Rivista Savej #7

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Sommario 2 Editoriale 4

Antoine de Lonhy, un pittore europeo nel ducato di Savoia

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Come si restaura un capolavoro

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Una mostra per scoprire le opere dell'artista rinascimentale // Vittorio Natale

Il racconto della restauratrice che ha ridato vita alle tavole di Vezzolano // Anna Rosa Nicola

Dall'Arcivescovado a Piazzale Loreto Una testimonianza inedita sugli ultimi giorni di Mussolini // Lidia Brero Eandi

Don Molas dalla guerra del Chaco alla resistenza astigiana

DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero Eandi REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Fondazione Enrico Eandi

La storia del sacerdote paraguaiano, eroe di guerra tra due mondi // Dario Rei

Sacco e Vanzetti, il capitolo buio della giustizia americana Lettere inedite dei familiari a cent'anni dalla iniqua condanna // Luigi Botta

Ipnosi, ortotteri e piume di struzzo Viaggio nelle pubblicità del Giornale dell'Expo di Torino del 1911 // Valentina Cabiale

Un piemontese nella Valle delle Regine

ILLUSTRAZIONI Giuseppe Conti PROGETTO GRAFICO Fondazione Enrico Eandi STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN)

Così l'egittologo biellese Ernesto Schiaparelli scoprì la tomba di Nefertari // Davide Mana

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Pietro Canonica, quando il marmo prende vita

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Per grazia ricevuta

L'artista di Torino che incantò la corte degli Zar // Manuela Vetrano

La bellezza segreta degli ex voto, espressione popolare di tragedie scampate // Umberto Ledda

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La carrozza di Napoleone

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Cantalupo, Volpedo e Punta dell'Aquila

Fu davvero questa la vettura utilizzata per l'incoronazione a Re d'Italia? // Roberto Coaloa

Lupi, volpi e altri animali "nascosti" nei nomi di luogo piemontesi // Alberto Ghia

88 Dissiunari

Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato

EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 — Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.edizionisavej.it Disponibile anche online su: www.rivistasavej.it Seguici su: FondazioneEnricoEandi fEnricoEandi

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Un giro in libreria // Roberto Coaloa

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Le nostre firme e l'illustratore di questo numero

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Fondazione Enrico Eandi

fondazioneenricoeandi ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2021 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati.

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ANTOINE DE LONHY UN PITTORE EUROPEO NEL DUCATO DI SAVOIA Una mostra per scoprire le opere dell'artista rinascimentale di Vittorio Natale

Il periodo a Barcellona Il 4 maggio del 1462 a Barcellona era probabilmente una luminosa giornata di tarda primavera quando Antoine de Lonhy, di mestiere pittore, si recava dal notaio Giovanni Palau assieme all’amico Antonio Sadorni, ricamatore di fama, per regolare alcuni conti rimasti tra loro in sospeso. Il primo aveva fornito al secondo delle pitture (ma saranno stati disegni per realizzare paramenti!) e il secondo aveva anticipato al primo un bel prestito, per cui Antoine cedeva al ricamatore, che portava il suo stesso nome, le ventidue lire che ancora doveva riscuotere dal convento agostiniano di Domus Dei, per il quale aveva appena dipinto un dossale per altare. Le pendenze andavano risolte perché de Lonhy si trovava temporaneamente ancora a Barcellona, ma presto avrebbe dovuto tornare nella città di cui si dichiarava abitante, la “villa de Villana in Ducatu Savoye, diocesis de Taurinanxis”, cioè la nostra Avigliana. Fra gli artisti della città catalana Antoine de Lonhy era conosciuto un po’ da tutti, perché non aveva solo realizzato il sopra citato polittico per la cappella del ricco mercante Bertran Nicolau nel convento di Miralles, eretto nei dintorni di Barcellona (polittico oggi conservato perlopiù al Museo Nazionale d’Arte di Catalogna, salvo due scomparti di predella che sono finiti non molto distante, nella collezione Mateu a Peralada); soprattutto aveva compiuto un’opera grandissima, strepitosa e rutilante di colori per un edificio situato in pieno centro e a due passi dal porto, cioè il rosone in vetri dipinti per la facciata della chiesa di Santa Maria del Mar.

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Antoine de Lonhy, Trinità che incorona la Vergine (oculo centrale del rosone), 1460—1462. Barcellona, Santa Maria del Mar


Antoine de Lonhy, Polittico della Vergine, sant’Agostino e san Nicola da Tolentino, 1461—1462 circa. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya

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COME SI RESTAURA UN CAPOLAVORO Il racconto della restauratrice che ha ridato vita alle tavole di Vezzolano di Anna Rosa Nicola È una bella storia a lieto fine quella che vede protagoniste queste due preziose tavole, dipinte su ambo i lati verso il 1495 da un seguace di Antoine de Lonhy, opere che, secondo quanto recentemente ipotizzato, costituivano gli sportelli mobili dell’altare in terracotta dell’Abbazia di Santa Maria di Vezzolano. Oggi non esisterebbero più se, per una fortunata combinazione, Guido e Gian Luigi Nicola non le avessero salvate, acquisendole insieme a vari materiali e attrezzature per il restauro ad un’asta indetta dal Cottolengo in seguito al lascito del professor Ettore Patrito, chimico, restauratore e maestro di Guido. Anna Rosa Nicola durante l'operazione di reintegrazione sulla tavola dell'Assunzione.

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Un ritrovamento fortuito Per molti anni Guido Nicola aveva lavorato con Ettore Patrito come aiuto, acquisendo esperienza soprattutto nel restauro conservativo e nella pulitura di dipinti su tela e tavola, intervento quest’ultimo nel quale Patrito era altamente specializzato. Utilizzava infatti miscele di solventi organici, innovative per quei tempi, che lui stesso metteva a punto nel suo gabinetto chimico, allestito nella soffitta del laboratorio in via Bogino 9. Un restauratore all’avanguardia Patrito, che già negli anni Cinquanta realizzava, sulle opere che restaurava, analisi ai raggi X, all’Ultravioletto e all’Infrarosso. Guido gli era affezionato e grato per quanto gli aveva insegnato e anche Gian Luigi, che da bambino talvolta accompagnava il papà al lavoro, era affascinato da quel personaggio in camice bianco che tra alambicchi e vapori distillava essenze e preparava vernici. Così, nel 1980, quando Patrito morì, Guido e Gian Luigi acquistarono in suo ricordo oltre alle attrezzature del gabinetto chimico, le apparecchiature per i raggi X e la scopia, le lampade di Wood e ai vapori di mercurio, i microscopi, le maschere antigas, i cavalletti da pittore e anche il suo prezioso archivio fotografico. Al momento del ritiro di quanto acquistato, venne proposto loro di guardare se per caso, tra i materiali che stavano per essere smaltiti, ci fosse ancora qualche cosa che potesse servire. Le due tavole, che non erano state riconosciute come dipinti in quanto erano parzialmente smontate e con la superfi-

cie dipinta coperta da veline di carta ormai molto ingiallite dal tempo e dalla colla, erano appoggiate in un angolo della cantina insieme a vari materiali che stavano per essere smaltiti. Vedendole, Guido e Gian Luigi capirono che si trattava di dipinti, ma pensarono, visto il pessimo stato di conservazione, fossero frammenti che Patrito avesse intenzione di utilizzare come materiale da esperimento. Così le caricarono sul furgoncino insieme al resto e le portarono in laboratorio con l'intento di utilizzarle per la stessa finalità. Già nel 1955, quando Noemi Gabrielli, allora Soprintendente alle Gallerie del Piemonte, le fece rimuovere dalle pareti dell’abside dell’abbazia di Vezzolano per affidarle a Patrito affinché venissero restaurate, le due tavole erano in pessimo stato, con il supporto ligneo tarlato e fessurato in più punti, il colore diffusamente sollevato e in gran parte già caduto. Il restauro era iniziato ma, come spesso accade, forse per mancanza di finanziamenti, le opere erano rimaste in attesa, depositate nel suo studio e con gli anni se ne erano perse le tracce.

La riscoperta e i primi interventi Qualche tempo dopo l'arrivo in laboratorio, Giovanni Romano le vide e, ritenendole interessanti, ci chiese di rimuovere le veline e di avere delle foto per poterle studiare meglio. Asportare i veli di carta, incollati con colla animale da oltre venticinque anni, su una delicatissima superficie dipinta a tempera, arricchita da dorature, fu un’impre-

Lo sportello con l’Assunzione della Vergine su un lato e la Resurrezione sull’altro ancora smontato e con una delle tavole ancora coperte dalle veline apposte da Patrito nel 1955 per bloccare i numerosi sollevamenti di colore.

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DALL'ARCIVESCOVADO A PIAZZALE LORETO Una testimonianza inedita sugli ultimi giorni di Mussolini dai diari di un medico piemontese di Lidia Brero Eandi Tra le numerose memorie e testimonianze scritte dal prof. dottor Giovanni Judica Cordiglia abbiamo scelto alcune pagine in cui ricostruisce, sul filo della memoria e con particolari del tutto inediti, gli ultimi giorni, le ultime ore di Benito Mussolini. Lo scritto risale alla metà del 1972, quando già sono passati trent’anni dalla fine della guerra e ormai violenze, odi e vendette di parte sono stati messi a tacere. Ma è un lasso di tempo che aiuta a rendere più obiettivo lo sguardo su quei tragici avvenimenti, dice l’autore.

Illustrazione di Giuseppe Conti

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L'Italia in guerra Riandando agli anni centrali della guerra (1942—1943), è fondamentale, per comprenderne l’evoluzione, considerare sia l’esito disastroso della battaglia di Stalingrado, contesa palmo a palmo ai tedeschi fino alla capitolazione del generale Von Paulus, sia la sconfitta dell’armata italo-tedesca ad El-Alamein, in seguito alla quale cessa ogni resistenza dell’Asse in Africa. In Italia, intanto, privazioni, sofferenze, bombardamenti e morte accrescono il malcontento contro il regime come evidenziano gli scioperi del marzo 1943 che riescono a paralizzare i grandi centri industriali del Nord. Sono gli operai della Fiat Mirafiori, a Torino, gli iniziatori di uno sciopero che andrà allargandosi rapidamente alle altre grandi città settentrionali. È evidente come, dietro la protesta economica, ci sia quella politica. Fu questo il primo caso di Resistenza al regime. Non solo nella classe operaia ma anche nella borghesia è ormai radicata la convinzione che la guerra sia perduta e che sia necessario sganciare l’Italia dall’alleanza tedesca. Nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo — il 25 luglio 1943 — Mussolini viene destituito da alcuni gerarchi dissidenti e in seguito fatto arrestare da Vittorio Emanuele III. Tuttavia il sovrano e il nuovo capo del governo, il maresciallo Badoglio, commettono l’errore gravissimo di indugiare e tergiversare sia nei confronti dei tedeschi che degli anglo-americani, sbarcati in Sicilia un paio di settimane prima. In sostanza danno tempo alla Germania di far affluire in Italia nuove divisioni ben armate in aggiunta a quelle già presenti. E quando l’8 settembre Badoglio annuncia l’avvenuto armistizio dell’Italia con i rappresentanti del comando anglo-americano senza però dare alcuna disposizione per la difesa contro i tedeschi, le truppe italiane disorientate e senz’ordini, si sbandano.

Un paese diviso a metà Dopo l’8 settembre l’Italia si ritrova in una situazione disperata. La catastrofe è allo stesso tempo politica, militare e civile. Il re con la famiglia e il maresciallo Badoglio, mentre i tedeschi si apprestano ad occupare Roma, si mettono in salvo imbarcandosi per Brindisi su una nave da guerra. E il paese resta diviso in due: il governo Badoglio sostenuto dagli Alleati al Sud e la “Repubblica Sociale Italiana” al Nord. È noto che la Repubblica di Salò, dal nome della località sul lago di Garda dove Mussolini aveva fissato la sua residenza, era del tutto asservita ai tedeschi. Sono i tedeschi in effetti a far pressione su Mussolini perché si vendichi dei gerarchi che nel Gran Consiglio lo avevano destituito. Verranno tutti condannati a morte e fucilati, compreso Galeazzo Ciano, genero del Duce, di cui aveva sposato la figlia Edda. D’altra parte la ferocia della violenza e delle rappresaglie tedesche si evidenzia in crescendo proprio durante il periodo di Salò. Per terrorizzare la popolazione e impedirne la collaborazione con i partigiani della Resistenza, i tedeschi ricorrono a repressioni atroci ed eccidi come quelli delle Fosse Ardeatine (marzo 1944: 335 ostaggi trucidati), di Sant’Anna di Stazzema (agosto 1944: 560 persone uccise, fra cui molti bambini), di Marzabotto (tra il settembre e l’ottobre 1944: 1.676 persone trucidate tra cui intere famiglie e scolaresche di bambini). Ma queste sono solo le tragedie più conosciute.

"La strada per Roma è lunga. La velocità massima della lumaca è di 0,80 metri al minuto." Manifesto del 1944 di propaganda filo-nazista nella Francia occupata dai tedeschi, che deride la lentezza delle forze alleate in Italia.

25 aprile 1945 Mentre faticosamente prosegue dal Sud la marcia degli anglo-americani e nelle campagne e colline del Nord i partigiani fronteggiano la dura opposizione dei nazi-fascisti, si avvicina la primavera del 1945. Decisa dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), l’insurrezione delle città del Nord del 25 aprile 1945 porta a termine la guerra di liberazione. È proprio da questo convulso 25 aprile 1945 che il dottor Judica Cordiglia inizia la narrazione di ciò che avvenne tra l’ex capo di stato in fuga e il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano. Fin dal mattino confusione e violenza attanagliano la città. Rumori secchi di spari si ripetono tra le case e per le strade. Le ultime notizie sono che gli Alleati stanno arrivando e che il CLNAI ha diramato l’ordine dell’insurrezione. Il Cardinale, preoccupato per la comunità ambrosiana, nel timore che altro sangue venga versato e nuovi orrori si ripetano, opera un ultimo disperato tentativo di mediazione tra Mussolini e la Resistenza. Non è

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Illustrazione di Giuseppe Conti

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DON MOLAS

DALLA GUERRA DEL CHACO ALLA RESISTENZA ASTIGIANA La storia del sacerdote paraguaiano, eroe di guerra tra due mondi di Dario Rei Raimondo Luraghi, a proposito del libro di memorie in cui racconta i suoi mesi di guerra dall’8 settembre 1943 al 7 maggio 1945, commentava: “Adesso parlare è facile, tanto le parole non costano nulla. Allora morire era difficile…”. Arrivato con la I Divisione Garibaldi nella zona fra Gallareto e Mondonio, presso Castelnuovo, e posto il comando alla cascina Astorre nei boschi fra Mondonio e Capriglio, Luraghi trovò appoggio dall’allora Rettore del Santuarietto dei Becchi (Colle Don Bosco), che per la sua condizione neutrale avrebbe reso preziosi servigi ai combattenti.

Fu allora che i patrioti ricorsero al potente aiuto del rev.do padre Giuseppe Molas. Questo simpatico e veramente ardito prete salesiano — munito di un’ottima macchina donatagli dall’industriale Rivella di Torino, dotato di regolare permesso della polizia tedesca — si era dedicato tutto ai nostri, curando specialmente lo scambio dei prigionieri. E così, potemmo ancora recarci, sia di giorno che di notte, a lenire le sofferenze dei feriti o dei malati partigiani, bisognevoli d’urgenza. Giordano G., Vita di chirurgo fra i partigiani, 1945

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SACCO E VANZETTI

IL CAPITOLO BUIO DELLA GIUSTIZIA AMERICANA Lettere inedite dei familiari a cent'anni dalla iniqua condanna di Luigi Botta

Immagine di repertorio d’inizio anni Venti diffusa tramite "press agency" statunitense in occasione del proclama del governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, con didascalia originale, annotazioni e interventi grafici di base, utilizzata per la stampa sulle edizioni del 20 luglio 1977 e 21 agosto 1977 del quotidiano "The Baltimore Sun" (archivio Luigi Botta).

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Io credo che questa mia ci fara molto e dispiacere come pure mi fece anche ame quando vedi il nome del caro Bartolo sul giornale che era capitato in m[an]o della giustiza macreda pure tanto me come tanti dei suoi amici abbiamo fatto il posibile per aiu tarlo qui abiam[o] fatto delle collete e ci abiamo messo due buoni avocatti in somma di più non sipoteva fare ma o ben paura che ttutti in nostri sacreficci e soldi che abiamo spesi siano in nutili appena civiene fuori lasenteza subito ciscrivo, se lei vuole farci sapere qualche cosa asuo figlio miscrivi ame che io lo tenero alla corrente dittuto. Caramente in compania di mia moglie lo satutiamo le e sua famiglia.

Come linguaggio non sarà proprio rispettoso del dettato dell’Accademia della Crusca, ma nella sostanza non manca certo di essere esplicito e diretto. A scrivere è Francesco Caldera — Frank per gli amici d’oltre Oceano e Franceschin per i suoi conterranei piemontesi — un italiano emigrato negli Stati Uniti nel 1905, abitante a Brockton, nel Massachusetts. Originario di Villafalletto, nel cuneese, nato nel 1879 e coniugato con Paolina Bertino, dello stesso luogo. Invia queste sue tristi e amare notizie a un amico di vecchia data, di una ventina d’anni più anziano di lui, che abita al paese, a Villafalletto appunto, sulla stessa strada dov’è ancora la sua famiglia, ad alcune decine di metri di distanza, sul lato opposto, proprio nel punto in cui l’arteria principale va ad incrociare la via che attraversa il centro abitato. Il destinatario della missiva è Giovanni Battista Vanzetti, una persona nata a Savigliano e molto rispettata a Villafalletto, dove vive: è sulla settantina ed è titolare di una mescita di vino attiva da un bel po’ di anni. Si tratta di un individuo sapiente, saggio, tutto d’un pezzo, attivo istituzionalmente in numerosi enti comunali. Un giolittiano di ferro. È chiamato Batistin, ma per molti è l’americano, anche perché è stato tra i primi di Villafalletto, agli inizi degli anni Ottanta dell’Ottocento, a non guardare con interesse al tradizionale espatrio stagionale in Francia in cerca di lavoro — com’era per i più — ma a pensare molto più in grande sfidando l’Atlantico e puntando alle terre del West, all’abbondante California, alla quale ben poco avevano da invidiare — senza che i residenti ne fossero informati — le ricche risorse territoriali del cuneese. In alto: lettera con la quale Franceschin Caldera, a metà maggio 1920, segnala a Giovanni Battista Vanzetti, a Villafalletto, l’arresto del figlio Bartolomeo, avvenuto a Brockton, Mass, nella sera del 5 maggio (courtesy Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo, Cuneo). A destra: Francesco Caldera (courtesy Paul Caldera, fotografia A. Del-Gaizo, Alba).

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IPNOSI, ORTOTTERI E PIUME DI STRUZZO Viaggio nelle pubblicità del Giornale dell’Expo di Torino del 1911 di Valentina Cabiale Nei primi anni Settanta John Berger scrisse che un annuncio pubblicitario poteva essere studiato al pari di un’opera d’arte e paragonò il linguaggio della pittura ad olio, che ha dominato il modo di vedere europeo per quattro secoli sino all’invenzione della fotografia, con il linguaggio pubblicitario del XX secolo. L’annuncio veicola un messaggio e può essere decodificato per cercare di comprendere qualcosa della società in cui l’autore si muoveva e, soprattutto, di ciò che la società pensava di se stessa. Le immagini pubblicitarie, come gli oggetti stessi, sono sempre significanti; si riferiscono spesso al passato e parlano sempre del futuro. La pubblicità ci presenta persone che hanno trasformato la propria vita acquistando qualcosa e per questo sono invidiabili; ci mostra quindi un’alternativa, rendendoci insoddisfatti della nostra vita. Una interessante selezione di annunci pubblicitari, e per riflesso di cultura materiale, è quella visibile nei 36 numeri del Giornale ufficiale illustrato dell’Esposizione Internazionale di Torino, stampati e distribuiti tra il gennaio del 1910 e il dicembre del 1911, in occasione della diciottesima Esposizione Universale, che si svolse tra il 29 aprile e il 19 novembre del 1911 ed ebbe come tema “Industria e Lavoro” (in contemporanea, la sezione di Roma era incentrata su “Belle Arti e Archeologia”, quella di Firenze su “Ritratto e Floricoltura”).

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Tra materiale e immateriale La cultura materiale, secondo una definizione classica utilizzata in archeologia, è lo studio degli aspetti materiali delle attività finalizzate a produzione, distribuzione e consumo, i modi con cui queste si attuano, le connessioni che hanno con il processo storico più generale. Secondo una definizione più ristretta, con cultura materiale si intende l’associazione di manufatti di uso coevo, una definizione più semplice che può essere utile tenere in mente. Il Giornale dell’Esposizione del 1911 è un contesto perfetto di analisi, perché riguarda un evento delimitato nel tempo e nello spazio e ben conosciuto da altre fonti; l’esperimento è quello di provare a vederlo attraverso l’analisi di quella cultura materiale a metà tra il reale e l’immaginario futuro (quello da invidiare, secondo Berger) che ci è offerta dalla pubblicità: una cultura immateriale fatta di narrazioni costruite sugli oggetti. Il pubblico destinatario degli annunci sembra appartenere in prevalenza a classi medio-alte: prodotti come le automobili e i pianoforti meccanici automatici erano accessibili solo ai ceti ricchi; altri sono produzioni di uso comune, ordinario (i ricostituenti medici), alcuni sono prodotti superflui e di lusso (i boa in piume di struzzo); poi ci sono tutta una serie di oggetti destinati a determinate categorie di lavoratori: le forme in legno delle scarpe per i calzolai, i manichini per i sarti, i macchinari per la lavorazione del legno, per la tornitura, per i pastifici, le presse idrauliche, le attrezzature per forniture e impianti elettrici, ecc. A livello pubblicitario la fotografia è raramente usata; si preferisce il disegno, generalmente realistico, dell’oggetto, o la sua contestualizzazione in un ambiente; rare sono le illustrazioni del tutto simboliche, come è il caso di “Ovisolat”, un prodotto per conservare le uova fresche “tali che si possono mangiare alla coque anche dopo diversi anni”: in questo caso è rappresentato un gallo, ritto sulle zampe poggiate su una tromba e inscritto in una corona di foglie e ghiande.

Una questione di stile La rappresentazione della donna è indicativa della sua posizione sociale e degli stereotipi femminili dell’epoca. La donna delle classi agiate indossa eleganti cappelli abbelliti da piume di struzzo e ha la vita stretta da un busto rigido che spinge in alto il seno. L’obiettivo principale sembrerebbe essere quello di rimanere conforme alla taglia del manichino (mannequin) delle sue sartine; in uno degli annunci più ripetuti, una elegante signora punta un piccolo bastone da passeggio, come una bacchetta magica, verso il manichino, quasi a immaginarlo vestito; l’annuncio probabilmente è rivolto alle sarte

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UN PIEMONTESE NELLA VALLE DELLE REGINE Così l'egittologo biellese Ernesto Schiaparelli scoprì la tomba di Nefertari di Davide Mana Raffigurazione di Nefertari su una parete della sua tomba nella Valle delle Regine.

Esiste un legame profondo fra il Piemonte e l’Antico Egitto — dalla leggenda di Eridano, principe egizio che avrebbe fondato Torino dedicandola al dio Api (rappresentato, appunto, da un toro), all'acquisizione da parte della famiglia Savoia, prima della Mensa Isiaca nel 1628 e successivamente della collezione di Bernardino Drovetti, i cui reperti andarono a costituire il primo nucleo del Museo Egizio di Torino. Sulla base dei geroglifici che compaiono sulla Mensa Isiaca Athanasius Kircher sviluppò la propria traduzione della lingua egizia — una traduzione errata e priva di senso, poiché la Mensa Isiaca è un falso, probabilmente creato nel I secolo d.C. come souvenir per ricchi turisti romani. Un secolo e mezzo dopo Kircher Jean-François Champollion, da sempre acceso rivale di Drovetti, ebbe più fortuna con la sua traduzione, si avvalse infatti, per il proprio lavoro di ricerca, dei papiri conservati a Torino. Non sarebbe stata l’ultima volta che, per parafrasare l’egittologo francese, la strada per Menfi e Tebe passava per Torino — nel caso di Ernesto Schiaparelli, partendo da un piccolo comune del Piemonte orientale.

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La biografia di Harkhuf Ernesto Schiaparelli (o secondo altre grafie, Schiapparelli), nasce a Occhieppo Inferiore (all’epoca provincia di Novara, oggi di Biella), il 12 luglio 1856. Gli Schiaparelli sono una famiglia numerosa e intraprendente e dalla genealogia intricata. Il padre di Ernesto, Luigi Schiaparelli, è docente di Storia antica all'Università di Torino mentre Giovanni Virginio (l’astronomo) è suo cugino, figlio della sorella di Luigi. Conseguita una laurea in Lettere, Ernesto mostra un grande interesse per le antichità egizie e si trasferisce quindi alla École pratique des hautes études della Sorbona di Parigi, dove studia egittologia con Gaston Maspero, che in quegli anni si divide come insegnante a Parigi e come archeologo sul campo in Egitto. Nel momento in cui Maspero avvia la sua prima grande campagna di scavi in Egitto, Schiaparelli rientra in Italia e assume, nel 1881 all'età di soli venticinque anni, la direzione della Sezione Egizia del Museo Archeologico di Firenze. In questo ruolo, durante il suo secondo viaggio in Egitto nel 1892, Schiaparelli partecipa alla scoperta della tomba del dignitario Harkhuf, vissuto durante la VI dinastia. Scavata sul pendio della collina antistante la città di Assuan presso Qubbet el-Hawa, la tomba monumentale di Harkhuf rivela, attraverso una dettagliata biografia incisa sulle pareti di pietra, la vita del suo occupante che fu un viaggiatore e un esploratore. Sarà Ernesto Schiaparelli a studiare e pubblicare questi importanti testi biografici.

L'archeologia è cambiata Dopo dodici anni a Firenze, nel 1894, Schiaparelli diventa direttore del Museo Egizio di Torino. Qui avvia immediatamente una campagna di acquisizioni per ampliare le collezioni del museo torinese. I tempi tuttavia sono cambiati da quando Carlo Vidua aveva convinto la corona sabauda ad acquistare la Collezione Drovetti: le antichità egizie sono più popolari che mai e questo ha portato allo sviluppo di un fiorente mercato di falsi. Ma, ancora più importante, è l’archeologia stessa a essere cambiata — non più una semplice raccolta antiquaria di oggetti curiosi, ma uno studio integrato degli oggetti nel loro contesto. Il lavoro sul campo, come Schiaparelli ha imparato da Maspero, è fondamentale. Per questo motivo, nel 1903, Ernesto Schiaparelli avvia l’attività della Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) in Egitto, un progetto coordinato di scavi e ricerche inteso a contribuire alla storia dell’Egitto e all'incremento del materiale archeologico del Museo Egizio. (lettera di Ernesto Schiaparelli al ministro della Pubblica Istruzione, 29 aprile 1902)

Schiaparelli si impegna in prima persona per curare ogni aspetto della spedizione. È lui a procurare permessi e autorizzazioni dal Service de Conservation des Antiquités de l’Égypte (il cui direttore è il suo vecchio insegnante, Gaston Maspero), è lui a convincere Vittorio Emanuele III a finanziare il progetto, lui a selezionare i collaboratori. La corona sabauda concede 15.000 lire (circa 70.000 euro al cambio attuale)

Ernesto Schiaparelli

di finanziamento l’anno, per quattro anni, ai quali si sommano altre 5.000 lire (22.000 euro) l’anno dal ministero della Pubblica Istruzione. Schiaparelli intende lavorare con una squadra che deve sempre comprendere un fotografo, un disegnatore e un restauratore. Fra questi collaboratori possiamo ricordare il comasco Francesco Ballerini, che muore giovanissimo nel 1910, a soli 33 anni, e viene rimpiazzato dal pinerolese Virginio Rosa. Saranno questi brillanti giovani ricercatori a creare un corpo di annotazioni, foto e schizzi che è esso stesso un tesoro. Messa insieme la squadra e assicurati i fondi, la M.A.I. può mettersi al lavoro.

La tomba di Nefertari Nei primi anni del Novecento una nuova prepotente ventata di “egittomania” ha riacceso l’interesse popolare per l’antica civiltà della Valle del Nilo. A Giza, nel 1902, la concorrenza è molto forte — il Service ha infatti concesso agli italiani il permesso di scavare nella porzione meridionale della necropoli, mentre i settori centrale e settentrionale sono al momento occupati rispettivamente dalle squadre di scavo dell’americano Andrew Reisner e del tedesco Ludwig Borchardt. Lasciate Giza e Eliopoli, nel 1904 gli archeologi della M.A.I. si spostano a Tebe: durante i lavori di scavo nella Valle delle Regine, il duro lavoro di preparazione dà finalmente i suoi frutti ed Ernesto Schiaparelli scopre la tomba di Nefertari (nota anche come QV66). Grande Sposa Reale di Ramsete II (XIX dinastia), che l’aveva sposata prima di salire al trono come faraone, Nefertari Meryetmut era conosciuta con gli appellativi di “la Divina”, “la più amata”, “la Signora del fascino”, “la dolce in amore”, “Madre e Signora del dio in vita”. Il suo nome, significava in effetti “la più bella amata dalla dea Mut”. Una delle regine più famose nella lunga storia dell’Egitto, Nefertari compare in

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PIETRO CANONICA QUANDO IL MARMO PRENDE VITA

L'artista di Torino che incantò la corte degli Zar di Manuela Vetrano

L'Abisso, Pietro Canonica, 1909. © Sovraintendenza di Roma Capitale — Foto in Comune

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Un uomo e una donna, inginocchiati sull’orlo di un precipizio, sono disperatamente avvinghiati tra loro. Le dita di uno affondano come artigli nelle carni dell’altro, quasi alla ricerca di una fusione dei corpi. I capelli sono scarmigliati e scomposte le vesti. È un abbraccio passionale, e terribile al tempo stesso, che non lascia spazio nemmeno al respiro. I volti sono vicini, guancia contro guancia, e gli sguardi atterriti sono rivolti nella stessa direzione, verso un vuoto che sembra attrarre la coppia per risucchiarla nell’abisso. Sono tormentati questi due amanti. Ma pur consapevoli della loro perdizione, sanno che la salvezza risiede nell’essere uniti, malgrado tutto. È visitando le sale della Fortezzuola, un edificio nascosto tra gli altissimi pini marittimi del parco di Villa Borghese a Roma, che si possono incontrare questi due innamorati. I loro corpi, però, non sono fatti di carne e ossa, bensì di marmo. L’Abisso è, infatti, un gruppo scultoreo realizzato nei primi del Novecento da Pietro Canonica. L’artista sviluppò il tema dell’amore impossibile tra i danteschi Paolo e Francesca, raccontando “il vero nella forma più pura, concentrando in essa il massimo del sentimento”, come disse lui stesso nel 1908 a proposito del fine della sua arte. Come mai questa struggente opera dello scultore piemontese si trova nella villa romana? Partiamo dal principio.

Natura e musica Pietro Luigi Canonica nacque il 1° marzo 1869 a Moncalieri, alle porte di Torino. Il padre Giulio Cesare, quarantadue anni, era un impiegato della Sezione Movimento delle ferrovie e morì che Pietro era ancora piccolo. La madre, Luigia Pedemonti (o Piedemonti), era una casalinga di ventotto anni con all’attivo già sei figli. La numerosa famiglia abitava nel centro storico di Moncalieri, in via Real Collegio, in tre stanze al primo piano di una vecchia casa gentilizia. Poco tempo dopo la nascita di Pietro, i Canonica si trasferirono a Torino, in corso Vittorio Emanuele II, in un’abitazione vicina al parco del Valentino. Pietro era un bambino vivace come tanti suoi coetanei. Da quando a sette anni rimase impressionato dalla vista dell’immensità del mare, mostrò sempre una grande sensibilità nei confronti delle bellezze della natura. Amava ornare il terrazzino di casa con vasi di fiori acquistati a Porta Palazzo con la madre. Nella contemplazione della meravigliosa bellezza del creato ho trovato la gioia e la consolazione più completa, tale da farmi obliare qualunque dolore, qualunque disinganno. Pietro amava anche la musica. In vecchiaia gli piaceva ricordare come da ragazzo, con i suoi amici per la strada o mentre lavorava in bottega, fosse solito canticchiare romanze popolari e patriottiche come La Stella d’Italia o Addio, mia bella, addio. La passione musicale lo travolse quando ebbe l’occasione di assistere a teatro alla rappresentazione del Lohengrin di Richard Wagner. Da quel momento in poi la musica continuò ad avere nella sua vita un’importanza di poco inferiore alla scultura. Vi si dedicò seriamente dai quarant’anni componendo al suo pianoforte Érard varie liriche, quattro melodrammi (La sposa di Corinto, Miranda, Enrico di Mirval e Medea), il dramma lirico Sacra Terra e il poemetto sinfonico Impressioni. Anche la letteratura faceva parte delle sue passioni. Tra i suoi autori favoriti figuravano Shakespeare, Dante e i tragici greci. Pietro Canonica fotografato da Mario Nunes Vais. Fotografia antecedente il 1932.

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PER GRAZIA RICEVUTA La bellezza segreta degli ex voto, espressione popolare di tragedie scampate di Umberto Ledda

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La Galleria degli ex voto nel Santuario di Oropa.

Memorie ingenue e drammi mai avvenuti È facile ignorare gli ex voto, ed è altrettanto facile riderne: anche se si frequentano le chiese, anche se si è credenti. Riposano nelle piccole cappelle delle valli e delle campagne, malinconiche e sempre chiuse, alla soglia dell’abbandono: per vederli occorre affacciarsi alle finestre, schermandosi il volto con le mani per scorgerne le sagome nella penombra. Oppure nei grandi santuari, ma allora abitano le sale discoste e polverose, lontane dal calpestio dei fedeli: alla Consolata di Torino, che ne ospita in Piemonte forse il maggior numero, sono relegati ai corridoi e alle aree destinate alle confessioni. Sono invisibili al pellegrino distratto. Tappezzano corridoi e sacrestie, tutti identici per dimensioni e struttura: quadretti sgraziati e ingenui, dipinti perlopiù da pittori senza ispirazione né tecnica. D’altra parte, non vogliono essere arte: non sono stati concepiti per la bellezza o la riflessione né per esprimere la creatività di chi li ha creati, ma solo per ricordare un breve istante di realtà. Rappresentano, senza elaborarlo, un mondo ingenuo che allo sguardo disilluso dello spettatore odierno appare ridicolo e doloroso al tempo stesso, imbarazzante: come quando, da adulti, ascoltiamo raccontare delle nostre imprese infantili, di cui andavano un tempo così fieri, e ne proviamo disagio. Sono anche tristi, e malinconici: non rappresentano altro che infelicità e disgrazie. Peggio: rappresentano disgrazie prive dell’aura epica e

conturbante della tragedia, perché il caso (o la divinità cui si è fatto il voto) ha risolto la crisi in un lieto fine. E così rappresentano eventi che non ci sono stati per un pelo, drammi mai accaduti, paure non concretizzate: il fucile che spara per sbaglio senza colpire nessuno; la frana che sfiora l’automobile senza travolgerla; il trattore che si ribalta lasciando illeso il manovratore. Non raccontano una storia se non quella di un’intercessione divina che appare, anche al credente, più affine alla superstizione pagana che non alla dottrina cattolica.

Compagni di viaggio Gli ex voto sembrano sepolti dalla Storia e dalla modernità, traccia infinitesimale di un mondo perdente e obsoleto; eppure ancora non vogliono morire: e ci accompagnano da molto più tempo di quel che crediamo. Sono compagni di viaggio secondari ma fedeli, espressione diretta del nostro bisogno di non sentirci soli in un mondo pericoloso e insensato. Esistevano nel mondo classico, ben prima dell’avvento di Cristo: le tabellæ pictæ romane, le terrecotte etrusche che rappresentavano le parti del corpo scampate alla malattia. E sono percolati con naturalezza nel mondo cristiano, sotto molte forme, prima di assumere nel Quattrocento quella attuale di piccoli dipinti rappresentanti una tragedia evitata. In questo lungo viaggio non hanno perso la loro natura pagana: semplicemente agli dèi precristiani si è sostituito lo ster-

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LA CARROZZA DI NAPOLEONE Fu davvero questa la vettura utilizzata per l'incoronazione a Re d'Italia? di Roberto Coaloa

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La carrozza napoleonica di Gustavo Rol, donata dal sensitivo torinese all’Ordine Mauriziano e pervenuta ora dalla sua sistemazione originaria di Stupinigi alla Scuderia Grande della Reggia di Venaria, è una capsula del tempo, davvero preziosissima, una vera rarità, per chi ama il periodo napoleonico. La berlina di Napoleone, dallo scorso 5 maggio, è una delle attrazioni della Reggia, inserita nel percorso di visita Teatro di Storia e Magnificenza. È collocata in un’apposita sala con altri preziosi cimeli napoleonici; sulle pareti eleganti pannelli raccontano la vicenda del recente restauro, che ha confermato una delle storie più avventurose accadute a una carrozza di Jean-Ernest Auguste Getting. Il restauro è stato deciso in concomitanza con l’anniversario dei duecento anni della morte di Napoleone: il raro oggetto non era mai stato studiato scientificamente e ha rilevato invenzioni interessanti e informazioni inedite sulle vicende storiche della magnifica voiture impériale.

La voiture impériale Le carrozze di Napoleone ricordano allo storico una serie di attentati atroci: il primo, quello più famoso, il 24 dicembre 1800, l’Attentat de la rue Saint-Nicaise, noto come “conspiration de la machine infernale”, dove miracolosamente il cocchiere “César”, un veterano della Campagna d’Egitto, si accorse del pericolo e salvò il generale da morte certa, svoltando improvvisamente per Rue de la Loi. La carrozza più celebre dell’Imperatore, quella da lui usata a Waterloo, diventò una preda di guerra, ma ebbe un destino infelice: regalata dai prussiani al Principe di Galles, fu comprata da William Bullock, mostrata al pubblico londinese con grande successo nel 1816, poi conservata al museo di cera Madame Tussauds, dove, però, bruciò interamente in un incendio nel 1925. Oggi, visitare la carrozza di Napoleone alla Reggia di Venaria è per noi un modo per capire come viveva, sfarzosamente, l’Imperatore. In questo siamo simili ai londinesi, che ammiravano la carrozza del "grande sconfitto" di Waterloo, e soprattutto gli oggetti del nécessaire, spesso esotici, accompagnati dal bidet in argento e mogano. Le carrozze dell’Imperatore erano di due tipi: per i voyages de guerre e per i viaggi all’interno dell’Impero. Napoleone, infatti, si allontanava da Parigi per ispezionare i vari dipartimenti e spesso era in Italia. Di quest’ultima tipologia è la carrozza napoleonica appartenuta a Rol. La voiture dans laquelle montait l’Empereur était une berline très simple, à fond vert ; l’Impératrice s’asseyait auprès de lui et les places de devant restaient ordinairement vacantes. Dans l’intérieur, on ménageait des tiroirs et des compartiments pour recevoir un choix de livres, le nécessaire, le portefeuille de l’Empereur, les papiers qu’il emportait avec lui et ceux qu’il pouvait recevoir en route. Une lampe lacée sur le derrière de la caisse pouvait jeter dans l’intérieur toute la clarté dont on avait besoin la nuit. Così la descrizione di Agathon-Jean-François, barone Fain, storico, segretario e archivista francese del gabinetto di Napoleone. Ogni carroz-

Sopra: Napoleone nel 1806, dipinto di Édouard Detaille, olio su tela. Nella pagina a fianco: foto © Consorzio delle Residenze Reali Sabaude.

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CANTALUPO, VOLPEDO E PUNTA DELL'AQUILA Lupi, volpi e altri animali "nascosti" nei nomi di luogo piemontesi di Alberto Ghia Il rapporto tra l’uomo e il regno animale è molto stretto; un esempio di questo legame è dato dal fatto che fin dagli albori della civiltà abbiamo proiettato sugli animali i nostri vizi e le nostre virtù: pensate alle favole di Esopo o di Fedro! Le lingue sono ricche di modi di dire o espressioni in cui il comportamento umano è esemplificato ricorrendo ad un animale, eccone alcuni in piemontese: per ‘mangiare di buon appetito’ il Dizionario Elettronico Piemontese riporta mangé cum ün crin, ün lüv, n’urs, na lüdria (una lontra), ciascuno con una specifica sfumatura di significato; di contro, si può esprimere lo scarso appetito dicendo di mangé cum un pipì (pulcino); si applaude l’impresa sportiva di chi è fort cum ün leun o ün tor; nell’astigiano si intima ai bambini di non essere dispetus cum na vaca vegia. Si rifanno al regno animale anche diversi nomi di luogo; questi prendono il nome tecnico di zootoponimi (dal greco zoon ‘animale’ e toponimo). Le motivazioni principali per cui possiamo riconoscere il nome di un animale in un toponimo sono diverse: la presenza dell’animale sul territorio, reale o presunta; la coincidenza tra le caratteristiche del luogo e le peculiarità di un animale; la coincidenza di un nome di animale e un antroponimo; la presenza della raffigurazione di un animale nel luogo denominato; la reinterpretazione paretimologica di una base lessicale opaca.

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Nella vecchia fattoria L’allevamento è una risorsa importante nelle economie tradizionali e ha lasciato ampie tracce di sé in toponimia. Se in un nome di luogo compare il nome di un animale allevato, ciò spesso è la conseguenza di come la comunità ha organizzato lo spazio in cui abita, per gestire al meglio le risorse naturali. Tenendo presente le diverse abitudini di ovini e bovini, per esempio, un pascolo delle capre o delle mucche (strutture molto frequenti nella toponimia popolare), può indicare un pascolo adatto a ciascuna delle diverse specie: in forte pendenza e arbustivo il primo; pianeggiante e più ricco di erbe tenere il secondo. Ecco che attraverso l’animale si possono quindi predicare le caratteristiche del luogo nominato. Richiamano i bovini: Bovile, frazione di Perrero (TO), Cio la Vaccia nel territorio di Rorà (TO), Vaccheria frazione di Guarene (CN) e Vacceria, alpeggio presso Ceresole Reale (TO). Mandrogne (frazione di Alessandria) e Mandrino (frazione di Frugarolo, AL) rimandano a mandria, come Mandria, frazione di Chieri (TO); sono tutti derivati dal latino mandra ‘mandria, gregge, gruppo di animali’. Rimandano agli ovini: Ripiano delle Agnelere, a Locana (TO), Volpedo (< vicus pecudis, AL), Oviglio (AL), Oviglia (nome di due località, una presso Lanzo Torinese TO e l’altra presso Capriglio AT) e Neviglie (CN); tutte e tre le forme derivano da ovilia (a sua volta da ovis, ‘pecora’). Troviamo ancora nomi di luoghi che si rifanno alle denominazioni piemontesi dell’animale: da fea (< fetum) ‘pecora’, per esempio, si hanno Rocca Fea (tra Garessio e Ormea, CN), la Fonte Feja a Castelletto d’Orba (AL), il Colle della Fea a Groscavallo (TO). Fea Nera, nel comune di Massello (TO), rappresenta invece un caso di paretimologia: il toponimo così segmentato sembra essere facilmente traducibile in ‘pecora nera’; però il toponimo occitano da cui deriva la forma cartografica è Fiouniro, voce che designa una qualità di trifoglio. Chi ha trascritto il nome non ne ha compreso il significato e lo ha così storpiato.

Richiamano i caprini: Costa della Capra a Bagnasco (CN), Caprezzo (< capricius, VB) Caprie (< capriae o capreae, col significato ipotizzato di ‘stalle di capre’; TO), Capriglio (AT) e Caprile (BI) < caprilia, Craveggia (NO) < capricula; Cravegna (frazione di Crodo, VB < caprinea), Crava (fraz. di Rocca de’ Baldi, CN), Capraglia (< capraria o capralia presso Isola Sant’Antonio, AL), il Monte Chabrière, tra Exilles e Salbertrand (TO), il Monte Civrari, sullo spartiacque tra la Valle Susa e la Valle di Viù (TO), Ciabrans a Massello (TO) e Chabriols a Torre Pellice (TO). Il richiamo ai caprini, e alla capra in particolare, ci può indicare l’asprezza di un luogo oppure la difficoltà di un passo: il Colle della Ciabra a Roccabruna (CN) e il Passo della Capra a Prali (TO) non sono che un paio di esempi. Per diversi toponimi citati va ricordato che essi potrebbero rimandare alle specie selvatiche della sottofamiglia, più che alla capra domestica: camosci, caprioli o stambecchi. Pochi sono i toponimi collegati ai suini: Borgoregio, frazione di Torrazza Piemonte (TO), la cui prima attestazione è Porcaricia (è evidente la sonorizzazione delle consonanti sorde e, successivamente, la reinterpretazione paretimologica) e Procaria, frazione di Ceres (TO) (< porcaria).

Dove osano le aquile Le aquile sono rapaci che nidificano in luoghi impervi: per questa ragione sono state dedicate loro diverse cime alpine, come la Punta dell’Aquila, sullo spartiacque che separa la Val Sangone e la Val Chisone (TO). Più ampio è il numero dei nomi di luogo in cui si sono cristallizzate, debolmente italianizzate, le denominazioni dell’aquila nelle diverse lingue locali: la Punta dell’Aggia a Monastero di Lanzo (TO), sullo spartiacque tra la Valle del Tresso e la Valle dell’Orco; la Cima Ghigliè al confine tra Italia e Francia, nel Parco naturale delle Alpi Marittime (CN); la Roccia Eigliera a Massello (TO) e la Pera d’Aigla a Cesana Torinese (TO). La somiglianza di alcune vette a parti del rapace ha suggerito altre denominazioni: il Becco dell’Aquila sullo spartiacque tra la Val Chisone e la Val Germanasca (TO), il Pitre de l’Aigle (letteralmente “il petto dell’aquila”) a Pragelato (TO).

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