattori nei quali può eccellere e rilanciarsi con un’identità forte. Senza dimenticare le eccellenze storiche, ma guardando ai nuovi “motori” di sviluppo, come i prodotti per l’energia e l’ambiente. Padova è la piattaforma ideale per veri e propri poli: il polo della logistica, quello congressuale e scientifico-medicale e quello tecnologico sull’asse università, parco scientifico, imprese. È un processo che va accompagnato, offrendo alle imprese un sapere tecnologico adeguato»

bancario nuove misure per ottenere una maggiore flessibilità nei tempi di rientro dei debiti». Le piccole imprese sono state e saranno sempre la forza del nostro sistema. Tuttavia nell’era globale si pone la necessità di una loro crescita. Quali sono le proposte e le richieste di Confindustria? «In Veneto l’85% delle imprese è rappresentato proprio dalle Pmi. Le piccole sono quelle che anche in passato hanno saputo reagire meglio, proprio grazie a quella particolare

formula organizzativa che le rende flessibili, meglio resistenti nei momenti di transizione. Contrazione dei mercati, restringimento del credito, crescita degli insoluti e dei problemi di liquidità sono i principali problemi che in questo momento le penalizzano. Confindustria da tempo chiede che ci sia l’attuazione di misure di detassazione degli utili non reinvestiti, una velocizzazione della tempistica dei pagamenti della Pubblica amministrazione, politiche mirate a favorire processi di aggre-

gazione, oltre a maggiori garanzie in tema di ammortizzatori sociali». La Regione Veneto ha istituito un apposito fondo di garanzia per le Pmi colpite dagli effetti della crisi. Quanto si sta rivelando importante l’introduzione di questa misura? «La nostra regione è stata la prima in Italia a istituire un fondo anticrisi per le Pmi, dimostrando ancora una volta di essere un modello innovativo per il sistema economico italiano. Questo intervento così tem-

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pestivo, oltre a restituire un po’ di fiducia ai nostri imprenditori, ha consentito in soli tre mesi attraverso Neafidi, il nostro consorzio regionale fidi, di assistere molte imprese, sviluppando un’operatività di circa 40 milioni di euro. Oltre al fondo si aggiungono gli 11 milioni di euro stanziati dalla legge 3 per le imprese in crisi e per i lavoratori in Cig, e i 236 milioni di euro del Fse per le politiche attive rivolte ai lavoratori sospesi e licenziati. Pur nell’insufficienza delle risorse, nella nostra regione c’è una forte volontà politica di accompagnare le imprese nelle inevitabili trasformazioni e di salvaguardare la coesione sociale». Tra le aziende e le istituzioni venete esistono sinergie sufficienti sul fronte della ricerca e dell’innovazione oppure occorre fare di più e meglio? «Apprezziamo la politica della Regione Veneto che ha concentrato molti interventi in ricerca e innovazione, adottando anche una legge regionale su questo tema. Le risorse però sono ancora limitate per poter parlare di una vera politica industriale. Esistono sul nostro territorio eccellenze nel mondo della ricerca, e nonostante siano stati compiuti dei progressi, ritengo che il rapporto università e impresa vada ancor più rafforzato e si debba compiere un processo di razionalizzazione dell’offerta pubblica di ricerca in questa regione». VENETO 2009 | DOSSIER


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Cerchiamo la chiave per capire chi vale Misurare il capitale umano per valorizzare le risorse e investire nella loro crescita. Un obiettivo cui tutte le aziende dovrebbero tendere. Per ora ci ha pensato Confindustria Venezia, con il progetto innovativo Venice Hai di Daniela Rocca

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untare sulle risorse umane non è una scelta solo etica, ma conveniente; non è solo un costo, ma un investimento dal ritorno certo, anche in questi tempi di crisi. E il ricco Nord Est, costellato di piccole e medie imprese, è il primo a lanciare questo messaggio. Perché in tempi di crisi il capitale umano è purtroppo il primo costo ad essere tagliato. Il progetto Venice Human asset index – Venice Hai – invece, mira a generare un’inversione di tendenza, misurando, attraverso un coefficiente, la capacità di ogni singola azienda di investire sulle intelligenze creative in grado di anticipare i gusti e le richieste di un mercato globale. Un coefficiente che arricchisce il patrimonio dell’azienda e quindi il suo valore. «Il Progetto Venice Hai, nato per individuare un indice di misurazione del capitale umano, ha già raggiunto alcuni obiettivi importanti, primo fra tutti l’individuazione di un modello teorico di riferimento che ci porterà a definire un vero e

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proprio strumento operativo», chiarisce Massimo Codato, vicepresidente di Confindustria Venezia e responsabile del progetto. «Qualche settimana fa abbiamo presentato quello che definiamo il “cruscotto di misurazione” – spiega –. Si tratta della suddivisione dell’indice di misurazione finale in variabili fondamentali che sono state riassunte in: “flessibilità”, “operatività”, “creatività” ed “etica”. Il prossimo traguardo sarà assegnare dei valori a questi indici». Perché è fondamentale per l’imprenditore individuare un indice di misurazione delle risorse umane? «L’imprenditore tende a non investire su ciò che non è misurabile, per questo è importante individuare un indice di misurazione delle risorse umane, per rendere l’azienda più affidabile e attrattiva, per ricorrere a un’attività di benchmarking e per pianificare una migliore crescita delle imprese». La struttura di un’azienda è fatta di uomini, non di ingranaggi

meccanica da mettere a punto. Come è possibile valutare le prestazioni di un lavoratore? «Dando un valore all’intelligenza richiesta per le sue mansioni, o, meglio, alle variabili che compongono quell’intelligenza. Per questo il nostro team di ricerca ha scomposto l’indice finale nei sottoindici

Massimo Codato, vicepresidente di Confindustria Venezia con delega alle Pmi


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di flessibilità, operatività, creatività ed etica. Secondo il modello teorico in esame, i primi tre valori dovranno essere pesati sulla base del punteggio ottenuto nell’indice etico per riuscire a ottenere un indice globale. Questo cruscotto di misurazione andrà ovviamente calibrato secondo il settore di attività dell’azienda e secondo la mansione del lavoratore». Non sembra anacronistico misurare il valore del capitale umano, in un momento in cui tutti i sistemi di misura che erano stati elaborati per rappresentare e governare l’economia di mercato, dai prezzi alle quotazioni in borsa, dai tassi di sconto ai rating del rischio, hanno mostrato la loro irrimediabile fragilità? «Al contrario, il nostro progetto vuole riportare l’attenzione del mondo economico sulle risorse umane. È, dunque, proprio in un momento così cruciale che il nostro lavoro assume un’importanza

fondamentale: il capitale umano è la risorsa caratterizzante delle piccole imprese ed è continuando a investire nelle persone che potremo superare anche questa fase del rallentamento dell’economia e di revisione dei meccanismi di accesso al credito. Vogliamo che il capitale umano sia riconosciuto come un asset fondamentale per il patrimonio aziendale e che, come tale, venga considerato anche in ambito finanziario». Etica, capitale umano, responsabilità sociale d’impresa sono fattori importanti del progetto. Parole che non rientravano nel linguaggio della vecchia economia. A suo parere come si presenterà la nuova economia? «Secondo il Nobel per l’economia Gary Stanley Becker, il capitale umano rappresenta l’80% della ricchezza di una nazione. È ovvio che il patrimonio delle aziende italiane, a oggi elaborato solo su valori tangibili, dovrà essere riformulato in

questo senso. Occorre abbandonare una visione del lavoratore come macchina e del lavoro come ore impiegate, la valorizzazione delle nostre aziende passa per un ritorno alla centralità dell’uomo». Come stanno reagendo le istituzioni e le imprese al vostro progetto? «Venice Hai ha riscontrato interesse e curiosità da parte dei media e della classe imprenditoriale. Gli imprenditori di Confindustria Venezia sostengono direttamente l’iniziativa e alcuni di questi hanno deciso di mettere a disposizione del progetto il loro tempo e le loro conoscenze; tutti si sono detti disponibili a testare lo strumento di misurazione quando sarà pronto. La strada per arrivare a un indice definitivo passa, infatti, per numerose somministrazioni e limature: un processo che richiede la collaborazione di un ampio campione di aziende». Chi sono i partner del progetto? «Il progetto è promosso da Confindustria Venezia e da Unindustria Treviso con il sostegno della Camera di commercio di Venezia e dell’Azienda speciale camerale Venezi@Opportunità. La complessa attività di ricerca è condotta da un team di ricerca composto di ricercatori e professori universitari, coordinato dalla segreteria scientifica presieduta da Simone Cason, vicepresidente Pmi di Confindustria Venezia. La segreteria comprende rappresentati di aziende pubbliche e private. Il comitato scientifico che io presiedo, invece, si compone di diciannove autorità scientifiche, culturali ed economiche che hanno il compito di dare autorevolezza al lavoro. Tra i membri voglio ricordare Emma Marcegaglia, Ferruccio De Bortoli, Massimo Cacciari, Angelo Scola e Paolo Scaroni». VENETO 2009 | DOSSIER


104 SCENARI ECONOMICI Vendemiano Sartor

La Regione si muove e dà fiducia alle Pmi La Regione Veneto, attraverso lo stanziamento di un milione e mezzo di euro, sta dando una grossa mano a quelle piccole e micro imprese sparse per le sette province venete, che rischierebbero di sparire a causa della recessione in atto. Come spiega l’assessore all’Economia, Vendemiano Sartor di Federico Massari

e piccole e micro imprese artigiane sono da sempre l’asse portante del modello Veneto». Questo è quanto afferma l’assessore Vendemiano Sartor. Proprio in questi giorni la giunta regionale del Veneto ha dato il via libera allo stanziamento di un milione e mezzo di euro a fondo perduto ad appannaggio delle piccole e micro imprese artigiane che intendono investire risorse in modo da ammodernare la propria azienda. Soprattutto in questo momento di difficoltà, inoltre, l’assessore Sartor ricorda che l’accesso al credito si attesta come una criticità non ancora del tutto risolta per le piccole imprese artigiane: «Per questo la Regione Veneto – spiega – è voluta scendere in campo di sua iniziativa a sostegno del comparto produttivo. Così come già fece in

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passato mediante iniziative come, ad esempio, il fondo di rotazione». La giunta regionale del Veneto ha da poco stanziato un milione e mezzo di euro a fondo perduto a favore delle piccole e micro imprese artigiane che intendono investire risorse per ammodernare e migliorare la loro azienda. Una buona iniezione di fiducia per l’imprenditoria veneta, non trova? «Si tratta di finanziamenti che si aggiungeranno a quelli erogati dagli istituti di credito, secondo una convenzione tipo stilata dalla Regione Veneto in sinergia con le associazioni di categoria e con le banche del territorio. Le banche potranno finanziare progetti sino a 30mila euro, mentre il contributo regionale sarà dell’8% del totale. Siamo molto attenti alle istanze del mondo del lavoro.

L’assessore all’Economia della Regione Veneto, Vendemiano Sartor


Siamo convinti che solamente investendo in innovazione e in qualità si potrà uscire dalla crisi globale che interessa le province venete». Negli ultimi anni, in Italia e nel Veneto, l’occupazione stabile e a tempo pieno si è andata sempre più riducendo, lasciando spazio ad attività lavorative più flessibili. Che cosa si può fare per invertire questa tendenza? «Bisogna cominciare a rafforzare sia il sistema istruttivo e formativo, che quello del lavoro. Occorre collegare il sistema di formazione al sistema dell’impresa. Tanta precarietà deriva dal fatto che esistono percorsi di laurea che non trovano sbocchi sul mercato. Alcuni percorsi formativi danno garanzie di occupazione, altri meno». È necessario rafforzare ancora di più il rapporto tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro? «Le crisi ogni tanto servono a essere più propositivi. E quindi vediamo che oggigiorno esiste un rapporto migliore tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro. Le università in Veneto devono lavorare con maggiore sinergia per non farsi concorrenza, ma arrivare all’eccellenza. La ricerca e l’innovazione sono gli strumenti che la nostra regione ha a disposizione per garantire al modello socioeconomico veneto il superamento della crisi finanziaria». Secondo lei quali sono le strategie da mettere in atto per uscire da questo stato di recessione che sta mettendo in ginocchio il Paese? «Occorre tamponare le emergenze e favorire la liquidità all’impresa in

modo da superare questo stato di recessione. Poi occorre mettere insieme delle sinergie tra Stato, Regione e parti sociali per mantenere le persone legate all’impresa, e cercare di migliorare le loro capacità, per non andare a sperperare quel patrimonio lavorativo che in passato è stato molto utile. Dal punto

di vista strutturale occorre utilizzare questa crisi anche per rafforzare il sistema Veneto: superare il campanilismo e mettere in campo sinergie a livello regionale». Che cosa si sente di chiedere al governo? «Chiediamo libertà di spesa dei nostri soldi». VENETO 2009 | DOSSIER


Simest

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Apriamo le porte ai mercati esteri Internazionalizzare. È la strada migliore da seguire per le aziende italiane di costruzioni in una fase ancora critica per l’edilizia nazionale. Perché è questo il momento più adatto per investire in infrastrutture nel mondo. Lo ricorda Massimo D’Aiuto, Ad di Simest, finanziaria di sviluppo e promozione per l’imprenditoria italiana all’estero di Lorenzo Berardi

Massimo D’Aiuto, Ad di Simest, società finanziaria a capitale misto pubblico-privato

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ttantuno progetti di partecipazione in aziende operanti nel settore delle costruzioni già approvati. Progetti realizzati o in fase di realizzazione in più di 30 Paesi del mondo. Dalla Cina all’Albania, dalla Tunisia al Brasile passando per Marocco, Croazia, Ungheria. Uno stanziamento pari a 101,6 milioni di euro a fronte di investimenti complessivi per 2.253 milioni. Sono questi i numeri di Simest, la merchant bank pubblicoprivata a sostegno dei progetti di internazionalizzazione delle imprese italiane nata nel 1990. Il tutto senza dimenticare i 28 progetti di investimento nell’edilizia che si avvarranno di un fondo di venture capital appositamente creato da Simest con un impegno finanziario pari a 37 milioni di euro. Ma la società finanziaria di sviluppo e pro-

mozione dell’imprenditoria italiana all’estero, si occupa anche di incentivare le aziende e, secondo dati di fine aprile, ha già accolto 264 progetti in tal senso. In questo campo si va dal sostegno economico nelle gare internazionali a quello della penetrazione commerciale e sugli investimenti esteri sino agli studi sulla fattibilità tecnica dei progetti presentati. «Supportiamo economicamente l’internazionalizzazione delle imprese con i nostri strumenti, sia partecipativi che di credito agevolato – conferma Massimo D’Aiuto, ad di Simest –. Grazie alla nostra partecipazione al capitale di rischio e con l’attivazione del fondo di venture capital supportiamo lo sviluppo di società italiane all’estero». Un ruolo e un impegno che promettono di crescere ancora. È recente, infatti, la firma di un importante protocollo d’intesa sot-


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toscritto con l’Associazione nazionale costruttori edili. Un accordo che si inserisce all’interno di un percorso già iniziato da diversi anni e che rappresenta il degno coronamento di una serie di iniziative mirate. «La prima cosa di cui ci occupiamo è l’attivazione di contatti per un’azienda, sia a livello di commesse che di investimenti – ricorda D’Aiuto –. In entrambi i casi, facciamo attività di business scouting gratuito. Lo facciamo per nostra cultura: siamo una società di capitali, a maggioranza pubblica e a minoranza privata. Il ministero dello Sviluppo Economico ci ha messo a disposizione degli strumenti importanti come la gestione di alcuni fondi pubblici e di un fondo partecipativo». In quali fasi è articolata la vostra attività di supporto alle imprese di costruzioni italiane presenti nei

mercati internazionali? «Il primo step è l’individuazione delle attività di business, un aspetto che avevamo già avviato con tante aziende che fanno capo all’Ance e che però intendiamo incrementare con la firma del recente protocollo d’intesa. Un aspetto molto importante in questa fase perché in tutto il mondo vi sono delle situazione difficili, ma esistono Paesi che continuano a svilupparsi anche se con un tasso di crescita minore come India, Arabia Saudita, Brasile e alcuni Stati del Nord Africa. Ma anche Paesi che si trovano in fase recessiva come gli Stati Uniti, stanno varando programmi per lo sviluppo infrastrutturale. La Cina, pur rallentando il proprio ritmo di crescita annuo dal 12% al 3,5% ha investito sulle infrastrutture in maniera molto efficace. Anche l’Arabia Saudita si sta muovendo molto in que-

sto senso e in quel contesto le imprese italiane sono già presenti nella realizzazione di sei nuove città. Il primo di questi centri urbani è King Abdullah Economic City che sta sorgendo sul mare a circa 100 km da Jedda. Qui si parla di grossi investimenti, non solo per le costruzioni, ma anche per tutto quello che sono le utility collegate, come il porto e la metropolitana. E le aziende italiane possono inserirsi in questo panorama, assumendo commesse o avviando collaborazioni con partner esteri. Ecco perché abbiamo puntato molto sulle infrastrutture e soprattutto in queste realtà: nella sola Arabia Saudita si parla di investimenti di circa 300 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi 8 anni». Ci sono altre realtà interessanti? «Sicuramente l’Iraq, dove si sta finalmente avviando la ricostruzione, VENETO 2009 | DOSSIER


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«GRAZIE ALLA NOSTRA PARTECIPAZIONE AL CAPITALE DI RISCHIO E CON L’ATTIVAZIONE DEL FONDO DI VENTURE CAPITAL SUPPORTIAMO LO SVILUPPO DI SOCIETÀ ITALIANE ALL’ESTERO»

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Simest

e la Libia anche grazie ai recenti accordi sottoscritti con il governo di quel Paese. Più in generale, là dove ci sono opportunità di mercato importanti noi cerchiamo di individuarle, svilupparle e metterle a disposizione di una singola azienda italiana oppure di svolgere un’attività di aggregazione per le nostre imprese che così possono vincere la concorrenza delle realtà straniere. Nelle grosse commesse internazionali nel settore delle infrastrutture, infatti, spesso le nostre singole aziende si rivelano di dimensioni troppo ridotte rispetto ai competitor internazionali, per questo l’aggregazione si rivela fondamentale». La collaborazione fra Simest e alcune aziende che aderiscono all’Ance esiste già da diverso

tempo. Su quali direttive e con quali finalità avete lavorato assieme sinora? «Da anni lavoriamo con singole aziende come Impregilo, Astaldi, Todini. L’accordo sottoscritto con l’Ance ci permette di raggiungere un numero ancora più ampio di realtà nel settore delle costruzioni. La nuova frontiera, infatti, è cercare di andare a fare aggregazione là dove serve per vincere contro i grossi competitor. Noi troviamo soluzioni idonee aggregando aziende italiane che operano nell’edilizia». Quali sono stati sinora i maggiori ostacoli che hanno frenato il processo di internazionalizzazione delle imprese edili italiane? «Le aziende italiane sono state frenate essenzialmente dalle proprie dimensioni. Inoltre, è chiaro che, fino a quando le infrastrutture in Italia viaggiavano più o meno speditamente, le imprese del settore avevano meno stimoli a operare in altre realtà. Adesso che la fase congiunturale ha rallentato questi lavori, nonostante i grandi sforzi dell’attuale governo, le imprese cominciano a rivolgersi altrove. Il problema è che si avverte una mancanza di liquidità e quindi diminuiscono gli investimenti e i finanziamenti pubblici, un fenomeno che si avverte ancora di più nel resto d’Europa. Ecco, allora, che un’azienda che intende crescere comincia a guardare fuori dai con-


109 fini nazionali». La situazione negativa per l’edilizia sul mercato interno, può rappresentare una molla per l’internazionalizzazione di un numero sempre maggiore di imprese italiane? «Occorre ribaltare le situazioni critiche e trasformarle in opportunità. La molla determinata dallo stato di necessità è scattata soprattutto nel settore delle infrastrutture e delle energie. Le nostre aziende hanno compreso la situazione e per loro si tratta di un momento favorevole per internazionalizzare la propria presenza. Oggi, infatti, il settore che si sta sviluppando più velocemente nel mondo è proprio quello delle infrastrutture». Quali sono i mercati esteri ancora relativamente inesplorati e che presentano ampi margini di sviluppo? «Si è aperto un mercato molto interessante a Oriente, tanto in Russia, dove si terranno le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014, quanto in Kazakistan dove abbiamo rapporti operativi con il porto caspico di Aktau. Vi sono poi realtà interessanti nel Nord Africa come Algeria ed Egitto e nel Centro-Sud America con Panama e Cile dove le imprese italiane stanno avviando in questi mesi importanti investimenti. Esiste infine un grande mercato tutto da scoprire che è quello dell’Africa sub sahariana. Qui vi sono situazioni molto diversificate, ma sono presenti Paesi che stanno sviluppando le infrastrutture come il Sudafrica e altri Paesi dotati di molte risorse e che necessitano di un’adeguata rete infrastrutturale, basti citare Angola e Mozambico. Il settore offre numerose opportunità in tutto il mondo consentendo alle imprese italiane, che si stanno rivelando capaci di internazionalizzare, di guardare con grande ottimismo al proprio futuro».

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Vittorio Mincato

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Un network a sostegno di chi esporta Il Veneto è una terra capace di unire cultura, tradizione e innovazione. Questo mix rende il suo sistema economico leader nel mondo. Vittorio Mincato, presidente del Centro estero delle Camere di commercio venete, traccia un bilancio degli ultimi 12 mesi. E chiosa: «Una grande opportunità per la nostra regione potrebbe arrivare dalla riforma federalista dello Stato» di Federico Massari

Il presidente del Centro Estero delle Camere di commercio del Veneto, Vittorio Mincato

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a crisi c’è e si fa sentire nella vita quotidiana di tutti noi, ma l’impressione generale è che l’Italia stia reagendo grazie a uno stato d’animo positivo e propositivo». Questo è quello che afferma il presidente del Centro estero delle Camere di commercio del Veneto, Vittorio Mincato, rispondendo alla domanda: con quale piglio state affrontando la crisi? Mincato spiega, senza usare mezzi termini, che in gran parte del tessuto imprenditoriale del Veneto vige un profondo ottimismo e la volontà di ripartire per vincere le sfide della competizione internazionale è ferma. «Occorre – sottolinea – che tutti gli attori istituzionali sostengano gli sforzi che sta facendo il mondo dell’impresa». Il presidente allude soprattutto al comparto produttivo e aggiunge: «Le aziende non si devono sentire sole

con i loro problemi proprio nel momento in cui servono i sostegni delle istituzioni». Quali sono attualmente i settori trainanti del sistema economico veneto? «I settori che hanno registrato le migliori performance sono la meccanica e gli apparecchi elettrici e di precisione, ma un ruolo importante nella ripresa lo stanno recitando l’impiantistica industriale, le nanotecnologie, la meccatronica, le tecnologie ambientali, l’ingegneria delle automazioni e il design. Si tratta di comparti in cui operano aziende guidate da imprenditori esperti conoscitori del mondo, attenti alla qualità e propensi a internazionalizzare le loro imprese. La crisi ha fatto luce sulla necessità di scegliere dinamismo, tecnologia e apertura ai mercati internazionali». Ritiene che il sistema finanziario


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locale sostenga adeguatamente le imprese di fronte alla crescente concorrenza dei Paesi emergenti? «Il radicamento sul territorio del sistema finanziario regionale ha attenuato il fenomeno della divaricazione dei suoi interessi rispetto agli interessi del sistema produttivo. Il rapporto banca-impresa è più diretto e più sensibile alle esigenze dell’impresa di quanto accada nel rapporto con le grandi banche diffuse in tutto il territorio nazionale. È tuttavia innegabile lo stato di sofferenza finanziaria derivante dall’oggettiva generale carenza di liquidità e dalla attenzione delle banche a non deteriorare la qualità dei loro attivi: ne consegue che proprio le imprese più fragili hanno grandi difficoltà a finanziarsi sul sistema». Come supportate il tessuto produttivo in materia di internazionalizzazione e per rilanciare l’export? «Si tratta di un lavoro prezioso per le realtà esportatrici più piccole, che sono portatrici di ottime idee e di un incredibile know how da proporre, ma che spesso non possiedono gli strumenti di selezione mirata dei mercati e dei potenziali compratori. Il Centro estero Veneto e le Camere di commercio del territorio hanno istituito, in collaborazione con quelle italiane di tutto il mondo, una rete di sportelli specifici disseminati nei vari Paesi, pronti a risolvere i problemi che ho appena descritto. Lo spirito è quello del networking, attraverso intese con strutture came-

rali e non, presenti sui mercati emergenti e sui mercati consolidati, dai Balcani all’Est Europa, dall’Estremo Oriente all’America Latina. Sostenere l’internazionalizzazione delle imprese è di fondamentale importanza per la nostra economia». Che rapporto hanno le imprese venete con i lavoratori immigrati? «Per la relativa facilità a trovare occupazione e per l’alto livello della qualità della vita, il Veneto è una delle aree italiane maggiormente ricettive nei confronti dei cittadini stranieri. Quasi il 12 per cento di coloro che scelgono di vivere in Italia ha optato per la nostra regione. Il trend è in atto da molti anni e sta rafforzando una presenza già consolidata di circa 500mila persone, più del 9% dei cittadini residenti, e si attesta su livelli ben più alti della media nazionale. Abbiamo inoltre circa 50mila imprenditori stranieri che hanno deciso di lavorare e investire in Veneto». Quali risposte vi attendete dalla politica nazionale?

«Il Paese conoscerà una nuova e differente fase di sviluppo. Una grande opportunità potrebbe arrivare dalla riforma federalista dello Stato, a patto che l’applicazione dei principi generali appena approvati dal Parlamento sarà fatta in modo intelligente». VENETO 2009 | DOSSIER


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Ciim

I nostri valori conquistano il mondo Le imprese italiane si affacciano all’estero. E dai mercati stranieri si guarda all’Italia. La Ciim incoraggia questo scambio reciproco di interessi, conoscenze e cultura imprenditoriale. «Per strategie comuni all’insegna della diffusione del made in Italy e dell’internazionalizzazione delle imprese italiane», come ricorda il presidente Mario Baldassarri di Lorenzo Berardi

el mondo ci sono sessanta milioni di persone di origine italiana. Una vera e propria seconda Italia sparsa nei cinque continenti che rappresenta un patrimonio di scambi culturali ed economici ancora parzialmente inesplorato. Oggi le seconde e terze generazioni dei connazionali che scelsero di costruire la propria vita e le proprie fortune altrove sono riuscite a esprimere in numerosi Paesi una classe dirigente che ha saputo restare fortemente radicata alle proprie origini. «All’estero – sottolinea Mario Baldassarri, presidente della Confederazione imprenditori italiani nel mondo (Ciim) – contiamo imprenditori, commercianti, professionisti e politici. Basti solo pensare che esistono 350 deputati e senatori nei DOSSIER | VENETO 2009

Mario Baldassarri, economista e senatore del Pdl. È stato nominato presidente della Ciim nel settembre 2008

vari parlamenti del mondo che sono di origine italiana». Creata nel giugno 2004, la Ciim ha riunito in questi cinque anni imprenditori e manager di alto livello, italiani e di origine italiana, che risiedono all’estero o vi hanno

stabilito la propria attività. La Confederazione è oggi un’organizzazione indipendente, apartitica e autofinanziata dagli associati, che conta una struttura operativa in Italia e uffici di rappresentanza all’estero che fanno capo a impren-


ditori di riferimento nelle rispettive aree. «Mi è stato chiesto di assumere la presidenza della Ciim – conferma Baldassarri – per rafforzare e rilanciare le opportunità che l’imprenditoria italiana all’estero può rappresentare per le nostre aziende». Quali sono oggi i contatti fra la Ciim e le imprese italiane presenti sul territorio nazionale? «Il primo scopo della confederazione è tessere una rete fra singole realtà che, messe assieme, rappresentano qualcosa di importante. Ovviamente deve costruirsi un flusso a doppia entrata in cui un imbuto raccoglie dai territori esteri le capacità e le esperienze degli imprenditori italiani nel mondo per poi farle convergere su Roma. Gli imprenditori di origine italiana nel mondo, infatti possono fare da

apripista alle nostre aziende che operano all’estero, ma possono anche essere collegati agli imprenditori italiani in Italia così da creare un’integrazione tecnologica e commerciale. Il ruolo della Ciim è costituire questo crogiuolo di italianità e riunire gli imprenditori italiani del nostro Paese con quelli che invece operano all’estero, stabilendo un flusso a doppia entrata». In quali Paesi oggi la Ciim è presente e in quali si ripromette di entrare o acquisire importanza? «La Ciim è piuttosto forte in Nord America, in America Latina, in Turchia, in Cina e adesso puntiamo a coprire tutti quelle nazioni dove sono più forti le realtà italiane. Noi facciamo riferimento alle comunità d’origine italiana più che ai casi isolati e quindi guar-

diamo alle due Americhe, all’Australia, ai Paesi del Nord Africa e a quelli dell’Africa Centrale come il Kenya, nonché al Sud Africa». Quali valori del fare impresa e del made in Italy vengono esportati all’estero? «Spesso non ci rendiamo conto di quanto negli ultimi vent’anni il mondo abbia scoperto l’Italia. Questo è avvenuto grazie al contributo degli italiani all’estero, ma anche grazie alla bontà dei nostri valori, alla nostra qualità e al nostro modo di vivere. Noi non vendiamo un singolo prodotto, ma un profumo dell’aria, una forma di “way of life” che va dalla casa, alla famiglia, all’abbigliamento, all’alimentazione, ai distretti manifatturieri. Tutte queste caratteristiche sono state scoperte. Il made in Italy è rappresentato soprattutto dalla storia, dalla tradizione e dai valori forti che sono alle spalle dei brand di casa nostra». Quanto è importante creare reti efficaci di partnership fra le imprese italiane all’estero e quale è il ruolo svolto dalla Ciim in questo processo? «Siamo all’inizio di una grande avventura. La prima condizione è quella di costituire il network, così da consentire a una qualunque impresa italiana che desideri avere un interesse in un Paese estero di sapere chi deve contattare in quella VENETO 2009 | DOSSIER


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Pasta Zara

Verso i mercati di tutto il mondo Una vicenda secolare, una famiglia e quattro generazioni. E un unico chiodo fisso: produrre pasta di qualità. Oggi il 13,5% della pasta secca italiana consumata nel mondo è prodotta da Pasta Zara di Luca Amelia

ra il 1898 quando Emanuele Bragagnolo ebbe la brillante intuizione di dare vita a un pastificio artigianale. Da allora è passato più di un secolo tra investimenti, avanzamento tecnologico, ma soprattutto, nuovi stabilimenti. L’azienda, da sempre a Riese Pio X, nel trevigiano, prende la sua denominazione quando, prima del secondo conflitto mondiale, Umberto Bragagnolo fece costruire una seconda fabbrica in Dalmazia, nella città di Zara. Stabilimento che, in seguito, fu confiscato dal regime di Tito. Questo avvenimento aprirà una dolorosa ferita nella memoria della famiglia Bragagnolo, che ormai è da tempo alle spalle: ricorsi storici e nomi leggendari che ritroviamo solo nei libri di scuola. Oggi, il 13,5% della pasta italiana consumata in ogni angolo del globo è prodotta da Pasta Zara. Un marchio che è presente in ben 87 Paesi: dall’Australia alla Cina, dagli Usa al Giappone, passando per l’Africa equatoriale, ma rimanendo fortemente ancorata alle sue radici italiane e alla produzione made in Italy. Anche per questo i prodotti Pasta Zara sono impiegati dalla nazionale italiana cuochi, ossia la massima espressione della nostra cucina nel mondo, capace di conquistare 96 medaglie alle Olimpiadi di cucina del 2008. Le strategie aziendali hanno come obiettivo dichiarato, quello di rafforzarsi maggiormente sui mercati internazionali e consolidarsi su quello DOSSIER | VENETO 2009

italiano. Nel maggio scorso, Friulia, la finanziaria regionale del Friuli Venezia Giulia, ha aumentato la sua presenza nel pacchetto azionario di Pasta Zara. Friulia è passata dal 10,77% al 14,52%. Contemporaneamente, è stato sottoscritto un aumento del capitale sociale di 5 milioni di euro: così da poco meno di 48 milioni di euro è passata a più di 52. «Friulia è un partner con il quale abbiamo lavorato sempre molto bene - ha spiegato Furio Bragagnolo, attuale presidente dell’azienda – se siamo cresciuti così tanto in questi anni lo si deve anche all’impegno della finanziaria regionale, nonché all’ampia gamma di prodotti che ci contraddistingue e che ha trovato il consenso dei consumatori. La nostra collaborazione con Friulia ha tutti i presupposti per centrare obiettivi sempre più importanti».


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«IL MADE IN ITALY NON È RAPPRESENTATO SOLO DAI GRANDI MARCHI PRESENTI NEI MERCATI INTERNAZIONALI, PERCHÉ ALLE SPALLE DI QUESTI BRAND VI SONO UNA STORIA, UNA TRADIZIONE, E DEI VALORI FORTI»

realtà. L’Italia non è ricca di materie prime, ma conta su un giacimento culturale e artistico senza pari. Dobbiamo attingere a questa miniera, ma anche a un’altra risorsa che sinora è stata trascurata ed è rappresentata dai 60 milioni di italiani nel mondo. E, a differenza del petrolio e del gas, questi due giacimenti sono inesauribili, anzi si arricchiscono col tempo». Come sta avvenendo oggi il dialogo fra i diversi imprenditori italiani nel mondo e quali sono le strategie comuni concordate da questo business network? «Occorre fare conoscere fra loro gli imprenditori di origine italiana presenti nei vari Paesi del mondo con quelli italiani così da creare una squadra compatta. Su questo siamo avvantaggiati dal fatto che molte di queste realtà hanno eccellenti rapporti con le autorità e le istituzioni locali. Va inoltre creata una sorta di cordone ombelicale, un tubo di comunicazione che dai vari Paesi del mondo converga sull’Italia. La Ciim, in quest’ottica, deve essere lo smistatore dall’Italia

verso i territori, le imprese e le istituzioni italiane. Un compito che deve essere svolto in accordo e in stretta collaborazione con l’Ice, le camere di commercio e le nostre sedi diplomatiche nel mondo. Solo così si possono raggiungere grandi opportunità di business e di competitività internazionale per l’Italia che può rappresentare una crescita del 20 o 30% del Pil nell’arco di vent’anni». Uno degli obiettivi della confederazione è quello di attrarre investimenti esteri verso l’Italia: perché oggi scarseggiano? «Gli imprenditori esteri sono spaventati dalla nostra burocrazia, così come dall’assenza di infrastrutture adeguate al business. Ecco perché l’Italia deve semplificare le normative e, al tempo stesso, prepararsi ad accogliere questi soggetti investendo su porti, aeroporti, autostrade e ferrovie sia nazionali che locali. Occorre inoltre che esista un associazionismo diffuso in grado di presentare le economie di filiera agli imprenditori stranieri interessati a investirvi». VENETO 2009 | DOSSIER


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Il caso Bifrangi

Un Paese che non crede nel domani Burocrazia, assistenzialismo, mancati investimenti per lo sviluppo. Questi i mali che tarpano le ali al sistema imprenditoriale del nostro Paese. E c’è chi comincia a dire basta. Come Francesco Biasion, leader della Bifrangi, azienda metalmeccanica leader del settore. Che si dichiara pronto a lasciare l’Italia se la situazione non cambia di Andrea Pietrobelli

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alle sue parti lo conoscono un po’ tutti, anche perché l’azienda che dirige, la Bifrangi, oltre a essere una delle industrie storiche dell’alto Vicentino, è anche leader del settore metalmeccanico. Ma dopo il grido d’allarme lanciato qualche settimana fa, Francesco Biasion è entrato di fatto nel dibattito economico nazionale. Anche se lui non smette di ribadire che di questa popolarità avrebbe fatto felicemente a meno. «Stavolta però è stato superato il limite, non potevo più stare zitto» spiega l’imprenditore berico. L’origine del suo j’accuse? A causa dei labirinti burocratici in cui, volenti o nolenti, le aziende del nostro Paese devono quotidianamente avventurarsi, Biasion si è trovato a

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dover rinunciare a un importante business: l’acquisto di un maglio di 55mila tonnellate, unico al mondo, grazie al quale avrebbe potuto garantire nuova competitività alla sua impresa. Un investimento che avrebbe avuto ricadute positive anche su scala nazionale. «A questo progetto lavoravo ormai da due anni – spiega l’imprenditore –. Avevo ottenuto tutte le autorizzazioni: da quelle regionali e provinciali, al via libera dello sportello unico e dei vigili del fuoco. Si è arenato quando ormai ero giunto alla fine di tutta questa trafila burocratica, ossia quando serviva l’autorizzazione comunale. Che è arrivata fuori tempo massimo». E così oggi, il maglio, invece che a Mussolente, piccolo Comune vicino a Bassano del Grappa

dove ha sede la Bifrangi, si trova negli stabilimenti di un concorrente negli Stati Uniti. «Sono profondamente deluso. Abbiamo perso uno di quei treni che, una volta lasciati andare, difficilmente ripassano» sottolinea con rammarico Biasion. Quanto peserà sulla sua azienda e sull’indotto del territorio questo mancato business? «Tanto, tantissimo. Sia a livello economico che di immagine. Abbiamo sciupato una grandissima occasione di crescita. Questo maglio era un’opera unica al mondo, un progetto strategico, che avrebbe potuto risolvere molti problemi industriali e sviluppare un mercato di nicchia. Su scala nazionale, poi, avrebbe garantito lavoro ad almeno un migliaio di persone. Ma ormai è andato. E dire


117 Francesco Biasion, amministratore delegato della Bifrangi. L’azienda vicentina è stata fondata nell’Ottocento e oggi ha un fatturato di circa 160 milioni di euro. Conta 400 operai in Italia e altri 400 negli stabilimenti di Sheffield e Lincoln, in Inghilterra, dove dal 2001 Biasion ha cominciato a spostare parte della produzione

«CI SENTIAMO ABBANDONATI. LE ISTITUZIONI SONO DISTANTI. E LE IMPRESE CHE PRODUCONO SONO OBBLIGATE A MANTENERE DI TASCA PROPRIA UN SISTEMA BUROCRATICO INUTILE»

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Il caso Bifrangi

CHI TORNA Motta e Alemagna tornano in Italia e parlano veneto opo sedici anni tornano in Italia due marchi storici dell’industria alimentare del nostro Paese. Si tratta di Motta e Alemagna, passate dalla Nestlè al gruppo veronese Bauli. La multinazionale svizzera, che aveva acquistato le due aziende milanesi nel 1993 dalla Sme, ha mantenuto la proprietà dei due marchi esclusivamente nel settore dei surgelati e dei gelati. L’operazione, nel suo complesso, è da leggere positivamente, soprattutto perché avvenuta in un periodo non semplice per l’industria europea. Complessivamente Motta e Alemagna detengono la seconda quota del mercato dolci da ricorrenza in Italia, rappresentando un comparto interessante per un operatore focalizzato su questa specifica categoria come Bauli. Il gruppo veronese ha già elaborato un piano industriale che, tenendo conto delle attuali condizioni del mercato dei dolci da ricorrenza, vuole garantire un ulteriore sviluppo degli storici brand, con particolare attenzione al mercato dei prodotti dolciari continuativi. Un segnale, questo, che ridà fiducia al settore agroalimentare italiano e che dimostra come il sistema industriale del nostro Paese continui a rimanere competitivo anche su scala internazionale.

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che in Inghilterra mi avrebbero fatto i ponti d’oro per portarlo da loro». Intende nelle città di Sheffield e Lincoln, dove si trovano gli altri due stabilimenti della Bifrangi? «Esattamente. Ho avuto modo di incontrare tutte le massime autorità nazionali e locali inglesi: politici, tecnici, rappresentanti sindacali. Ognuno di loro ha provato a convincermi a spostare la mia azienda nel Regno Unito. Il sindaco di Lincoln, in particolare, mi ha ricevuto nella sala consigliare del Comune, riservandomi la stessa cerimonia che qualche tempo prima avevano allestito per una visita dei Reali. In Italia, invece, nessuno si è fatto sentire, nessuno si è impegnato o ha dimostrato il minimo interesse. L’amministrazione locale non ha fatto nulla per aiutarci. Da noi, purtroppo, non c’è interesse a partecipare allo sviluppo e alla modernizzazione delle aziende. Non si investe nel futuro». Quindi ha deciso? Lascia l’Italia e si trasferisce in Inghilterra come annunciato? «Ci sto pensando realmente. E, in parte, ho già cominciato a farlo, anche se un’industria che ha le dimensioni della Bifrangi non si può spostare dall’oggi al domani. Ma non posso più permettermi di perdere progetti importantissimi che costituiscono la base per superare questa crisi. E poi sono stufo, in Italia sembra che facciano di tutto

per complicare la vita a chi vuole lavorare. Dobbiamo sottostare a una tale burocrazia che ormai servono più impiegati amministrativi che operai. E io mi trovo a dedicare la maggior del mio tempo a correre dietro le carte invece che a pianificare progetti di sviluppo». Vi sentite lasciati soli voi imprenditori? «Ci sentiamo abbandonati. Basti pensare che, dopo la mia denuncia pubblica, ho ricevuto la solidarietà di molti altri imprenditori, non solo del Veneto. Le istituzioni sono distanti. E le imprese che producono sono obbligate a mantenere di tasca propria un sistema burocratico inutile. Ma questa situazione non è più sostenibile. Solo per fare un esempio: un imprenditore che oggi deve chiedere la cassa integrazione deve passare attraverso un iter amministrativo lento e ridondante: bisogna fare assemblee, incontri coi sindacati, dibattiti, approvazioni. Tutto tempo perso che finisce sulle spalle del lavoratore vero, l’operaio, che si trova sua malgrado a tirare la carretta anche per altri. Dobbiamo al più presto rimettere i piedi per terra, riflettere sulla situazione, anche per capire dove stiamo andando». A suo parere dove si dovrebbe intervenire con più urgenza per ridare ossigeno alle imprese? «Bisognerebbe semplicemente lasciarle lavorare in santa pace. Finirla con la mentalità


«QUESTO MAGLIO ERA UN’OPERA UNICA AL MONDO, UN PROGETTO STRATEGICO, CHE AVREBBE POTUTO RISOLVERE MOLTI PROBLEMI INDUSTRIALI E SVILUPPARE UN MERCATO DI NICCHIA»

assistenzialistica. Serve poi ripensare ai contratti di lavoro. Non è possibile che un dipendente abbia il potere di andarsene da un’azienda come e quando vuole, mentre un imprenditore non può nemmeno pensare di sostituire un lavoratore che magari non è tagliato per l’azienda in cui opera. Si tratta di una condizione che non esiste in nessun’altra parte del mondo. E intanto Cina e India ci superano grazie a costi di produzione che sono un terzo dei nostri. Come possiamo fare concorrenza a chi può avvalersi di personale che lavora 12 ore per un dollaro?». C’è chi propone di ritornare ai dazi per colmare questo svantaggio. «Macché dazi, in Italia abbiamo un tessuto imprenditoriale straordinario, capace di conquistare tutti i mercati. Se continua a essere lasciato solo, tantissime fabbriche saranno costrette a chiudere. Basti pensare che in questo momento almeno il 30 per cento delle aziende metalmeccaniche del nostro Paese è in fortissima crisi». Molti imprenditori denunciano anche una tassazione troppo pesante. «La tasse si pagano in tutto il mondo. È ovvio che queste risorse dovrebbero essere utilizzate per sviluppare il Paese, invece che a frenarlo e basta. È questo lo scandalo. Se esistessero servizi adeguati per imprese e cittadini sarebbero in

pochi a lamentarsi». Tornando alla crisi, circa il 50 per cento del fatturato della Bifrangi è legato al settore automobilistico. Come ha guardato al progetto di aggregazione di Fiat con Chrysler? «La mia impressione è che si sia voluto acquisire aziende fallite per accaparrarsi ulteriori aiuti statali. Ma così si peggiora la situazione. Le crisi si devono soffrire, sopportare, e chi deve chiudere, chiude. Se una casa automobilistica non è capace di andare avanti da sola, significa che deve uscire dal mercato. Con l’assistenzialismo non si va più da nessuna parte. Questo vale per il settore delle auto come per le banche, tanto per intenderci». Ma senza gli incentivi al settore automobilistico anche lei ci avrebbe rimesso. «Certamente, ma almeno avremmo imboccato la strada per arrivare a un’economia sana. Nel contesto in cui viviamo non possiamo più permetterci sprechi. Non si può perseguire ogni volta un modello economico sbagliato perché fa comodo alla politica, così può dimostrare cha “fa tanto”. Quando in un mercato ci sono troppi player è ovvio che servono dei tagli. E se non si lascia fallire chi non è più competitivo ci rimette sempre chi lavora ed è serio. Non è più possibile accettare di vivere in un mondo che funziona così, alla rovescia».

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FINANZIAMENTI E PMI 121

Non lasciate le imprese senza paracadute Mancanza di liquidità e contrazione del credito bancario stanno mettendo in ginocchio le piccole e medie imprese, lo scheletro produttivo del Veneto. Claudio Miotto e Oreste Parisato, a capo rispettivamente di Confartigianato e Cna regionali, invocano il sostegno delle istituzioni territoriali e nazionali per queste importanti realtà di Francesca Druidi

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irca 400mila persone, ossia il 20% della forza lavoro regionale, occupate in 145mila imprese, che generano un valore aggiunto di 20 miliardi di euro l’anno. Numeri che attestano l’importanza del mondo artigianale e delle aziende di piccole e medie dimensioni in Veneto. «Aiutare queste realtà produttive – conferma Claudio Miotto, presidente di Confartigianato Veneto – significa aiutare i protagonisti dell’economia reale. Un mondo che non può e non deve essere lasciato solo a sfidare la crisi senza alcun “paracadute” personalizzato». Secondo Oreste Parisato, presidente di Cna Veneto, l’accresciuta richiesta, registrata a maggio, da parte delle Pmi di avvalersi della cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) in deroga, sottolinea il protrarsi degli effetti negativi della congiuntura eco-

nomica avversa. A soffrire maggiormente nei primi tre mesi del 2009 sono stati l’edilizia, che conferma la tendenza negativa iniziata alla fine del 2008, l’installazione di impianti (-2%) e, in generale, tutto il manifatturiero, in particolare le aziende di subfornitura dei comparti meccanica, moda e legno. La crisi sta, inoltre, accentuando alcune criticità endemiche del sistema produttivo, quali il ritardo nei pagamenti o la loro totale perdita in caso di fallimento. «Una situazione esplosiva – afferma Claudio Miotto – in particolare per le aziende contoterziste, l’80% del manifatturiero veneto, a cui si deve porre rimedio quanto prima». Tra le soluzioni individuate dal numero uno di Confartigianato, il concreto rispetto della legge relativa alla subfornitura e una maggiore elasticità da parte degli istituti di credito nei casi di sconfinamento dovuti al mancato in-

In alto, Oreste Parisato, presidente di Cna Veneto. Sotto, Claudio Miotto, presidente di Confartigianato Veneto

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122 FINANZIAMENTI E PMI Cna - Confartigianato

«CHIEDIAMO CHE NELLA SECONDA PARTE DELL’ANNO REGIONE E GOVERNO NON DISTOLGANO ATTENZIONE E RISORSE NÉ DAGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI NÉ DAL CREDITO»

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casso. «Le problematiche più urgenti – ribatte Oreste Parisato – sono il sostegno alla ripresa degli investimenti e soprattutto la liquidità delle aziende». Una soluzione è senza dubbio il ricorso al credito. Nel primo trimestre 2009, le imprese artigiane si sono rivolte massicciamente ai nove confidi soci del Consorzio regionale di garanzia per l’artigianato, che fa riferimento a Confartigianato

Veneto. Hanno subìto un rialzo i finanziamenti per liquidità rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (+46%), oltre all’aumento delle richieste di finanziamento degli investimenti (+7%). Entrambi i presidenti delle associazioni rappresentanti l’artigianato e le piccola impresa sono concordi nel rimarcare la fase di rigida selezione degli affidamenti e di forte restrizione del credito operata dalle banche,


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La tutela del risparmio è l’avamposto della fiducia Salvaguardare i risparmiatori significa alimentare il clima di fiducia. Elemento propulsore per la ripresa dei mercati finanziari e creditizi. Lo sostiene Angelo Tommasini, presidente del Fondo nazionale di garanzia. Organismo finalizzato alla tutela dei crediti vantati dai clienti nei confronti dei soggetti autorizzati all'esercizio di attività di intermediazione mobiliare. ndennizzare gli investitori per le perdite subìte in caso di insolvenza di un intermediario finanziario, categoria che include banche, società di intermediazione mobiliare (Sim) società di gestione del risparmio (Sgr), società fiduciarie e agenti di cambio. Così può essere sintetizzata la funzione istituzionale del Fondo nazionale di garanzia (Fng). «Tutti gli intermediari finanziari – spiega il presidente Angelo Tommasini – devono obbligatoriamente aderire al Fng per essere autorizzati a prestare i servizi di investimento: vale a dire l’esecuzione di ordini di acquisto e di vendita di valori mobiliari quali azioni, obbligazioni, buoni del tesoro e certificati di credito; la gestione di portafogli per conto dei clienti e il collocamento di valori mobiliari». Presupposto dell’intervento del Fondo è la liquidazione coatta amministrativa o il fallimento di un intermediario finanziario. «L’intervento del Fng – prosegue Tommasini – consiste nell’indennizzare i crediti dell’investitore che siano stati ammessi allo “stato passivo” dagli organi della procedura concorsuale». In base alla normativa vigente, l’inden-

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nizzo si commisura all’importo dei crediti di ciascun investitore, detratte le eventuali somme corrisposte a titolo di ripartizioni parziali effettuate dagli organi della procedura concorsuale, fino a un massimo di 20mila euro. «Una delle principali cause che, fino a oggi, ha provocato la crisi di un intermediario finanziario è stata la mancata, puntuale e corretta applicazione delle norme che regolano l’attività di intermediazione mobiliare. Tra queste, la netta separazione dei valori dei singoli clienti da quelli dell’intermediario». Il presidente evidenzia, inoltre, come le azioni più numerose attuate dal Fondo nazionale di garanzia si riferiscano agli anni che vanno dal 1992 al 2003. Successivamente, si sono verificate una sola insolvenza nel 2007 e due nel 2008. «Gli interventi hanno interessato esclusivamente clienti di società di intermediazione mobiliare e agenti di cambio. Nessuna banca ha comportato l’intervento del Fondo». Il Fondo nazionale di garanzia, istituito dall’articolo 15 della legge 2 gennaio 1991 e riconosciuto come sistema di indennizzo dal decreto legislativo

415 del 1996, è sempre dotato delle disponibilità finanziarie necessarie per assolvere agli interventi istituzionali. «Il Fng degli intermediari finanziari e il fondo interbancario di tutela dei depositi – conclude Tommasini – sono organismi presenti in tutti i Paesi della Comunità europea e negli altri principali Paesi industrializzati. Organismi che, prevedendo interventi a tutela del risparmio, sono tesi a favorire il clima di fiducia, che è una delle condizioni necessarie per il buon funzionamento dei mercati finanziari e creditizi».

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124 FINANZIAMENTI E PMI Cna - Confartigianato

in particolare da quelle di interesse nazionale. «È innegabile che il contenzioso, ossia la richiesta revoca immediata da parte delle banche, sia aumentato in questi ultimi mesi – spiega Claudio Miotto –. Il nostro sistema del credito ha stimato un +20%, ma il fenomeno DOSSIER | VENETO 2009

sembra avere dimensioni non drammatiche». Da segnalare il mantenimento del tasso di sofferenza delle nostre imprese sotto l’1,8%. «Un indicatore di correttezza – continua Miotto – purtroppo non premiato dagli istituti di credito che, nel frattempo, hanno invece aumentato

lo spread bancario. La riduzione di due punti dell’Euribor è riflessa in un calo del costo del denaro di solo un punto. A queste condizioni significa che, tenendo conto solo delle operazioni garantite dal nostro sistema confidi, le aziende “lasciano” alle banche un milione di euro al mese». Il crescente ruolo di supplenza esercitato dai confidi, rispetto alla carenza delle imprese di offrire sufficienti garanzie alle banche, è riconosciuto con forza anche da Cna. «Si sta assistendo a un’inversione di tendenza – afferma Oreste Parisato –. Se prima del deflagrare della crisi, gli istituti di credito apparivano quasi in competizione con i confidi, oggi sono le banche stesse a indirizzare le aziende verso questo strumento. Il passaggio dai confidi assicura poi alle aziende un ulteriore valore aggiunto, quello della consulenza nella formulazione della richiesta. Un’azione particolarmente apprezzata dalle banche». Il presidente di Cna Veneto lamenta però un sostegno troppo esiguo da parte della Regione: «Degli undici milioni destinati alla patrimonializzazione dei confidi promessi a settembre 2008, ne è stato erogato soltanto uno». Altra nota dolente viene dalla ripartizione del Fondo unico regionale per lo sviluppo economico e le attività produttive. Alla luce di una ri-


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CARLO SANGALLI*

Più credito per le imprese, meno fisco per le famiglie a crisi si delinea più lunga e più profonda di quanto immaginato. Le nostre previsioni per l’anno in corso stimano il Pil in diminuzione del 2,3% e i consumi in ribasso dell’1%, mentre per il 2010 si registrerebbe una crescita zero e consumi in lievissima ripresa. La fiducia delle imprese è crollata e nel commercio il 2008 si è chiuso con un risultato fortemente negativo: oltre 120mila imprese hanno abbassato definitivamente la saracinesca e lo stock complessivo si è ridotto di quasi 40mila unità. E per quest’anno si conferma una crescita del divario tra cessazioni e nuove iscrizioni. Per fortuna regge ancora la fiducia delle famiglie, ma è difficile prevedere fino a quando. La preoccupazione più grande è, però, il rischio che nel 2010, per effetto di ritardi strutturali di lungo periodo e per l’impatto della recessione sull’economia reale, il nostro Paese si ritrovi, in termini di Pil e di consumi pro-capite, allo stesso livello del 2000 con una sostanziale frattura economica tra il Mezzogiorno, da una parte, e il Nord-Centro, dall’altra. È, quindi, sempre più urgente procedere con coraggio e determinazione alle riforme, a partire dalla struttura della spesa pubblica, per rilanciare la crescita e la produttività, per affermare il merito e la responsabilità, per

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duzione del 54% (si è passati dai 34 milioni di euro del 2008 ai 15,7 del previsionale 2009) delle poste dedicate all’artigianato nel bilancio di previsione della Regione Veneto, il mondo dell’artigianato aveva riposto molte aspettative sull’ipotesi di riparto del Fondo Unico per ot-

reagire con efficacia alla recessione. Certamente è, innanzitutto, responsabilità della politica e di chi governa farsi carico di questa situazione, ma anche nostra e delle altre parti sociali. Proprio per questo abbiamo di recente proposto un “patto” tra governo, istituzioni, forze sociali per dare più fiducia al Paese, alle famiglie e alle imprese con l’obiettivo di permettere al Pil italiano di crescere, nel prossimo biennio, molto di più rispetto alle previsioni, sostenendo così la tenuta dei conti pubblici e dell’occupazione. Un patto, dunque, che faciliti l’accesso al credito per le imprese e alleggerisca il prelievo fiscale sulle famiglie. Per contrastare la stretta creditizia, sarà importante l’attuazione delle misure individuate per il rafforzamento patrimoniale delle banche e la vigilanza, anche tramite gli Osservatori del credito, sugli impegni delle banche a favore delle famiglie e delle Pmi. Occorre, inoltre, rafforzare il ruolo degli strumenti di garanzia: sia dei consorzi fidi, sia del fondo centrale di garanzia. In questo senso, bene ha fatto il governo a confermare la scelta di un importante rifinanziamento del fondo. Insieme, vanno però sbloccati i ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei loro fornitori. Crediti che, nel complesso, valgono

tenere incentivi alle imprese. Un recupero che, di fatto, non c’è stato, in quanto al mondo artigiano è stato assegnato il 10% degli importi. Per questo, Confartigianato, Cna e Casartigiani del Veneto hanno invocato, attraverso una proposta unitaria, l’erogazione di ulteriori 7,5 mi-

qualcosa come 2,5 punti di Pil. C’è, poi, un’altra questione strutturale ancora irrisolta sul tappeto: la riduzione dei costi fissi per il commercio e per le imprese dei servizi. Si pensi, ad esempio, che le piccole e medie imprese italiane pagano l’elettricità il 40% in più rispetto alla media europea, arrivando a spendere più del doppio di quanto pagano le imprese in Francia. A questo proposito, il nostro auspicio è che, pertanto, si possa procedere con passo spedito all’effettiva liberalizzazione dei servizi bancari, assicurativi e di pubblica utilità. *Presidente di Confcommercio

lioni di euro, che andrebbero ad aggiungersi ai 5 milioni già previsti per finanziare Artigianacassa. «L’allarme che abbiamo lanciato – dichiara Claudio Miotto, numero uno di Confartigianato – ha aperto un dibattito che speriamo si traduca in modifiche concrete. Il Fondo VENETO 2009 | DOSSIER


126 FINANZIAMENTI E PMI Cna - Confartigianato

COSTO DEL GAP DEI TASSI PRATICATI DALLE BANCHE IN ITALIA E IN AREA EURO: 2006 - 2009 Gennaio 2006 - Marzo. 2009 - Tassi su finanziamenti in essere ponderati per classe di scadenza

Anno

Gap (Mln di €)

Tasso Medio Italia

Tasso Medio UEM

Divario

Finanziamenti alle imprese non finanziarie (stock medio periodo, in mln di €)

1.101 2.208 3.433 343 7.084 2.180

4,70 5,60 6,15 4,87

4,54 5,31 5,74 4,71

0,16 0,29 0,41 0,16

678.632 765.139 846.729 870.421

2006 2007 2008 2009 (Gen/Mar) Totale Media annua

Elaborazione Ufficio Studi Confartigianato su dati BCE

«SE PRIMA DELLA CRISI, GLI ISTITUTI DI CREDITO APPARIVANO QUASI IN COMPETIZIONE CON I CONFIDI, OGGI SONO LE BANCHE STESSE A INDIRIZZARE LE AZIENDE VERSO QUESTO STRUMENTO»

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unico è uno strumento importante, ma non si tratta della nostra “ultima spiaggia”. Diversi sono i momenti di confronto, come ad esempio la redazione del bilancio regionale consuntivo». La preoccupazione di Oreste Parisato riguarda lo stanziamento di risorse destinate a voci di spesa che difficilmente potranno essere effettivamente utilizzate nel corso del 2008. Tra queste, rientra la legge 19 del 2004 relativa agli interventi di ingegneria finanziaria per il sostegno e lo sviluppo delle piccole e medie imprese, «che hanno riguardato – afferma Parisato – in questi anni casi sporadici di imprese. E in un momento di crisi come l’attuale, convogliare risorse su questo capitolo di spesa, mi pare davvero improduttivo». La priorità oggi è quella di trovare misure correttive tese a invertire l’andamento negativo, liberando risorse in favore delle Pmi. «Il Piano casa – riconosce

Miotto – è certamente il provvedimento più urgente, perché incide profondamente in un comparto che, da solo, rappresenta un terzo dell’artigianato veneto e che con l’indotto diviene determinate per la ripresa». I presidenti delle due categorie rivolgono, infine, un appello alle istituzioni. «Chiediamo – conclude Miotto – che nella seconda parte dell’anno Regione e governo non distolgano l’attenzione né dagli ammortizzatori sociali né dal credito». Per Oreste Parisato è, inoltre, fondamentale compiere scelte nella direzione di una veloce ed effettiva spendibilità delle risorse: «Occorre un’accelerazione della Regione nel mettere a regime una serie di risorse derivanti da fondi europei, che in maniera diretta o indiretta andrebbe a favorire le piccole e medie imprese, ma per la quale servono in tempi rapidi sia la pubblicazione dei bandi che l’avvio delle gare».





134 IL VALORE DELLA BELLEZZA Sandro Bondi

L’economia è una questione culturale La cultura come strumento di crescita e di promozione dell’Italia nel mondo. Attraverso progetti qualificanti che coinvolgano pubblico e privato. Perché, afferma il ministro per i Beni e le attività culturali Sandro Bondi, cultura e sviluppo economico sono «destinati a camminare fianco a fianco» di Giusi Brega

idea dello scrittore Alessandro Baricco di tagliare i contributi a lirica e teatro e concentrarli su scuola e televisione lo colpisce piacevolmente. Perché apre «un dibattito interessante» in cui Sandro Bondi, ministro per i Beni e le attività culturali, interviene di gran carriera per ribadire che le risorse pubbliche «non devono essere l’unico sostegno dell’impresa culturale» e che non bisogna aver paura di «lasciare il campo all’iniziativa privata». Pubblico e privato insieme, dunque. Al lavoro per trasformare la cultura italiana in un volano per l’economia. Qualche mese fa una dichiarazione di Alessandro Baricco ha aperto un acceso dibattito sui finanziamenti alla cultura. Quali sono le strategie da mettere in campo per sostenere economicamente la conservazione e la promozione dei beni culturali? «Ho sinceramente apprezzato il dibattito aperto da Baricco. Credo

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Sandro Bondi, ministro per i Beni e le attività culturali

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che sia arrivato il momento di pensare a sistemi di finanziamento indiretti a sostegno della cultura, come la defiscalizzazione degli investimenti. Questo non solo aumenterebbe le risorse ma libererebbe energie, rendendo autenticamente libera la produzione culturale. Anche se ritengo che un sostegno pubblico vada sempre riconosciuto alla cultura, tuttavia occorre trovare forme di controllo improntate alla migliore efficienza nell’impiego di risorse statali». Qual è la sua opinione in merito alle fondazioni pubblicoprivate come soggetto incaricato di gestire e promuovere la cultura italiana? «Le fondazioni sono uno strumento fondamentale a cui dobbiamo ricorre per coinvolgere i privati in una più stretta collaborazione per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale. In questo senso abbiamo già siglato un accordo con il presidente di tutte le fondazioni bancarie, il pro-


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I MINISTRI BONDI E FRATTINI INSIEME PER LA CULTURA

fessor Guzzetti. Siamo già operativi con un gruppo di lavoro comune, finalizzato al finanziamento di grandi progetti nel campo della cultura e dei beni culturali, tra i quali anche quello della Grande Brera a Milano. L’importante dal punto di vista del ministero della Cultura è ottenere il contributo delle fondazioni sui grandi progetti qualificanti, specialmente per quanto riguarda i musei e le grandi aree archeologiche di cui l’Italia è ricca». La cultura italiana può e deve diventare una sorta di “industria” in grado di trainare l’economia del Paese? «Sono convinto che la cultura e lo sviluppo siano destinati a camminare sempre più fianco a fianco. A settembre si svolgerà presso la Villa Reale di Monza il Forum annuale Unesco per la cultura e le industrie culturali. È un evento unico nel suo genere cui parteciperanno esponenti istituzionali, imprese, attori pubblici e privati, accomunati

dalla volontà di valorizzare il sicuro apporto delle industrie culturali alla crescita economica. Durante il Forum Paesi emergenti e Paesi in via di sviluppo potranno attingere a un bacino di expertise ed esperienze maturate dal nostro e da altre nazioni nel settore delle industrie culturali, comparto strategico per il rilancio del turismo, per la creazione di posti di lavoro, per il rilancio delle esportazioni di prodotti tipici, espressioni delle diverse identità locali». Recentemente è stato stipulato a Teheran un accordo per il restauro della tomba di Ciro il Grande tra tecnici italiani e iraniani. Quanto l’Italia può dare in termini di conoscenze, competenze e innovazione per la conservazione del patrimonio culturale anche ad altri Paesi? «Sono molto orgoglioso della firma di questo protocollo. È solo uno degli esempi importanti di quanto l’Italia può fare per la cultura, non tanto perché detiene un patrimo-

Il memorandum d’intesa tra ministero degli Affari esteri e quello per i Beni e le attività culturali per la promozione all’estero dell’immagine, della cultura e della lingua italiane è stato firmato dai ministri Franco Frattini e Sandro Bondi il 31 luglio 2008. L’accordo contempla una stretta e proficua collaborazione tra i due dicasteri, con lo scopo di rilanciare forme di cooperazione per l’azione di politica culturale dell’Italia all’estero, attuando sinergie che ottimizzino il patrimonio e le altre ricchezze culturali del nostro Paese. Il tutto per mezzo di un programma operativo articolato che spazi dagli appuntamenti espositivi alla musica, dallo spettacolo al cinema, dalla promozione del libro al restauro dei beni culturali. L’obiettivo primario dell’accordo è far conoscere, tramite la rete dei 90 Istituti italiani di cultura e le rappresentanze diplomatiche e consolari presenti in oltre cento Paesi, mostre e materiale informativo realizzati, anche in versione informatica, dal ministero per i Beni e le attività culturali, al fine di sostenere l’immagine dell’Italia all’estero. In quest’ottica, si vuole incentivare la conoscenza, del patrimonio culturale italiano e di iniziative a esso collegate presso il pubblico straniero e consentire la realizzazione di eventi espositivi presso gli Istituti italiani di cultura.

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136 IL VALORE DELLA BELLEZZA Sandro Bondi

nio storico e artistico senza pari, ma soprattutto grazie al contributo che i suoi archeologi, storici dell’arte e restauratori danno alla conservazione e valorizzazione di fondamentali testimonianze delle civiltà di tutto il mondo, come quelle sviluppatesi nell’antica Mesopotamia. Grazie a ciò, il nostro Paese sarà sempre più in grado di dispiegare nel teatro mondiale un’azione efficace di “diplomazia culturale” che è uno strumento di cruciale importanza nelle attuali relazioni internazionali poiché collegato ai temi dell’identità e del dialogo tra le diverse civiltà». Si è inaugurata la 53esima Biennale d’arte a Venezia. Dopo un avvio sui toni della “contestazione”, che impressione ha avuto? «A mio avviso sono state polemiche preconcette come molte di quelle che nascono quotidianamente in Italia. L’edizione 2009 della Biennale di Venezia è la diDOSSIER | VENETO 2009

mostrazione di come la libertà nelle proposte e la molteplicità dei contenuti e degli stili sia un segno di crescita e di arricchimento e non una diminuzione. Quest’anno alla Biennale ci sono 77 padiglioni dedicati a Paesi stranieri, tra i quali si distingue il rinnovato Padiglione Italia curato da Beatrice Buscaroli e Luca Beatrice, che ha riportato all’attenzione generale l’arte italiana, riconoscendole quella dignità che da sempre merita». Expo 2015. Qual è il contributo che il mondo della cultura può dare alla città in vista del grande appuntamento? «L’Expo è un grande progetto civile, economico e politico ma non può essere solo questo. Dovranno essere coinvolti tutti gli uomini di cultura che hanno a cuore Milano. Sarà una grande opportunità per la città. Come ministero dei Beni culturali vorremmo promuovere tre grandi progetti per Milano. In primis la creazione della Grande

«CREDO SIA ARRIVATO IL MOMENTO DI PENSARE A SISTEMI DI FINANZIAMENTO INDIRETTI A SOSTEGNO DELLA CULTURA, COME LA DEFISCALIZZAZIONE DEGLI INVESTIMENTI»

Brera, un’ampia pinacoteca che accorpi l’accademia e la caserma di via Mascheroni, per farla diventare uno dei più grandi musei in Europa, alla stregua del Louvre. Poi, il completamento del restauro della Villa Reale di Monza. Terzo e ultimo progetto, la realizzazione della biblioteca europea di Milano. Credo che queste tre iniziative qualificherebbero la città facendola diventare la capitale economica e morale d’Italia».


IL VALORE DELLA BELLEZZA 137

Contenere i costi non la qualità al 2002 al 2007 la Fondazione Arena di Verona ha accumulato un buco di bilancio per circa 17 milioni di euro. Il bilancio consuntivo del 2008 verrà, invece, chiuso con un utile di esercizio pari a un milione di euro. Merito della “ricetta” del sovrintendente Francesco Girondini: un mix di aumento delle entrate e oculata gestione delle uscite. «Si è adottato un costante controllo dei costi – spiega il manager – individuando le spese di ogni singola produzione, analizzando gli eventuali discostamenti e predisponendo dove possibile le azioni correttive». Un notevole risparmio è stato generato dalla scelta di privilegiare, nel 2008, le riprese degli spettacoli a scapito di nuove produzioni. Ora è importante capire quanto la crisi in atto propagherà i suoi effetti sul prossimo festival lirico. «Nel bilancio di previsione del 2009 approvato a fine febbraio, abbiamo ipotizzato un calo delle presenze e, quindi, un decremento del 3 per cento dell’incasso delle biglietterie. Le prevendite sono a oggi inferiori dell’1,5 per cento rispetto al 2008». Si naviga a vista. «Molto dipenderà anche dall’andamento dei flussi turistici a Verona, sul lago e sull’Adriatico, non proprio incoraggianti nei primi mesi del 2009». In base a un’indagine condotta nel 2008 dal dipartimento di statistica dell’Università di Verona, l’indotto derivato dall’attività dell’Arena sul sistema città si conferma piuttosto rile-

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vante, attestandosi sui 400 milioni di euro, pari allo 0,55% del Pil di Verona. «Attualmente – prosegue Girondini – il 41% del nostro pubblico è straniero, una percentuale purtroppo in ribasso rispetto al 49% del 2002. Del restante 59% di spettatori italiani, solo il 10% arriva dalla provincia». Il calo più consistente è quello del pubblico tedesco, che resta però prevalente (17%). Seguono Gran Bretagna (5%), Francia e Svizzera (2,5%) e Stati Uniti (1,5%). Il 2009 segna anche il debutto di Arena Extra. «Si è costituita una società a responsabilità limitata, al 100 per cento partecipata da Fondazione Arena di Verona, per organizzare eventi extra-lirici, avvicinando un pubblico diverso attraverso la commistione tra la musica della nostra Orchestra e altri generi musicali». La prima sperimentazione, con Ligabue l’anno scorso, è stata un successo. Così come l’ultimo concerto di Riccardo Cocciante, svoltosi il 30 maggio. «La società, una volta a regime al 100%, potrà generare utili a sostegno del core business della Fondazione, che rimane comunque la musica lirico sinfonica». Lo sguardo è già rivolto al futuro, al 2013, centenario della Fondazione. Intanto, i 40 anni di Arena di Plácido Domingo attendono di essere festeggiati questa estate. Nel 2010, il festival lirico sarà dedicato a Franzo Zeffirelli, tra le riprese dei suoi spettacoli areniani e la nuova produzione della Turandot.

È l’unica attività liricosinfonica italiana a generare un indotto economico così rilevante per il suo territorio. Nonostante i tempi duri. Bilanci e prospettive della Fondazione Arena di Verona nelle parole del suo sovrintendente Francesco Girondini di Francesca Druidi


138 IL VALORE DELLA BELLEZZA La Biennale

Venezia la città che fa arte

FOTO DI GIORGIO ZUCCHIATTI

di Francesca Druidi

DOSSIER | VENETO 2009

artista non realizza meri oggetti. Costruisce mondi. Con le sue opere delinea universi capaci di assurgere a strumenti di lettura e di interpretazione della realtà. Si concentra sulle fondamenta del processo creativo la 53esima Esposizione internazionale d’arte organizzata dalla Fondazione La Biennale di Venezia, intitolata appunto Fare Mondi Making Worlds, in programma nella città lagunare fino al 22 novembre. Tanti i record di questa edizione: 90 artisti da tutto il mondo, 77 padiglioni nazionali in mostra, 44 eventi collaterali proposti. Numeri che rafforzano il prestigio dell’Esposizione diretta da Daniel Birnbaum, il più giovane direttore del settore arti visive nella storia della Fondazione, che torna a fare di Venezia la capitale mondiale dell’arte contemporanea. La rassegna 2009 ha soprattutto il merito di imprimere «un nuovo cambiamento profondo alle strutture e alle dotazioni della Biennale, con cui si potranno dilatare i suoi orizzonti futuri», ha dichiarato il presidente Paolo Baratta. Il complessivo progetto di riqualificazione coinvolge innanzitutto i Giardini dove acquista una destinazione d’uso permanente l’ex Padiglione Ita-

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FOTO DI WOLFGANG GUENZEL

La 53esima Esposizione internazionale d’arte della Biennale non solo intercetta le tendenze espresse dagli artisti contemporanei. Contribuisce a ridisegnare il rapporto tra Venezia e la sua vita culturale. Grazie ai nuovi interventi strutturali, commentati dal presidente della Biennale Paolo Baratta

lia, grande contenitore inutilizzato tra una mostra e l’altra. Oggi, con la nuova denominazione di Palazzo delle esposizioni, viene consegnato alla vita culturale di Venezia grazie all’accordo con il Comune. «Per la prima volta nella sua storia – spiega Paolo Baratta –, la Biennale ha finalmente una sede dove poter sviluppare con sistematicità le tanto auspicate attività permanenti in tutti i suoi campi, a fianco dei festival e delle grandi mostre». Un centro aperto tutto l’anno, che si arricchisce della riapertura al pubblico, in un’ala restaurata dell’edificio, della biblioteca dell’Asac (Archivio storico delle arti contemporanee). All’Arsenale è ospitato il Padiglione Italia, che costituisce una delle principali novità in termini di superficie espositiva della mani-


IL VALORE DELLA BELLEZZA 139

53. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE

88.000

Il totale dei metri quadrati di spazio espositivo tra i Giardini (50mila mq) e l’Arsenale (38mila mq). 77 partecipazioni nazionali in mostra

44

Numero degli eventi collaterali proposti a Venezia da enti e istituzioni in concomitanza con la Biennale

L’attuale piano di sviluppo della Biennale mira a dare continuità all’azione della Fondazione, stringendo connessioni più profonde e durature con il territorio. Venezia è oggi costellata da molteplici iniziative in diverse sedi espositive, da Palazzo Grassi e Punta della Dogana, dove sono allestite le collezioni di François Pinault, all’isola di San Giorgio Maggiore dove la Fondazione Cini colloca la performance di Peter Greenaway. La 53esima esposizione contribuisce a lanciare di Venezia un’immagine declinata non come città-museo, ma come centro vivo e dinamico aperto alle forme d’arte esistenti. In questo scenario, la Biennale conferma il suo ruolo di attore fondamentale nel dialogo tra istituzioni, soggetti privati, fondazioni culturali e pubblico, veneziano e non solo.

Nella pagina a fianco, Paolo Baratta, presidente della Fondazione La Biennale. Sopra, un’opera di Tobias Rehberger al Palazzo delle esposizioni e Ca’ Giustinian. Sotto, i Giardini

FOTO DI GIORGIO ZUCCHIATTI

festazione. La struttura, passata da 800 a 1.800 mq, si affaccia da un lato sulle cosiddette “gaggiandre” e sul Teatro alle Tese, dall’altro sul Giardino delle vergini, dove un nuovo ingresso al pubblico, attraverso un ponte, collega il giardino stesso al Sestiere di castello, conferendo ai due siti una maggiore unitarietà. Il 2009 segna anche il ritorno della Biennale nella storica Ca’ Giustinian restaurata: «Una sede istituzionale rinnovata – commenta il presidente Baratta – le cui qualità, posizione e struttura consentono di utilizzarla in modi che andranno ben oltre quelli di una semplice sede di uffici. Sarà luogo di relazione con la città e di attrazione per incontri e manifestazioni. Al suo interno e all’esterno si apriranno spazi per un’aperta frequentazione di cittadini e visitatori».

FOTO DI GIORGIO ZUCCHIATTI

319.332

I visitatori registrati dalla 52esima Esposizione Internazionale d’Arte, svoltasi dal 10 giugno al 21 novembre 2007

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140 IL VALORE DELLA BELLEZZA Arpai

Apriamo gli occhi sulla cultura Il patrimonio dell’Italia non ha bisogno di commenti, ma di più considerazione. E maggiori finanziamenti. È la missione di Arpai, Associazione per il restauro del patrimonio artistico italiano, e del direttore Gian Antonio Golin. Per far rivivere quei tesori del passato che, senza tutela, rischiano di andar perduti di Daniela Panosetti

a cultura messa in cassaforte non serve a nessuno». Esordisce così Gian Antonio Golin, direttore di Arpai, per spiegare senso e valori dell’associazione, presieduta dal conte Paolo Marzotto e dedita a promuovere e finanziare interventi di restauro su tutto il territorio italiano. Contribuendo, a volte, a grandi scoperte. Come quella della Madonna di Fiesole, «scovata per puro caso nella curia locale e riportata all’antico splendore anche grazie all’Arpai». Un vero e proprio “capolavoro ritrovato”, forse attribuibile al Brunelleschi, come tanti di cui l’Italia è piena. Grazie a quel patrimonio artistico inimitabile che, ricorda Golin, «non ha bisogno di commenti, ma a cui lo Stato, paradossalmente, ha sempre riservato solo le briciole. Addirittura revocando, in certi casi, fondi già da tempo stanziati». Come è avvenuto, ad esempio, per il restauro di uno splendido arazzo fiammingo a Vigevano: «Un’opera che consideravamo già conclusa – racconta il direttore –. La somma necessaria,

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tra il nostro fondo e gli sponsor, era già stata raggiunta. Mancava solo la quota dello Stato, che però si è tirato indietro». Una situazione certo aggravata dalla crisi, ma che rispecchia un atteggiamento di lungo corso. «Il patrimonio italiano è visto davvero come una Cenerentola – accusa Golin –. Segno di cecità, ma anche della tendenza a favorire attività con rendite maggiori e immediate. Dimenticando che l’arte, per una nazione priva di materie prime come l’Italia, può essere una grandissima risorsa». Nel caso di Arpai, in quanto associazione non profit, i fondi provengono dalle quote annuali, piuttosto sostanziose, versate dai circa 250 soci, a cui si aggiungono all’occorrenza, per interventi di particolare valore, risorse aggiuntive reperite attraverso nuovi soci o sponsor. «Per la Sala dei giganti dell’Università di Padova, ad esempio, occorrevano 600mila euro – spiega Golin –. 250mila sono arrivati dal nostro fondo, il resto è stato raccolto tramite una piccola campagna intitolata

Gian Antonio Golin, docente di estetica e direttore di Arpai. Nell’altra pagina, restauratore all’opera su una tavoletta della Maestà dell’Opera di Duccio di Buoninsegna; sotto, uno degli affreschi della Sala dei giganti di Palazzo Liviano, a Padova, prima e dopo il restauro finanziato da Arpai

“Adotta un gigante”, proponendo ai potenziali donatori di versare 5.000 euro per ciascuna delle 50 figure presenti nella sala». Dal 1989, anno in cui è nata, Arpai ha finanziato circa 150 interventi. «I restauri devono riguardare opere pubbliche o del tutto aperte al pubblico – precisa il direttore – e ovviamente sono eseguiti da istituti competenti, come l’Opificio delle pietre dure di Firenze, sotto il vigile controllo delle sovrintendenze, con cui dialoghiamo costantemente e apertamente». Al momento, ad esempio, Arpai at-


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«IL VERO CRUCCIO NON È LA DIFFICOLTÀ DEL NOSTRO COMPITO, MA LA TROPPO FREQUENTE MANCANZA DI UN REALE RICONOSCIMENTO DA PARTE DI CHI BENEFICIA DEL NOSTRO AIUTO»

tende dalla sovrintendenza abruzzese una lista di opere a rischio in seguito al terremoto, per cui intendono offrire al più presto un contributo. Fare da mediatori tra soggetti così diversi, però, non è certo facile. «Il vero cruccio tuttavia – ammette Golin – non è questo, ma la troppo frequente mancanza di un reale riconoscimento da parte di chi beneficia del nostro aiuto, come è accaduto ad esempio con l’Università di Padova». E non si tratta, aggiunge, di sentirsi coronati di alloro, anzi: «I nostri nomi possono essere totalmente ignorati. Si tratta piuttosto di far conoscere l’ampiezza e l’importanza di quanto facciamo, in modo che, quando poi si tratta di bussare a una porta per promuovere nuovi interventi, possiamo mostrare concretamente quelli compiuti». In effetti, anche se il primo compito di Arpai è «finanziare più interventi possibili e nel modo migliore», altrettanto

importante è «sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni, ad esempio attraverso la rivista specializzata Kermes o eventi come il convegno appena tenutosi a Roma, «per fare in modo che le future generazioni trovino nella cultura del passato un sostentamento non solo economico, ma morale, psicologico e culturale in senso ampio». Un compito che certamente potrebbe essere facilitato da un maggiore incentivo ai finanziamenti privati. «Basterebbe intanto sgravare dall’Iva gli interventi sul patrimonio pubblico – suggerisce Golin – e riservare un qualche piccolo riconoscimento, anche simbolico, per i donatori». Ma quello che serve, soprattutto, è dare più spazio a queste iniziative, farle conoscere. «Far sapere a tutti – conclude – che esiste un’associazione di cittadini che invece di spendere magari i soldi in una nottata al casinò, preferisce, appunto, finanziare un restauro». VENETO 2009 | DOSSIER


144 POLITICHE DEL LAVORO Gabriele Fava

La soluzione è semplificare L’immigrazione in Italia. Un fenomeno caratterizzato da ostacoli e opportunità. Gabriele Fava, avvocato esperto in diritto del lavoro, propone il coinvolgimento delle agenzie per il lavoro nel processo di ingresso del cittadino extracomunitario nel nostro Paese. Tra politiche di flessibilità e una migliore occupazione di Giusi Brega

agli anni Novanta l’immigrazione in Italia è più che decuplicata, nonostante la normativa tesa a disciplinarla. Nel 1991, si contavano sul suolo italiano 356mila residenti stranieri, pari allo 0,6% della popolazione totale. Nel 2009, gli stranieri sono stimati in circa 3,9 milioni, pari al 6,5% della popolazione (fonte Irpps-Cnr). Larga parte di questi stranieri esula dai confini della Comunità europea, provenendo da Paesi caratterizzati da un’economia così modesta da sperare di migliorare le proprie condizioni di vita venendo in Italia. Tale fenomeno, attualmente, viene valutato dai cittadini italiani in modo antitetico: da una parte, molti chiedono di impedire o limitare il più possibile il fenomeno migratorio di extracomunitari, dall’altra, le aziende italiane chiedono flessibilità e snellimento degli adempimenti burocratici relativi all’assunzione di lavoratori extracomunitari. «È dunque opportuna una riforma

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della legge sull’immigrazione – afferma Gabriele Fava, giuslavorista ed editorialista de Il Sole 24 Ore – e la mia proposta mira a trasformare un problema in opportunità». Com’è disciplinato attualmente l’ingresso dei lavoratori extraco-

munitari nel nostro Paese? «L’originaria legge Turco-Napolitano, del 1998, è stata modificata nel 2002 dalla Bossi-Fini che ne ha trasformato i contenuti dandole una nuova impostazione caratterizzata da una fermezza contro gli


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immigrati, comunitari ed extracomunitari, che vengono in Italia per delinquere. Accoglienza e massimo rispetto, invece, per gli immigrati regolari che giungono nel nostro Paese per esercitare un’attività lavorativa e, in definitiva, per accrescere le prospettive di benessere dell’Italia in generale». Come giudica le potenzialità di tale legge? «Sebbene abbia già dato ottimi risultati sul fronte del contrasto all’immigrazione irregolare, sono convinto che possa essere migliorata».

In che modo? «Attraverso il coinvolgimento delle agenzie per il lavoro nel processo di ingresso del cittadino straniero extracomunitario nel nostro Paese. Il principio accolto dalla Bossi-Fini è grosso modo questo: se trovi un lavoro ottieni il permesso di soggiorno e puoi entrare in Italia. In caso contrario, il permesso di soggiorno non è concesso e come tale la presenza dello straniero in Italia si trasforma in “irregolarità”. Se questo è il filo rosso della BossiFini, chi meglio delle agenzie per il lavoro conosce il mercato del la-

voro e le sue prospettive occupazionali? Ritengo dunque opportuno coinvolgerle nel processo di ingresso dei lavoratori extracomunitari». Come si articola, dunque, la sua proposta? «Le agenzie per il lavoro potrebbero essere abilitate dallo Stato quali garanti per l’ingresso e la successiva collocazione dei lavoratori extracomunitari presso proprie aziende clienti. Le agenzie, infatti, avrebbero la competenza e l’esperienza necessarie per svolgere questa attività, in quanto: sono espresVENETO 2009 | DOSSIER


146 POLITICHE DEL LAVORO Gabriele Fava Gabriele Fava, avvocato esperto in diritto del lavoro

«PIÙ SI SEMPLIFICA IL MERCATO DEL LAVORO E MAGGIORI SARANNO LE POSSIBILITÀ CHE IL TESSUTO PRODUTTIVO RIESCA A SFRUTTARE LE OCCASIONI DI SVILUPPO OFFERTE DALL’ATTESO CAMBIO DI CONGIUNTURA ECONOMICA» DOSSIER | VENETO 2009

samente autorizzate dal ministero del Lavoro e, quindi, sono certificate dallo Stato italiano; conoscono il mercato del lavoro e il suo andamento avendo come fine principale quello della fornitura di manodopera presso le aziende utilizzatrici; inoltre reperiscono più facilmente posizioni di lavoro rispetto al singolo privato cittadino in cerca di un lavoro. In tal caso,

l’agenzia per il lavoro svolgerebbe il ruolo di garante dell’ingresso del lavoratore extracomunitario nel territorio dello Stato, anche attraverso la costituzione di un fondo di garanzia patrimoniale a carico dell’agenzia stessa che lo Stato potrebbe escutere in caso di inadempimento degli obblighi». Come ovviare al costo aggiuntivo che il datore di lavoro dovrebbe corrispondere alle agenzie per la selezione del lavoratore extracomunitario? «Il costo sarebbe comunque ricompensato da una serie di vantaggi: ad esempio, sarebbe più facilmente governabile il flusso di extracomunitari verso l’Italia. Lo straniero che intende lavorare nel nostro Paese può rivolgersi alle agenzie per il lavoro che, identificata la persona e ottenuto un posto di lavoro, potrebbero far ottenere al cittadino straniero il permesso di soggiorno. Si darebbe una risposta immediata alle richieste del tessuto imprenditoriale italiano che, sempre più spesso, deve far fronte a mercati ed economie con cicli economici sempre più ravvicinati. Si avrebbe una maggiore semplificazione amministrativa. L’agenzia per il lavoro, infatti, godrebbe di un canale preferenziale nell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie per far soggiornare regolarmente in Italia il cittadino extracomunitario. Non comporta costi a carico dello Stato, implicando semmai un risparmio di oneri, dato che la procedura implica semplificazione amministrativa e snellimento degli adempi-


POLITICHE DEL LAVORO 147 MAURIZIO SACCONI

LA VITA BUONA IN UNA SOCIETÀ ATTIVA Dal Libro verde al Libro bianco. Il 6 maggio scorso le linee guida del futuro modello sociale italiano tracciate dal ministero del welfare sono state raccolte in un testo unico. Le aspettative in merito del ministro Maurizio Sacconi el mercato lavorativo è a rischio chi, perdendo il posto di lavoro, fa fatica a trovarne un altro a causa della propria bassa qualificazione. La risposta all’insicurezza è l’investimento sulla conoscenza e non l’illusione che un tratto di penna legislativo possa risolvere il problema della precarietà». Così si esprimeva il ministro del welfare, Maurizio Sacconi, nel settembre 2008 sulla scia degli interventi normativi per semplificare la gestione dei contratti e modernizzare il mercato del lavoro italiano. Anche oggi, investiti dall’onda lunga della crisi, il concetto di fondo non cambia: occorrono lavoratori più qualificati, meglio se giovani. Ed è proprio a questa nuova generazione di giovani italiani che il ministro del Welfare nel luglio scorso aveva dedicato il suo Libro verde sul futuro del modello sociale. Un testo che, dopo la consultazione con attori economici e sociali, il 6 maggio di quest’anno è stato convertito nel Libro bianco intitolato La vita buona nella società attiva. È questo il documento finale che contiene la visione del nuovo modello sociale, sulla base del quale si sta realizzando il programma di governo. Un modello caratte-

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menti burocratici. Il costo dell’onere di mediazione dell’agenzia non potrebbe essere comunque eccessivamente elevato, per non scoraggiare il cliente all’utilizzo di tale canale “preferenziale” e il datore di lavoro potrebbe godere di specifici sgravi di carattere fiscale in caso si tratti di persona fisica che assume una badante». Da dove deriva la necessità di una proposta di tale portata? «Si tratta di una proposta molto

rizzato da tre valori centrali: persona, famiglia e comunità. Cardini del nuovo testo sono l’ingresso immediato dei giovani nel mondo del lavoro, gli investimenti nella ricerca biomedica e la lotta alle povertà estreme. Il ministro Sacconi punta anche a investimenti nei servizi alla persona e alla famiglia, con un’attenzione particolare per le madri e gli anziani. Il tutto per una “vita buona” all’interno di una “società attiva” che sia caratterizzata da maggiori possibilità di accesso al lavoro visto come “la base dell’autonomia sociale delle persone”. Un’autonomia che le nuove generazioni si vedono spesso costrette a rimandare. «Il nostro sistema educativo, troppo autoreferenziale, è il principale responsabile del fenomeno dei giovani-vecchi, ovvero quell’anomalia tutta italiana per cui ci si laurea mediamente a 29 anni e si posticipano tutte le scelte di vita – conferma il ministro –. L’ingresso nel mercato del lavoro è troppo tardivo, e spesso avviene sulla base di competenze insufficienti e con deboli anelli di congiunzione fra scuola e lavoro». Da questo punto di vista, la formazione assume un ruolo fondamentale nei percorsi individuali di vita

attuale alla luce di quanto evidenziato dall’Ocse sullo stato della legislazione italiana in materia di somministrazione di lavoro. Secondo il recente studio dell’Ocse sulle “politiche di flessibilità per una migliore e maggiore occupazione”, infatti, più si semplifica il mercato del lavoro e maggiori saranno le possibilità che il tessuto produttivo riesca a sfruttare le occasioni di sviluppo offerte dall’atteso cambio di con-

e lavoro. In tal senso, il Libro bianco getta le basi per rimediare al fallimento delle politiche pubbliche volte alla formazione. «Dobbiamo pensare a una rivoluzione copernicana – afferma Sacconi – che riscopra il lavoro come parte del processo educativo, riconosca che l’impresa è il luogo potenzialmente più idoneo per l’attività formativa e realizzi una verifica della formazione basata su test periodici di accertamento delle competenze acquisite». Tre principi che il Libro bianco fa propri, fornendo indicazioni concrete per raggiungere quella “vita buona nella società attiva” alla quale il modello sociale italiano deve tendere.

giuntura economica. Volano di questo sviluppo saranno le agenzie per il lavoro alle quali dovrà essere concessa più autonomia di organizzazione e maggiore semplificazione cosicché possano adattare i propri programmi formativi alle particolari esigenze e specificità del territorio in cui operano. Sul punto, rileva l’Ocse, l’Italia, pur avendo una legislazione del lavoro flessibile, non sembra ancora al passo con i tempi». VENETO 2009 | DOSSIER


148 POLITICHE DEL LAVORO Pietro Ichino

Una riforma che s’ha da fare L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori va rivisto. Purché nell’assumere nuovi dipendenti a tempo indeterminato, in cambio di una disciplina meno vincolante sul licenziamento, si garantiscano loro adeguati ammortizzatori sociali. Secondo il giuslavorista Pietro Ichino, parte da qui il percorso verso nuove regole per il mercato del lavoro di Lorenzo Berardi na modifica dell’articolo 18 della legge 300 del 1970, meglio nota come Statuto dei lavoratori, si rende oggi più che mai indispensabile. E, per farlo, occorre affrontare un argomento spinoso ma non intoccabile. A patto di trovare il giusto equilibrio fra l’esigenza di un lavoro protetto e tutelato, e quella della flessibilità dell’odierno mercato occupazionale. Una flessibilità di cui risentono soprattutto le nuove generazioni, private oggi della certezza di mantenere il proprio posto di lavoro e di garanzie che le tutelino sotto il profilo previdenziale e della sicurezza sociale. Nella presente legislatura, è toccato a Giuliano Cazzola proporre di modificare l’articolo 18 prevedendo la facoltà del datore di lavoro di corrispondere al prestatore di lavoro un’indennità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. «Credo che questa riforma sia politicamente proponibile solo nella logica della flexecurity europea – commenta il giuslavorista Pietro

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POLITICHE DEL LAVORO 149

Pietro Ichino, senatore del Pd dal 2008, è professore ordinario di Diritto del lavoro presso l'Università statale di Milano

Ichino –. Ovvero se e nel momento in cui, allentato il vincolo di stabilità del posto, si offrono elementi di maggiore sicurezza ai lavoratori nel mercato del lavoro». Potrebbe trattarsi di una misura utile in un momento di crisi economica come questo?

«Soltanto se la nuova disposizione è applicata alle nuove assunzioni: in questo modo si favoriscono le assunzioni con rapporto regolare a tempo indeterminato. Applicata anche alle vecchie posizioni, invece, questa misura potrebbe aggravare la crisi». Già nel 2001 l’allora Governo Berlusconi aveva avanzato una proposta del genere che però si arenò a seguito del conflitto con i sindacati.

«Anche in quell’occasione si è cercato di modificare la disciplina dei licenziamenti senza però rafforzare gli ammortizzatori sociali: trattamenti di disoccupazione e assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca della nuova occupazione». Su quali fronti occorre intervenire per far sì che l’ordinamento

italiano sia effettivamente moderno e rispondente alle esigenze attuali della società e del mercato?

«Occorre coniugare la massima flessibilità per le strutture produttive con la massima sicurezza per i lavoratori. E deve essere una sicurezza fondata sulla garanzia, in caso di licenziamento per motivi economici, della continuità del reddito e dell’assistenza di alta qualità nel mercato del lavoro. Ed è una garanzia che può essere data dalle imprese stesse, in cambio di una maggiore flessibilità. Questo, è quanto prevede il disegno di legge per la transizione a un regime di flexecurity che ho presentato al Senato il 25 marzo scorso con altri colleghi». Da più parti si invoca un sistema del lavoro che sia flessibile in entrata, ma anche in uscita. Una revisione dell’articolo 18 potrebbe essere utile in questo senso?

«Il mio ddl prevede che alle imprese disposte a offrire ai propri nuovi dipendenti una garanzia di sicurezza strutturata secondo il

modello danese in caso di perdita del posto, si applichi anche una disciplina del licenziamento di tipo danese. Questo significa lasciare all’impresa una grande libertà nelle scelte organizzative e di aggiustamento industriale, ma al tempo stesso responsabilizzarla sul costo sociale di quelle scelte». Quali sono secondo la sua opinione gli interventi positivi attuati dall’attuale governo in questo primo anno di attività in tema di diritto del lavoro e quali invece quelli negativi?

«In questo campo il governo ha scelto la linea della “moratoria legislativa”, ovvero non si tocca nulla del vecchio assetto della disciplina del rapporto di lavoro, per paura di commettere di nuovo passi falsi sull’articolo 18. In questo modo si conserva l’attuale regime che presenta grossi difetti sia sul piano dell’equità che su quello dell’efficienza, una sorta di apartheid tra lavoratori iper protetti da una parte e poco o per nulla protetti dall’altra». VENETO 2009 | DOSSIER


150 POLITICHE DEL LAVORO Giuliano Cazzola

La ripresa dopo la tempesta Gli ammortizzatori sociali predisposti dal governo si sono rivelati efficaci per gestire le conseguenze della crisi, ma per il futuro occorrono riforme strutturali. È l’opinione di Giuliano Cazzola, vicepresidente della Commissione lavoro della Camera di Lorenzo Berardi a crisi finanziaria internazionale ha determinato un cambio di passo nell’azione di un governo già sensibile alle tematiche economiche. «A cavallo dell’estate scorsa – ricorda Giuliano Cazzola, vicepresidente della Commissione lavoro della Camera – erano già stati varati due blocchi di misure: uno a favore delle imprese rivolto a deregolare e a sburocratizzare alcuni adempimenti senza abbassare il livello di tutela dei lavoratori, l’altro con interventi di detassazione dello straordinario e delle voci retributive erogate in azienda in cambio di maggiore produttività». E in seguito, il Governo Berlusconi aveva predisposto alcune riforme del processo del lavoro, approvate dalla Camera nell’autunno 2008. Il progressivo emergere della crisi

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ha indotto l’esecutivo a intervenire in misura maggiore. In accordo con le Regioni, sono stati creati ammortizzatori sociali ad libitum per la salvaguardia dei posti di lavoro con uno stanziamento di 8 miliardi di euro per il 2009 e il 2010 per la cassa integrazione in deroga. «Con questa misura – sottolinea Cazzola – si sono garantite le imprese e i lavoratori in un momento difficilissimo, quando non vi era certezza di quello che poteva capitare l’indomani». Lei ritiene che questa misura sia ancora oggi economicamente e socialmente sufficiente?

«Per adesso lo è stata. Nel momento della crisi bisognava agire attraverso la cassa integrazione, estendendola anche ai settori che ne erano privi e così è stato fatto. Quando le banche ritiravano il

Giuliano Cazzola, economista, è vicepresidente della Commissione lavoro della Camera

credito e i clienti gli ordinativi, occorreva mettere in campo degli ammortizzatori sociali che consentissero alle aziende di guadagnare tempo senza essere costrette a trarre subito delle conseguenze dolorose. Peraltro il governo si è occupato per la prima volta di venire incontro, con una specifica indennità una tantum, anche ai collaboratori che lavorano per un solo committente. Certo, se queste politiche sono servite a tamponare una situazione grave, quando le condizioni lo permetteranno bisognerà pensare a riforme strutturali». Come sono stati ripartiti i fondi destinati a sostegno del reddito,


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delle competenze e delle aree sottoutilizzate?

«Il conto è presto fatto: 5,5 miliardi sono a carico dello Stato e 2,5 a carico delle Regioni. Poi c’è il miliardo stanziato lo scorso anno prima ancora che la crisi esplodesse». Come spiega l’insoddisfazione dell’opposizione e di alcune sigle sindacali in merito alle misure di tutela sociale e occupazione predisposte dal governo?

«L’opposizione, in accordo con la Cgil, avrebbe voluto dirottare una parte consistente delle risorse per la Cig in deroga al finanziamento di un assegno universale per la disoccupazione. Sarebbe stato un disastro. Le imprese avrebbero interpretato questo segnale come un invito a licenziare». Quali sono state le proposte concrete pervenute da opposizione e sindacati in merito di ammortizzatori sociali?

«Con la gestione Franceschini vi è stata una girandola di proposte: hanno cominciato proponendo un assegno a tutti i disoccupati in misura del 60% dell’ultimo reddito. Poi è stata la volta dell’imposta una tantum sui redditi superiori a 125mila euro l’anno. Non si erano accorti che su questo segmento di contribuenti l’imposta è pari allo 0,5% del totale e si versa il 12% dell’intero gettito dell’imposta sul reddito. Più interessante è la proposta di Pietro Ichino, tuttora in discussione. Sul tentativo di sperimentare una

forma di flexecurity su base contrattuale e volontaria per le aziende che intendono aderirvi». Dove possono essere reperite ulteriori risorse economiche per un’integrazione dei fondi già destinati alla tutela delle imprese in difficoltà e dei loro occupati?

«Con alcuni ragionevoli interventi sulle pensioni e sull’età pensionabile si potrebbero recuperare risorse aggiuntive per almeno un miliardo l’anno. Il governo ha ragione a dire che adesso non è il momento. Prima o poi, però, dovranno decidersi, anche perché la situazione non regge». Il ricorso alla cassa integrazione ha raggiunto nel primo trimestre di quest’anno un numero di ore pari a quello del 93. Si cominciano ad avvertire o a intuire segnali di un rallentamento del ricorso alla Cig in Italia?

«Se siamo sopravvissuti alla crisi del 92-93 sopravvivremo anche a questa. Purtroppo la via crucis non è finita. Anche se tra qualche mese torneremo a risalire la china, le imprese dovranno cominciare a ristrutturarsi. È in quel momento che cominceranno i licenziamenti. E saranno alcune centinaia di migliaia». Secondo dati di Bankitalia, continuano a calare la produzione industriale e il Pil pro capite, eppure cresce la fiducia dei cittadini nella ripresa dell'economia nazionale: come lo spiega?

«Siamo naufraghi scampati a una tempesta. Nessuno si sarebbe mai aspettato un crollo del 5% del Pil nel 2009. Ma già nella seconda metà dell’anno cominceremo a vedere qualche bagliore di luce in fondo al tunnel. Non lo dice solo Berlusconi, ma anche Obama». VENETO 2009 | DOSSIER


152 FISCO Nuovi studi di settore

Un passo in più verso i contribuenti «Sono necessari, ma non ancora risolutivi». Questo in sintesi il giudizio di Giuseppe Alessandro Galeano, esperto tributarista, sui recenti correttivi apportati agli studi di settore. Ma attenzione: la lotta all’evasione non deve diventare vessazione di Stefania Battisti

a pochi giorni è stato varato il nuovo applicativo Gerico, che metterà a disposizione dei contribuenti alcuni correttivi congiunturali che dovrebbero facilitare il raggiungimento delle soglie di congruità. «Un provvedimento utile, anche se non del tutto risolutivo», commenta il dottor Giuseppe Alessandro Galeano, partner dello studio legale e tributario CBA, che con i suoi 45 soci e 220 professionisti si presenta come una delle realtà più rilevanti in Italia nella consulenza legale e fiscale. Qual è il suo giudizio sui nuovi correttivi agli studi di settore? «Le modifiche apportate hanno cercato di correggere gli studi di settore tenendo conto della crisi economica. Questo è stato reso

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Giuseppe Alessandro Galeano, esperto di diritto societario, tributario, pianificazione fiscale e fiscalità internazionale, è partner dello studio legale e tributario CBA

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possibile intervenendo sui costi delle materie prime, su correttivi specifici a livello settoriale e su correttivi individuali a livello di singolo contribuente, che d’ora in avanti può indicare in un’apposita sezione le motivazioni che giustificherebbero la non congruità agli studi di settore. La mia esperienza, tuttavia, mi porta a dire che sono stati correttivi tutto sommato limitati, perché le società che nel 2008 hanno sofferto la crisi, continuano a non essere congrue. Sicuramente lo sono in misura minore rispetto a quanto lo sarebbero stati con i vecchi studi, ma qualcosa in più si sarebbe potuto fare». Quali lacunosità si potrebbero rivedere? «Sicuramente si potrebbe introdurre il fattore della straordinarietà, ovviamente fissandone i li-


FISCO 153

«LE MODIFICHE APPORTATE HANNO CERCATO DI CORREGGERE GLI STUDI DI SETTORE TENENDO CONTO DELLA CRISI ECONOMICA. LA MIA ESPERIENZA, TUTTAVIA, MI PORTA A DIRE CHE SONO STATI CORRETTIVI TUTTO SOMMATO LIMITATI»

miti. Sarebbe un elemento utile per poter limitare la non congruità agli elementi di ordinaria gestione. Penso ad esempio alla mobilità e a tutti i costi ad essa connessi, che attualmente rientrano nei costi del personale; ma si tratta di elementi di carattere straordinario volti a far fronte a una crisi e a una riduzione del fatturato». Quali saranno gli effetti più visibili del provvedimento? «Gli studi di settore si applicano a quei soggetti che fatturano meno di 5 milioni e 165mila euro, ovvero medie e piccole imprese, e lavoratori autonomi. Gli effetti immediati sono quelli legati ad alcuni casi specifici: facciamo l’esempio di un contribuente che non era congruo e che con il nuovo studio lo diventa. In questo caso, l’effetto dipende dal

comportamento che il contribuente avrebbe adottato in presenza di non congruità. Questa, infatti, non comporta sic et simpliciter l’obbligo di adeguarsi. Se le ragioni della non congruità sono tali da essere considerate oggettive, ovvero provate e provabili, il contribuente avrebbe potuto anche scegliere di non adeguarsi. Ora che l’asticella dello studio di settore si è leggermente spostata in alto, se quel contribuente si sarebbe adeguato, non essendo più non-congruo non deve farlo». Più in generale, quali ritiene che siano i vantaggi dei correttivi? «L’aver alzato l’asticella, considerando alcuni elementi della crisi al fine di ridefinire gli studi di settore, porterà sicuramente un minor contenzioso in capo al-

l’amministrazione finanziaria. Questo può essere un aspetto positivo. È dello scorso 8 giugno una comunicazione di servizio dell’Agenzia delle entrate che sollecita l’invio, ai contribuenti che per gli esercizi precedenti non erano congrui, di comunicazioni relative a tali anomalie, cui poi far seguire i necessari accertamenti. Ritengo che, oltre ad intervenire sugli studi di settore, sicuramente importanti, bisognerebbe evitare che la legittima lotta all’evasione fiscale finisse per diventare una ingiustificata vessazione e persecuzione dei contribuenti. È giusto combattere l’evasione, ma non per questo bisogna vessare il contribuente. C’è il rischio che questo si senta perseguitato e, pur non approvando l’evasione, finisca per essere portato verso quella strada». VENETO 2009 | DOSSIER


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