GRANDI SCIENZIATI PIEMONTESI
Ascanio Sobrero • Galileo Ferraris • Alessandro Cruto • Filippo de Filippi • Edoardo Perroncito • Giovanni Virginio Schiaparelli PRIMO LEVI, UMBERTO ECO, FRUTTERO & LUCENTINI: LA FANTASCIENZA PARLA PIEMONTESE TORINO CAPITALE DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE EPIDEMIE DEL PASSATO: LA PESTE DEL 1525 NEL MONFERRATO I FRATELLI JUDICA CORDIGLIA E IL MISTERO DEI COSMONAUTI SCOMPARSI
DAL PIEMONTE
ALLA LUNA
Un viaggio tra scienza e fantascienza
La strage impunita Torino 1864 Torino, settembre 1864. A fronte di una manifestazione di piazza conseguente all’annunciato trasferimento, da Torino a Firenze, della capitale del Regno d’Italia, la polizia spara sui dimostranti. Il bilancio è tragico: 55 morti e almeno 133 feriti. Valerio Monti nel suo saggio “La strage impunita. Torino 1864”, ripercorre i tragici avvenimenti che insanguinarono la città ponendo a confronto l’inchiesta municipale, quella parlamentare e l’opinione espressa dai giornali dell’epoca. Un episodio drammatico della storia del Piemonte raccontato da un punto di vista quanto mai attuale, il ruolo dell’informazione in tempo di crisi.
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Sommario 2 Editoriale
GRANDI SCIENZIATI PIEMONTESI
Ascanio Sobrero • Galileo Ferraris • Alessandro Cruto • Filippo de Filippi • Edoardo Perroncito • Giovanni Virginio Schiaparelli PRIMO LEVI, UMBERTO ECO, FRUTTERO & LUCENTINI: LA FANTASCIENZA PARLA PIEMONTESE TORINO CAPITALE DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE EPIDEMIE DEL PASSATO: LA PESTE DEL 1525 NEL MONFERRATO
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La fantascienza (segreta) dei grandi autori piemontesi
I FRATELLI JUDICA CORDIGLIA E IL MISTERO DEI COSMONAUTI SCOMPARSI
Da Eco a Levi, nuove galassie tra fantasia e realtà // Fulvio Gatti
DAL PIEMONTE
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Le avventure di carta di Gastone Simoni
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Nel 2073! Sogni d’uno stravagante
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Sevagram, libri fantastici e dove trovarli
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Il chimico Ascanio Sobrero
ALLA LUNA
Un viaggio tra scienza e fantascienza
Pioniere della protofantascienza italiana // Felice Pozzo
Il nuovo Millennio immaginato da Agostino della Sala Spada // Roberto Coaloa
In ricordo di Riccardo Valla, uno dei padri della fantascienza italiana // Davide Mana
L’inventore della nitroglicerina terrorizzato dalla dinamite // Roberto Coaloa
34
Il progresso secondo Galileo Ferraris
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Alessandro Cruto, l'inventore che illuminò il mondo
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Filippo de Filippi e l’evoluzione della specie
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Il parassitologo Edoardo Perroncito
Il genio che sognava l'elettricità nelle case degli italiani // Gabriella Bernardi
Fu davvero Edison ad accendere la prima lampadina? // Gabriella Bernardi
Tra i primi a presentare il darwinismo in Italia // Valentina Cabiale
Una cura per "l'anemia dei minatori" del Gottardo // Michela Del Savio
56
1525, il flagello della peste si abbatte sul Monferrato
62
Giovanni Virginio Schiaparelli, il marziano
Così il vino, da nettare degli dei, divenne rimedio contro il contagio // Roberto Coaloa
Così nacque il mito della vita sul Pianeta Rosso // Davide Mana
68
Il mistero dei cosmonauti perduti
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A caccia di pianeti!
80
Torino capitale dell'Intelligenza Artificiale
86
Les cum it parle!
I fratelli Judica Cordiglia: gli hacker dello Spazio // Davide Mana
Una nuova Super-Terra scoperta all’Osservatorio di Torino // Gabriella Bernardi
Don Luca Peyron racconta come un'idea si è trasformata in realtà // Fulvio Gatti
Scrivere in piemontese con il sistema ortografico standard // Alberto Ghia
DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero Eandi REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Fondazione Enrico Eandi ILLUSTRAZIONI Valentina Brostean Giuseppe Conti PROGETTO GRAFICO Fondazione Enrico Eandi STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN) EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 – Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.edizionisavej.it Disponibile anche online al seguente indirizzo: www.rivistasavej.it Seguici su: FondazioneEnricoEandi fEnricoEandi fondazioneenricoeandi
88 Dissiunari
Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato
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Un giro in libreria // Roberto Coaloa
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Le nostre firme
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Fondazione Enrico Eandi
ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2020 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati. 1
Le grandi firme della fantascienza piemontese in un'illustrazione di Giuseppe Conti.
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LA FANTASCIENZA (segreta) DEI GRANDI AUTORI PIEMONTESI Da Eco a Levi, nuove galassie tra fantasia e realtà di Fulvio Gatti
E se
alcuni grandi autori italiani, per di più piemontesi, avessero scritto (anche) fantascienza? Non è una domanda ipotetica, degna di un universo parallelo oppure di una saga what if targata Marvel Comics, bensì una possibilità concreta. La premessa è che, in effetti, il nostro paese non ha mai avuto una particolare predilezione per i generi letterari. Mentre nel mondo anglosassone le distinzioni tra stili narrativi e ambientazioni, stereotipi ed emozioni evocate/attese, ha nel corso dei decenni alimentato e fatto prosperare l’industria editoriale — rendendola via via più interconnessa con l’industria dell’intrattenimento in toto: si pensi a quella stessa Marvel oggi fortunato studio cinematografico — da noi per varie ragioni lettori e addetti ai lavori hanno continuato a conservare un certo scetticismo.
Un disco volante in Piemonte? In tempi più recenti hanno conquistato prestigio il genere storico e il giallo/noir, grazie a penne illustri e a celebri vicende del passato trasformate abilmente in narrativa. Ma quanto alla fantascienza, sembra essere rimasta valida l’antica affermazione dei curatori di Urania Carlo Fruttero e Franco Lucentini: "Un disco volante non potrà mai atterrare a Lucca". Il grande duo di scrittori, nel dire questo, intendeva che le storie di speculazione scientifica (science-fiction è la definizione inglese) non appartengono alla nostra cultura. Nel modo in cui, invece, ne fa parte la finzione storica, diretta discendente del romanzo d’appendice e a quella tradizione a cui possiamo ascrivere persino I promessi sposi. Eppure andando a rovistare nella produzione di alcuni dei più grandi autori del Novecento, che lo si faccia con metodo oppure semplicemente da lettori compulsivi, è possibile imbattersi in piccole chicche narrative che hanno tutte le caratteristiche di racconti di fantascienza. Di solito, si tratta di produzioni minori, opere scritte per puro divertimento che finiscono collezionate all’interno di una raccolta dell’autore e, magari, in parte dimenticate. Ma non è scontato che sia così. L’altro elemento sorprendente è quanto di questa “produzione segreta” si possa trovare, in percentuale, negli scrittori piemontesi. Come se ci
La collana "Urania" nella sua forma “classica” e più nota: sfondo bianco, logo nero in alto a sinistra e immagine inserita in un cerchio.
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LE AVVENTURE DI CARTA DI GASTONE SIMONI Pioniere della protofantascienza italiana di Felice Pozzo
Il mondo immaginario di Gastone Simoni in un'illustrazione di Valentina Brostean.
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L’11 agosto 1966 si spegneva a Torino una meteora della narrativa fantastica, Gastone Simoni, dopo aver operato nel periodo tra le due guerre in un territorio della letteratura popolare esplorato con baldanza e inventiva da un gruppo di pionieri che, ancorati al passato ma irresistibilmente attratti dal futuro e dalle nuove mode provenienti soprattutto dall’America, nonché dal nuovo contesto scientifico e tecnologico nazionale, hanno creato in Italia quella che è definita “protofantascienza”. Vale a dire quella letteratura d’intrattenimento che ha preceduto la fantascienza vera e propria, nata ufficialmente nel nostro Paese nel 1952.
La coda lunga del salgarismo Gastone Simoni era nato il 1° gennaio 1899 a Omegna, che per aver dato i natali anche all’antropologo e viaggiatore Guido Boggiani e al pedagogista e scrittore Gianni Rodari, si direbbe il luogo di nascita ideale per il nostro autore votato all’avventura di carta. Quando iniziò la sua attività, nel 1928, colui che aveva creato in Italia il genere avventuroso, Emilio Salgari, aveva da tempo dato origine al “salgarismo”, ovvero a quel fenomeno di costume nazionale che già rinviava a centinaia di opere altrui. Si trattava di romanzi quasi mai all’altezza del modello, che diventavano tuttavia fruibili perché alimentavano un immaginario perennemente affamato e perciò destinato a durare ancora per molto tempo. Questo “importante capitolo di sociologia della nostra letteratura di consumo”, per citare il compianto professor Antonio Palermo, benché ancora lontano dalla saturazione, era però tutt’altro che immune da istanze diverse e innovative. I nuovi gusti e le nuove tendenze richiedevano ad alta voce percorsi alternativi, peraltro già presenti e dotati di enormi potenzialità.
Nuove frontiere Gastone Simoni fu tra coloro che, sia pure con sguardo nostalgico rivolto a Salgari, scelsero quelle nuove strade che, con sempre maggior attenzione e frequenza, erano percorse da riviste popolari a larga diffusione. Fra esse primeggiava il Giornale Illustrato dei Viaggi, edito da Sonzogno sin dal 1878, che nel 1913 iniziò una nuova serie destinata negli anni Venti del secolo scorso a ospitare numerosi nuovi autori italiani impegnati nel genere fantastico, tra i quali Guglielmo Stocco (che ne era direttore) e Armando Silvestri, esperto di aeronautica. A loro, appunto, si aggiungerà il nostro Simoni. Proprio nel 1928, e dunque agli esordi, egli fece sentire la propria voce polemizzando contro l’annunciata iniziativa dell’editore Bemporad di pubblicare nuovi lavori di Salgari desunti da trame rintracciate tra le sue carte, che altri avrebbero trasformato in romanzi compiuti. L’iniziativa, che peraltro si concretizzò con fortuna, era d’altronde caldeggiata dai figli di Salgari, e non si può che essere solidali con loro, perché
Anche Emilio Salgari figura tra gli autori della protofantascienza italiana, ma i suoi lavori erano ormai obsoleti rispetto alle nuove esigenze.
avevano affrontato giovanissimi una tragedia immensa (il ricovero in manicomio della madre e il suicidio del padre) rimanendo privi di ogni sicurezza per il futuro. Ma, al di là di ogni considerazione che qui sarebbe ridondante, Simoni (peraltro già sul libro paga di Sonzogno in competizione con Bemporad) esternò anche in quel modo le proprie scelte che, per alcuni lustri, si dimostrarono altrettanto interessanti e fortunate. Tanto più che, professionista serio, è con il tempo riuscito ad affrontare con discreti risultati quasi tutti i generi della letteratura popolare, dal poliziesco all’avventura moderna per non dire della divulgazione scientifica. E se non è stato risparmiato dal dimenticatoio (tranne che tra gli addetti ai lavori), basti pensare che la stessa sorte è toccata a tutti i suoi colleghi del tempo, e lo stesso dicasi per tutti gli imitatori di Salgari e gli altri seguaci del citato salgarismo in genere. Che sia giusto o no, non è ancora stato inventato il rimedio contro l’oblio.
Scienziati pazzi, raggi laser e molto altro Fu dunque nel 1928 che Simoni, come si è detto, esordì nella collana “Il Romanzo d'Avventure” edita da Sonzogno, con romanzi brevi quali La casa nel cielo, cui seguirono La città del sole e La barriera invisibile (1929), L’ultimo degli Atlantidi e L’idolo rosso (1932) e altri, sino a ottenere la pubblicazione di romanzi fuori collana.
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NEL 2073! SOGNI D’UNO STRAVAGANTE Il nuovo Millennio immaginato da Agostino della Sala Spada di Roberto Coaloa Un volume che inaugura la fantascienza in Italia, tra i più “saccheggiati” al mondo, è Nel 2073! Sogni d’uno stravagante di Agostino della Sala Spada Bava Bogeri. Pubblicato per la prima volta nel 1874 a Casale Monferrato, Nel 2073! giovò, per i ricchi imprestiti, ai romanzi L’anno 3000. Sogno di Paolo Mantegazza e Le meraviglie del Duemila di Emilio Salgari. In Francia il romanzo del piemontese subì una vera e propria truffa. Inoltre, il celebre romanzo Looking Backward dell’americano Edward Bellamy presentò molteplici situazioni riprese da Nel 2073!. Troppe. Tutte combinazioni? Gli studiosi, come la nostra Simonetta Satragni Petruzzi, hanno affrontato con meticolosità i casi di plagio e quelli, più rari, di “omaggio” al geniale piemontese.
In una serie d'illustrazioni dal titolo "En l’an 2000" l'artista Jean-Marc Côté immaginava città del futuro attraversate da taxi volanti.
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Plagiato anche da Salgari Il caso più eclatante è quello del romanzo di Salgari, dove, ad esempio, la macchina volante degli americani si chiama Condor come un aerostato di Nel 2073!; nel mondo non esistono più guerre e le barriere naturali, come i deserti, sono stati neutralizzate per favorire l’affratellamento degli uomini. I cibi esistono anche in tavolette e in pillole; la posta arriva a domicilio, dentro le singole case, grazie a un tubo direttamente collegato con l’ufficio postale; i treni, velocissimi, sono aspirati e spinti dentro tubi di acciaio pneumatici; si verificano contatti con gli altri pianeti. Dove i due romanzi divergono totalmente è nel finale: al lieto fine di Nel 2073! si oppone la visione pessimistica de Le meraviglie. Arrestiamo qui il breve sguardo panoramico sulla storia della letteratura fantascientifica e il caso del romanzo Nel 2073! con la consapevolezza che altri raffronti di particolari — o con altri testi ancora — sarebbero davvero ben possibili.
E se la storia fosse andata diversamente? L’autore di Nel 2073! è trascurato dalle tante antologie fantascientifiche. Questo per il semplice motivo che oggi la sua opera è veramente difficile da trovare in biblioteca e nel mercato antiquario è introvabile o raggiunge cifre notevoli. È, invece, un personaggio meraviglioso e fantascientifico (alla ricerca di mondi utopici, ma realizzabili attraverso l’ingegno dell’uomo) l’avvocato Agostino della Sala Spada Bava Bogeri! Immaginava le fumne del futuro, negli anni più bui dell’Ottocento (quelli della Comune di Parigi e dei disastri del militarismo europeo), emancipate e vestite in modo semplice. I fidanzati, per meglio conoscersi, Nel 2073!, praticano la coabitazione prematrimoniale, ma senza sesso (e chi abusa della donna perde — a vita — "i diritti mondiali"). Nel 2073! Sogni d’uno stravagante è un libro ucronico (chi scrive preferisce questo termine agli affini "fantastoria" o "alternative history"), costruito sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. Per la sua natura, l’ucronia può essere assimilata al romanzo di fantascienza e si incrocia con la fantapolitica (i comunisti Nel 2073! abitano un’isola e da loro ci si difende con pistole elettriche), amalgamandosi all’utopia (è nel segno del “progresso” o “incivilimento” che lo scrittore piemontese costruisce una vera città di Dio). Non c’è traccia, invece, della distopia, cioè di una società indesiderabile.
Un sonno lungo due secoli Il protagonista delle avventure è un giovane avvocato, Saturnino Saturnini, ovvero l’avvocato Spada, come lo chiamavano abitualmente gli amici nel suo buen retiro di Moncalvo. Saturnino, dopo un lungo sonno cagionato da un ipnotizzatore, si risveglia nel futuro: a Torino, nel 2073! Il suo sonno bisecolare dura lo spazio di due capitoli. Al momento del risveglio Saturnino trova l’assistenza di un giovane discendente della sua famiglia, Cristiano, destinato dalla sorte a fargli da guida nel “nuovo” mondo, affiancato dal padre Valente, dalla sorella Speranza e dal fidanzato di questa Umano (nomi non certo scelti a caso); saranno costoro a fargli poi conoscere Evangelina, la sua “futura” fidanzata.
Agostino della Sala Spada Bava Bogeri
La prima sorpresa del risveglio sono gli abiti: via il solino inamidato! La moda dei tempi nuovi è un comodissimo abito confezionato in morbida e resistente stoffa ricavata dalla tela dei ragni… Chi scrive desidera subito aprire una parentesi per questa notevole trovata dello scrittore, che scrive nel 1874! Sebbene le proprietà della tela di ragno erano già note nel Settecento, tanto che il Re Sole ebbe in dono un gilet intessuto con questo filo, non fu però possibile a quei tempi e ancora nell’Ottocento realizzare una produzione di tessuto su larga scala. Oggi il problema è stato superato grazie all’ingegneria genetica, che ha saputo realizzare filo di ragno sintetico. Benché il filo che compone la tela di un ragno abbia uno spessore di meno di un millesimo di millimetro, è resistentissimo: elastico e capace di sopportare alte temperature, è impiegato, in tessuti multistrato, persino nella confezione di giubbotti antiproiettile.
Vino a domicilio La seconda e più intensa sorpresa riservata a Saturnino è vedere la Torino del secondo millennio, che ammira nell’affacciarsi dal balcone (che si “srotola” automaticamente!): estesa, popolatissima, fervente di vita nelle strade e nei cieli. Un primo giro per Torino viene fatto in una "carrozza di forma singolare", semovente, guidata da Cristiano: il loro itinerario, che parte da piazza Statuto, si snoda per via Dora Grossa, piazza Castello e via Po, ma i nomi delle strade e delle piazze adesso portano i nomi delle virtù (piazza degli Uomini Buoni, via della Generosità, piazza della Fratellanza, ecc.). Tornati a casa per il pranzo, altra scoperta! Non esiste più la servitù perché ogni lavoro è semplificato dalle macchine e quel poco che rimane da fare ciascuno lo fa volentieri in prima persona. Per la pulizia della
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SEVAGRAM, LIBRI FANTASTICI E DOVE TROVARLI In ricordo di Riccardo Valla, uno dei padri della fantascienza italiana di Davide Mana Viene spesso osservato come l’età dell’oro della fantascienza sia l’adolescenza. Al di là di questo vecchio, cinico adagio, storicamente si parla di golden age of science fiction per il periodo che va dagli anni Quaranta agli anni Cinquanta del secolo scorso, le ultime due decadi delle riviste pulp, la stagione in cui John W. Campbell e, in misura minore, Horace Gold e Damon Knight, con il loro lavoro per riviste come Astounding, Amazing, Unknown e Galaxy, codificarono il genere.
La golden age in Italia Ma in Italia è diverso (non è sempre così?) e l’età dell’oro, per la fantascienza nel nostro paese inizia negli anni Settanta, e si spinge fino alla fine degli anni Ottanta. In questo periodo, la collana "I Romanzi di Urania" di Mondadori, che in Italia è da sempre, nel bene e nel male, sinonimo di fantascienza, arriva a uscire con cadenza bisettimanale per soddisfare il pubblico avido di novità. Esistono case editrici specializzate: la milanese Editrice Nord pubblica in media una trentina di volumi l’anno, e la romana Fanucci ha ritmi paragonabili; e poi ci sono i volumi della Libra (che pubblica anche il trimestrale NovaSF), della MEB etc. Non meno di cento nuovi titoli pubblicati ogni anno, prevalentemente romanzi, nella stragrande maggioranza in traduzione. Ci sono i club di appassionati, a Milano, Roma, Piacenza, Napoli, solo per citarne alcuni. E si pubblicano riviste e fanzine. A Torino si pubblicano ad esempio Klaautu: parole e mondi fantastici e, per un breve e folgorante istante, una rivista-libro intitolata L’opera al rosso dedicata all’orrore, al gotico, al grottesco. Prima ancora, nel 1967, a Torino era uscita per due soli numeri una fanzine ciclostilata intitolata SEVAGRAM, parola misteriosa che chiude il racconto Hedrock, l’immortale di A. E. Van Vogt (un autore dell’età dell’oro della fantascienza) ed è anche il nome del villaggio dove Gandhi visse i suoi ultimi anni, e significa “villaggio di servizio”. A Torino, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, c’è anche la libreria Sevagram. E non è possibile parlare di fantascienza o fantastico a Torino, senza parlare della Sevagram, e di Riccardo Valla. Copertina del primo numero di “Sevagram”, 15 gennaio 1967.
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Illustrazione di Giuseppe Conti.
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IL CHIMICO ASCANIO SOBRERO L’inventore della nitroglicerina terrorizzato dalla dinamite di Roberto Coaloa
Ascanio Sobrero in un'illustrazione di Giuseppe Conti.
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Pare bizzarro, oggi, abbinare qualcosa di distruttivo, come la dinamite, al Premio Nobel, ad esempio, a quello più famoso: il Nobel della Pace. Eppure fu il chimico svedese Alfred Nobel, diventato ricchissimo per aver depositato per primo, nel 1867, il brevetto della dinamite, a dare il nome al celebre premio. Nobel è stato un imprenditore di successo, che ha avuto un ruolo chiave nella conversione di una società siderurgica svedese in una società di armi (cannoni) e impresa di prodotti chimici.
Il mercante della morte (non) è morto Pochi sanno che l’istituzione del Nobel nacque per caso, per una crisi di coscienza. Il chimico svedese, infatti, diventato il principe degli imprenditori europei di fine Ottocento, assommando ben 360 brevetti industriali, divenne anche una persona molto odiata, poiché fu identificato dai suoi contemporanei come “le marchand de la mort”. Nel 1888, per sbaglio, un giornale francese pubblicò il necrologio di Alfred Nobel: in realtà era deceduto, a Cannes, suo fratello Ludvig. Il giornale, comunque, parlava di lui, condannandolo duramente per l’invenzione della dinamite: Alfred Nobel, che divenne ricco trovando il modo di uccidere il maggior numero di persone nel modo più veloce possibile, è morto ieri. Il chimico svedese fu scosso da tale annuncio funebre e pensò che il suo nome non avrebbe dovuto essere ricordato come sinonimo di morte. Tuttavia, le possibili applicazioni belliche e distruttive delle sue scoperte scientifiche erano evidenti. Da ogni parte del mondo giungevano richieste, in tal senso, dagli eserciti degli imperi, che stavano portando l’umanità all’immane catastrofe della Grande Guerra.
Tormentato da questa spirale d’inaudita barbarie, lo scienziato e imprenditore di successo diventò filantropo. Il 27 novembre 1895, al circolo svedese e norvegese di Parigi, al numero 242 di Rue de Rivoli, nei locali in cui il suo ufficio è ancora conservato, Nobel compilò in francese e firmò il celebre testamento che diede origine ai noti premi, lasciando quasi tutta la sua fortuna per la creazione di un fondo i cui interessi devono essere ridistribuiti “à ceux qui au cours de l’année écoulée auront rendu à l’humanité les plus grands services” in cinque aree: la pace o diplomazia, letteratura, chimica, fisiologia o medicina e fisica.
Il Dinamitificio Nobel di Avigliana In Italia, invece, Nobel sviluppò le sue scoperte scientifiche. Uno dei primi e più grandi dinamitifici fu costruito nel Bel Paese, più precisamente in Piemonte, dopo l’Unità, presso una zona assai pittoresca, ricca allora di boschi: la località Valloja di Avigliana, dove la presenza di formazioni collinari consentiva una protezione dell’abitato dagli effetti delle deflagrazioni, spesso inaudite, che potevano essere causate da questa pericolosa attività. Perché proprio il Piemonte? Fu, infatti, uno scienziato italiano, Ascanio Sobrero, piemontese, nato a Casale
Alfred Nobel
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ALESSANDRO CRUTO
L'INVENTORE CHE ILLUMINÒ IL MONDO
Fu davvero Edison ad accendere la prima lampadina? di Gabriella Bernardi
La pipa rallenta il passo del progresso ed esperimenti, chi prende mano alla pipa… manda in tale maniera in fumo quella forza che maggiormente distingue l’uomo dagli altri animali: la ragione. Chi pipa difficilmente pensa… quelle ore che prima mi rubava la pipa nell’innalzare quelle castella di fumo che andavano via dileguandosi nell’aere come il primo bollo d’idea dell’invenzione, quelle ore furono da me impiegate nello studio. Queste sono le considerazioni di un inventore poco conosciuto, Alessandro Cruto, nato a Piossasco il 24 maggio 1847, lo stesso anno di altri distinti personaggi più famosi di lui, come il piemontese Galileo Ferraris o lo statunitense Thomas Alva Edison, inventore noto, tra le altre cose, per la sua lampadina elettrica.
L'inventore è un ragazzo Proprio pensando a Edison il nostro cervello fa un click, in tutti sensi e non solo metaforicamente, se si pensa al semplice gesto di accendere una luce, o meglio l’interruttore di una lampadina. Perché allora nessuno sa chi sia stato Alessandro Cruto? Eppure la sua vita è strettamente legata alla storia dell'illuminazione. Ma prima di tutto, chi è un inventore? Questo ce lo spiega Cruto stesso: L’inventore continua ad essere ragazzo fin che muore. I ragazzi cosa fanno? Si mettono in capo di fabbricare delle cose, delle macchine. Fanno mille tentativi e difficilmente riescono in qualche cosa. Nei ragazzi predomina l’idea dell’invenzione, non già coll’idea di inventare, ma con quella di distinguersi in qualche cosa che appaghi la loro ambizione. L’inventore, ripeto, è sempre un ragazzo. Almanacca, ricerca colla sua mente oggetti su cui possa sperare di trovare un utile. Quando afferra un’idea che 40
le pare buona, la elabora, la studia, vi cerca il bello. L’idea ha per oggetto una cosa nuova utile, una macchina, un ordigno, un qualche cosa di materiale. L’inventore pensa ad eseguire l’oggetto ideato, pensa al materiale da impiegarsi, al processo di fabbricazione, consulta libri, cerca se quell’idea fu già sfruttata. L’inventore si confuta da se stesso, cerca tutto quanto può combattere la sua idea. Ci pensa oggi, di nuovo domani, a diverse riprese. Qualche volta, cioè il più delle volte, il castello crolla per un fatto imprevisto. In questi casi l’inventore che ha speso ciò che ha speso, che conta più o meno sul suo erario, che ha vagheggiati onori e fortuna, vedendosi sfumare tutto, in questi casi l’inventore è snervato, si vede ridicolo. Se la gente sapesse quanto son misero, sono un ragazzo! L’inventore non si deve lasciar perdere per tali sconfitte, le sconfitte istruiscono; sopra 100 presunte invenzioni una sola resisterà, una sola trionferà. Andiamo avanti.
Alessandro Cruto in un'illustrazione di Giuseppe Conti.
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1525, IL FLAGELLO DELLA PESTE SI ABBATTE SUL MONFERRATO
Illustrazione di Valentina Brostean.
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Così il vino, da nettare degli dei, divenne rimedio contro il contagio di Roberto Coaloa Il vino, la demonologia e l’Inquisizione erano in prima fila per combattere la peste in Piemonte nel Cinquecento. Ovviamente il vino era sprecato, né un Compendium maleficarum né un tribunale dell’Inquisizione potevano, ovviamente, arrestare una pandemia. In Monferrato ci fu addirittura un processo agli untori di manzoniana memoria, uno dei più grandi. Non è una finzione narrativa. Gli atti raccontano il processo svoltosi nel castello di San Giorgio Monferrato. Nel 1530 infatti, nel Monferrato governato dalla vedova di Guglielmo IX Paleologo, la marchesa Anna d’Alençon, furono processate quaranta persone e ben trenta furono impiccate. Uomini e donne. L’accusa li condannava come untori durante il precedente periodo di peste.
Una partita con la morte Nel 1525 la peste aveva mietuto le popolazioni del Marchesato. L’epidemia aveva investito il Piemonte già nel 1523 decimando la città di Saluzzo. La piaga, endemica nel Rinascimento, si diffuse in Italia e in Europa ai tempi delle prime crociate scoppiando a volte per motivi naturali dovuti a siccità, altre volte per cause belliche, quando le marmaglie trascinavano le picche e gli spadoni, dall’Inghilterra di re Riccardo Cuor di Leone alla Venezia del Doge, per tutto il continente, come si vede nell’iconico film Il settimo sigillo dove il regista Ingmar Bergman presenta appunto un’Europa in balia di peste e disperazione. Nel film, in questa situazione, tornano dalle crociate in Terra Santa il nobile cavaliere Antonius Block, interpretato da Max von Sydow, e il suo scudiero Jöns, l’attore Gunnar Björnstrand. Al suo arrivo, la Morte, che ha scelto quel preciso momento per portarlo via, attende il nobile Block sulla spiaggia. Il cavaliere decide di sfidarla a scacchi per rimandare la sua dipartita. La Morte acconsente al rinvio. Indimenticabili sono le sequenze del macabro scontro a scacchi. L’immagine più famosa del film Il settimo sigillo, come racconta il regista Ingmar Bergman, è
È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”
"Il settimo sigillo", scena finale.
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GIOVANNI VIRGINIO SCHIAPARELLI IL MARZIANO Così nacque il mito della vita sul Pianeta Rosso di Davide Mana
Poche persone possono vantare un'influenza tanto profonda e pervasiva sulla propria cultura di appartenenza, quanto quella esercitata da Giovanni Virginio Schiaparelli sull’immaginario del XX secolo. Quando Schiaparelli, nella notte del 23 agosto 1877, rivolge il nuovo telescopio dell’Osservatorio di Brera verso il punto rosso nel cielo che è il pianeta Marte, difficilmente immagina che dalle sue osservazione fiorirà una quantità infinita di libri, di film, di programmi radiofonici, persino canzoni, che lasceranno un segno indelebile nell'immaginazione umana. Lui, quella sera, vuole solo verificare se il nuovo telescopio possegga una definizione sufficiente per permettergli non solo di studiare le stelle, ma anche i pianeti.
Marte dev’essere certamente il paradiso degli idraulici! giovanni Schiaparelli "La vita sul pianeta Marte"
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Nelle belle sere dell’autunno passato una grande stella rossa fu veduta per più mesi brillare sull’orizzonte meridionale del cielo; era il pianeta Marte, che si accostava per qualche tempo alla Terra in una delle sue apparizioni, solite a ripetersi ad intervalli di 780 giorni Giovanni Schiaparelli, “Il Pianeta Marte”
Schiaparelli nell'Osservatorio Astronomico di Brera in un'illustrazione pubblicata sulla copertina de "La Domenica del Corriere" del 28 ottobre 1900.
Alla Specola di Brera Nativo di Savigliano, dove era nato il 14 marzo 1835, primo di nove figli di Antonino e Caterina Schiaparelli, originari di Biella, Giovanni si era laureato in Ingegneria a Torino nel 1854, interessandosi tra l’altro di geodesia, matematica, meteorologia e storia della scienza; e si era successivamente dedicato a studi di astronomia prima all’Osservatorio di Berlino e poi in Russia, nell’Osservatorio di Pulkovo, a San Pietroburgo. Tornato in Italia, nel 1860 venne assegnato all’Osservatorio Astronomico di Brera — la famosa “Specola” di Brera. Secondo la tradizione, fu nel febbraio 1760 che due padri gesuiti, Giuseppe Bovio e Domenico Gerra, dopo aver scoperto a occhio nudo una cometa ne seguirono il passaggio con il loro cannocchiale dal tetto del palazzo di Brera; in seguito all'entusiasmo suscitato dalla loro scoperta, Bovio e Gerra convinsero le autorità religiose a equipaggiare un osservatorio astronomico nello stesso edificio. La fondazione ufficiale della "Specola" viene tuttavia fatta risalire al 1764, su iniziativa di padre Ruggero Giuseppe Boscovich. Pochi anni dopo, con la soppressione dell’Ordine Gesuita, l’amministrazione si fece carico dell’Osservatorio.
Prima vennero le stelle Quando Schiaparelli arriva a Brera, la "Specola" è uno dei più antichi e attivi osservatori astronomici d’Europa, e quindi del mondo — ed è stato la base di operazioni di La Grange nella sua esplorazione del sistema solare. E a Brera, Schiaparelli si divide fra la curatela delle
straordinarie collezioni della biblioteca dell’istituto e le osservazioni notturne del cielo. Il suo interesse primario sono le stelle doppie e quando, dopo due anni, gli viene assegnato il posto di direttore dell’Osservatorio, la sua prima decisione riguarda l’acquisto di un nuovo telescopio rifrattore, un Merz da 218 millimetri. Insieme al suo studio sulle stelle doppie, Schiaparelli si dedica anche a un tema “atipico”, lo studio dell’origine degli sciami di meteore. L’ambito scientifico di riferimento per questi studi è la meteorologia e non l’astronomia; all’epoca si crede infatti che le piogge di stelle cadenti come le Perseidi (ad agosto) e le Leonidi (a novembre) siano un fenomeno legato alle dinamiche dell’atmosfera, come i fulmini e le aurore boreali. Sarà proprio Schiaparelli a dimostrare che questi fenomeni sono invece spiegabili utilizzando le dinamiche celesti, e a identificare l’origine di questi sciami di stelle cadenti nella dissoluzione di due comete, rispettivamente la 1862III e la 1866I. La fama che deriva da queste osservazioni avrà un peso notevole nello sviluppo successivo della carriera di Schiaparelli, in particolare sulla vicenda che riguarda il Pianeta Rosso. Perché, nella notte del 23 agosto 1877, quando Schiaparelli punta il telescopio verso Marte, ciò che vede è molto diverso da ciò che si aspetta di vedere.
Lo sguardo verso Marte È importante tenere presente che se telescopi di potenza sempre maggiore erano disponibili dalla metà del Seicento, fino allo sviluppo
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IL MISTERO DEI COSMONAUTI PERDUTI I fratelli Judica Cordiglia: gli hacker dello Spazio di Davide Mana
Achille e Giovanni Battista Judica Cordiglia
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Vi porto un avvertimento: ognuno di voi che ascolta la mia voce, dite al mondo, ditelo a tutti ovunque si trovino. Scrutate il cielo. Ovunque. Continuare a cercare. Continuate a scrutare il cielo "La cosa da un altro mondo", regia di Christian Nyby, 1951 Il 4 ottobre del 1957 l’Unione Sovietica sorprese il mondo con il lancio dello Sputnik 1, il primo satellite artificiale della storia, il primo minuscolo passo dell’uomo verso l’esplorazione (e forse la conquista) dello Spazio. Lo Sputnik era una sfera metallica di 58 centimetri di diametro, con quattro antenne radio. Rimase attivo per tre settimane, orbitando la Terra e lanciando un segnale che chiunque, con un apparecchio radio, poteva facilmente captare. Poi le sue batterie si esaurirono e, dopo un paio di mesi, lo Sputnik precipitò nell’atmosfera, restando incenerito. A quel punto però, aveva cambiato la storia della nostra specie, segnando uno spartiacque fondamentale, l’inizio dell’era spaziale. L’effetto del successo sovietico fu devastante — gli storici parlano di “crisi dello Sputnik” per descrivere il terremoto politico, sociale, culturale e tecnologico che investì gli Stati Uniti e, di riflesso, il resto dell’Occidente. L’avvertimento col quale sei anni prima si era chiuso il film La cosa da un altro mondo di Christian Nyby, era improvvisamente diventato reale e pressante. Gli occhi di tutti erano ora rivolti verso il cielo… E non solo gli occhi. Il grande colpo di teatro dell’avventura dello Sputnik era consistito nel progettare la missione in modo che il satellite sorvolasse ogni terra emersa, emettendo un segnale su una frequenza che qualunque radioamatore sarebbe stato in grado di captare. La presenza dello Sputnik nell’orbita della Terra era stata impossibile da ignorare.
Come Marconi I radioamatori esistono da quando esiste la radio, o quasi. Nel 1901, negli Stati Uniti, la rivista “di bricolage” (diremmo oggi) Amateur Work pubblicò un articolo su come costruirsi un impianto di ricezione e trasmissione radio “come Marconi”. Articoli simili vennero pubblicati in tutte le lingue e in capo a pochi anni, la radio, oltre a essere un nuovo mezzo di comunicazione di massa, era anche uno degli hobby più popolari e diffusi. Esistevano riviste specializzate per questa nuova sottocultura: la prima, Modern Electrics, venne fondata nel 1908 da Hugo Gernsback, radioamatore e scrittore che avrebbe successivamente fondato e diretto anche Radio News. Nel 1926, Gernsback avrebbe poi lanciato la rivista Amazing Stories, per pubblicare quella che avrebbe battezzato come “scientifiction”. L’“oscar della fantascienza”, assegnato ogni anno, si chiama Premio Hugo in suo onore. Nel corso degli anni, i radioamatori hanno svolto un ruolo centrale in eventi diversi come le operazioni di soccorso dei sopravvissuti del dirigibile Italia (1928), lo sviluppo delle telecomunicazioni in aree depresse o sottopopolate e la diffusione di notizie durante situazioni di crisi, come ad esempio la guerra nei Balcani (1999) o dopo l’attacco alle Torri Gemelle. In Italia, a partire dal 1912, sorsero molte stazioni amatoriali, spesso in corrispondenza delle stazioni meteorologiche, gestite da personaggi che venivano definiti “radiosperimentatori”, “radiodilettanti” e, per un breve periodo, “radianti”. Con lo scoppio della Grande Guerra, in Italia come in molte altre nazioni, l’attività dei radioamatori venne strettamente regolamentata per evitare le attività spionistiche, ma quello della radio rimase per moltissimi un hobby anche negli anni I fratelli Judica Cordiglia mentre installano un'antenna sul tetto del loro condominio.
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Dissiunari
Origine e storia delle parole piemontesi di Massimo Bonato
Quando pensiamo a un trucco pensiamo a un artificio, a qualcosa che ha alterato la realtà o anche soltanto la nostra percezione della realtà. E in effetti è così: tutto il significato della parola trüc ruota attorno all’alterazione di uno stato. Il sostantivo trüc è un sostantivo deverbale, deriva cioè dal verbo trüché, “truccare”, tanto in italiano quanto in piemontese. Ma a un certo punto della sua storia il significato diverge, fino a farci pensare subito a una distorsione della realtà, una qualche sua modificazione, a un inganno, un “artificio con cui si nasconde, si maschera o si falsa la realtà”, ma anche “spinta, urto”. L’etimologia non è chiarissima, poiché se è vero che trova tutti concordi nel ricostruire una precedente forma del latino volgare *trudicare (“pressare, spingere”) da cui entrambe i significati discenderebbero, c’è chi propende a far derivare questa forma da un precedente latino trudere, “sospingere”, e chi vi vede un’alterazione del gotico thruks, “spinta” (che si confronta con l’odierno sostantivo tedesco druck, “pressione, oppressione”, da cui pure “stampa”). La cosa interessante semmai avviene più tardi, quando ormai in antico provenzale è assodato che il verbo trucar significhi appunto “urtare”, da cui si forma il sostantivo truc, “urto, spinta” e nelle corti del Rinascimento dà nome a un gioco simile al biliardo molto in voga, il trucco, da cui anche il trucco a terra, o pallamaglio. Il francese antico attinge al provenzale rifacendosi a trucar per trarvi il verbo truquer e con esso cogliendo non tanto il senso dello spostamento causato da una spinta, quanto l’abilità nel provocare quella spinta in modo appropriato. Truq assume allora anche questo valore traslato, partendo dal significato francese di “abilità, inganno, artificio” che si fa strada fino a noi. Quindi, sebbene verbo e sostantivo rimangano gli stessi, diremmo con naturalezza dui bec ch’a trucu, (“due becchi che cozzano” – che si incornano), così come trüché le carte a l’è baré (“truccare le carte è barare”). Dal Rinascimento, verbo e nome passati al piemontese han mantenuto questi due significati, moltiplicandone gli usi: il trüché che porta con sé il significato di “spingere, urtare” è quello con cui parliamo di animali o cose che si urtano, che cozzano, che si scontrano. Così quindi sarà anche il “bocciare” nel gioco delle bocce (trüché bucin) o fare un buon colpo, a rigor di logica “un buon urto” (ün bun trüc), da cui quel modo di dire ancora in uso che significa “all’incirca, più o meno” quel trüc e branca che all’esattezza di un abile tiro aggiunge qualcosa di assolutamente relativo quanto il palmo di mano. Anche lo scontro verbale che ci fa “litigare” con qualcuno (trüchesse cun quaidün) oppure perché urtiamo contro qualcosa di inaspettato e “inciampiamo”, s‘atrücuma. Per non parlare di colui che andava a sbattere contro un bel guaio e lo si adocchiava dicendone chiel-lì a l’é antrücà, perché aveva contratto la sifilide. Trüc è anche la contraddizione, ma pure il baratto, così come trüché significa “scambiare, barattare”. È ancora sempre al provenzale truc, che dobbiamo il modo con cui chiamiamo un poggio, un’altura, un rilievo poco pronunciato contro cui lo sguardo “sbatte” in montagna o per le colline, dove non poche sono le frazioni Trucco (in provincia di Torino o Cuneo), sin giù a Ventimiglia, o i vari Montrucco, Bric Montrucco ecc. Il significato di “artificio, abile espediente”, parallelo all’italiano trucco, segue gli usi comuni della lingua nazionale, per la quale si ottiene un determinato effetto di simulazione della realtà nel cinema, nel teatro, negli effetti visivi fino a chiamare il maquillage "trucco”, o i “trucchi del mestiere” proprio quelle abilità che solo l’esperienza insegna. Il piemontese vi aggiunge alcuni traslati propri come il “guaio”, a l’é ‘n bel trüc (“è un pel pasticcio”), o anche quel senso di spaesamento, di incertezza che l’alterazione della realtà comporta, esse an trüc, che suona un po’ come “stare sulle corde, star sulle spine”. Insomma, trüc e branca i suma capisse.
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Se c’è una figura che si è affacciata almeno una volta ai sogni di un bambino, questa è la masca. Strega, fattucchiera, megera dotata di poteri magici e protagonista di molti racconti popolari, sempre in bilico tra l’atto malvagio e il capriccioso dispetto. La masca è una figura antica il cui nome si perde nella notte dei tempi. Se è infatti sicuro che il termine sia presente già sin nel latino, non è però affatto sicuro che la sua origine sia indoeuropea, e come dunque fino al latino sia giunto. Le teorie etimologiche dipendono quindi da questa incertezza di fondo. Potrebbe derivare sì dalla forma arcaica di protoindoeuropeo *mezgw fino al germanico *maska (“maschera”) e di qui al piemontese attraverso i longobardi. Ma potrebbe altrettanto verosimilmente provenire da una forma preindoeuropea, che più direttamente recava in sé il significato di “scuro”. Accolto dal latino mascam e diffusosi con il significato di “figura demoniaca nera” e poi “maga, strega” proprio nei territori occitani, piemontesi e liguri, attraverso l’antico francese mascurer (“scurirsi, annerirsi la faccia”… non vien subito da pensare a quel prodotto usato quotidianamente da tante donne, il “mascara”?). Alla masca si comincia a dar forma giuridica sin dall’Editto di Rotari (643 d.C.) col significato definitorio di strega: Si quis eam strigam, quod est Masca, clamaverit (“Se la chiamano strega è perché è una masca”) giungendo anche in italiano fino a noi con l’aggettivo mascagno, dal significato di “furbo, astuto, malizioso”. “Strega” rimarrà l’attributo di questa fattucchiera sempre in bilico tra l’essere maligno e la befana capricciosa e dispettosa, per una credenza meno malevola di quella che sino al Cinquecento portò al rogo diverse donne con l’accusa appunto di essere masche, streghe. Come capitò a Micillina, arsa sul rogo il 29 luglio del 1544 su un poggio del Roero dove ancora oggi esiste un Bric dla masca Micillina a ricordare la sventurata, o prima di lei le tre donne bruciate nel 1472 a Forno Rivara, o nel 1474 a Prà Quazzoglio, nel Canavese e le innumerevoli altre finite sotto il cupo sguardo dell’Inquisizione. La realtà era molto diversa dalla credenza che le masche potessero non solo volare, sparire e ricomparire dove desiderassero, ma anche essere immortali. Immortalità bizzarra però, soggetta alla malattia e all’invecchiamento, cosicché una masca risultasse giovane soltanto se in giovane donna si trasformava per apparire ai malcapitati. Del resto però, la masca, seppur figura maligna e demoniaca, rimane una donna del popolo, che frequenta la messa e riceve come tutti i sacramenti; anche se poi si crede possa maledire i bambini, provocare danni a persone o cose – specie i raccolti – determinare il clima. Chi pensa che masca derivi da una più distante fonte araba, masakha, che significa “trasformare in animale”, giustifica almeno in parte la comune caratteristica delle masche di trasformarsi in mosconi, vipere, o in gatto, l’animale prediletto dal demonio. Come la Splorcia della Val d’Ossola, che si presentava come un piccolo mostro dal muso di maiale, ali da pipistrello e zampe di rospo, una sorta di ornitorinco nostrano. L’ineffabile masca delle credenze popolari ha assunto forme e modi diversi a seconda delle aree – Langhe e Roero, Monferrato, Valli di Lanzo o Canavese, Valli del Cuneese o l’Alessandrino ecc. – sempre inafferrabile nei suoi voli notturni finì tragicamente per diventare l’attributo di donne molto più realmente perseguitate, incarcerate, torturate e assassinate sul rogo in nome della superstizione e del pregiudizio.
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