Piemontesi ai confini del mondo di Davide Mana
Che siano missionari religiosi, laici militari, accademici o diplomatici, uomini dediti al commercio o scalatori professionisti, gli esploratori piemontesi del passato sono tutti accomunati da spirito di avventura, desiderio di scoperta e una discreta dose di incoscienza. Davide Mana ha raccolto le storie uniche di 22 avventurieri che, abbandonati i luoghi natii, si sono spinti sulle vette dell’Himalaya e del Nanga Parbat, tra i vicoli di Tientsin in piena rivolta dei Boxer, nella Valle del Nilo con i suoi trafficanti di antichità o nella Terra del fuoco tra i suoi indiani Aónikenk. Piemontesi ai confini del mondo racconta di loro, ricostruendo viaggi e percorsi con l’aiuto di mappe, timeline, fotografie e illustrazioni.
“Quanto durerà questo viaggio? E dove giungerò? Bah! Queste domande non debbo farmele. Andrò avanti − ecco tutto.” Augusto Franzoj - Avventuriero
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Sommario 3
Editoriale
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Le storie di Langa di Beppe Fenoglio
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Le donne nei romanzi di Beppe Fenoglio
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A cent’anni dalla nascita la riscoperta dei racconti del partigiano scrittore // Andrea Raimondi
Le fumne, personaggi eccezionali nel mondo fenogliano // Roberto Coaloa
L'Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d'Alba Da cinquant'anni in difesa della tradizione tra le colline patrimonio UNESCO // Luigi Cabutto
L'Armadio della vergogna
DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero Eandi REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Linda Ferrando
Le prove occultate sulle stragi naziste in Italia con attenzione al Piemonte // Lidia Brero Eandi
Oasi Zegna, 80 anni di innovazione tra natura e impresa Il pensiero verde di un’azienda all’avanguardia // Paolo Patrito
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Uomini e stambecchi
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Dal bric al truc, i nomi delle montagne piemontesi
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Oltre i confini
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I volti dei piccoli spazzacamini
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Savigliano, mille anni di arte e cultura
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Il Frankenstein perduto di Eugenio Testa
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Un piemontese sulla via delle spezie
Il Parco nazionale del Gran Paradiso si racconta nel suo centenario // Giulia Liliana Ferrando
Come sono nate le denominazioni delle vette del Piemonte? // Alberto Ghia
Passeur, contrabbandieri e passaggi delle terre alte tra Francia e Piemonte // Daniela Bernagozzi
Dalle fotografie della famiglia Faraggiana un racconto sociale // Silvana Bartoli
Tra le torri e i campanili della "storica e gentile città" nel cuore del Cuneese // Rosalba Belmondo
Vittima della censura fascista è uno dei film più ricercati della storia del cinema // Davide Mana
Moscato del Monferrato e aromi indiani: il vermut inventato da Federico Peliti // Luca Morino
PROGETTO GRAFICO Irene Bottino ILLUSTRAZIONI Corrado Bianchetti Giuseppe Conti STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN) EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 — Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.libreriasavej.it Disponibile anche online su: www.rivistasavej.it Seguici su: FondazioneEnricoEandi
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Dissiunari
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Un giro in libreria // Roberto Coaloa
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Le nostre firme e i nostri illustratori
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Fondazione Enrico Eandi
Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato
fEnricoEandi fondazioneenricoeandi ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2022 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati. 1
LE STORIE DI LANGA DI BEPPE FENOGLIO A cent’anni dalla nascita la riscoperta dei racconti del partigiano scrittore di Andrea Raimondi
Beppe Fenoglio con lo sguardo sulle colline dell'Alta Langa intorno alla sua città natale, Alba. Foto di Aldo Agnelli (© Archivio Centro Studi Beppe Fenoglio).
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In occasione del centenario della nascita di Beppe Fenoglio, ricorrenza festeggiata il 1° marzo 2022, ho condotto una piccola indagine tra familiari, amici ed estimatori dello scrittore — una dozzina in tutto. Ho posto a ognuno la seguente domanda: “Quando pensi a Fenoglio, quali immagini o termini ti saltano alla mente?”. Le risposte sono state pressappoco le stesse: la Resistenza, Alba, Il partigiano Johnny, Milton, Una questione privata. Risposte poco rilevanti dal punto di vista statistico, ma che confermano un’immagine monca di Fenoglio, il quale sembrerebbe autore esclusivo di romanzi sulla guerra civile. Eppure lo scrittore albese consacrò parecchi sforzi e molto tempo alla narrativa breve a tematica contadina. È sufficiente porre attenzione al numero di racconti pubblicati e consultare le lettere e il diario personale di Fenoglio per constatare la dedizione ai racconti ambientati sulle Langhe, con una particolare predilezione per la parte più alta delle colline, allora la più povera.
L'amore per l'Alta Langa Un simile interesse è dovuto a un amore genuino per i villaggi delle Alte Langhe che conobbe da ragazzo quando, insieme al fratello Walter, trascorse alcune estati a San Benedetto Belbo presso la zia Pinota, lontana cugina del padre. Era uno scambio di cortesie: come nel racconto Pioggia e la sposa, Edoardo, il figlio seminarista della zia, ogni domenica era invitato a mangiare dai Fenoglio ad Alba, mentre d’estate “Magna Pinota” contraccambiava ospitando Beppe e Walter.
Questi due sangui mi fanno dentro le mie vene una battaglia che non dico. I genitori, Amilcare e Margherita, avevano personalità dissimili. La madre apparteneva a una famiglia contadina e cattolica, ed era una donna pragmatica, ambiziosa, sempre scontenta. Il padre veniva da una famiglia di commercianti, ed egli, a differenza della moglie, che prendeva tutto sul serio, “del mondo osservava tutto, ma non prendeva sul serio niente”.
Beppe rimase subito ammaliato dal fascino ruvido di quelle colline e dei loro abitanti. A conquistarlo furono soprattutto le storie che i parenti erano soliti raccontare: vicende di grandi passioni, beffarde e crudeli, che ruotavano intorno all’amore e alla morte, al gioco, ai soldi e alla loro mancanza. Oppure storie sfortunate dei ribelli delle Langhe, cioè, per citare lo stesso Fenoglio, “chi rompe la ruvida scorza della malora… chi esplode, chi si ribella, come Gallesio, come Cora”. Tra i personaggi principali delle sue narrazioni ci sono individui solitari, disadattati o rivoluzionari ingenui (come i citati Pietro Gallesio e Davide Cora, protagonisti, rispettivamente, dei racconti Un giorno di fuoco e La novella dell’apprendista esattore) in perenne rotta con qualcuno o qualcosa: i Carabinieri, il parroco, i familiari, un esattore, il podestà o semplicemente con la malasorte.
Il rapporto con la madre non fu facile, soprattutto dal momento in cui Beppe decise di abbandonare l’università. Tra loro scoppiavano violenti litigi per i motivi più disparati: oltre alla mancata laurea, c’erano le sigarette e la scrittura, attività alla quale Margherita non diede mai molta importanza. Per lei fu a lungo un’attività incomprensibile che finiva per sottrarre ore di lavoro al figlio, gli rubava il sonno e minava la salute. Allo “scrivere” del figlio si avvicinò poco alla volta, con cautela, fino a provarne rispetto e grande orgoglio.
Rapporti famigliari
In un’altra occasione, al termine dell’ennesimo diverbio, Beppe appoggiò le due mani sulle spalle della madre dicendole: “Madre, il mio nome resterà, il tuo no”. Finché poté, Margherita non mancò ai convegni dedicati al figlio, agli incontri nelle scuole e non negò mai di ospitare studenti e appassionati nella propria casa di via Coppino ad Alba. Margherita Faccenda mancò, novantaduenne, il 3 febbraio 1989.
Non ci volle molto perché Fenoglio associasse le Langhe al ramo paterno della famiglia. Come al giovane narratore de Ma il mio amore è Paco, anche a Fenoglio, a pensare ai propri vecchi, “il cuore e la mente mi volavano immediatamente e invariabilmente ai cimiteri sulle Langhe”. Lo scrittore non nascose mai una predilezione speciale per i parenti paterni: io li sento tremendamente i vecchi Fenoglio, pendo per loro, scrisse nel Diario. A formare questa mia predilezione ha contribuito anche il giudizio negativo che su di loro ho sempre sentito esprimere da mia madre. Lei è d’Oltretanaro, d’una razza credente e mercantile, giudiziosissima e sempre insoddisfatta.
Scriveva la notte, per tutta la notte, confidò Margherita anni dopo la morte del primogenito. Ricorderò sempre una sua frase pronunciata in risposta ad un mio rimprovero circa l’eccessiva assiduità notturna al tavolino. Mi disse: ‘Vuoi capirlo, madre, che scrivo?’.
La "fatica nera" Scrivere non fu mai un divertimento né un passatempo rilassante per Fenoglio. È ormai proverbiale la “fatica nera” di fronte anche alla “più facile” delle pagine. Per Beppe la scrittura era un demone da assecondare seminando appunti ovunque, scrivendo appena poteva, dove poteva, in maniera febbrile. Marisa, la sorella da poco scom-
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LE DONNE NEI ROMANZI DI BEPPE FENOGLIO Le fumne, personaggi eccezionali nel mondo fenogliano di Roberto Coaloa
Beppe Fenoglio e la moglie Luciana Bombardi lungo il fiume Tanaro. Foto di Aldo Agnelli (© Archivio Centro Studi Beppe Fenoglio).
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La vita di Fenoglio fu troppo breve: un’ingiustizia. Morì il 18 febbraio 1963, a neppure quarantuno anni. Genetliaco che avrebbe festeggiato nella sua Alba, dov’era nato il 1° marzo 1922 e dove aveva sempre vissuto, a parte i distacchi dovuti al servizio militare, alla guerra partigiana o a brevi viaggi in Francia e Svizzera. Dopo il 1945, si occupò del settore commerciale di una nota casa vinicola e, in meno di vent’anni, scrisse dei capolavori. L’unica dichiarazione che Fenoglio ci ha lasciato come autore è questa: Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.
Il mondo femminile di Fenoglio Chi scrive, non solo per atavismo piemontese, può affermare che Fenoglio è il più grande scrittore del Novecento italiano, per il ritmo (non c’è paragone con gli altri autori del Bel Paese, e leggendo Il partigiano Johnny si ha la sensazione di volare, grazie all’uso perfetto delle parole, come il protagonista, sull’erba di un prato…) e per i temi trattati nei tre libri che pubblicò in vita (l’esordio nel 1952 con I ventitré giorni della città di Alba, cui fece seguito, due anni dopo, La malora e, nel 1959, l’ultimo romanzo Primavera di bellezza): la Resistenza e la dura realtà del mondo contadino e rurale delle Langhe. La critica, di solito, ricorda questi due elementi. Eppure, a una lettura più attenta potremmo aggiungere un terzo tema, fondamentale in Fenoglio: il mondo delle donne, in particolare le fumne, perché di donne piemontesi si tratta. Le fumne sono protagoniste dei lavori di Fenoglio e hanno interessato recentemente studiosi, scrittori e registi. Ora, ci occuperemo di alcune figure femminili di Primavera di bellezza e poi in particolare delle anziane contadine della sua opera postuma — Il partigiano Johnny, pubblicato nel 1968 — e di Fulvia in Una questione privata, romanzo apparso due mesi dopo la morte dell’autore. È soprattutto attraverso i soggetti femminili che risulta evidente l’abilità dello scrittore a far sì che l’esperienza della Resistenza transiti e prenda corpo in protagonisti molto diversi tra loro, che restituiscono infine alla dimensione alta e tragica di quella vicenda anche il senso della sua complessità e la ricchezza delle sue articolazioni. In questo modo Fenoglio elude il tratto celebrativo (e quindi lontano e distante di molti momenti rievocativi) che spesso la lotta partigiana ricopre nelle narrazioni e la riveste invece di una riconoscibilità più immediata e più ampia. C’è davvero molto da invidiare alla visione e al linguaggio di Fenoglio che rende la Resistenza un’esperienza totale, dove i moventi personali ed esistenziali convivono con quelli collettivi e politici. Copertina di "Primavera di bellezza", edizione 2015, Einaudi.
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L’ORDINE DEI CAVALIERI DEL TARTUFO E DEI VINI D’ALBA Da cinquant'anni in difesa della tradizione tra le colline patrimonio UNESCO di Luigi Cabutto La collina di Grinzane vista dalla cascina “La Gustava”, già proprietà del conte di Cavour ( foto di Maurizio Milanesio).
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Nel nostro Piemonte è molto presente il senso dell’identità, il legame con le origini, le tradizioni, i riti e i miti; sicuramente questo legame è ancora più forte in tutte le vallate alpine e collinari. Ancorati nelle radici che affondano nella cultura contadina si collegano subito alla terra che, per ciascuno di noi, è quella in cui siamo radicati, quella che ci ha plasmati, nutriti con i suoi prodotti, quella che ci accompagna ancora oggi. Dunque il cibo, il mangiare, la terra sono l’essenza della vita, intimamente legati agli elementi primari, primordiali, fondamentali per noi come la fame, il ciclo delle stagioni, la vita, la fede. Riflettiamo sul rapporto strettissimo che c’è tra agricoltura, mondo contadino e religione: una scansione di eventi temporali con festività, scadenze, preparazione di prodotti, lavori, scambi e contratti, miti e riti. Perché il mangiare è uno dei processi più complessi, non solo fisiologici, di sensi, di percezione, bensì anche di conciliazione e riconciliazione, di appropriazione del mondo, di convivialità e di amore. Il mangiare è anche una grande rappresentazione, un elogio del rito della bellezza estetica della tavola apparecchiata, in modo tale che essa diventi il luogo degno di ospitare quello che la natura offre. Di questa dignità, di questa bellezza ne devono essere consapevoli e all’altezza i commensali che, come fedeli al tempio, partecipano alla rappresentazione. Possiamo arrivare così a comprendere il significato ampio del cibo, dei prodotti della terra e anche dello spirito che anima una Confraternita, che ci riporta al “gusto della vita” e salvaguarda tradizioni; al percepire che cosa siamo, quali siano le nostre radici, quali valori intendiamo trasmettere. Parlando di prodotti della terra e della loro autenticità parliamo di cibo e del suo legame con la memoria, possiamo trasmettere qualcosa di bello e nel contempo fare cultura. In sostanza è questo lo scopo per cui nacque cinquantacinque anni or sono la Confraternita denominata dell’Ordine del Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba. Stemma sul portale del castello di Grinzane Cavour ( foto di Luigi Cabutto).
Difendere e diffondere la tipicità Nacque da una costola della Famija Albèisa, storica Associazione che aveva tenuto la sua prima assemblea costituente il 1° giugno 1955 alla Tavernetta dell’Hotel Savona di Alba. Luciano de Giacomi ne divenne il suo Vicepresidente nel 1960 e il Presidente dal 1963 al 1969, sfornando una serie di iniziative memorabili: il Concorso enogastronomico Il Piatto d’oro — di cui narreremo più avanti — il Premio Amici di Alba, prestigiose e splendide pubblicazioni per citarne solo alcune. Dicono avesse un caratteraccio, ma lo si dice sempre di quanti smuovono le acque, fanno pensare, riflettere e agire, costringono chi
è preposto a operare e decidere, a farlo in fretta e bene. Non sempre è un difetto. Rigoroso con i suoi principi lo era in tutto quanto faceva. In apertura del suo libro-testimonianza Confidenze di un Gran Maestro riteneva […] di essere una parte di questa terra che mi ha dato i natali. Lo sento in primavera quando su ogni collina prorompe la nuova vita degli alberi, dei prati, delle vigne. E in estate, quando la terra raccoglie il sudore di chi lavora per gli assolati i vigneti e nella poesia incomparabile dell’autunno, che ricopre i crinali di colori inimitabili, mentre il profumo del mosto già aleggia nell’a-
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L'ARMADIO DELLA VERGOGNA Lo scandalo delle prove occultate sulle stragi naziste in Italia con particolare attenzione al Piemonte di Lidia Brero Eandi Illustrazione di Corrado Bianchetti (Corracomics).
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Un vecchio armadio ministeriale dentro uno sgabuzzino, chiuso con un cancello di ferro, al fondo di un corridoio. Anche l’armadio è chiuso e stranamente girato al contrario, con le ante contro il muro. Palazzo Cesi-Gaddi in via degli Acquasparta, a Roma, è la sede della Procura Generale Militare. È qui che si trova lo stanzino con l’armadio dalle porte sigillate e girato al contrario. Quali segreti, quali scheletri sono stati chiusi in quell’armadio? E chi ha dato l’ordine di secretarne il contenuto? E per quale ragione?
Occultare “per Ragion di Stato” Dopo la resa incondizionata agli Alleati, dall’8 settembre 1943 l’Italia diventa per i tedeschi terra di occupazione. Alla caccia agli ebrei si affianca quella alle formazioni partigiane. Diventerà subito una guerra ai civili con una sequenza infinita di torture, esecuzioni, brutali stragi di massa nei confronti appunto dei civili. Per i tedeschi ora sono nemici anche gli italiani, traditori che hanno deciso di sganciarsi dalla Germania e che con le loro bande oppongono Resistenza in tutto il territorio. Per terrorizzare la popolazione e impedirne la collaborazione con i partigiani e nella consapevolezza che la fine del Reich è ormai inevi-
Manifesto risalente all'aprile 1944 che richiama un luogo comune del fascismo: l'unione della nazione nell'emergenza della guerra. Questa unione è rappresentata dai due uomini che si stringono la mano, uno è un soldato pronto per partire per il fronte, con il fucile in mano, l'altro un lavoratore con incudine e martello. © Archivio – Istituto Storico per la storia della Resistenza e della società contemporanea ‘Giorgio Agosti’
tabile, la barbarie tedesca si fa sempre più feroce. Non importa che le vittime siano innocenti e perlopiù bambini, donne e anziani. Si calcola che tra il 1943 e il 1945 vengano uccisi almeno diecimila civili. Subito dopo la guerra, ancora nel 1945, si stabilisce con l’aiuto degli Alleati di radunare presso la Procura del Tribunale Supremo Militare tutti i fascicoli, le istruttorie e le notizie già pervenute in merito ai crimini nazi-fascisti commessi durante l’occupazione tedesca. La Procura Generale Militare istituisce un apposito archivio, ma non ha alcun potere di indagine. Processi contro i criminali di guerra vengono comunque effettuati: alcuni ad opera degli inglesi, fino al 1947, data del processo Kesselring; altri ad opera degli italiani, fino al 1951, data del processo Reder per la strage di Marzabotto. E poi silenzio.
Il manifesto, probabilmente prodotto dalla Repubblica sociale italiana tra settembre 1943 e aprile 1945, mostra un soldato che, fucile in mano, suona la tromba. Sullo sfondo si vedono case distrutte dai bombardamenti. Nel cielo l'Italia che, con la corazza, lo scudo e la spada, avvolta nel tricolore, accoglie il richiamo del soldato. Sopra la testa, non più la corona, ma una stella. © Archivio – Istituto Storico per la storia della Resistenza e della società contemporanea ‘Giorgio Agosti’
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OASI ZEGNA
80 ANNI DI INNOVAZIONE TRA NATURA E IMPRESA Il pensiero verde di un’azienda all’avanguardia di Paolo Patrito
Panoramica Zegna, conca dei rododendri (© Archivio Storico Ermenegildo Zegna).
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Quando si pensa a un’oasi si immagina un’area naturale dove flora e fauna sono preservate. Ciò è certamente valido anche per l’Oasi Zegna, la grande riserva che si sviluppa sulle montagne biellesi, ma questa è solo una parte della storia. L’Oasi Zegna, infatti, è un luogo dove si incrociano aspetti diversi. C’è la bellezza del paesaggio — certo — con i grandi boschi di abete rosso dentro i quali serpeggia la celebre “Panoramica Zegna”, la flora che dà il meglio di sé in luoghi da cartolina come la “Conca dei Rododendri”, gli impianti sciistici, i panorami sulla pianura che nei giorni tersi si estendono fino a raggiungere tutto l’anfiteatro piemontese delle Alpi. Come spesso accade, fermarsi alle apparenze significa però rimanere in superficie e leggere solo una metà della storia, per quanto affascinante. L’altra metà parla di un progetto di profonda trasformazione del territorio che affonda le radici nella prima metà del secolo scorso e si intreccia con il romanzo dell’industria tessile Zegna e la visione filantropica del suo capostipite, Ermenegildo Zegna. È proprio dalla figura di Ermenegildo, creato conte di Monte Rubello di Trivero nel 1940 ma per tutti gli abitanti del Biellese “Monsù Gildo”, che è indispensabile partire per leggere cosa sia oggi l’Oasi Zegna e perché rappresenti un unicum non soltanto in Piemonte.
Una vita per la lana Ermenegildo Giacomo Zegna nacque a Trivero (oggi Valdilana), in provincia di Biella (allora provincia di Novara), il 2 gennaio 1892, da Michelangelo Zegna Baruffa e Maria Caterina Lesna Tamellin. Ermenegildo, erede di una famiglia di tessitori attestata nel territorio di Trivero fin dal Medioevo, era il nono di undici figli che il padre Michelangelo Zegna Baruffa aveva avuto con la seconda moglie Maria Caterina Lesna Tamellin, dopo che i due eredi nati dal precedente matrimonio con Angela Maria Tonella erano morti in età infantile. Nel 1909 Zegna si diplomò perito tessile presso la prestigiosa Regia Scuola professionale di Biella e l’anno successivo, ancora minorenne (all’epoca si raggiungeva la maggiore età a 21 anni) fu emancipato per poter costituire, assieme ai fratelli Edoardo e Mario e al socio Costanzo Giardino Vitri, la società Zegna & Giardino dedicata alla produzione di panni di lana. Negli anni successivi gli altri soci si ritirarono e i fratelli Zegna condussero la società attraverso la Prima guerra mondiale, durante la quale il lanificio fu convertito per sostenere lo sforzo bellico producendo il panno grigioverde destinato all’Esercito e al personale ausiliario. Gli anni Venti e Trenta videro l’azienda condotta da Ermenegildo Zegna — che aveva nel frattempo rinunciato al secondo cognome, Baruffa, per evitare confusioni con altri concorrenti — crescere e consolidarsi sui mercati domestici e internazionali, anche grazie ai frequenti viaggi in Europa e negli Usa, dove nel 1941, prima dell'entrata in guerra degli Stati Uniti d’America, i tessuti Zegna furono premiati come i migliori all’Esposizione di abbigliamento maschile di New York. In quegli anni prese corpo la visione di Ermenegildo Zegna, sul piano industriale con la scelta sempre più radicale di dedicarsi ai prodotti lanieri di fascia alta e con l’apertura di diverse società satellite che avrebbero rivoluzionato la filiera del tessile, mettendo l’azienda direttamente in contatto con i clienti finali. Ermenegildo Zegna (© Archivio Storico Ermenegildo Zegna).
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UOMINI E STAMBECCHI Il Parco nazionale del Gran Paradiso si racconta in occasione del suo centesimo compleanno di Giulia Liliana Ferrando
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Eh, vecchio! Lo dite voi che sono vecchio. Sono nato il 3 dicembre 1922, cosa volete che siano cent’anni? Secondo me quest’idea ve la siete fatta perché sono il primo di tutti i vostri parchi, e allora vi sembra un gran tempo. Che poi un po’ di ragione ce l’avete pure. Perché ora sono un parco, ma esistevo da molto più tempo: solo che in pochi badavano alle mie valli e alle cime, e per voi umani indaffarati era un po’ come non esserci. A lungo vi ho osservati, acquattato tra le valli che chiamate Orco e Soana, val di Rhêmes e val di Cogne e Valsavaranche, protetto dalla corona di ghiaccio delle mie creste, dai pascoli e dai laghi delle vaste terre alte del Nivolet. Per millenni vi ho studiati: poi, cent’anni fa, avete alzato la testa e vi siete accorti di quanto fossi importante. No, non sono io che sono invecchiato. Siete voi che siete distratti.
Un’isola nel mare dell’estinzione Certo che lo so: senza lo stambecco nessuno parlerebbe di me. È lui che mi ha fatto nascere, ma prima sono stato io a salvare lui: è così che si fa, ci si aiuta. Ci conoscevamo da centinaia di migliaia di anni, e ancora mi viene il magone a pensare che ha rischiato di non esserci più. Me lo ricordo bene quel periodo: eravamo a inizio Ottocento, io non ero ancora un parco e le cose non andavano granché per lo stambecco. Parliamo chiaro: andavano male. Cento ne erano rimasti, tutti aggrappati ai miei versanti. Altri non ce n’erano. Niente stambecchi in Svizzera, che cercherà di rubarmeli per decenni, niente in Austria dove un vescovo ne aveva firmata l’estinzione. Cento stambecchi in tutte le Alpi, e sembrava aspettassero soltanto la fine. Trentacinque maschi dalle lunghe corna nodose, trentacinque femmine più esili e aggraziate, trenta stambecchini che a guardarli parevano goffi e poi saltavano da una cengia all’altra che ti chiedevi come facessero senza ali. Cento: un’isola nel mare dell’estinzione, se mi permettete la retorica. Rintanati tra i pascoli e i laghi e le torbiere del Pian del Nivolet: terre antiche, che esistevano prima che le mie valli e le mie cime si formassero. Erano state il fondo di un mare, ed erano emerse mentre io crescevo fino a superare i quattromila metri — l’unico tutto in Italia! —, e ancora erano lì: terre salde, che davano sicurezza. Qui i miei cento stambecchi resistevano e io li proteggevo. Sapevo che avrebbero ricambiato il favore.
L'epopea dello stambecco Voi alle specie che si estinguono ci siete abituati, ne vedete a centinaia, e altre non le vedete ma sapete che ci sono, anzi, che non ci sono più, e non ci badate. Ma non è mai una cosa da poco, sapete? Aveva quindici milioni di anni, lo stambecco: e voi lo stavate sterminando. Era comparso sul Mar Nero, le glaciazioni lo avevano spinto in Europa, dai Carpazi alla Puglia, per poi confinarlo alla fine sull’arco alpino: una vera epopea. Era in Europa quando voi non eravate ancora sapiens, e la sua storia si è intrecciata con la vostra: ci sono stambecchi dipinti nelle grotte di Lascaux; l’uomo del Similaun aveva carne di
In alto: il massiccio del Gran Paradiso riflesso sui Laghi Tre Becchi, foto di Giulia Liliana Ferrando. In copertina: esemplare maschio di stambecco, foto di Dario De Siena.
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DAL BRIC AL TRUC
I NOMI DELLE MONTAGNE PIEMONTESI Come sono nate le denominazioni delle vette del Piemonte? di Alberto Ghia L'approccio alla toponomastica geografica in Piemonte, ovvero lo studio dei nomi di luogo che sono stati dati a questa o a quella conformazione geografica, non poteva non partire dall'analisi dei rilievi considerando che ben il 55% del territorio regionale è classificato come montano (al di sopra cioè dei 700 m di altezza) e che la percentuale sale ancora se consideriamo il territorio collinare. La maggior parte dei nomi che designano un rilievo sono costituiti da un elemento lessicale che vuole (o voleva) dire "rilievo": gli studi toponomastici consentono di isolare molte voci. Talvolta la voce geografica basta da sola, per antonomasia, a nominare il referente; in altri casi, invece, viene aggiunto un secondo elemento (uno specificatore), che predica la caratteristica principale dello spazio nominato e vedremo assieme alcuni esempi dei tipi più diffusi.
Il Monviso, il Monterosa e il rifugio Monte-Rosa-Hütte nell'illustrazione di Corrado Bianchetti (Corracomics).
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Come si dice rilievo? Due voci molto diffuse in piemontese (almeno in alcune varietà) sono bric e truc. Entrambe sono di origine preromanza e possono indicare rilievi di ben diversa altitudine: si va dai bricchi delle Langhe e del Monferrato fino ad alcune cime alpine. Alcuni esempi: rimandano a bric Bric Volpat, tra Locana e Corio (TO), Bric Cortaccio a Civiasco (VC), Bric Ambria tra Alfiano Natta e Villadeati (AL), Bric Faidal a Vesime (AT), Bric dell’Olmo a Vernante (CN), Bric Mazzero a Curino (BI); rimandano a truc Trucco Vudrand a Limone Piemonte (CN), Truc di Soi a Robilante e Vernante (CN), Truc dei Prati a Mattie (TO), Trucca la Comuna a Frabosa Sottana (CN), il Truc a Coggiola (BI). Il piemontese conosce anche altri geosinonimi di minore diffusione, tra cui va ricordata la voce mut con la variante muta, anch’essa voce di origine prelatina, a cui vanno accostati per esempio i toponimi Motta di Campo a Malesco (VB), la Motta a Druogno (VB), Mottone tra Antrona Schieranco e Calasca-Castiglione (VB) e Mot Gianin a Premosello Chiovenda (VB). Altre radici prelatine per le quali è stato ricostruito un significato di ‘rilievo, altura’ ci sono invece note solo attraverso i nomi di luogo: tra queste ricordiamo *pal-, che occorre ad esempio in Pallone del Badile, tra Carcoforo (VC) e Macugnaga (VB) e *mal-/mel-, presente in Rocciamelone. Dal latino montem, invece, derivano il piemontese munt e l’italiano monte, di grande diffusione e che ci pare superfluo esemplificare; ricordiamo però che anche nomi di luogo come Mondorosso, frazione di Villafranca d’Asti (AT), e Bricco Pian del Mondo tra Borgomale e Castino (CN), risalgono alla voce latina, con sonorizzazione della dentale (munt > mund). Troviamo poi voci che richiamano un elemento geografico per metafora: designano per esempio cime appuntite le voci dente, che troviamo
in Tre Denti tra Frassinetto e Borgiallo (TO) e Dente di Seirasso a Magliano Alpi (CN); becco Becco di Mea a Groscavallo (TO), Becco Grande tra Canosio e Sambuco (CN) e Bec di Ovago a Varallo (VB); corno Corno Rosso e Corno del Camoscio ad Alagna Valsesia (VC); dal latino acucula (ago) Uia di Ciamarella Balme (TO), Uia della Gura a Groscavallo (TO), Punta Uia a Locana (TO) e Gran Guglia a Villar Pellice (TO); a una radice onomatopeica *pits- ‘estremità (acuminata)’ vanno collegati i toponimi Pizzo del Loranzolo a Rassa (VC) e Pizzo Marona tra Miazzina e Aurano (VB). Possiamo immaginare invece cime più arrotondate per il tipo testa: ricordiamo solo la Testa a Locana (TO).
Montagne di montagne In diversi casi il nome di un rilievo è costituito da due voci che esprimono entrambe l’idea di ‘altura’. Eccone alcune: Bric del Cucuc a Pragelato (TO) e Monte Cucco a Valstrona (VB): in entrambe riconosciamo la radice *kukk(a)- ‘rilievo’; Punta Aguglion tra Limone Piemonte e Chiusa di Pesio (CN) e Punta Uia a Locana (TO); Cima la Motta tra Limone Piemonte e Peveragno (CN); Monte Motta a Val della Torre (TO); Piz ’d la Vugia ‘pizzo dell’ago’ a Premosello Chiovenda (VB); Monte del Dente a Bognanco (VB); Monte Maluna a Roaschia (CN); Corno del Pallone ad Alagna Valsesia (VC); Cima Palù a Briga Alta (CN); Rocca delle Penne (da *pen-, alla base di Appennino e delle Alpi Pennine) a Caprauna (CN). Bric Moncucco a Ternengo (BI) ne conserva invece ben tre! Si mescolano qui gli esiti di due tipi di creazione in parte differenti: da un lato una trafila popolare-orale, dall’altro lato una trafila dotta-scritta. Teoricamente, per riconoscere da quale trafila discende il toponimo basterebbe osservare la forma orale (per esempio, Fiume Po è denominazione di trafila cartografica, perché oralmente si dice Po), ma non è
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OLTRE I CONFINI Passeur, contrabbandieri e passaggi delle terre alte tra Francia e Piemonte di Daniela Bernagozzi
Cinque militari fotografati da Raymond Lavagne (Agence Rol) tra Francia e Italia sul Colle della Maddalena, 1912.
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"Finito il servizio militare non trovai lavoro. Erano i primi anni del fascismo. Il fascismo si rinforzava. Io non conoscevo ancora allora bene cosa fosse il fascismo. Sapevo però che era una disciplina imposta. Sapevo che era una cosa di fronte alla quale non mi sarei mai piegato. Decisi di andare all’estero. Avevo 170 lire in tasca, più il vestito che indossavo. Presi attraverso i monti e andai in Francia." Così scriveva in un suo quaderno di memorie Giovanni Ghinamo, nato a Boves nel 1904, che a Parigi maturerà una coscienza politica che lo porterà a partire volontario con le Brigate Internazionali nella guerra di Spagna (e sarà poi partigiano col nome di battaglia Spartaco). E proseguiva: "Appena stabilito in Francia le cose mutarono subito. La vita si trasformava, prendeva una via nuova, molte volte più dura ma piena di soddisfazione. Anche se non era ancora ciò che pensavo io era già un passo in avanti; era già un punto di partenza. Cominciai a conoscere altri uomini che rispecchiavano il mio pensiero, uomini di tutte le nazionalità. Incominciai a leggere giornali dove vidi pubblicati articoli che mi facevano ricordare le discussioni e la mentalità dei contadini e cittadini del paese dove ero nato e dove avevo lavorato, ma conobbi pure quei giornali dove erano pubblicati articoli che rispecchiavano il mio pensiero. Da quel momento la mia idea prese forza e soddisfazione. Non ero più isolato dal mondo; ormai già eravamo in tanti a voler un progresso e tanto già si poteva fare."
L'emigrazione stagionale Per lui, come per molti, la scelta dell’emigrazione era stata un’esperienza dolorosa ma anche di libertà e conoscenza. È bene tenere a mente che per le popolazioni montane le frontiere fra gli stati erano sempre state linee piuttosto convenzionali: per un abitante delle vallate alpine cuneesi, immaginiamo la Val Maira, o la Val Varaita, era sempre stato più facile raggiungere attraverso i valichi alpini Barcellonette o la valle dell’Ubaye piuttosto che la capitale dello stato cui appartenevano nell’Ottocento, cioè Torino. Un’uguale economia univa un lato e l’altro delle montagne, una lingua simile, il patois, oggi conosciuto come occitano, e la frontiera doveva sembrare spesso poco più di un incidente. Lo stesso avevano fatto a lungo i pastori francesi: alla fine dell’Ottocento sappiamo che da Abriès, nel Queyras, le pecore andavano a svernare nella Pianura Padana e, d’altronde, solo le frontiere successive al trattato di Utrecht del 1713 avevano diviso l’antica repubblica degli Escartons fra Italia e Francia, che prima aveva legato il brianzonese con le comunità di Oulx, Pragelato e Casteldelfino. E anche più a sud, le frontiere con la Francia comprendevano la stessa Barcellonette e non si fermavano al Colle della Maddalena (Larche). L’emigrazione stagionale era la migliore strategia che gli abitanti delle terre alte avevano messo a punto per evitare l’inedia dei lunghi mesi di inverno e provocò un alto tasso di alfabetizzazione, constatabile nelle firme per esteso in gran parte dei documenti notarili negli archivi delle valli: l’emigrazione aveva inse-
gnato ai montanari l’importanza della scolarizzazione e i comuni alti, già nell’Ottocento, si tassavano per pagare i maestri perché sapevano che l’educazione sarebbe loro stata utile nel commercio, e negli spostamenti in Italia o in Francia. È un mito infatti l’idea per cui la popolazione montana sia stanziale e inamovibile, è invece vero che nei secoli, soprattutto nei lunghi mesi invernali, i montanari hanno spesso impegnato le loro risorse per svolgere mestieri stagionali spesso ingegnosi e redditizi che vanno, per rimanere in Val Maira, dal commercio dei capelli di Elva, a quello delle acciughe, alla produzione di botti. Ma anche al contrabbando. O all’aiuto all’emigrazione clandestina talvolta.
Roburent. Foto di Luca Prestia — Unione Montana Valle Stura / Ecomuseo della Pastorizia.
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I VOLTI DEI PICCOLI SPAZZACAMINI Dalle fotografie della famiglia Faraggiana un racconto sociale che anticipa la street photography di Silvana Bartoli
Gli spazzacamini bambini della Val Vigezzo ritratti tra fine Ottocento e inizio Novecento dai Faraggiana (© Fondazione Faraggiana).
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“Credo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia”, scrisse Ferdinando Scianna, il grande fotografo originario di Bagheria noto per i suoi scatti in bianco e nero e per essere stato il primo italiano a far parte dell’agenzia fotografica internazionale Magnum Photos. Così è successo agli scatti della famiglia Faraggiana, anche se per molto tempo, dicono le immagini rimaste della loro dimora, hanno tappezzato la stanza in cui la famiglia si riuniva la sera.
Narrare per immagini Comparsa nel 1839, la nuova arte si adatta subito al contesto occidentale, pervade gli ambienti borghesi che a loro volta la investono di senso. Si tratta di una tecnologia che caratterizza tutto il secondo Ottocento, ridefinisce i processi di comunicazione e disegna l’immaginario ben prima di cinema e televisione. La realtà fotografica trasforma le prospettive tradizionali aprendo nuove letture antropologiche e culturali. Affascinati dalla novità che si presentava, i Faraggiana, sul crinale di due secoli, si dedicarono a fissare in immagini il loro mondo e, al di là delle letture complesse che possiamo darne oggi, forse volevano soltanto conservare traccia di attimi che altrimenti sarebbero scomparsi dal ricordo. Quell’interesse però divenne presto una passione coinvolgente, come dimostra il laboratorio fotografico costruito nel parco della villa di loro proprietà a Meina che ha permesso alla famiglia di lasciare, oltre al Teatro, alla villa di Albissola, al Museo, alla Fondazione, anche un patrimonio d’immagini che, nell’epoca della smaterializzazione digitale, acquista il senso di un prezioso promemoria per le generazioni future e apre finestre anche su vicende poco note, o del tutto sconosciute, utili a illuminare le relazioni in cui i Faraggiana erano inseriti, sia nella microstoria cittadina, sia nella rappresentazione più ampia del rapporto tra classi sociali. La famiglia era originaria di Levanto. Documentata dal XIV secolo, si affermò economicamente a Genova dove, sul finire del Settecento, si imparentò con i De Albertis che avevano da tempo esteso la loro rete commerciale fino a San Gallo. L’arrivo a Novara avvenne proprio grazie a uno zio De Albertis che aveva trovato nella città piemontese un comodo pied à terre sul percorso tra Liguria e Svizzera. Privo di eredi, lo zio lasciò il suo immenso patrimonio ai nipoti, Giuseppe e Alessandro Faraggiana, i quali lo ampliarono ancora di più acquistando e costruendo ville e palazzi che l’ultima generazione, in mancanza di discendenti diretti, donò al Comune di Novara e a istituti religiosi. Nel lascito della famiglia compaiono anche numerosi album fotografici nei quali un racconto basato sull’osservazione di fatti minimali, su ciò che solitamente rimane ai margini e qui viene portato al centro dell’attenzione, rivela — non saprei dire quanto consapevolmente — le potenzialità della fotografia come strumento d’indagine del reale. Le immagini non hanno firma ma la narrazione che contengono presenta un aspetto singolare: chi scattava sembra infatti aver seguito una curiosità per tutti gli aspetti del vivere esplorando il mondo circostan-
te. Molte foto, ad esempio queste in argomento di cronaca semplice e diretta, spostano lo sguardo da un archivio famigliare a uno di rilevanza storica.
Racconto di un'epoca Come sempre tutto sta nel modo in cui si guarda e, per uno scatto riuscito, vale l’attenzione verso la condizione umana; un fotografo però non è un riformatore sociale, può soltanto far vedere a un’altra persona quello che la distanza o la distrazione impediscono di cogliere. “Le fotografie si fanno con i piedi”, ancora Scianna, e alcune immagini presenti negli album Faraggiana sembrano anticipare Vivien Maier, la fotografa statunitense esponente di spicco della street photography, che ritraeva l’umanità incrociata per strada. Nel complesso degli album fino ad ora rintracciati, compaiono una decina di scatti che ritraggono spazzacamini, bambini soprattutto, volti e sguardi che sembrano capaci di affrontare tutto, come se il fotografo li avesse colti in un istante decisivo che ci consente di immaginare le loro esistenze. E se chi scattava si è limitato a registrare quello che vedeva, lasciando la creatività ai soggetti ritratti, allora qui trova conferma chi ritiene la fotografia “un’arte nera”, alchemica, capace di trasmutare la materia in spirito. Queste immagini, benché eseguite con intenzioni non di denuncia dello sfruttamento minorile ma, forse, di curiosità vagamente etnografica, mostrano il valore universale della nuova arte. I frammenti nei quali ci immergono gli album, diventano sguardi attenti sugli effetti sociali legati alle tradizioni; anche se è sempre rischioso spaziare su uno scenario più ampio, nelle immagini, volontariamente o no, passa l’esposizione delle disparità presenti nell’Italia postunitaria, a cominciare dal lavoro minorile. Le foto degli spazzacamini poi si distinguono dalle altre. Prima di tutto sono in sequenza nello stesso album, anche se sembrano scattate in tempi diversi; sono poche, rispetto al totale delle foto recuperate, ma contengono il racconto di un’epoca, non certo di un tempo perduto da rimpiangere ma di una forma di abuso che in molti luoghi esiste ancora, e in altri minaccia di tornare, essendo la ricerca di un lavoro un eterno presente, soprattutto per chi deve vivere in condizioni di miseria; e queste immagini evocano immediatamente le schiere di bambini usati per mansioni tanto indispensabili quanto pericolose.
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SAVIGLIANO, MILLE ANNI DI ARTE E CULTURA Tra le torri e i campanili della "storica e gentile città" nel cuore del Cuneese di Rosalba Belmondo Nel novembre 2021 L’Artistica Editrice, una importante realtà editoriale che opera a Savigliano da oltre mezzo secolo, ha dato alle stampe il volume Savigliano. Un millennio tra arte storia e cultura, del quale chi scrive è stata la curatrice nonché l’autrice dei testi. Si tratta di una grandiosa realizzazione editoriale con un corredo fotografico imponente (600 immagini della città e del suo territorio realizzate tra il 2020 e il 2021 e distribuite su 550 pagine), che accompagna il lettore nella ricostruzione dei segni lasciati dal millennio e oltre di storia locale (il toponimo Savigliano è citato per la prima volta nel 981 in un placito del messo imperiale). Non è assolutamente una guida turistica, ma si propone di essere gustato con tranquillità comodamente a casa, suscitando nel lettore il desiderio di vedere o rivedere di persona gli spazi e i percorsi urbani, i monumenti, i musei, le tradizioni che la moderna Savigliano offre, con i suoi 21.000 attuali abitanti e un tessuto urbano in forte crescita.
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Raccontare una città Con una narrazione sintetica, ma di stimolo alla riflessione, nel volume la città è presentata per ambiti: le chiese urbane, le chiese della campagna, le abitazioni cittadine dei saviglianesi e le loro villeggiature, i luoghi di aggregazione e di incontro, le istituzioni culturali… Ne conseguono percorsi ragionati, costituiti da commenti e immagini intersecanti i secoli. Come raccontare la propria città a un pubblico di potenziali lettori costituito da concittadini, ma anche da estranei, è compito non da poco, reso complesso anche dal fatto che il “medium” della narrazione è un volume a stampa, non una chiacchierata con immagini che scorrono su uno schermo. Bisogna partire dall’attualità. La vita quotidiana in una cittadina di provincia qual è Savigliano è come un’esperienza di teatro dal vivo, i concittadini sono in parte attori protagonisti o comprimari (gli amministratori, i funzionari pubblici e privati, gli operatori economici…) in parte frettolose comparse sulla scena, mentre altri sono osservatori attenti, ma fanno parte del pubblico, e sfugge loro spesso “la trama”. Perché sia meglio comprensibile il presente, la cultura (e i libri in particolare) devono offrire strumenti per ricostruire gli intrecci storici, ossia la trama. È appunto a questa trama che ho lavorato nel volume. L’impegno profuso per quella pubblicazione mi suggerisce alcune considerazioni. Può essere punto di partenza questo interrogativo: per quali prerogative è conosciuta attualmente Savigliano fuori dai suoi confini? Si può affermare con certezza che è nota per gli stabilimenti di produzione dei treni ALSTOM, per essere sede decentrata di alcune facoltà universitarie di Torino, per un ospedale che ha superato i trecento anni di vita e ha ancora alcune “eccellenze” nei servizi erogati. Due, tre volte l’anno vi si svolgono manifestazioni di respiro regionale, mentre un certo richiamo è esercitato anche dai musei loca-
a Savigliano il cuore pulsante della vita cittadina, il luogo di ritrovo per eccellenza, lo spazio mercatale e commerciale più vitale coincidono ancora con l’antichissima plàtea. […] Era l’equivalente del forum di romana memoria, ossia la piazza foranea. Poi la si chiamò “piazza Vecchia” in contrapposizione alla settecentesca “piazza Nuova”, finché nel 1879 la si denominò ufficialmente “piazza Santa Rosa” […] rosalba belmondo
Piazza Vecchia, detta anche Piazza Santa Rosa in onore dell'eroe Santorre, il cuore pulsante della città di Savigliano (© L'Artistica Editrice).
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IL FRANKENSTEIN PERDUTO
DI EUGENIO TESTA
Vittima della censura fascista è oggi uno dei film più ricercati della storia del cinema di Davide Mana
Karloff nel film Frankenstein (1931).
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Pubblicato nel 1818 dalla poco più che ventenne Mary Wollstonecraft Shelley, il romanzo Frankenstein, o il Moderno Prometeo viene riconosciuto come il punto di origine della letteratura di fantascienza e dell’horror moderno, e ha gettato un’ombra lunghissima sulla nostra cultura. Ne sono stati tratti centinaia di adattamenti, film e fumetti. L’attore inglese Boris Karloff è stato a suo modo intrappolato per tutta la vita nel ruolo del Mostro interpretato negli anni Trenta. Il protagonista Viktor Von Frankenstein e il suo Mostro sono stati a seconda dei casi usati come metafora della ineluttabilità della morte, dell’eugenetica, della bioingegneria sfuggita al controllo, dell’imperialismo ottocentesco. Frankenstein (lo scienziato) e Frankenstein (il mostro) hanno a turno minacciato e salvato l’umanità. Il mostro di Frankenstein è sopravvissuto alla bomba di Hiroshima e ha affrontato il mostro gigante Baragon calpestando la periferia di Tokyo. Nel 1920, a Torino, il mostro di Frankenstein affrontò Sansone e, successivamente, la censura del Regime Fascista. Sopravvisse al primo scontro, ma purtroppo non al secondo. Ma è un po’ più complicato di così.
Torino, mancata capitale del cinema Il mostro di Frankenstein è un film diretto da Eugenio Testa, attore, regista e produttore torinese. Dopo gli esordi nel teatro dialettale piemontese, Testa avvia nel 1913 la propria carriera cinematografica. In quegli anni a Torino sono attive dieci case di produzione e la ex capitale d’Italia è sulla buona strada per diventare la capitale del cinema nel nostro Paese. Nel 1920, quando Testa gira il suo Frankenstein, entrando nella storia come regista del primo film dell’orrore italiano, a Torino ci sono trenta compagnie di produzione cinematografica. Il modello produttivo di queste compagnie è stato sviluppato all’inizio del secolo da Arturo Ambrosio, il primo grande produttore italiano. L’idea è quella di avere un ciclo chiuso, che metta sotto al controllo dei produttori la lavorazione, la distribuzione e la proiezione delle pellicole. Ambrosio possiede gli studi di posa, finanzia i film, si occupa della distribuzione e gestisce una rete di sale nelle quali i film vengono proiettati (ingresso 50 centesimi, militari e bambini metà prezzo). È lo stesso modello produttivo che in Francia viene portato avanti dalla Pathé e a Torino, dove Ambrosio inizia la sua attività, produce una concentrazione di competenze che porta naturalmente allo sviluppo di una industria. Nel 1906 la Anonima Ambrosio viene fondata con un capitale di 700.000 lire (circa tre milioni di euro di oggi). La Aquila Film di Camillo Ottolenghi e l’Itala Film seguono rapidamente l’esempio della Ambrosio, spalancando le porte a decine di altre realtà.
Fate spazio, arriva il cinematografo! Il cinema diventa un investimento attraente per industriali con ambizioni culturali come Pastrone o Gualino — perché il cinema è intrattenimento e cultura al tempo stesso e non porta con sé quell’aura di malaffare che rende sconveniente finanziare il teatro. È nuovo, moderno, quanto di più “hi-tech” si possa immaginare. E naturalmente, la nascita di teatri di posa e laboratori
Copertina del periodico "La vita cinematografica" in cui compare il ritratto di Luciano Albertini.
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UN PIEMONTESE SULLA VIA DELLE SPEZIE Moscato del Monferrato e aromi indiani: ecco il vermut inventato da Federico Peliti di Luca Morino
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Il vermut è un vino aromatizzato creato in origine dal torinese Antonio Benedetto Carpano nel 1786, come riporta la targa di marmo apposta in piazza Castello, più o meno all’imbocco di via Pietro Micca. Dopo un passato glorioso la bevanda è stata un po’ dimenticata in Italia (al contrario della Spagna, dove sono diffusissime le vermuterie) per tornare in auge negli ultimi anni. Torino può essere nuovamente considerata la capitale del vermut — la parola in tedesco significa artemisia, che era alla base delle erbe con cui veniva aromatizzato il moscato — e tra le nuove proposte si è imposto recentemente un marchio di altissima qualità, il Peliti’s. La prima cosa che mi ha affascinato è stata l’etichetta: un complicatissimo stemma floreale con le immagini della Mole Antonelliana e del Dakshineswar Kali Temple di Calcutta, scritte dorate, date, due volti dello stesso uomo con un papillon e poi con un turbante. Insomma un chiaro rimando al mondo coloniale di fine Ottocento, l’epoca dei grandi viaggi e delle grandi scoperte, apparentemente poco attinenti al contenuto sabaudo della bottiglia. L’uomo rappresentato sull’etichetta si chiamava Federico Peliti, nato a Carignano nel 1844, e qui inizia la nostra avventura.
Un indomito confettiere Dopo aver frequentato l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e partecipato alla Terza guerra d’indipendenza come cavalleggere, Peliti inizia a lavorare con alcune ditte confettiere vicine a Casa Savoia quando Lord Mayo, viceré presso le Indie Britanniche, lo sceglie come chief confectioner — allora Torino era rinomata in tutta Europa per la pasticceria — presso la sua dimora di Calcutta. Il vicerè è il diretto rappresentante della corona inglese nelle colonie indiane, una carica di altissimo livello ma anche ad alto rischio: purtroppo tre anni dopo il nobile viene assassinato ma Peliti decide di rimanere in India, con l’arduo obiettivo di aprire una pasticceria tutta sua. L’impresa è resa ancor più difficile dal fatto che i suoi sono prodotti di lusso, è completamente sconosciuto e dispone di assistenti assolutamente non specializzati. La sua perseveranza e le sue capacità imprenditoriali però danno i loro frutti e nel giro di pochi anni decide di trasferirsi a Simla, una località del nord che era stata scelta come capitale estiva dagli esponenti della corona inglese. Sono tempi in cui le decorazioni pompose sono molto alla moda e Peliti, che all’accademia si era diplomato in scultura, colpisce profondamente il Principe di Galles (sì, proprio quello che ha dato il nome al tessuto!) che da quel momento inizia a commissionargli innumerevoli lavori. Al suo primo incarico il carignanese realizza una spettacolare copia, completamente di zucchero e lunga un metro e mezzo, dell’Osborne, un vascello di proprietà di Sua Altezza, servendosi praticamente di una lima, un temperino e un piccolo scalpello. È un enorme successo.
Il catering nella giungla birmana Indubbiamente sa come far apprezzare la sua arte e inizia a guadagnare cifre veramente considerevoli. Può anche essere considerato uno degli antesignani del catering perché, sempre in quel periodo, viene
Un ritratto di Federico Peliti in abiti orientali.
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