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Il training autogeno

di Angelo D’Onofrio, psicanalista

dri di Vicenza, dove i corsi erano riservati agli studenti dell’ultimo anno che si apprestavano ad affrontare l’esame di stato.

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Il training autogeno è uno strumento utilissimo per riequilibrare le alterazioni somatiche. Pertanto, l’ambito psicosomatico è un terreno fertile per conseguire risultati validi e duraturi nel tempo. Lo stesso permette di gestire lo stress dei nostri tempi, nei quali l’uomo è sottoposto a sollecitazioni e tensioni di vario genere. Di qui l’utilità di un’ igiene fisica e psichica che permetta di affrontare la vita in modo sempre più consapevole.

Il training autogeno è una metodica a punto di partenza mentale che coinvolge l’essere umano nella sua totalità ed è volta ad armonizzare la psiche del soggetto. Perché ciò accada, bisogna che il training autogeno sia realizzato nella sua integrità. Solo in tal modo consente un’introspezione del Sé. Il training autogeno si basa sul principio dell’ideoplasia, vale a dire una rappresentazione mentale che riesce a produrre modificazioni somatiche.

Nel 1928 il neurologo J.H. Schultz adotta per la prima volta il termine “training autogeno” (training = allenamento; autogeno = che si genera da sé).

Qualcuno lo ha identificato come metodo di rilassamento, ma la cosa a me sembra riduttiva. Schultz parte dall’ipnosi e dalle sensazioni provate dai propri pazienti nell’ipnosi. Pertanto, ritiene di poter indurre le stesse facendo ricorso a formule verbali ed esercizi con i quali dà vita al training autogeno.

Si tratta, insomma, di un allenamento che consente un’igiene psichica: è una terapia corporea che, in modo autogeno e per mezzo di esercizi, consente al soggetto di poter realizzare, sia a livello fisico che psichico, delle modificazioni nell’ambito di vari disturbi psichici.

Il libro di Schultz incontra subito un grande successo, tant’è che viene tradotto in diverse lingue ed escono ben 14 edizioni.

Schultz elabora la propria metodica che, con un preciso e costante allenamento, porta all’autodeconnessione e, grazie agli esercizi, si determinano modificazioni spontanee del tono muscolare e neurovegetativo.

Scrive Crosa: “il paziente, nell’arco di due, tre mesi è in grado, grazie agli esercizi del training autogeno, di offrire ai propri muscoli, ai propri nervi, ai propri organi, alla propria mente uno stato di distensione fisica, di passività psichica, di calma, di benessere sempre più completo e generalizzato. Con un esercizio sistematico è possibile risolvere, eliminare sintomi disturbanti e mettere in moto attitudini interne che non riescono a realizzarsi spontaneamente”.

C’è chi ha ridotto il significato scientifico del training autogeno a meri esercizi di rilassa- mento, che si possono eseguire affidandosi alla lettura di qualche libro, senza far ricorso a psicoterapeuti formati in tal senso. Quindi il training autogeno non può essere utilizzato in modo improvvisato, credendo che si tratti di facile apprendimento. Non è così: si tratta, in realtà, di una metodica complessa che esige una precisa conoscenza a livello fisiologico e psicologico.

Del resto, come scrive Peresson, “il training autogeno esige non solo una ben chiara visione della sua struttura, ma anche una serie di accorgimenti tecnici che nessun manuale potrà mai essere in grado di specificare”

La concentrazione passiva è l’elemento base dal quale partire per comprendere cosa è davvero essenziale nella metodica. A dire il vero, quantunque si richieda la stessa in via preliminare, in realtà la si realizza come risultato finale. Insomma, si inizia dalla fine per arrivarvi dopo un po’ di tempo. Essa è il motore centrale di tutta la metodica. Quindi va compresa molto bene da chi intende intraprendere il percorso autogeno.

Il soggetto deve capire che va sospeso ogni sforzo, cioè non si tratta di “fare qualcosa”, ma di realizzare una rappresentazione psichica, non intenzionale, un’immagine.

Grazie alla concentrazione passiva, il soggetto si isola progressivamente dagli stimoli ambientali, in quanto si determina un abbandono passivo ad alcune rappresenta- zioni interne specifiche. È necessario, dunque, saper ascoltare il corpo che, attraverso i segnali che invia, comunica i suoi stati di benessere o di malessere. Il training autogeno, eseguito correttamente e con costanza, consente di sciogliere sia tensioni fisiche sia tensioni emotive.

Si tratta, dunque, di conseguire la “concentrazione passiva” o, come la chiama Schultz, l’autodistensione concentrativa, caratterizzata dalla sospensione dello sforzo e dall’eliminazione dell’attenzione.

In tal senso il training autogeno si differenzia dalle tecniche ipnotiche od auto ipnotiche, che necessitano dell’induzione del terapeuta o del soggetto.

Si arriva, un po’ alla volta, a recepire il linguaggio del corpo. Si determina ciò che un grande studioso del training autogeno, Ajuriaguerra, definisce “dialogue tonique”. Il corpo viene vissuto nell’hic et nunc, l’essere qui e ora del mio corpo. È una sorta di immersione in se stessi, che ci consente di collegarci al nostro mondo “profondo”. È una sorta di risuonare interno, di un “abbandono interno”, di “discesa abissale”. Si parte da un atteggiamento di calma, cioè di assenza di tensione, di sforzo: nel training autogeno non si tratta di fare qualcosa, in quanto le formule sono “immaginate”, “visualizzate”. Non bisogna imporsi nulla, se non “fermarsi” all’immaginazione delle formule.

C’è, insomma, un allenamento che porta alla concentrazione passiva : del resto l’aggettivo “autogeno” ci fa subito capire che non vi è nulla di volontario, ma lo stesso vuol dire che è autogenerato, cioè generato da sé. Se si vuole restare, nell’ambito dell’ortodossia metodologica, tutto deve avvenire in modo autogeno, vale a dire che le eventuali modificazioni psicofisiologiche devono prodursi in maniera spontanea, in quanto autogenerate.

I sei esercizi standard sono l’aspetto più conosciuto e di più facile apprendimento. Gli esercizi di base sono sei: pesantezza, calore, cuore, respiro, plesso solare, fronte fresca. Essi sono orientati sul soma, quelli superiori sulla psiche.

Il primo, dunque, riguarda il rilassamento muscolare. Per raggiungere ciò, Schultz suggerisce posizioni ed accorgimenti particolari, formule mentali congegnate in modo da provocare la rappresentazione mentale della situazione somatica.

Il primo esercizio consente la distensione degli arti, del tronco e poi di tutto il corpo. Col tempo il rilassamento diventa sempre più progressivo e profondo, cosicché il soggetto realizzerà la distensione muscolare ed avrà la percezione del proprio corpo.

Il secondo esercizio è quello della percezione del calore. Già con la distensione, per effetto del rilassamento muscolare, si determina un’iperemia obiettivamente controllabile. Il calore favorisce, a sua volta, la distensione

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