#14 Novembre 2011

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feedback fanzine di musica indipendente

anno II numero 14 NOVEMBRE 2011 http://issuu.com/feedback.magazine

DAVID

LYNCH IN QUESTO NUMERO:

Lou Reed & Metallica . Nirvana . James Blake . Coldplay . Tom Waits . Franco Fontana . Pynchon . Crookers . Justice . Youth Lagoon


feedback - NOVEMBRE 2011

ARTISTA DEL MESE

David

Lynch estetica del cattivo

Tutto comincia nel 1966 quando David Lynch si presenta come brillante studente dell’accademia di belle arti di Philadelphia producendo, tra il ‘66 e il ‘70, diversi cortometraggi. Tra questi troviamo Six Figures Getting Sick (pittura in movimento che si ripete ad anello) e The Grandmother (se avete mangiato pesante la visione è sconsigliata, ma contiene in nuce elementi del cinema lynchiano). Nel 1971 abbiamo il primo lungometraggio: travagliato, pieno di intoppi, ma anche osannato dal regista Stanley Kubrick. Stiamo parlando di Eraserhead – black’n’white movie postindustriale (‘post-’ tutto in realtà) raffigurante una realtà di periferia asfittica fuori dal tempo, scandita da rumori di ferraglie e macchinari (in pratica costituiscono la colonna sonora). Nel 1980 Lynch “fa il botto” grazie all’appoggio di Mel Brooks che, entusiasta di Eraserhead, propone il film biografico Elephant Man ispirato al caso di Joseph Merrick (uomo deforme, un ‘quasimodo brit’). Riceverà 8 nomination all’oscar e sarà la prima vera e propria opera in stile Lynch (e non alla maniera di Lynch). Nel 1984 girerà il film fantascientifico Dune ispirato alla saga di Frank Herbert (direi che su questo film è meglio sorvolare: troppo lungo, pasticciato, rimaneggiato e involontariamente incomprensibile): un episodio infelice della sua carriera. Il commento a Dune di Jodorowsky pare sufficiente a descriverlo: “quel film è una vera merda!”. Nel 1986 iniziamo ad assistere alla lenta costruzione della metafisica lynchiana, del fondamento di ogni realtà che sta dietro l’apparenza quotidiana: Blue velvet (1986). Protagonisti cult sono una martoriata Isabella Rossellini, una spaesata Laura Dern, un fustostudentello Kyle McLachlan ed uno spietato e sboccato Dennis Hopper. Altro che cieli di carta che si strappano per rivelare il vero sfondo! Qui penetriamo nella vera terra che cela un brulichio di insetti e drones assordanti sotto i prati fioriti e i cieli

Jack Nance in Eraserhead (1977)

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assolati. Il film verrà richiamato nella sua atmosfera dal “road movie” Strade perdute (1997), dal “postroad-movie” Mullholand Drive (1999) e dal “postmovie” INLAND EMPIRE (2006). Questi ultimi due degni di nota: il primo possiede una sua struttura a doppio anello che si interseca in cui la fine rivela un inizio portando avanti un vero e proprio melange di normale e paranormale; il secondo un vero e proprio work in progress improvvisato con telecamere digitali dove dimensioni spaziotemporali si scambiano e confondono, andando oltre la dimensione fimica di inizio-svolgimentofine; addirittura subentrano elementi ostici di difficile interpretazione della serie televisiva sperimentale Rabbits (2002): sitcom di coniglietti che dialogano in uno sterile salotto da provincia americana (uno dei marchi di fabbrica lynchiani). Lo straniamento sembra essere l’ingrediente principale della povertà del passatempo senza scopo. Il dubbio che porto dentro è il capire se quest’estraniazione ha un valore morale o meno. Personalmente ritengo che la messinscena sia il punto di partenza e d’arrivo del suo cinema d’autore: ciò che vi è nella superficie dell’immagine e dell’ascolto è ciò che conta - nulla di più e nulla di meno. Quello che si manifesta è la vera essenza del cinema: non è possibile uscire dal fotogramma, e nemmeno dai dialoghi poveri e insensati: è solo col dialogo che si ottiene il senso delle parole, ma l’ascolto non vi è. La provincia americana nella sua piatta inconsapevolezza non a caso è onnipresente nella produzione di David Lynch: una realtà fatta di assurdità, di dialoghi grotteschi, di uomini senza scrupoli, di atmosfere cupe ed austere. Nel 1990 la serie televisiva Twin Peaks diventa culto, fenomeno di massa, tormentone. Ispirato al paese da cui prende il nome, Lynch porta avanti episodi delle indagini dell’agente dell’FBI Dale Cooper sull’omicidio di Laura Palmer facendo sorgere, in

ogni puntata, diversi dubbi sulle identità ambigue degli abitanti e sul loro ruolo nel fatto accaduto. Ogni telespettatore si continuerà a chiedere “chi ha ucciso Laura Palmer?” - in toscana spopolarono le magliette con su scritto “m’importa una sega a me di chi ha ucciso Laura Palmer” - rimanendo deluso (volontà del regista è lasciare tutta la vicenda avvolta nel mistero senza svelare identità di assassini, o motivi di tale fatto). Da ricordare è la parentesi romantica e minimalista di Una storia vera (1999), un’odissea di un uomo anziano che per trovare il fratello malato deve attraversare diversi stati americani, usando come unico mezzo di locomozione un tagliaerba: la bontà emerge tra i vicini americani, tra i veterani delle famiglie, che si prodigano ad aiutare il protagonista. Tutto il film è costituito da incontri effimeri ma essenziali, sostanziali. Ricordo la mostra personale del regista nel 2007 alla triennale di Milano The Air is on Fire: era stato ricreato uno dei suoi giocosi e tranquilli salotti familiari, e al suo interno era appeso un quadro di quello stesso salotto. La realtà lynchiana infatti consiste nel suo autopenetrarsi per superarsi, nel suo autoritrarsi per estraniarsi. Questo è il cinema di Lynch: uno spaesamento continuo Do It Yourself ottenuto da uno qualsiasi dei parcheggi della provincia americana, o da uno qualsiasi dei suoi marciapiedi, o da uno qualsiasi dei suoi abitanti. Ne approfitto per ricordare un dialogo avuto qualche mese fa con un amico su Elephant Man. Con il suo forte accento bresciano mi dice: “Ma ti rendi conto che film è? È su un mondo in cui la gente è cattiva, ma il gusto è bello!” Esatto, proprio così: la gente è malvagia, ma capisce le cose belle. Questo è il cinema di Lynch: c’è chi intuisce che dietro il mondo vi è qualcosa di oscuro, e per questo rimane spaesato lasciandosi trasportare dagli eventi; e c’è chi capisce che dietro il mondo vi è una zona da cui attingere il dominio degli altri, e per questo continua a dominare. Fateci caso: avete mai visto un buono nei film di Lynch che combatte o tenta di ostacolare i malvagi? O ci sono cattivi, o ci sono quelli che non sanno cosa fare… Il buio si alterna alla luce del sole da cartolina; la rabbia alla risata sardonica; l’ingenuità alla furberia e la ricchezza alla povertà. Le famiglia si converte in istituzione e in coercizione portando la cattiveria in superficie e le invidie in elementi basilari di ogni rapporto. Lynch ha scoperto la solitudine, la spaesatezza e la generosità della malvagità in modo da incrinarla in goffaggine, maleducazione e volgarità. La discesa nel cambiamento è sempre lenta, pacata, a telecamera fissa, a ritmi pazienti. Gli unici piani sequenza in cui si dilunga sono zoomate nel buio a passo di bradipo: lo spettatore ha tutto il tempo per interrogarsi su cosa lo aspetterà all’oscuro varco del ritorno nella solita realtà... ma sa che dopo aver passato la soglia avrà qualcosa in più. Buona visione! - gorot


feedback - NOVEMBRE 2011

DISCO DEL MESE

Pop

BEACH BOYS Smile Sessions [Capitol Records, 2011]

Voci d’argento e tavole da surf C’era una volta un 1966 dai contorni sfumati e dalle tinte pastello, e un gruppetto di ragazzi arrivati al successo cantando il surf e la joie de vivre delle estati californiane, che si ritrovò invischiato in un qualcosa di innegabilmente più grande di sé. Il vento stava cambiando, ma solo uno dei ragazzi l’aveva capito. Come per lui stava diventando insopportabile rimanere incollato a uno stereotipo che gli stava stretto, così per gli altri – schiacciati dal suo ego artistico – era sempre più difficile sopportarne le velleità autoriarie e innovatrici. Passò un po’ di tempo, e la situazione si aggravò sempre più, finchè, un brutto giorno, il ragazzo fu costretto a mettere da parte il genio e a far posto alla routine. Il suo lascito artistico, costituito da una manciata di canzoni, fu dimenticato. Eppure, in quelle canzoni, il ragazzo aveva messo tutto quello che aveva: l’allegria, la passione per George Gershwin e per la musica popolare americana, la irrefrenabile fantasia, la dipendenza dall’L.S.D. vi avevano impresso un segno inconfondibile. Capita però, a volte, che ciò che si era dato per perso ritorni a galla; e che alla leggenda torni a mescolarsi la realtà per dare vita ad un composto armonioso dal sapore dolcissimo. Capite che, quando succede qualcosa del genere, le parole da spendere in preamboli sono poche e moltissime quelle da dedicare all’argomento vero e proprio. Non me ne vogliate, allora, se non vi spiego per filo e per segno di che sto parlando e mi butto subito sulla pietanza

principale – che pare decisamente gustosa -. Buon appetito! Le filastrocche di Brian Fin dalla liturgico-disneyana Our prayer avvertiamo che alla spensieratezza psi è sostituita una consapevolezza più completa, seppur ancora filtrata attraverso gli occhi di un eterno bambino quale Brian Wilson (il ragazzo di cui sopra). Il più grande “segreto” di Smile è proprio la realizzata alchimia tra prodigiosa consapevolezza e disarmante ingenuità. Le influenze succitate incominciano a farsi sentire in Heroes and villains, primo “lungometraggio” del disco. È con questo pezzo che si prende coscienza per la prima volta della bellezza di Smile: in particolare stupisce immediatamente la capacità di far coesistere all’interno di una canzone valanghe di motivetti e temi diversi, così da evitare monotonia e stucchevolezza e da favorire la sopresa continua dell’ascoltatore. Ovviamente, per farlo ci vuole inventiva: ma non è certo questa che manca al nostro Wilson, al tempo stesso munifico dispensatore di melodie e armonie vocali e di queste ultime sapiente burattinaio e orchestratore. Il modo in cui sono assemblati i pezzi può indurre a far parlare di pop sinfonico; ma poi si ascoltano Do you like worms, Look, Holidays – sia chiaro: avremmo potuto dire Vega-Tables, Wind chimes, Cabin Essence e il senso non sarebbe cambiato di una virgola – e si capisce che questa definizione – come quasi qualsiasi altra – al nostro Smile gli va stretta. La potremmo chiamare musica totale – dopo aver

opportunamente ripulito il termine da ogni intellettualismo appicicatogli addosso dalla critica -, perchè fa leva sui sentimenti più cari e comuni a tutti gli uomini: gioia, consapevolezza della propria miseria e al tempo stesso della propria grandezza. Eppure nemmeno così renderemmo giustizia a un disco che si permette di congedarsi dagli ascoltatori con quattro minuti (Good Vibrations) di pure emozioni distillate, di lacrime e di sorrisi. Ecco, forse solo così si può definire Smile: un pianto a dirotto che si stempera in una risata prima beffarda, poi amara, e infine tacitamente entusiasta, finalmente rassegnata alla vita. - samgah

RECENSIONI Songwriter/Avant-pop

MY BRIGHTEST DIAMOND All The Things Will Unwind [Asthmatic Kitty, 2011]

L’etichetta Asthmatic Kitty Records (la stessa di Sufjan Stevens), oltre ad avere un nome esilarante, non sta sbagliando un colpo. Questo ultimo lavoro ne è un’ulteriore conferma. In copertina c’è Shara Worden che, è il caso di dirlo, è considerata uno dei diamanti più brillanti della scena femminile alternativa negli USA. Lo stesso John Cale l’ha scelta per i concerti di tributo a Nico, attestandone le notevoli doti vocali. I suoi dischi precedenti, sotto lo pseudonimo My Brightest Diamond, hanno creato su di lei una grande aspettativa e adesso (tre anni e un figlio dopo) è uscito il suo nuovo lavoro. In We Added It Up, la prima traccia, ritroviamo echi piacevoli e ben dosati di Joanna Newsom, così come in There’s a rat, collocata verso la fine. In tutto il disco l’orchestrazione svolge un ruolo di primo piano contendendosi l’attenzione dell’ascoltatore con i toni cristallini e i virtuosismi, contenuti ma efficaci, della Worden. L’artista ha collaborato con un sestetto di musicisti

classici, yMusic Ensemble, realizzando anche un importante concerto al Lincon Center di New York. Particolarmente apprezzabile l’accoppiata Be Brave e She Does Not Brave The War. La prima diviene quasi un’auto-esortazione dell’artista: inutile dire che di coraggio in questo lavoro ne dimostra eccome. High Low Middle e il suo inaspettato vigore swing ne sono indubbiamente una prova. Per concludere la dolcissima I Never Loved Someone The Way I Love You, dedicata al figlio neonato (con tanto di cigolio di culla in sottofondo). E se questo è il genere di ninnananne che gli vengono cantate ogni sera, immagino che il piccolo non veda l’ora di andare a dormire. 7/8 - comyn Blues/Experimental Rock

TOM WAITS Bad As Me [Anti, 2011]

40 anni di onorata carriera, 20 album alle spalle, ma alla fine cosa è cambiato? Non la voce, logora e rugginosa come il suo ebbro padrone, non il fare ironico e un po’ confidenziale, tantomeno la voglia di stupire. Ecco

allora che, a 5 anni dal suo ultimo Orphans, Tom Waits si ripropone per l’ennesima volta in veste di vecchio ma instancabile cantastorie, sboccato come Bukowsky (Hell Broke Luce) eppure legato a doppio filo al suo lato più romantico e malinconico. Echi di Rain Dogs riaffiorano già nelle note della Chicago d’apertura, blues allucinato che si risolve ben presto in un marasma di fiati e voce, tanto simile all’allora opener Singapore che il riferimento pare d’obbligo. L’incedere malato della successiva Raised Right Man fuga ogni dubbio, inaugurando una serie di rauche ballate, ricche e sfaccettate come la sua carriera, che tessono le trame di un gioco fatto di rimandi e strizzate d’occhio. Solo in parte un esercizio di maniera, l’intero disco pare soprattutto un tentativo di rileggere l’intera produzione alla luce di una sensibilità ancora più matura. Waits esce regolarmente dagli stilemi tradizionali della forma canzone, per poi rifugiarvisi solo quando ne ha voglia: ballate blues come Get Lost o la fenomenale Bad As Me vanno sempre oltre le dodici battute tipiche del genere. L’ottima accoppiata finale, che passa con nonchalance dal cavernoso mantra di Hell Broke Luce alla languida e mesta New Year’s Eve, diventa sintesi dell’intero disco e dunque di tutta la carriera di Waits; una formula che va avanti dai tempi di Closing Time e che noi, se i risultati si mantengono su questi livelli, accettiamo di buon grado. 7 - zorba

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feedback - NOVEMBRE 2011 Easy-Electro-Pop

APPARAT The Devil’s Walk [Mute, 2011]

Ottavo album per Sacha Ring, al secolo Apparat, che ispirandosi al poema di Shelley ritorna, 4 anni dopo Walls, a completare la sua trasformazione musicale. Lo aveva detto chiaro e tondo un po’ di tempo fa quando i giornalisti gli avevano chiesto cosa stesse cambiando nei suoi dischi (“more interested in designing sounds than beats”) e lo ripete a gran voce con questo lavoro che conferma le nuove tendenze sonore e riesce, se possibile, a rendere ancora più noioso e melenso il grande talento del dj berlinese. Dj che mai come adesso ha perso questo appellativo: nessun elemento da dancefloor, beat scarsissimi ed un uso smodato della voce, come se a suonare fosse una band al completo, che rende interminabile la camminata del diavolo avvicinandola sempre di più alla camminata di un anziano in un giardino. Spesso sembra di ascoltare un cantautore melanconico e cupo che con la sua chitarra registra pezzi in solitudine, ma la magia svanisce proprio perché non è questo che ci si aspetta da uno come Apparat. In molti grideranno al capolavoro introspettivo e viscerale dell’artista tedesco, al disco della maturità artistica e sonora; rimane un mosciosissimo tentativo di seguire la moda electrowriting del momento che regala poche soddisfazioni e grande sonnolenza. Non necessario. 5 -w Industrial-Metal/Psychedelic/Noise

MoRkObOt Morbo [Supernatural Cat, 2011]

Dopo la conclusione della prima trilogia composta da Morkobot, Mostro e Morto, continua la saga del dominatore alieno che fa risuonare la sua voce sulla Terra attraverso i messaggeri Lin, Lan e Len. Morbo riempie ogni anfratto di silenzio insinuandosi proprio come una malattia, occupando un imprecisato genere postmetal con influenze noisecore e psichedeliche. Terzo album prodotto dalla Supernatural Cat, raccoglie fedelmente la tradizione strumentale e visionaria già avviata dai colleghi Ufomammut e OvO. I Morkobot fanno trasparire movimenti meccanici, innaturali, quasi disumani; pare di seguire il funzionamento di un macchinario da fonderia. Due bassi secchi e violenti si intrecciano su una batteria pneumatica a formare sette tracce furenti e impastate, che impazzano come tempeste magnetiche nelle orecchie. Similmente a quanto accade per i compatrioti Dead Elephant, i bombardamenti noise e industrial si fanno sentire come grossi chicchi di grandine e il poco cantato presente (ad esempio nella migliore Oktomorb) rassomiglia più a dei latrati sporchi e fatalistici. Altre tracce degne di nota sono l’introduttiva e altalenante Ultramorth, l’estenuante Orkotomb (dal ritmo davvero non dissimile a una qualsiasi traccia di Carboniferous degli Zu, salvo l’assenza di uno strumento jazzeggiante come il sassofono), gli spiragli elettronici di Orbothord e la fulminea Oktrombo (sempre per la serie “titoli facili da ricordare”!). Nel complesso comunque una prova

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solida e di valore, ma che non aggiunge nulla di nuovo a quanto fatto in precedenza né a quanto già in circolazione negli ultimi tempi. 7 -fp Jazz Standards

NEW YORK STANDARDS QUARTET Unstandard [Challenge Records, 2011]

Sfogliando le uscite di jazz degli ultimi mesi mi sono imbattuto in questo dischetto curioso e me ne sono innamorato subito. Sarà stata la copertina “metropolitana” e novembrina oltre misura, o la programmatica antitesi contenuta nel nome stesso dell’opera. Difficile dirlo: in ogni caso, ne è valsa la pena. Trattasi – nel caso non si fosse capito – quasi interamente di standards; fanno eccezione i tre Polka Beamlets, fugaci assoli di piano (peraltro riuscitissimi) disposti lungo un po’ tutto il corso dell’opera. A detta dei membri, infatti, il quartetto “si sforza di sviluppare un linguaggio proprio nel solco della tradizione del repertorio standard”, ed è più o meno questa l’idea portata avanti – in modo frizzante ed esplosivo, ma controllato - per tutta la durata del disco, fino alle ultime battute. Se i quattro riescono ad attuarla (anche se a fasi alterne) il merito va soprattutto al pianismo esorbitante, swingato fino allo spasimo e perennemente sopra le righe dell’occhialuto Pete Berkman, vero motore dei pezzi lenti come di quelli veloci (ma degni di menzione sono anche il saxtenore Tim Armacost e il batterista Gene Jackson). Mantenendo un livello qualitativo sempre alto, con qualche lieve caduta di stile (They ballet girls stirs), il disco riesce a conquistarsi l’attenzione dell’ascoltatore per tutta la sua durata, raggiungendo forse l’apice in How high the moon e nelle centrali Lunar e Interplay. Unico appunto: rimane, alla fine del disco (specie dopo aver ascoltato la Summer Night ipercinetica che lo suggella), la voglia di sentire il talentuoso quartetto suonare composizioni proprie. Nell’attesa, enfatico pollice all’insù. 7 - samgah Alt-Rock/Electro-Pop

DAVID LYNCH Crazy Clown Time [Play It Again Sam, 2011]

Intorno a me il niente, lo schermo del computer davanti con il grande faccione di David Lynch che mi guarda mentre nelle cuffie gira il suo primo disco da solista, piglia malissimo. Sono combattuto fin dalla prima traccia, l’effetto straniante e ripetitivo di queste ballate blues mi disorienta; Crazy Clown Time mi piace perchè è lynchiano o semplicemente perchè è buona musica? Entrambe. Intanto fra le 15 tracce costruite dal regista americano molte sembrano veramente risultare, dopo qualche ascolto, estremamente interessanti per struttura e sonorità; inoltre su tutto il disco aleggia una nube di stranezza e surrealismo, che sono il marchio di fabbrica di uno dei maestri del genere. La voce di Lynch è quasi sempre trasformata dai più svariati effetti, tutti i suoni sono ovattati e incupiti sia nelle

tracce più elettroniche che in quelle di puro rock cantautorale, in sottofondo rumori strani, deliri psichedelici e testi criptici e complicati. Se da una parte si recepisce il vero ego musicale dell’artista, dall’altra appare chiaro come alcune tracce siano state costruite senza una logica e mescolate alle altre senza amalgamarsi: la visione distorta e malata della realtà che mi aveva rapito svanisce. Alla lunga mi sembra quasi di annoiarmi, perché la base di alcune canzoni è molto simile e perché le lente e deliranti parole non hanno più lo stesso effetto. La mia immaginazione si ferma ma nello stesso momento riesco a capire: tutto questo è David Lynch. 6/7 -w Folk/Acoustic

GIORNATA MIRAI Allusioni [Niegazowana - La Tempesta, 2011]

In attesa del terzo album de Il Teatro degli Orrori e di una collaborazione con l’ex-Ritmo Tribale Edda (entrambi previsti per l’inizio del prossimo anno), Gionata Mirai prova a sorprendere tutti con un disco strumentale di sola chitarra dodici corde. Accantonato il suo terreno privilegiato, il leader dei Super Elastic Bubble Plastic non abbandona tuttavia, a suo dire, l’attitudine hardcore. Si tratta infatti un disco secco e incisivo, composto da un unico tema musicale di circa ventiquattro minuti suddiviso in cinque Allusioni, che fungono sia da riflessioni nate a partire dal disastro giapponese di Fukushima, sia da stimolo per le sensazioni dell’ascoltatore. La tecnica è abbastanza semplice e non presenta nulla di rilevante, ciononostante il fingerpicking potenzia fortemente l’intensità degli arpeggi melodici, ipnoticamente malinconici e ammalianti. L’impressione generale è quella di un’espressività fortemente intimista, corredata dalla frase sulla copertina dell’album che rimanda a questioni esistenziali riguardo le scelte di cui ognuno deve farsi carico nel corso della propria vita. Una seducente cavalcata introspettiva quindi, particolarmente felice nelle Allusioni #2, #4 e #5, che si richiama alla tradizione della chitarra acustica folk-blues liberandosi dal giogo dell’elettricità. A testa bassa e senza voler strafare, questa piccola opera prima colpisce dritta nel segno e (si) regala un piccolo istante di eternità. 7 - fp Electro/French-Pop

JUSTICE Audio, Video, Disco [Ed Banger, 2011]

Era il lontano 2007 quando un duo parigino di nome Justice entrava prepotentemente n e l l ’ O l i m p o dell’elettronica con un album intitolato semplicemente †. Una croce che li lanciò nella scena del “french-touch”, alla pari dei cugini Daft Punk che tuttora fanno impazzire i dancefloor. Ebbene, nel 2011 Xavier de Rosnay e Gaspard Augè si reinventano, a distanza di quattro anni, cambiando completamente rotta, passando dai bassi pronunciati e dai ritmi dance a toni molto più progressive e, oserei dire, rock, con influenze


anni ‘70 (vedi Led Zeppelin o Yes). Ora non vorrei fare di tutta l’erba un fascio, ma in Civilization ritroviamo sempre quel tocco di elettronica che contraddistingue il gruppo, mentre in New Lands notiamo il cambiamento attraverso suoni synth anni ‘80 e rockeggianti. In Ohio invece troviamo un giusto mix tra il vecchio ed il nuovo corso: elementi di chitarra elettrica mescolati sapientemente a tratti di electro-pop ritmati a dovere. Come ascolto non è difficile ma, scorrendo le tracce, ci rendiamo conto che manca quel nonsocché che possa trasformare il brano in un’ esplosione di bassi da saltare in aria appena lo ascolti. In generale questo nuovo album potrebbe spaventare per la radicale virata del sound strumentale, specialmente chi, come me, si aspettava sì un ritorno, ma non così stravolgente. Sicuramente è un’ottima base di partenza per un futuro, base che, forse, si allontanerà dalle discoteche. 6 - king of arca Experimental/Ambient

ONEOHTRIX POINT NEVER Replica [Mexican Summer/Software, 2011]

Sbriciolare per ricostruire, distruggere per ricomporre, Daniel Lopatin ad orchestrare e la bomba musicale di Novembre è servita. Dopo soltanto un anno da Returnal (uno dei migliori dischi del 2010) e pochi mesi dalla collaborazione con Joel Ford che è sfociata in Channel Pressure, il produttore musicista di Brooklyn torna sulla scena con un’opera che egli stesso definisce “electronic sound cycle”, ovvero 10 tracce e 40 minuti di suoni ricavati da campionamenti televisivi e compilation spezzettate e riassemblate. Mai così sereno e rilassato, OPN lascia da parte i pesanti droni e i paesaggi bui e cupi che lo avevano accompagnato fino ad adesso non per rifugiarsi in un synth-pop spensierato, bensì per rinchiudere tutti i fantasmi dentro le mura della normalità. Ciò che viene descritto non è più l’infinità e la distruzione sonora, ma la pesante ripetitività delle giornate che mettono a nudo l’uomo. Così, sopra un sottofondo ambient ricolmo di pianoforti e graffi noise, le voci filtrate e loppate all’inverosimile diventano uno strumento di narrazione. La più grande lezione che si può apprendere è l’importanza della musica come suono e non come nostalgia di vecchie pubblicità televisive o spezzoni di film. Troppo semplice definirlo ambient, si tocca spesso l’avanguardia e la decostruzione sonora e, per quanto sia evidente la mole di lavoro che c’è dietro il suono di un laptop, le tracce appaiono magnifiche e prive di manipolazione. 7/8 -w Songwriter

JORANE Une Sorcière Comme Les Autres

[Vega Musique, 2011]

Jorane è una violoncellista canadese innamorata del Leonad Cohen degli inizi. Scoperte le carte fin dall’inizio, sono certa che quasi tutti avranno smesso di leggere alla parola “violoncellista”,

oppure dopo “Cohen”. Se non altro posso compiacermi dei pochi, più realisticamente pochissimi, che hanno accolto la prima frase con curiosità o addirittura con entusiasmo. Senza dubbio nei suoi quasi dieci anni di carriera Jorane non ha tentato in nessun modo di conquistarsi il favore del grande pubblico, riuscendo a mantenere inalterato il suo fascino da artista underrated per palati raffinati. Nel suo ultimo lavoro il violoncello non è più protagonista assoluto ma divide la scena con una grande varietà di strumenti, classici e non, risultando sempre molto efficace. In Pedant Que Les Champs Brulen e Le Basier, dove prevale la componente rock, gli archi sono relegati al controcanto e tuttavia non abbandonano mai la scena. L’insolita Marilyn et John offre invece uno sguardo sulla poetica di Jorane, acuta e mai banale, sempre all’insegna del preziosismo. Più propriamente classica invece Départ con la sua gravosità e le tinte drammatiche. L’artista si cimenta nell’ardua impresa di riplasmare la celebre Suzanne, restituendo una versione che ha perso la leggerezza dell’originale per acquisire una carica di drammaticità del tutto inedita. La copertina è un omaggio al conterraneo Cohen e al suo famoso Greatest Hits. Il timbro angelico di Jorane, che non indugia mai su toni troppo alti, si colloca in piena continuità con la tradizione immortale delle chanteuse francesi di cui è degna erede. 6/7 - comyn Post-rock/Italia

ULTIMO ATTUALE CORPO SONORO Io Ricordo Con Rabbia [Manzanilla, 2011]

Con la loro opera precedente Memorie e violenze di Sant’Isabella, avevano stregato tutti attraverso una miscela che univa la militanza dei CCCP con l’enfasi e le atmosfere degli Offlaga Disco Pax e con la poesia dei Massimo Volume. Sono la voce fuori dal coro, sono degli intellettuali liberi da vincoli. Empirismo Eretico, tratta da quest’album, è una delle perle più lucenti delle ultime stagioni musicali italiane, storia della morte di Pasolini che può (e deve) essere affiancata a quella storia sbagliata di genovese memoria, con la sua immortale invocazione: “Io so ma non ho le prove”. Tornano ora con Io Ricordo con Rabbia, perfetta sintesi di quello che è il suono da cui il gruppo si plasma: il suggestivo ed epico muro sonoro che tanto deve ai Godspeed You! Black Emperor, ritmiche incalzanti e improvvise deflagrazioni chitarristiche. Ma il valore in più a questo disco viene dato dalle liriche di Gianmarco Mercati, declamate con ferocia e lirica dolcezza, rabbiose e allo stesso tempo violentemente impotenti. I testi si snodano su fatti di cronaca italiana, lucidamente insabbiati negli anni: si parla della strage di Ustica e dell’omicidio del giornalista Giancarlo Siani, foto in cui emergono la piccolezza dell’individuo in una società che tratta gli uomini come scacchi quando c’è qualcosa di scomodo da sotterrare. Così Flight Data Recorder ricorda le 81 vittime di Ustica senza colpevole, Tessera P2# 1816 parla di uomini politici di freschissima memoria, con una scrittura che unisce i numi tutelari letterari del gruppo: Pier Paolo Pasolini per la critica della società, F.G. Lorca e Arthur Rimbaud per la struttura. Disco di devastante impatto emotivo che si impone come miglior uscita italiana di questo 2011. 8 - matmo

feedback - NOVEMBRE 2011

Soul/Soft Dub

JAMES BLAKE Enough Tunder [Polydor, 2011]

In Enough Tunder James Blake rinuncia in parte alla componente dubstep, così trasversale nel tanto lodato esordio omonimo, per dare sfogo alla sua vena soul e, con essa, ai suoi tormentuosi pensieri. Più cantautore che dj, il nostro stacca le mani da laptop e campionatori vari per posarle sui tasti del pianoforte a coda, ormai onnipresente nelle sue composizioni, cedendo alla tentazione solo in We Might Feel Unsound e nella parte conclusiva di Not Long Now, gli episodi che più si avvicinano alle sonorità di James Blake (2011) e, non a caso, i più riusciti dell’EP: nella prima Blake stende i suoi malinconici gorgheggi su un tappeto ritmico tanto soffuso quanto esagitato, nella seconda la voce esitante scivola gradualmente in un’atmosfera vagamente sinistra, con bassi potenti e pattern ritmici a farla da padrone. A parte i già citati, però, si fatica a trovare episodi che giustifichino l’hype. Anche la collaborazione con Bon Iver in Fall Creek Boys Choir, tanto promettente sulla carta, si rivela più che una mezza delusione: singhiozzante e sconclusionata, con i due che ululano frasi sconnesse affidandosi all’immancabile auto-tune e rischiando quasi di diventare la parodia di se stessi. Un passo falso, questo, che rovina in parte l’esperienza, lasciando un po’ di amaro in bocca nonostante le discrete Once We All Agree e Enough Tunder, oltre alla bella cover A Case Of You (Joni Mitchell). Non del tutto convinti aspettiamo la prossima uscita, in attesa un lavoro che ci consegni un James Blake finalmente maturo. 6 - zorba Sciamanic/Tribal/Techno

PINCH & SHACKLETON Pinch & Shackleton [Polydor, 2011]

Shackleton è tornato e stavolta accompagnato. Dopo l’esplosivo e potente mix Fabric (recensito su queste pagine), e il magnifico album Three EP’s, il caro Sam ritorna con un nuovo disco. Ad accompagnarlo c’è Pinch, anche lui guru della musica elettronica con tanti 12” alle spalle. Shackleton si conferma con questo disco uno dei migliori musicisti elettronici in circolazione. Pinch & Shackleton è più Shackleton che Pinch; sono di Sam i suoni delle basi, i battiti tribali, le voci sciamaniche che ci invitano a partecipare a questo rito. Sì, perché di rito si tratta, e il modo migliore per entrarvi è partire dalla traccia più visionaria e potente, dal programmatico titolo Levitation, che non poteva essere più azzeccato. Si tratta infatti di un viaggio, un viaggio verso il cielo, verso le stelle, un’ascesa implacabile a cui non è possibile opporsi. E così la voce dell’angelo ti chiama dall’alto e ti porta a sé, i battiti di base da tribù indigena preparano la danza, il basso portentoso, esistente a tratti, fa il resto. Cracks in the pleasuredome segue lo stesso canovaccio, con lo skyline ritmico accompagnato però da suoni più terreni e con atmosfere più vicine al sound di Pinch, leggermente psichedeliche. Dopo l’ascesa ci troviamo in cielo con le due

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feedback - NOVEMBRE 2011 ultime tracce, l’esperienza mistica è compiuta, è compiuto l’Unico. Monks in the room si apre con delle campane tibetane, seguite poi da percussioni più o meno primitive e suoni al confine tra clangori metallici e fragori celestiali. Non c’è più divisione tra cuore, cervello e musica, la meta è raggiunta e siamo sospesi tra terreno ed ultraterreno. “Come tutto è sospeso, vedo nello spirito. Come tutto è portato, intendo nello spirito.” 8/9 - matmo Indiepop Piacione

COLDPLAY Mylo Xyloto [Parlophone, 2011]

Il nuovo disco della famosa band americana sarebbe davvero una ventata d’aria fresca (nonostante al momento sia già abbastanza freddo) se si decidesse di non tenere in considerazione tutta la produzione precedente del quartetto londinese. Infatti Mylo Xyloto è del tutto simile agli album antecedenti per atmosfere ed accompagnamenti musicali, in esso l’abuso di coretti si alterna a sviolinate ormai trite e ritrite che non fanno che sottolineare la falsa, apparente novità di questa nuova uscita. Di innovativo sembra esserci soltanto il titolo, che in ogni caso a detta dei componenti del gruppo è privo di significato, come privi di significato sono i testi che all’ascolto sembrano avere semplicemente una funzione di superficiale coinvolgimento. A tracce degne di nota come Hurts Like Heaven, Don’t Let Her Breack Your Heart o Up With The Birds si alternano a pezzi che non hanno ragion d’essere se non per riempire quella quindicina di tracce che vengono spesso imposte convenzionalmente come limite per l’uscita di un disco. In questo popo di atmosfera indiepop si colloca Princess Of China, canzone in collaborazione con Rihanna che se non altro si discosta dal resto dell’album per quanto riguarda il ritmo, nonostante l’accostamento tra la cantante barbadiana e la band britannica non sia esattamente vincente. 6 - zuma Indiepop Piacione

CROOKERS Dr. Gonzo [Parlophone, 2011]

La loro storia sembra un film, sono in due, Phra (Francesco Barbaglia) e Bot (Andrea Fratangelo). Si conoscono dieci anni fa nel negozio di dischi del primo, dove il secondo va a rifornirsi. Si frequentano, si consigliano, nascono i Crookers. Iniziano la gavetta nello stivale ed esce Mixtape dove è il loro background rap a farla da padrone (citazione d’obbligo per Nchlinez con un meraviglioso Dargen D’Amico). Si iniziano a muovere le acque all’estero, escono remix per grandi nomi (Chemical Brothers, una versione metal/daftpunkiana degli AC/DC, Lady Gaga), e i Crookers iniziano a salire gli scalini del mondo della musica elettronica. L’anno scorso è uscito Tons Of Friends, bignami crookersiano, disco dance con influenze smaccatamente pop, soprattutto nelle ospitate, ovviamente grandissimo successo. Phra e Bot non giocavano più in casa come nel primo Mixtape, ma nel mondo: umili

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e contemporaneamente fuoriclasse. Ed eccoci a Dr. Gonzo, registrato e montato nel giro di un anno, ultimato in Svizzera per l’etichetta di un certo Fatboy Slim. I due sviscerano la loro anima più sotterranea, tornano ai suoni degli inizi: posthouse, al confine con il mondo hip hop, mash-up di tribalismi ossessivi e dubstep. Anche qui Phra e Bot non sono soli, ma quello che esce è puro Crookers sound. L’iniziale Dushi, voce decostruita, beats schizzati, hip hop, techno, trance; Wake App, fanfara di trombe, fidget house, fornace di voci e beats massacranti; Dr. Gonzo Anthem, l’ariete del disco, percussioni, voci e un riff da kolossal. Humus con Hudson Mohawke è un pezzo techno del 4000, cassa omicida in 4/4, synth anni ‘90 e tanta classe. Dr. Gonzo è kitsch al massimo, è salti e sorrisi, è un lunghissimo ritorno all’underground. 7 - matmo

punto non è proprio possibile, e non puoi fare a meno di mistificarla. È una mistificazione che è fortunatamente solo privata, e quindi tollerabile. Questa è la grande distanza di YL con la sociologia descrittiva all’acqua di rose, per esempio, dei Cani. Questo ragazzo Trevor potrebbe essere uno dei Cani: è un indie rocker alla moda, è un hipster. Però è un hipster americano, e quindi non si accoda alla moda ma ne è parte integrante, e ha addosso migliaia di chilometri di concerti, e questi sono vantaggi. La sua operazione in The Year of Hibernation è semplice e quasi sempre banale, ma è fatta con talmente tanto cuore che non solo funziona, ma strafunziona. Condoniamo il fatto che questo disco chiaramente non è epocale Alt-Rock né un capolavoro, che il limite principale è che A CLASSIC EDUCATION Call It più o meno tutti i pezzi assecondano lo stesso andamento: belle melodie reiterate, crescendo Blazing che si fanno sempre più cantabili, drum machine, [Tannen Recors/Lefse Records/La Tempesta Inter., 2011] forzature metriche, eccetera. Ma il lui-cantante fa qualche passo indietro, come se si rifugiasse Che cosa significa in un’altra stanza per imprestare al mondo le quella scritta, B.R.M.C? proprie confessioni. Chiaramente è un dispositivo Bande di Ribelli Motociclisti di protezione che tanti (da che mondo è mondo, Contro chi vi ribellate? soprattutto dagli anni ottanta) utilizzano, e da Contro di voi! qualche anno più che mai, ma lui lo fa con un timbro così fragile, consonante, che ti fa davvero Johnny Strabler venir voglia di conoscere e accettare i suoi fantasmi. (da The Wild One) Consorziamoci, aiutiamolo. 1953-1963: le undici stagioni di Happy Days 7 raccontano di figli che tornano a casa entro il -manfo coprifuoco, di hula hoop, juke-box e tavoli di Bleeding Rock Opera un diner. Eppure appena fuori dalle staccionate bianche c’è un’altra America, quella dei rebels LOU REED & METALLICA Lulu without a cause, delle bande di motociclisti [Mercury, 2011] prima di Easy Rider. In un film del 1953, The Wild A volte una copertina vale One di Benedek, a un certo punto il motociclista più di mille recensioni. E Johnny Strabler, un indimenticabile Marlon infatti Lulu, hyperdiscussa Brando, entra in un locale, chiede una birra e collaborazione tra il accende il juke-box - nessuna meraviglia se vecchio Lou Reed e i non partisse Baby it’s fine, se Johnny si trasformasse in più giovani Metallica, sta Jonathan Clancy: questa è l’America raccontata tutto li. In quella frettolosa in Call it Blazing – e la copertina di Lyon con la scritta insanguinata, in Chicago Outlaw Motorcycle Club ne è conferma. quel manichino violentato Call it Blazing è il primo vero album dei bolognesi e mutilato, nello sguardo inespressivo e perplesso A Classic Education: 12 tracce quasi perfette, che di Lulu, come se queste 10 tracce non abbiano ripescano alcuni precedenti lavori della band come convinto del tutto nemmeno lei. È un disco violento, Gone to sea o I Lost Time e li uniscono alla bellezza un crudo, in cui la voce di Reed narra con maestria po’ sporca di canzoni come Forever Boy o Grave Bird, storie di stupri, di suppliche ed implorazioni (“Oh per un risultato di omogeneità e di immediatezza Jack I beseech you!” urla in Pumping Blood), di evocativa, dal sound vagamente vintage, grazie sangue che scorre, di quella femme fatale nata dalla anche alla registrazione tra i Rear House, lo studio penna di Frank Wedekind all’inizio del secolo scorso. di Jarvis Taveniere, e Philadelphia (Night Owl). Non tutto funziona come dovrebbe e la visione Call it Blazing è nostalgia in giacca di pelle e t-shirt, è d’insieme mostra pezzi che non sempre un coast-to-coast su highway americane, è il vento combaciano, dando vita ad un puzzle dai contorni che soffia sulle lunghissime spiagge californiane: è non molto definiti; Brandeburg Gate (che dopo tutto quello di cui avete bisogno per ricordarvi di nemmeno un minuto dall’inzio dell’album ti un passato eroico e impossibile - e molto, molto di scaraventa un muro di pietre in faccia), Pumping più. Blood e Iced Honey sono forse tra i pezzi più 8 riusciti. Meno convincenti brani come The View - mars (in cui si sente una maggiore influenza dei Bedroom Pop Metallica e in cui Hetfield si prende la libertà di tirare due berci qua e là), Little Dog e Junior Dad, YOUTH LAGOON The Year Of un’incomprensibile agonia di quasi 20 minuti, in cui Hibernation gli archi sono presi in ostaggio da Reed e obbligati [Fat Possum, 2011] a riempire gli ultimi megabyte disponibili sul disco. Trevor Powers, detto Youth Lagoon, è un Spesso e volentieri il talking di Reed non si fonde ventenne americano imparanoiato un po’ bieco a pieno con il lavoro della backing band, che in nell’assecondare sentimenti che già ci sono. Quelli questo caso resta realmente dietro, lontana dalla più vicini ai vent’anni li stanno vivendo sulla pelle, voce narrante e evitando il contatto con essa. quelli prossimi ai trenta li hanno conosciuti da Apprezzabile, ma non esaltante. Certamente non vicino: adolescenza che non ti scrolli di dosso. Forse per colpa di Lou. Forse Hetfield e soci non erano i più avanti, quando uno comincerà a rompersi di più adatti a fare il “lavoro sporco”. Peccato. 6 tutto, riuscirà a dimenticarla, ma fino a un certo - fragor


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ROVISTANDO IN SOFFITTA Shoegazing

Alternative Rock

MY BLOODY VALENTINE Loveless

NINE INCH NAILS The Downward

[Creation, 1991]

Spiral/The Fragile

Noise-Rap

DÄLEK Negro Necro Nekros [Gern Blandsten, 1998]

[Interscoper, 1994-1999]

Pochi sono gli album musicali che possono vantare di aver lasciato una traccia indelebile nella storia. Loveless è sicuramente uno di questi. Questo è il disco della deframmentazione, del frastuono, del dolce rumore che tutto assorbe e tutto distrugge, il disco del passato, del futuro, e del presente, la pietra angolare degli anni novanta, la rinnovata concezione del fare musica. Due anni di registrazioni, 250’000 dollari di spesa (la Creation andò quasi in bancarotta) ed una trentina di tecnici del suono assolutamente inutili erano le premesse che 20 anni fa portarono all’uscita del secondo lavoro dei My Bloody Valentine. Il genio di Kevin Shields sopra tutti, a guardare dall’alto i poveri mortali che non avevano ancora capito niente di post-rock ed a bacchettarli con l’aria di chi sapeva di aver creato qualcosa di grandioso. Riduttivo chiamarlo shoegaze (“Fissascarpe”, per l’abitudine della band di guardare sempre in basso durante i live) proprio perché sarebbe offensivo rinchiudere un lavoro di così grande portata in un solo genere, i 50 minuti di Loveless sono un viaggio senza destinazione, sono la rivincita del rumore che ingoia tutti gli strumenti per poi rivomitarli in un mix infernale e celestiale. Molti dei suoni e delle voci che si sentono sono stati ottenuti dai componenti della band grazie ad un sacco di tecniche che esclusero l’utilizzo dei pedali e di effetti vocali (su Wikipedia si possono leggere aneddoti estremamente interessanti) perché Kevin Shields voleva un approccio diretto con il rumore. Ogni traccia è connessa alle altre per ricreare un effetto di flusso musicale che mai come in questo disco riesce a trascinare e annebbiare la mente umana; il sottofondo ipnotico delle chitarre distorte all’inverosimile si scontra con la gentilezza eterea delle voci che scandiscono parole incomprensibili per via del rumore. So che le mie sconclusionate parole lasciano il tempo che trovano e che ognuno vede e sente le cose a suo modo, quindi vi do un consiglio: sdraiatevi sul letto con le cuffie negli orecchi, alzate il volume al massimo e fate partire Loveless. Ascoltatelo tutto di fila, senza fermarsi, senza pensare ad altro, senza mai aprire gli occhi: se ne uscirete vivi riuscirete sicuramente a capire quello che intendo e ascolterete musica con un orecchio differente. -w

Si narra che questo disco sia stato registrato a Beverly Hills nella villa in cui venne massacrata Sharon Tate da Manson & Co. Come inizio non è assolutamente male: chi ben comincia è a metà dell’opera. Il disco esce un mese dopo il suicidio di Kurt Cobain. E, neanche a farlo apposta, troviamo all’avvio della prima traccia Mr. Self Destruct - buon biglietto da visita di Trent Reznor - dove si presentano campionature di manganellate e gemiti di dolore (chicca per i fan: per caso sono riuscito a capire da dove deriva quella campionatura, ovvero dal film L’uomo che fuggì dal futuro, che è la perfetta riproposizione filmica di 1984 di George Orwell). I toni si placano in Piggy, dai richiami erotici e misogini, che fa da contrappeso a Closer, il cui ritornello risuona popolare e accattivante: “I wanna fuck you like an animal!”. Con Heresy entriamo nel misunderstanding americano e molto “adolescente-incazzatoco n - n u l l a - d a - p e rd e re - p e rc h é - f a - f i co” del motto nicciano “Dio è morto”, il tutto condito di chitarroni e vocioni urlanti. Altra incomprensione è The Becoming ripreso dal detto “divieni ciò che sei”. Il nostro Trent non ne azzecca una, strilla, spara fuori campionature di macchine industriali (base di Reptile: le donne non devono aver giovato al nostro amato cantautore), propone urla di sottofondo che accompagnano sospiri di rassegnazione di fronte al riposo del suicidio (The Downward Spiral). Il disco è veramente un cammino nell’abisso, una riproposizione di cantautorato industrial curato e prodotto nei minimi dettagli in cui si mescolano Ministry e attitudine dei Nirvana. Lo spirito industrial maturerà con il monumentale The Fragile (1999), un doppio cd pensato come recorded tape i cui singoli spopoleranno su Mtv, ma la spirale verso il basso è l’inizio di un’epopea in frantumi, disillusa, che dà avvio alla storia dei figli dimentichi dei padri. Sicuramente è un’opera sentita (forse un po’ troppo) dal suo protagonista: onnipesenti sono il nichilismo, l’annientamento e il superomismo; l’attacco alla società, al potere; la misoginia, la misantropia più spinta, la perversione più assoluta . È un disco questo datato ma completo, che definisce gli anni ’90 sprigionando un senso di inadeguatezza e novità compositiva che fungeranno da capisaldi per l’ambiente dell’epoca. Trent Reznor in questo suo eclettismo gigioneggia e diventa una sorta di Carmelo Bene da movimento proletario di industria metallurgica. Fa sorridere la rabbia dei NIN; fa storcere il naso il loro cattivo gusto di certi motivi musicali, fa alzare gli occhi il continuo giramento di palle nei testi di Trent Reznor, ma d’altronde è stato un disco che ha, se non segnato, confermato e fotografato un periodo in continuità col grunge. Se c’è stato Smells Like Teen Spirits nel 1991 a ritrarre la giovane America di Seattle, c’è anche stato Closer nel 1994 a ritrarre il profilo dei precari repressi della provincia americana. - gorot

La storia dei Dälek nasce nel 1998 a Newark, in New Jersey. I componenti sono due omoni di colore, Will Brooks aka Dalek MC e Alap Momin in arte The Oktopus, rispettivamente alle basi e alla voce. I due afro-americani però non vengono dalla strada che ha lanciato Public Enemy ma da una situazione tutto sommato tranquilla. Will ha problemi con la linea, ma il suo problema più grosso è con il mondo intero. Con orgoglio gira per Newark, scrivendo rime e ascoltando musica. Musica che non presenta il background classico per un rapper vista la sua passione folle per i My Bloody Valentine e l’industrial. Il nostro si divora anche Public Enemy e Tackhead. Nel 1998 i due decidono di scaraventare in faccia al mondo i loro malesseri tramite la Gern Blandsten con il loro primo lavoro, Negro Necro Nekros. L’impatto è violentissimo. È veramente difficile capire cosa ci troviamo di fronte. È difficile capire se è un disco hip hop o se ci troviamo in incubo che unisce gli Einstuerzende Neubauten e lo shoegaze più trapana-orecchie. Tra il 1997 ed il 1998 ancora si tremava per quel “Funcrusher Plus” che riportò in auge il minimalismo del vecchio hip hop, per proiettarlo in un futuro nel quale un’esplosione di correnti sperimentali cambiò con decisione i suoi connotati. Anche la struttura è atipica per un disco del genere. Cinque sole tracce, due che superano i dieci minuti e una di sette. Ci troviamo in un vortice spaventoso, colpiti da scudisciate da ogni parte, senza riuscire a capire chi e cosa ci sta colpendo. Scossi da suoni che provengono da galassie diverse: Old School, travisando Faust, Velvet Underground, giungendo al minimalismo di Terry Riley. Una rivolta contro la forma canzone tipica del Rap, un viaggio impazzito verso altri lidi. Ed è manifesto di queste idee “Praise Be The Man”, in cui un sospiro di John Lennon è sommerso da un turbinio di rumori e campionamenti decostruiti per circa dieci minuti di puro noise, spoken-word e musica indiana scomposta, finché ciò che pensavamo fosse hip-hop arriva a perdere tutti i suoi stilemi. Musica indiana che ci trascina nuovamente in “Three Rocks Blessed”, che parte come il più classico dei beat per sbocciare in una lunga digressione di sitar. Passiamo poi tra le batterie metalliche e frastornanti di “Swollen Tongue Nums”, i samples orchestrali di “Image Of 44 Casings”, fino al jazz sporco e stanco di “The Untravelled Road”. Il suono dei Dälek mette a nudo la realtà violenta del nostro mondo, la lotta nella vita di tutti i giorni e la violenza senza compromessi. E le loro parole sono pesanti come macigni. - matmo 7


feedback - NOVEMBRE 2011

DEEP INSIDE

Udire l’inudibile

Karlheinz Stockhausen

Voler parlare di Stockhausen è una sfida impegnativa, per lo spessore dell’uomo, per la mole delle sue composizioni, per il suo modo di pensare e di vivere la vita. In questo periodo ricorre l’anniversario della sua morte e, affrontando un aspetto della sua musica, vogliamo ricordarlo. Karlheinz ci ha lasciato sul finire del 2007, quattro anni fa, all’età di 79 anni. La sua lunga parabola artistica si muove dall’inizio degli anni ‘50 fino alla morte. Nel periodo in cui Karlheinz inizia a comporre, la musica elettronica e quella concreta provocano uno squarcio tra la musica tradizionale e la musica d’avanguardia, squarcio che resta ancora oggi non del tutto rimarginato. La spaccatura della musica tradizionale con quella contemporanea era molto profonda; Stockhausen seguiva le lezioni, a Parigi, di Oliver Messiaen dedicandosi alla musica seriale a alla musica puntuale. Infatti fu tra i primi ad intuire le grandi potenzialità delle nuove tecnologie, delle nuove scoperte sul suono; tra 1959 e 1960 compone Kontakte - nelle due versioni per nastro magnetico solo o con percussioni e pianoforte -, nella quale riesce a trasformare i semplici suoni elettronici iniziali, non dotati di grande respiro, in materiali musicali di grande importanza e forza espressiva. Dirà lui stesso riguardo la sua composizione “In the preparatory work for my composition Kontakte, I found, for the first time, ways to bring all properties under a single control”. Negli anni ‘60 invece sarà tra i primi a sperimentare i live electronics, facendo convivere strumenti tradizionali ed elettronici: opera fondamentale Mikrophonie I per tamtam, due microfoni, due filtri e regia del suono, nella quale il microfono si trasforma in un microscopio, pronto a seguire ogni minima variazione di timbro del tamtam. Pian piano inizia a concepire gli strumenti elettronici non in contrapposizione a quelli classici, ma come degli strumenti tradizionali, arrivando a fonderli in molte sue opere. Ma Stockhausen, prima di arrivare a concepire capolavori come Kontakte e Gesang der Junglinge, realizza tre composizioni alquanto differenti da ciò che verrà dopo: Etude (1952), Studie I (1953) e Studie II (1954); composizioni che possono risultare abbastanza primitive e non molto innovative, non fosse per i suoni che non sono proprio normali. Entra in scena la cosiddetta memoria sonora, i cui primi brevetti risalgono al fonografo di Edison del 1877 (anche se per lo scienziato non doveva essere utilizzato per la musica, ma per la conservazione di discorsi e documenti parlati). Il meccanismo è semplice. Le vibrazioni vengono incanalate verso una membrana che, a sua volta, fa muovere una puntina che incide un solco su un cilindro ruotante. Con questa invenzione (che impiegherà quasi 100 anni per essere perfezionata) si aprono nuove porte per la musica. Infatti, mentre in precedenza gli strumenti elettronici venivano utilizzati come calchi degli strumenti tradizionali, ora, con l’invenzione del registratore a nastro magnetico, la memoria sonora può essere utilizzata a scopi compositivi. Le prime a farlo sono le emittenti radiofoniche ed è proprio lì che che si diffondono

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le nuove correnti. Nasce così la musica elettronica, a Parigi come musique concrete, a Colonia come elektronische musik, a Milano come fonologia musicale. Stockhausen sfrutta queste nuove scoperte per comporre utilizzando strumenti concreti, e lo fa a Parigi, alla corte di Messiaen. Progetta un’opera fondata sulla registrazione di un pianoforte preparato e sulla lavorazione del nastro dove sono incisi i suoni attraverso ripetizioni del suono, selezione di frammenti, cambi di velocità e, infine, montaggio. Il tutto utilizzando strumenti come metro, forbice e nastro adesivo. Il risultato è curioso: non si riconosce il suono, ma solo un ritmo. Il mezzo elettronico sarà il suo nuovo strumento. E così nasce, in uno studio radiofonico, in Germania, Studie I per soli suoni sinusoidali, basato sul numero sei. È organizzata in strutture che si susseguono nel tempo, composte da sequenze simultanee o in successione; ogni sequenza è composta da una

between instrumental and electronic sound groups and to contacts between self-sufficient, strongly characterized moments. In the case of four-channel loudspeaker reproduction, it also refers to contacts between various forms of spatial movement”. A livello tecnico, i suoni elettronici di Kontakte sono impressi su un nastro e diffusi tramite quattro altoparlanti posti ai quattro angoli della stanza. Ma non solo l’aspetto dello spazio è la grande novità in questa opera: Stockhausen aveva in mente per l’opera anche determinati pensieri riguardo alla fruizione e al rapporto che si viene a creare con il pubblico. Kontakte doveva essere fruibile in diverse e variegate situazioni di ascolto, come la riproduzione domestica in casa, la radio o luoghi in cui il pubblico esce ed entra in maniera libera, senza subire una situazione di disagio. Questo disagio è percepibile se iniziamo a sentire un’opera non dall’inizio ma da un qualsiasi

successione di misture, di note. Il progetto, molto ambizioso e preciso, sarà penalizzato dai limiti tecnologici dell’epoca e tuttavia rimarrà alla base delle composizioni successive Studie II e Gesang Der Junglinge. Le ricerche avviate con queste opere sono punti di partenza molto importanti per gli sviluppi successivi, non solo nella musica elettronica. Basti pensare alle opere orchestrali di quel periodo come Gruppen Fur Drei Orchester, dove tre orchestre, posizionate a ferro di cavallo, si muovono nello spazio con diversi tempi e gruppi di suoni che non sempre hanno la stessa velocità; oppure Carrè, per quattro orchestre, quattro cori e quattro direttori. In Kontakte, per suoni elettronici, il suono si muove intorno all’ascoltatore a varie velocità e diviene l’elemento fondamentale della composizione. Riguardo al titolo dell’opera ha detto Stockhausen: “refers both to contacts

punto centrale; questo non doveva esistere per Stockhausen nella sua opera. Non esiste più un racconto musicale, formalmente diviso in parti: si perdono i punti fondamentali che sono l’inizio e la fine. Si ha l’impressione, in qualunque momento si entri o si esca dall’opera, che la musica sia appena cominciata e, nello stesso tempo, che non abbia una fine ma che possa continuare all’infinito. Infine, il lavoro esiste in due versioni (senza che l’una tolga o aggiunga nulla all’altra): per soli suoni elettronici, o con l’aggiunta, rispetto a questi, di due esecutori, uno al pianoforte e uno alle percussioni, che suonano dal vivo in sincrono con la musica diffusa dagli altoparlanti. In quest’ultimo caso, i contatti si riferiscono all’incontro-scontro tra due famiglie sonore contrastanti: quella elettronica e quella strumentale. Opera che ha reso più liberi e consapevoli gli ascoltatori. - matmo


20 anni da Nevermind

Bad Revolution

Con il termine ira (o impropriamente rabbia) si indica uno stato psichico alterato, in genere suscitato da uno o più elementi di provocazione, capace di rimuovere alcuni dei freni inibitori che, normalmente, stemperano le scelte del soggetto coinvolto. L’iracondo è caratterizzato da una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno o (in alcuni casi) verso se stesso. Di questo voglio parlarvi, del sentimento che come una spada affilata squarciò la musica all’inizio degli anni novanta, di quella bomba ad orologeria pronta ad esplodere che ognuno di noi senti innescare quando per la prima volta ascoltò un album rabbioso come Nevermind. Era il 24 Settembre 1991 quando grazie alla sponsorizzazione dei Sonic Youth la Geffen Records licenziò il secondo disco dei Nirvana dando vita ad una delle più grandi rivoluzioni musicali di tutti i tempi. Il sentimento caotico e nervoso della fine degli anni ottanta avevato portato all’esasperazione la cultura americana, i giovani senza certezze ed un apparente futuro vagavano nei ghetti cercando qualcosa o qualcuno che li sorreggesse mentre davanti a loro scorreva il mito del bel paese che si sgretolava, non c’erano buoni propositi ma soltanto l’ennesimo pessimo presentimento per il decennio (gli anni 90) che stava per arrivare. Qui riuscì a conficcarsi la filosofia ermetica e poetica dei testi di Kurt Cobain, la condanna della noia che tutto ingoiava e annebbiava riusciva a descrivere perfettamente il sentimento di nulla eterno che ogni giovane stanco della solita musica e della solita vita provava dentro se stesso; la vita descritta come una serie di infinite problematiche (sesso, violenza,

genitori...) alle quali non si aveva più il coraggio di reagire nascondendosi dietro un vaffanculo ed una dose diretta in vena. La rabbia che ti consumava dentro, che ti bruciava le viscere non si adattava alla musica del momento, Nevermind era la valvola di sfogo di una generazione, erano i 40 minuti più cazzuti e deliranti che ogni orecchio avesse mai sentito. Tutti si riconoscevano nei pezzi del disco non perchè avessero gli stessi problemi ma perchè avevano un estremo bisogno di esplodere, di arrabbiarsi con il mondo che li circondava; la forma più cattiva e ruvida del rock rappresentava a quel tempo il rock stesso e nonostante fosse un esasperazione folle e nichilista le persone di tutto il mondo riuscivano ad accettarla come unica via di rivoluzione. Il tentativo da parte dei Nirvana di stuprare la musica all’inverosimile riducendola uno straccio bucherellato di feedback e urla fondendo punk, hard rock, hardcore si rivelò essere la più grande operazione commerciale di tutti i tempi, riuscendo a vendere milioni di dischi e lanciando alla ribalta la musica alternative ed il genere grunge. Mtv fu una delle prime ad approfittare del boom e della figura di Kurt Cobain, montando sul carrozzone dei vincitori iniziò una campagna di sponsorizzazione spietata che sbriciolò ogni identità musicale (all’epoca era tutto magicamente diventato grunge) e fece del cantante schivo e timido una rockstar controversa e spietata che con ogni suo eccesso aumentava il numero di vendite; proprio lui che schifava la celebrità rimase schiacciato dal sistema e dal mondo selvaggio del business, lui che assieme a Dave Grohl e Krist Novoselic aveva fatto arrabbiare il mondo e la musica. Per il ventesimo anniversario è uscita un edizione speciale con 4 cd ed un sacco di belle cose inutili, morti o no la grana è grana. Nevermind: “non ci pensate”. -w

Per uno scaruffismo consapevole Se vi avventurate di frequente nelle infide plaghe dei forum musicali online non può non esservi noto l’appellativo di “scaruffiano”.Variamente declinabile in pressoché tutte le lingue, questo neologismo ha il significato etimologico di “seguace/devoto di Scaruffi”, volendo con quest’ultimo intendere l’insigne storico della musica, critico musicale, storico del pensiero, studioso d’arte, poeta e giramondo Piero Scaruffi. Non vi meravigliate, né vergognatevi di non conoscerlo: nonostante i suoi titoli siano parecchi, la sua fama popolare è dovuta quasi interamente all’attività di critico musicale, intrapresa a partire dalla fine degli anni ‘80. In quegli anni bui, quando il lume della indie culture non si era ancora manifestato nel suo splendore liberatore, i manuali storici di Scaruffi rappresentarono un faro per chi annaspava tra Videomusic e qualche stantio negozio di dischi: gli appassionati cresciuti a pane, heavy-metal e discomusic - o almeno, quelli che riuscivano a intravedere qualcosa al di là del fangoso mare magnum in cui ristagnava la musica mainstream (letteralmente “corrente principale”, quindi musica come prodotto commerciale di massa) - trovarono nel suo metodo razionalista e catalogatore un punto di riferimento imprescindibile. Il nostro Piero – uno dei pochi Prometei in grado di portare davvero oltreoceano il fuoco della sottocultura americana – si costruì in poco tempo - nel bene e nel male – una fama inusitata, cresciuta esponenzialmente negli anni. Paradossalmente, però, di lui sono rimaste famose le stroncature – Beatles sopra tutti, ma anche U2, Elvis Presley, Bob Marley e poi Radiohead

– più che le celebrazioni. Il merito riconosciuto di aver portato nel Bel Paese il gracchiare impavido di Captain Beefheart o i clangori metallici dei Red Crayola (tra i tanti, tantissimi) fu presto dimenticato; la stessa sorte subì il suo metodo di analisi storica, non più volto ad analizzare ogni artista singolarmente, bensì ad inquadrarlo accuratamente in determinati movimenti musicali e aree geografiche, e per questo rivoluzionario. Col tempo, la figura del critico è stata esasperata nei suoi tratti di nemico della musica pop e così, nell’immaginario generale, Piero Scaruffi è diventato un tuttologo mitomane con la mania della cacofonia e della dissonanza e il ribrezzo per la melodia e l’easy-listening. Il termine “scaruffiano” è così passato ad indicare una setta di appassionati ostili al facile ascolto e fautori della sperimentazione fine a se stessa; se è vero che quest’atteggiamento si va sempre più diffondendo a macchia d’olio, è altrettanto vero che la responsabilità del critico è del tutto indiretta. Non ha alcun senso, infatti, replicare l’interesse per l’innovazione di Scaruffi se non se ne imita anche l’analiticità, la capacità di discrezione che porta a separare i diamanti improduttivi dal fertile letame e a preferire quest’ultimo. Pare a chi scrive che lo scaruffismo - quello autentico e consapevole – abbia invece molto da insegnare anche e soprattutto alla critica musicale dei giorni nostri, sull’orlo del ridicolo nel suo annaspare cercando di rincorrere i trend che si succedono a cadenze sempre più brevi, con gli occhi bene aperti sull’ultimo duo dubstep norvegese eppure cieca a qualsivoglia visione d’insieme. - samgah

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Lulu

Cerchiamo di fare il punto della situazione sul tanto chiacchierato featuring tra Lou Reed e i Metallica, domanda che potrebbe riassumersi in un: ma alla fine Lulu è un flop genuino o un capolavoro incompreso? Stando ai numeri, l’album nella sua seconda settimana di pubblicazione statunitense ha venduto poco più di tremila copie, uscendo così dalla top 200 di Billboard dove aveva debuttato al numero 36 nella prima settimana, posizione che segna il peggior risultato in carriera per i ‘Tallica. La critica internazionale ha rilasciato giudizi tendenzialmente negativi, fino alla provocatoria stroncatura di Pitchfork Media che ha assegnato all’album un voto di 1.0. In generale, una valutazione di Metacritic basata sul confronto di ventotto recensioni ha emesso come verdetto il punteggio di 41 su 100, mentre in Italia la critica sembra divisa tra un netto rifiuto dei metallari appassionati e apprezzamenti più o meno tiepidi dal resto della stampa musicale (fino alle due pagine di ‘Disco del mese’ su Rumore e Blow Up di novembre). Personalmente, seguendo l’imbarazzante comparsata dei Loutallica a Che tempo che fa di Fabio Fazio su RAI 3, ho pensato per l’ennesima volta che i miti prima o poi dovrebbero accettare di tramontare, pur continuando a fare quello che amano ma senza dover imbastire un dominio mediatico e pubblicitario che tappa la bocca ai giovani con più voglia di fare, innalzando i biglietti di album e concerti a prezzi astronomici solo per il nome leggendario stampato sopra. Certo, l’idea dei testi concepiti come libretto di un’opera rock è comunque interessante e ricercata (ma allora perché impegnarsi a venderlo come se dovesse piacere a tutti?); riprende le mises en scène del drammaturgo tedesco di fine Ottocento Frank Wedekind inserendosi nel filone della femmefatale spogliarellista che fallisce la risalita della scala sociale, in un contesto di ipocrisia e bigottismo borghesi. Passi pure l’onore alla nobiltà delle liriche quindi, ma staremmo a scervellarci così tanto per capire questo disco se le stonature fuori tempo fossero cantate dal primo sconosciuto e lo scollato sottofondo non fosse artificio dei Metallica? Tutto lascia pensare che in questo caso il problema non sia l’uscita dagli schemi (scrive uno dei pochi ammiratori del tanto vituperato St. Anger), quanto l’essere andati propriamente fuori strada, pur concedendosi la riserva di pensare che, come recitava la domanda iniziale, spesso la verità sta nel mezzo. - fp

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VIAGGI EXTRASONORI

una vita da assente

Thomas Pynchon

enciclopedia e altro Attualmente Pynchon è invisibile agli occhi del mondo intero. Fa parte dei cosiddetti “scrittori perduti”, insieme a Salinger, anche se, il nostro, è il primo della classe. Non si fa mai vedere alle presentazioni dei suoi libri, delega altri al ritiro di premi letterari, non rilascia interviste e non si fa vedere in televisione. Non conosciamo il suo volto, a parte quello che appare in poche foto giovanili, una a diciott’ anni, del 1953, in cui egli dichiara di amare la pizza, di odiare gli ipocriti e di voler diventare medico, o una di poco posteriore con l’ uniforme da marinaio, quando interrompe i suoi studi di ingegneria fisica per arruolarsi in marina. Facile quindi che il mito sfoci nella leggenda. Si parla, addirittura, della sua collaborazione in alcuni dischi dei Residents. L’unica persona che frequenta è il suo amico, anch’egli scrittore americano, Don De Lillo. Di fatto però, gli appassionati dei Simpsons l’hanno visto in due episodi, disegnato con un sacchetto in testa e hanno sentito per l’unica volta la sua voce, visto che è doppiato da se stesso. Considerato come uno dei più grandi scrittori contemporanei viventi, non è però libero da critiche, anche pesanti. La sua scrittura post-moderna, nella quale si fondono storie su storie, avvenimenti poco credibili, centinaia di personaggi in un solo romanzo, riferimenti storici precisi, è spesso obiettivo di critica. Secondo questi, Pynchon si diverte solo nello sbalordire il lettore, senza avere nessun senso letterario compiuto. Cerchiamo di approfondire l’argomento. Nelle “Lezioni Americane”, Calvino cerca di ricostruire la storia del romanzo enciclopedico;

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parte da Goethe, che voleva scrivere un romanzo sull’Universo intero, passa da Flaubert, Musil, Gadda e Borges, e chiude il suo viaggio con Georges Perec. Si può lamentare la mancanza di altri grandi scrittori, uno su tutti Pessoa, secondo Calvino troppo perso nella sua teatralità. Ma la letteratura inglese e americana? Possiamo tracciare questa stessa linea anche per gli scrittori in lingua inglese? Sicuramente, partendo dal solito Joyce. E dopo? Senza dubbio Pynchon. Con i suoi mostruosi romanzi, alcuni di mole e di ambizioni gigantesche, monumenti di sapienza enciclopedica ed esoterica, anche se sono composti esclusivamente di frammenti, dell’ immondizia della cultura e della società, delle rovine di un sapere antico ormai in frantumi. In questi romanzi, gli eroi di Pynchon, cercano di dare un senso a quello che succede nelle loro vite, cercando di far riuscire sensata, una cosa che vive in un mondo che sensato non è. Il grande tema di Pynchon è l’apocalisse. Ecco cosa scrisse all’uscita di uno dei suoi romanzi: “Racchiudendo il periodo fra l’ Esposizione universale di Chicago del 1893 e gli anni subito successivi alla Prima guerra mondiale, questo romanzo passa dalle lotte dei lavoratori in Colorado alla New York di fine secolo, a Londra e Gottingen, Venezia e Vienna, i Balcani, l’ Asia centrale, la Siberia ai tempi del misterioso caso Tunguska, al Messico durante la rivoluzione, alla Parigi del dopoguerra, alla Hollywood del film muto, oltre a uno o due posti che ad essere precisi non sono nemmeno sulla carta geografica.”. Tutto chiaro intorno a quello che sopra è stato definito romanzo enciclopedico, pozzo di saperi e riserva inesauribile di conoscenza. Continua così: “ Il significativo cast include anarchici, piloti di mongolfiere, giocatori d’ azzardo, tycoon capitalisti, amanti delle droghe, innocenti e decadenti, matematici, scienziati pazzi, sciamani, sensitivi, maghi da avanspettacolo, spie, detective, avventuriere e killer a pagamento. Vi sono anche comparsate di Nikola Tesla, Bela Lugosi e Groucho Marx. Strane pratiche sessuali hanno luogo. Oscuri linguaggi vengono parlati, non sempre in maniera propria. Accadono avvenimenti contrari ai fatti. Se questo non è il mondo, è ciò che sarebbe con uno o due aggiustamenti minori”. Chiarissima la sua lettura della letteratura e del suo compito, non facile fare una sintesi ed interpretare. Forse l’unica possibilità è unire la sua poetica alle sue storie, ai suoi romanzi, ai suoi luoghi ed ai suoi personaggi. Ottimo per cominciare, analizzare

Pynchon in un episodio de I Simpson

“L’Incanto Del Lotto 49”. Opera di geniale brevità, è il perfetto thriller postmoderno. Abilissimo nell’ingannare gli investigatori col pallino della letteratura, deliziosamente fuggevole nel gioco delle possibili interpretazioni. Questo romanzo intreccia molti fili narrativi.
Come si può evincere da un romanzo la cui protagonista si chiama Oedipa, questa lunga serie di enigmi vengono presentati con il classico “sorriso della sfinge”. Oedipa è esecutrice testamentaria dell’eredità di Pierce Inverarity insieme a Metzger, un altro avvocato. Dall’incontro tra i due nasce una fittissima e complessa trama che porta alla ricerca di un’organizzazione chiamata Tristero, su un lisergico e desolato sfondo californiano. La Tristero è a capo del sistema W.A.S.T.E., nient’altro che una posta alternativa a quella federale.

I nomi che Pynchon usa nel libro sono numerosissimi e sono sia indizi che elementi di una satirica commedia dei luoghi comuni. Dalla band musicale chiamata “Niso Nausea e i suoi Volkswagen” a un cast di personaggi come Mike Fallopian, il Dr. Hilarius, Genghis Cohen e il Professor Emory Bortz, Pynchon estremizza l’invenzione letteraria. Il gioco dei nomi lancia verso una più ampia struttura narrativa, fatta di folli teorie cospirative, di una critica sociale e dei costumi e di una buona dose di umorismo, come la parodia degli artisti pop e il pasticcio di tragedia e vendetta. Del resto la ragione principale per cui egli è acclamato come il più alto esponente del postmoderno letterario è proprio la definitiva abolizione del (già labilissimo oggi) confine fra cultura d’èlite e cultura della massa. Al suo stile letterario raffinato, alle sue infinite digressioni storiche e scientifiche in ogni campo del sapere, si alternano incursioni nei mondi popular, nella musica rock e pop, nel fumetto, nel genere pulp e nelle leggende urbane: un procedimento disegnato con millimetrico parallelismo dai due miti che lo hanno perseguitato nei lunghi anni di una vita assente, vissuta da invisibile, ossia l’ idea che egli sia in realtà Unabomber o, alternativamente, J. D. Salinger. - matmo


Quando parla il colore

Franco Fontana Negli anni Sessanta l’attenzione dei fotografi emergenti non era catturata completamente dalla rappresentazione visiva del bianco e nero, tecnica nata con la fotografia stessa e in quel periodo decisamente inflazionata in quanto ritenuta forma superiore d’arte.

È in questo contesto che si colloca una delle figure italiane più influenti della fotografia pittorialistica: Franco Fontana, il quale ha coraggiosamente “reinventato” il colore come mezzo espressivo e non soltanto documentario libero dal realismo e dalla

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fedeltà spesso associati alla fotografia a colori, mediante una rielaborazione del paesaggio naturale e di quello strutturato con accostamenti cromatici inediti e forme di effetto innovativo. Il contesto è spesso la natura ed il soggetto principale, un albero o una nuvola, o ancora un cespuglio, acquistano un’anima interpretabile, come spirituale, magnetica. Ma la sua attenzione non si ferma alla paesaggistica pura: il suo incontro con gli States gli suggerisce sperimentazioni nel paesaggio urbano, tanto che anche il giornale Newsweeck dell’epoca ne loda il raggiungimento del connubio tra fotografia e arte pittorica. Anche la figura umana lo attrae ed egli la immortala con grande eleganza. Le fotografie di Fontana infatti nascono spesso dalla capacità di individuare e isolare la forma dal contesto in cui è inserita, i suoi paesaggi nascono da forme pure e geometrici equilibri cromatici e formali. Egli, solitamente senza utilizzare filtri né interventi in camera oscura ma semplicemente estremizzando la sottoesposizione e portando al limite la curva cromatica della pellicola, riesce ad immortalare contrasti arditi ma raffinati, i cui colori sono quelli di un’eterna primavera, caratterizzati da un’intensità espressiva tutta particolare. L’annullamento della prospettiva attraverso l’uso estremo del teleobiettivo suggerisce un incremento dell’attenzione verso gli elementi architettonici e naturalistici, in grado di trasmettere forti tensioni emotive grazie alla disposizione delle linee e dei piani prospettici, che da soli parlano un linguaggio estetico freddo, sintetico, minimalista e in alcuni casi decisamente astratto, un pò cubista. “Non esiste quello che vedete, esiste quello che fotografate”, Franco Fontana dixit. È dunque lo stile che fa di uno sguardo un particolare interprete della realtà, di un fotografo un autore, un autore in questo caso entrato a pieno titolo nella storia della fotografia italiana e uno dei maestri della fotografia a colori. - zuma

Attraverso gli occhi (a mandorla) di Haruki Murakami

Anni fa, il suo storico traduttore americano talento così incredibile. La risposta Jay Rubin ha pronunciato una frase ormai è in puro stile Murakami: dal nulla. A famosa. “Ho sempre avuto l’impressione che ventinove anni, di cui dieci trascorsi Murakami scrivesse per me.” Questo stesso a gestire un jazz club nel centro di Tokyo, una sentimento, condiviso da milioni di lettori, si palla lo colpì in testa ad una partita di baseball e rinnova all’uscita di 1Q84. L’ultimo lavoro dello lui, folgorato, ne trasse un racconto. scrittore giapponese è uscito in Italia per Enaudi Ammetto che potrebbe avere il sapore di ed ha la solita, confortante mole che si aggira leggenda montata ad arte ma, se toccasse a intorno alle ottocento pagine. L’opera originale voi essere intervistati dal New York Times, non è stata pubblicata in tre parti distinte e vuole raccontereste solo la verità e nient’altro? essere un omaggio a 1984. Perché proprio Murakami ha vissuto quindi la sua giovinezza Orwell? Domanda legittima che riceve da parte nel Giappone del dopo guerra, in un momento dell’autore una replica prevedibilmente insolita di confusione, di novità elettrizzante ed “Perchè è noioso”. Secondo il Murakami-pensiero inesprimibile incertezza. Questa stessa questo è indubbiamente un complimento. atmosfera è alla base di ogni sua opera, Chiunque abbia letto un suo romanzo, un dall’esordio con Ascolta la canzone nel vento, racconto o un’intervista, si è rassegnato al fatto fino ad oggi. La sua carriera di scrittore è di non poterlo più ignorare. Odiarlo e criticarlo costellata di premi importanti e in trent’anni di visceralmente sì, ma certo non è possibile attività ha regalato al mondo Norwegian Wood rimanere indifferenti davanti al suo nuovo libro e Kafka sulla spiaggia, per citare due dei suoi (bianchissimo) che ci guarda serafico dalle lavori più famosi. vetrine. Nel presente dichiara di condurre una vita da Viene spontaneo chiedersi da dove salti fuori un impiegato di banca: lunghe ore alla scrivania,

confinato nel suo ufficio, in una prigionia che tiene a definire “volontaria e felice”. Mangia sano, fa lunghe passeggiate e ama stirare, proprio così. Quindi il vero mistero riguardo a Murakami è: da dove nascono la magia, i sogni a occhi aperti e i fantasmi che popolano i suoi libri? In maniera quasi paradossale l’autore imputa tutto alla concentrazione. “Non puoi essere felice se non riesci a concentrarti. Non sono uno che pensa velocemente ma, una volta che mi applico a qualcosa, posso fare quello per anni, senza mai annoiarmi. Sono come una grossa teiera: ci vuole parecchio tempo perché l’acqua arrivi a ebollizione, poi però rimane calda per molto tempo.” Sappiamo che sta nascondendo qualcosa ma, se c’è qualcuno che concentrandosi può vedere due lune brillare nel cielo di Tokyo e magari vincere un Nobel, quello è Murakami. - comyn

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Vladimir Jankèlévitch: in perpetuo bilico. […] quando il vivente cessa di domandarsi in che cosa consista la vita […] la vita ricomincia ad andar da sé… V. Jankélévitch - Qualcosa di semplice, di infinitamente semplice In una stanza vi sono un logico, un poeta e un flautista. Cos’hanno in comune? Il linguaggio. E di diverso? Quello che vogliono esprimere: il logico sosterrà che ogni sua frase ha un forte impatto semantico e ogni sua parola significa qualcosa di precisamente determinato; il poeta sghignazza di fronte al logico affermando che le parole non hanno significati determinati, ma al di sotto di esse si trova il senso; il flautista si mette a fischiettare fraseggi con trilli e ghirigori senza dire assolutamente niente. Il significato e il senso si trovano basiti di fronte al niente del linguaggio. Un linguaggio deve dire qualche cosa, deve portare avanti un ragionamento, o almeno covare un risuonare eterno dentro le sue parole. La musica no! Non dice niente, non ha senso e non significa. La musica è un linguaggio (lo è effettivamente?) ineffabile, ma non indicibile. L’indicibile è l’impossibilità di dire su qualcosa, è il rimanere muti di fronte al nulla, di fronte allo zero assoluto, davanti alla morte(anche se dedicherà alla morte pagine e pagine, infinite parole, e mastodontica quantità di tempo per poterne parlare); l’ineffabile è invece quello che non si può dire perché, per quanto uno si possa sforzare con le parole, è inarrivabile. L’irraggiungibilità dell’ineffabile è la caratteristica che spinge l’uomo a parlarne in continuazione, senza arrendersi. L’indicibile non lascia niente da dire, ma l’ineffabile lascia molto da dire, obbliga a dire, a scavare le parole, a girarci intorno. E per questo ci si trova

senza forze ad intuire un non-so-che (je-ne-saisquoi) intuibile, ma silenzioso. Al detto “Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” Jankélévitch si oppone dicendo che, proprio perché non se ne può parlare, si deve tentare in ogni modo. La musica è un non-so-che fatto di contraddizioni, attimi, istanti musicali che non trovano una sintesi dialettica, o un’armonia finale. La musica è tale proprio perché è intessuta di continue opposizioni, silenzi, cambi ritmici senza soluzione razionale o elegantemente ponderata nella comodità del senso. Il divenire musicale, udibile solo nel momento del suo suonarsi, nell’atto performativo, ha al suo interno tutti questi elementi che tra loro lottano, e proprio il loro lottare fa essere la musica come tale. La musica non è copia descrittiva del mondo, non è mimesis, non dice niente, non descrive niente, non raffigura niente, poiché è seria e frivola, è un atto di produzione, è un fare (poiein) dell’autore. Questo trova jankélévitch in autori come Mompou, Janàček, Strawinskij, Ravel, Debussy nella loro fuga dalla temporalità, ma all’interno del divenire. Che immensa contraddizione! Proprio così: la musica ha senso e non ha senso; non scorre con procedimenti logico-argomentativi da un inizio verso una fine. La melodia non si posa su solide basi incorruttibili e perpetue, ma scorre spensierata. La musica si fa, si suona, mica si pensa. Coloro che affermano che esista una musica essenziale, spirituale, ideale, esclusivamente pensabile o scrivibile su carta

prima che essa possa venire suonata, rimangono dei razionalisti che credono nell’intelligibilità della musica. La musica si suona e si ascolta, ma non vi si ragiona sopra; non si parla sulla musica, ma si parla musicalmente di essa. Non vi è un’essenza che regna sull’accidentalità della performance musicale, poiché il non-so-che è una maniera della manifestazione. L’acqua, per esempio, ha molti modi di manifestarsi (fredda, ghiacciata, bollente, sporca, pulita, ecc.) e per questo le maniere dell’apparire non possono essere separati dalla sua sub-stantia:esse non manifestano la sua verità, ma la confermano; le apparenze contribuiscono ad addolcire la verità che vi è, ma che continua a rimanere un non-so-che che tentiamo di dire in ogni modo scoprendo che la nostra possibilità è dire quasi-tutto lasciando al di fuori delle nostre parole un quasi-niente tanto ineffabile, quanto sostanziale. La musica è strettamente con la filosofia dell’esistenza perché ciò che le collega è il continuo divenire imprevedibile della temporalità, il continuo contraddirsi degli istanti del vivere, il martellante memento dell’impossibilità del dire, dei limiti del linguaggio, dell’incertezza degli eventi, e dell’inutilità della comoda rassicurazione razionale. Jankélévitch ha fatto del suo dire, che si sussegue in un ritmo frenetico e mai pacifico, un non-sistema filosofico che abbraccia ogni apparire della vita facendo trasparire l’abisso della verità, poiché il creatore pone l’essenza insieme all’esistenza. - gorot

VIPER THEATRE (Firenze) 3 dic. - Bugo 7 dic. - Pendulum (dj set) 10 dic. - Badly Drawn Boy

MODESELEKTOR 17 dic. Link, Bologna

VINICIO CAPOSSELA 17 dic. Teatro Verdi, Firenze

GOGOL BORDELLO 8 dic. Auditorium Flog, Firenze

PETER HOOK (JOY DIVISION) 10 dic. Estragon, Bologna

ZOLA JESUS 7 dic. Covo Club, Bologna 8 dic. Circolo degli Artisti, Roma 9 dic. Caracol 2.0, Pisa.

DENTE 5 dic. Off, Modena 17 dic. Auditorium Flog, Firenze

I CANI 15 dic. Nuovo Caracol, Pisa 16 dic. Off, Modena

ELIO E LE STORIE TESE 2 feb. Teatro Verdi, Firenze 24 feb. Teatro Verdi, Montecatini (PT)

BUGO 3 dic. Viper Theatre, Firenze 9 dic. Locomotiv Club, Bologna 17 dic. Karemaski, Arezzo

ONEOTHRIX POINT NEVER 10 dic. Estragon, Bologna

ONEOTHRIX POINT NEVER 10 dic. Estragon, Bologna

SUBSONICA 4 dic. Teatro Verdi, Montecatini (PT)

TIM HECKER 8 dic. Caracol, Pisa

THURSTON MOORE 7 dic. Teatro Comunale, Ferrara

DEUS 7 dic. Estragon, Bologna

VERDENA 9 dic. Saschall, Firenze

PATTY PRAVO 9 dic. Estragon, Bologna

UOCHI TOKI 16 dic. Is it my world?, Prato

PIET MONDRIAN 3 dic. Magazzino Parallelo, Cesena

PETER DOHERTY 11 feb. Estragon, Bologna

ALESSANDRO FIORI 3 feb. Nuovo Camarillo, Prato

Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Andrea Arcangeli, Sara Marzullo. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori. Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel Novembre 2011. Per informazioni, critiche e consigli: info.feedbackmagazine@gmail.com. Feedback Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedback.magazine 12


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