#2 Novembre 2010

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feedback fanzine di musica indipendente

anno I numero 2 NOVEMBRE 2O1O www.feedbackmagazine.it

SUFJANnow STEVENS that I’m older

EDITORIALE

UTOPIA: TOMMASO MORO Una delle frasi più citate dai professori di storia è: “Ricordate ragazzi, è importante studiare la storia, perchè è magistra vitae, ritorna sempre”. Qui non parliamo proprio di storia, ma di letteratura. Partiamo tracciando delle coordinate. Tommaso Moro (nato Thomas Moore), vissuto a cavallo tra la seconda metà del ‘400 e la prima metà del ‘500 a Londra, fu anche Lord e Cancelliere sotto Enrico VIII. Molto cattolico, si rifiutò di prestare giuramento all’Atto di Supremazia voluto dal re Enrico per poter divorziare e sposare Anna Bolena; il divorzio, che era stato rifiutato dalla Chiesa, avrebbe poi reso il re d’Inghilterra anche capo della Chiesa Anglicana. Questo rifiuto costò a Moro l’accusa di tradimento e la condanna a morte. Ma il modo di dire storico sopracitato riguarda una sua opera, la sua maggiore, Utopia, composta nel 1517.

Qui Moro, delinea la sua città ideale, Utopia (parola che viene dal greco e che significa “la città che non c’è”), seguendo la scia di Platone nella Repubblica. Viene descritta la divisione dello Stato nei minimi particolari: i cittadini sono, secondo la legge, tutti uguali, anche se divisi in due parti, gli uomini liberi e gli schiavi. La schiavitù è la pena prevista per reati molto gravi (mai in nessun altro caso) e i figli di schiavi non saranno mai schiavi. Gli uomini sono nobilitati dal lavoro e gli unici che non lavorano sono gli uomini di lettere; per gli altri è proibito non lavorare. Per quanto riguarda le istituzioni, le leggi sono regolamentate da un Senato centrale, e oltre questo, se ne trova un altro all’interno di ogni città. Il lume che guida tutti i cittadini è la democrazia; non esiste un capo assoluto, anzi ci sono leggi anti-tiranniche; le norme sono poche in modo che i cittadini siano in

grado di conoscerle tutte. L’economia è fondata sul lavoro: ognuno deve conoscere un mestiere, anche se, per non farglielo odiare, viene mandato a rotazione in campagna. L’ozio è proibito, ma è anche proibito che una persona lavori troppo rispetto alle altre; tutti lavorano 6 ore al giorno, poche, ma dato che tutti i cittadini lavorano, non mancano materie prime. Non è possibile che la ricchezza di un cittadino sia maggiore rispetto a quella altrui; addirittura l’oro è visto con disprezzo e viene dato ai bambini per giocare. Per quanto riguarda la religione ognuno è libero di professare la sua senza alcun tipo di discriminazione. Questi erano i desideri di Moro nel 1500 riguardo la sua società ideale.Avete qualche desiderio in comune? Buona musica. - matmo

IN QUESTO NUMERO: Elliott Smith . Belle & Sebastian . Antony & the Johnsons . Andrew Bird . Le luci della centrale elettrica. Massimo Volume

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ARTISTA DEL MESE

THE AGE OF SUFJAN

un sempreverde smarrimento pop

E' ormai da un decennio che, a scadenze quantomeno regolari, il nome di Sufjan Stevens fa capolino dalle classifiche delle riviste di settore, e, ancora più spesso, dalle labbra degli appassionati. Oggi, per quanto (per fortuna) sia sempre più difficile rimanere entro criteri oggettivi di valutazione, si tende a considerarlo all'unanimità un nome grande, uno di quelli che hanno segnato la musica, indipendente e non, degli ultimi anni. Ripercorriamone dunque la multiforme carriera. Questo genio introverso-ma certamente non incompreso-nasce a Detroit, nel Michigan, il 1° Luglio del 1975. Polistrumentista, eccezionalmente dotato, approda al primo disco solista (con la Asthmatic Kitty, casa indipendente newyorchese con cui lavora tutt'ora) mentre ancora studia al college, dopo alcune esperienze con la Danielson Famile. A Sun Came, questo il titolo, esce nel Giugno del 2000, all'alba del nuovo millennio. Caratteristica preminente in questo disco, che andrà poi piano piano scomparendo, è l'esplorazione di sonorità etniche dalle più disparate parti del globo, integrate però con quelle tipicamente rock, folk e pop. L'opera prima di Sufjan viene tuttavia accolta tiepidamente dalla critica, che la prende come una isolata bizzarria. Terminato il college, Stevens si trasferisce a New York e, senza perdere tempo, dà alle stampe Enjoy Your Rabbit (2001): la mutazione in chiave electro-glitch di questo concept dedicato agli animali del calendario zodiacale cinese è solo la prima delle sorprese a cui ci abituerà. Quasi interamente elettroniche, le composizioni si dipanano spesso per molti minuti ed esplorano a fondo diversi suoni e dinamiche, secondo una logica quasi analitica (memore della lezione degli Autechre), che pure non disdegna impennate creative e crescendo di riverberi mandati in loop. Sono gli anni d'oro dell'IDM e questo fa sì che la nuova creatura venga piuttosto apprezzata. E' a questo punto che Sufjan ha un'idea follemente geniale: annuncia che è sua precisa intenzione registrare cinquanta dischi, uno per ogni stato degli USA, a cominciare da quello in cui è nato, il Michigan. L'hype provocato da questa notizia è molto (come più tardi dichiarerà lui stesso, il “Fifty-States Project” fu soprattutto una mossa pubblicitaria) e Michigan(2003) viene acclamato da pubblico e critica, anche e soprattutto perchè la peculiare espressione artistica di Sufjan trova il suo primo, grande picco espressivo proprio in questa esperienza. La formula di Stevens è all'apparenza semplice (si prende una bella melodia, le si cuce intorno un arrangiamento che ne faccia risaltare le qualità emozionali, si canta in modo intimista e trasognato), ma sono il risultato e lo spirito generale dell'opera a conquistare gli USA prima e il resto del mondo poi: se da alcuni questa vena creativa indie-folk-pop viene paragonata ai Love di Arthur Lee e al loro Forever Changes, altri (la maggior parte) preferiscono considerarla peculiarità di una delle nuove stelle del firmamento indie. Non c'è nulla di sovrabbondante, nulla di barocco in Michigan, basta il potere di poche note per commuovere. Lo stilema si ripete per il resto del disco pressappoco uguale a se stesso, ma nello specifico sempre diverso: è l'inizio del trionfo che culminerà due anni dopo in Illinois. Ma non corriamo, perchè Stevens, noncurante del peso dei quarantanove(!) album ancora da realizzare, si permette di spezzare la sequenza con una raccolta di canzoni folk spartane, di ispirazione biblica, composte negli anni precedenti: è Seven Swans, che da progetto secondario diviene ben presto il suo disco più amato da molti. Sufjan è ormai sulla cresta dell'onda e quello che, negli anni del suo esordio, sarebbe stato liquidato come un buon disco folk-pop e nulla più, viene invece acclamato al pari di Michigan. E per fortuna, viene da dire, perchè i suoi dodici bozzetti acustici, che solo raramente (The Transfiguration) osano presentarsi in compagnia di arrangiamenti più corposi, sono delle vere e proprie confessioni/riflessioni (a volte su determinati passi della Bibbia) suonate e cantate con un'umiltà che ha, appunto, del divino. Sufjan non si crogiola affatto sugli allori, però: tra la fine del 2004 e l'inizio del 2005 registra il “seguito” di Michigan, che esce a Luglio del 2005, quando Stevens ha appena compiuto 30 anni e sono passati appena 5 anni dal misconosciuto esordio: lo stato prescelto stavolta è l'Illinois. Che deve essere, a dispetto della sua patria Detroit, proprio il suo prediletto, tanto è l'amore infuso nell'opera.Uno dei dischi più acclamati del decennio, Illinois riceve dovunque recensioni più che entusiastiche (il punteggio medio su Metacritic è tutt'ora di 90). Il perchè è presto detto: di tutto quello che c'era di bello, di caldo, di divertente, di innovativo in Michigan, qui ne troviamo (almeno) il doppio. Nonostante le melodie perfette, gli interventi orchestrali sempre più preponderanti, i testi che diventano man mano più “urbani” e meno bucolici, Sufjan riesce a costringere il tutto in una sua personale logica di umiltà artistica e a farlo quadrare perfettamente, di modo che, invece di essere stucchevoli, gli affreschi sonori di Illinois sono quanto di più intenso e sincero si sia mai sentito in ambito indie-pop e non solo. Le canzoni che lo compongono, veri e propri flussi di coscienza, mescolano teatralità e intimismo in un susseguirsi di mirabolanti esplosioni sonore. Illinois si pone, con le sue canzoni, come un immenso calderone magico che ribolle di idee, dove tutte le influenze e le concezioni musicali di Sufjan si mescolano in un composto estremamente armonioso. Stevens a questo punto si sente gratificato e soddisfatto: dopo aver condotto un trionfale tour americano nel quale lui e la band si esibiscono con gigantesche ali variopinte, si concede di rimanere per un po' ai margini della scena indie partecipando a lavori di altri artisti come special guest, suonando in tributi e pubblicando progetti secondari, come The Avalanche (raccolta di pezzi scartati da Illinois, come si può immaginare validissimi) e Songs for Christmas, antologia di canzoni natalizie reinterpretate da lui stesso. Solo nel 2009 si decide a ricomparire, ma in una veste alquanto nuova e inusuale: esce The BQE, colonna sonora in stile prettamente classico di un lungometraggio girato da lui stesso un paio di anni prima, riguardante l'esplorazione della Brooklyn-Queens Expressway di NY. Segue un altro periodo di relativo sonno, a cui Stevens rimedia in modo del tutto inaspettato nell'Agosto del 2010, dopo alcune voci secondo le quali sarebbe stato in procinto di pubblicare un nuovo album (non della serie degli stati, però: quell'intenzione era stata abbandonata fin da un'intervista di fine 2009, con la decisione di lasciare il lavoro incompiuto). All'improvviso, sul sito web compare All Delighted People, un'Ep scaricabile a pagamento. Questo lavoro testimonia, casomai ce ne fosse bisogno, che Sufjan non si è spento: le composizioni sono armoniose come sempre, anche se non brillano particolarmente per innovazione o perfezione. Per vedere una vera e propria rivoluzione apportata al proprio sound da parte sua bisogna infatti attendere Age of Adz, uscito questo mese, il quale ci lascia intendere senza ombra di dubbio che l'uomo del Michigan (nonché figlio adottivo dell'Illinois), arrivato ai quarant'anni, ha la stessa voglia di stupire e di emozionare di sempre. - samgah 2


LIVE

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RYOJI IKEDA JOANNA NEWSOM IOSONOUNCANE

JOANNA NEWSOM Roma, 23/09/2010

Con una sorta di timore reverenziale ci si appresta a parlare di un evento come questo, sconvolgente sul piano sia musicale sia emotivo. I primi brividi della serata incominciano infatti già durante le nenie folkeggianti di Alasdair Roberts, chiamato a fare da spalla, quando capita di spostare lo sguardo sulla grande arpa al centro del palco. Quest’ultima viene presto a trovarsi(non senza alcuni minuti di attesa) nelle sapienti mani di Joanna. Le luci si spengono, lo spettacolo comincia : sta a “The Book of Right-On”, direttamente dal suo primo disco “The Milk-Eyed Mender”, aprire le danze. L’esecuzione è perfetta e la voce di Joanna dal vivo rende dieci volte meglio che su disco, tuttavia aspettiamo trepidanti i pezzi da “Have One on Me” per vedere all’opera anche gli altri strumentisti sul palco ( due violiniste, un percussionista, un trombonista e lo stesso arrangiatore Ryan Francesconi agli strumenti a corda e al flauto ). Questi ultimi arrivano senza farsi aspettare: come suo solito, Joanna cala subito due delle carte più forti del disco: “Have one on Me” e “Easy”. Il coinvolgimento del pubblico è immediato e, soprattutto sulla prima, la potenza e la maestosità che i nuovi arrangiamenti riescono a dare alle canzoni appare evidente, con momenti di assoluta bellezza. La Newsom calca ancora di più la mano e passa a “Cosmia”, uno dei suoi pezzi più amati, che esegue in uno scintillante nuovo arrangiamento cucito su misura per questo tour, che ricalca quelli dell’ultimo disco. A questo punto Joanna sembra abbassare la carica e, non risparmiando ogni tanto qualche intervento ironico sulla pessima accordatura del suo strumento(tanto che è costretta a tirare fuori un accordatore e a tentare l’operazione negli intervalli tra una canzone e l’altra), espone l’idea portata avanti dal suo ultimo progetto, alternandosi spesso al piano e all’arpa e passando da ballate lente e fiabesche (Kingfisher, Go Long) a pezzi pianistici più movimentati (Soft as Chalk, Inflammatory Writ), mantenendosi sempre e comunque su vette di eccellenza emozionale. Sempre di più spicca la precisione degli arrangiamenti, mai invadenti, eppure sempre ricchi di sonorità varie e diverse (si passa dal flauto, al banjo, al mandolino, allo scacciapensieri!), che conferiscono alle canzoni della Newsom la statura del classico e non più della favoletta per tardi hippie. Solo dopo la ritmata Good Intentions Paving Company, Joanna si decide a far tremare di nuovo il teatro e sussurra i primi versi di “Emily”: del tutto inaspettata, l’esecuzione del pezzo, per molti il migliore del disco-rivelazione Ys, si snoda per tredici minuti e mostra un’intensità fuori dal comune. Lungo i suoi molti crescendo emotivi, la dichiarazione d’amore di Joanna per sua sorella coinvolge il pubblico di Roma come nessun’altra canzone. Quando la tensione emotiva accumulata si scioglie insieme all’ultima nota vibrata dall’arpa, la diva sembra improvvisamente avere fretta e rimane giusto il tempo per una splendida versione di “Peach Plum Pear” (dove Joanna si dilunga a giocare con la sua arpa come una bambina curiosa) e un troppo striminzito bis (“Jackrabbits”, forse uno dei pezzi più deboli di Have One on Me, eseguita comunque in modo eccezionale). Basterebbe parlare di sconvolgimento emozionale, di brividi di gioia e così via per convincere che la serata è stata magica, ma mettiamo bene in chiaro le cose : è un’artista matura quella che stasera si è esibita su un palco importante come quello dell’Auditorium; un’artista che pur essendosi ormai staccata dagli stereotipi della indie culture, è riuscita a rimanere fedele all’essenza della propria arte, della propria voce e (soprattutto) della sua persona. Un’artista che non è mai scesa a compromessi con l’arte, ma l’ha sempre affrontata a viso aperto, con coraggio e voglia di stupire. Un’artista a cui dobbiamo un grande ringraziamento se, stasera, un po’ della sua luce e della sua grazia è passata a noi. Scaletta: The Book of Right-On/Have One on Me/Easy/Cosmia/Soft as Chalk/Kingfisher/Inflamatory Writ/Go Long/Good Intentions Paving Company/Emily/ Peach Plum Pear/Jackrabbits. - samgah

RYOJI IKEDA Firenze, 15/10/2010

Nel bel Teatro della Pergola e per la prima volta a Firenze Ryoji Ikeda presenta l’ultima versione (come per un software) del suo progetto Datamatics. Due parole su di lui: Ryoji Ikeda, giapponese, artista visivo e musicista, rientra nella schiera degli artisti che da un decennio a questa parte lavorano nel sottile confine tra “musica-concerto live” e “istallazione d’arte contemporanea”, artisti che fanno capo all’etichetta tedesca Raster-Noton (doveroso citare oltre al nostro anche Nicolai, Sakamoto, Blixa, Basinski, Mika Vaino ecc.). Ikeda lavora e crea musica principalmente con suoni grezzi, non lavorati (l’essenza, la radice pura del suono), rumore bianco, onde sinusoidali e frequenze al limite dell’udibile. Ma è anche visual artist, perciò accompagna le sue performance con proiezioni o istallazioni, come al Sònar di Barcellona di quest’anno (Spectra: un gigantesco fascio di luce visibile da ogni parte della città generato da molteplici lampade poste al suolo e rivolte verso il cielo cittadino). Grande attesa e alte aspettative mi ero quindi creato per quest’evento. Capisco di essere nel posto giusto quando all’ingresso mi vengono regalati tappini per orecchie.; sul palco un grosso schermo bianco per proiettore, l’esecutore invece dietro tutti sul palchetto centrale. Sprofondo nell’attesa sulla poltrona e mi accorgo che l’età media è abbastanza alta, caso particolare una coppia di anziani vicino a me che probabilmente o non sapevano a cosa andavano incontro o dotati di amplifon. Fatto sta che per un’ora il Teatro della Pergola diventa così uno stargate per matrix, nell’accezione matematica costituita da righe e colonne di dati numerici generanti sia la musica (bellissima, una commistione algebrica tra minimal, glitch e drone) che i visuals ( numeri che creano la nostra galassia o che replicano l’estetica di errori di computazione) in grado di affascinare la vista e l’udito degli spettatori. Un perfetto esempio di contemporary Sounds And Visions. - mr. potato

IOSONOUNCANE Prato, 25/10/2010

Il freddo la fa da padrone, ma mi accoglie il signor Jacopo Incani, in arte IOSONOUNCANE, che mi riscalda con i suoi consigli musicali e pareri sulle sue serate precedenti. Incani ha appena licenziato il suo primo disco “La macarena su Roma” su Trovarobato. Il cane sardo naturalizzato bolognese è solo sul palco, armato di campionatori, chitarra acustica e loop-station. La partenza è devstante con la title-track del suo disco, 10 minuti di flusso di coscienza, “con momenti quanti più violenti in contrasto con momenti quanto più raccolti”, campionature di Maria de Filippi, Sgarbi, esplosioni di tastiera e un finale confuso, al confine con il noise. Sul palco Jacopo dà il meglio di sé, rendendosi partecipe di ciò che suona, impersonificando i personaggi di cui parla, utilizzando la sua voce, leggermente effettata, che è unica nel timbro. Uno dei pezzi migliori della serata è Summer on a spiaggia affollata, quadretto ironico di una giornata al mare. Ed è questo che interessa a IOSONOUNCANE: l’attualità, quello che succede in particolar modo in Italia, con un’indagine che sfiora l’antropologia, gli interessi degli uomini e delle donne di oggi, travolti dal Grande Fratello e da Uomini e Donne. E scorrono così i pezzi del suo debut-album tra cui di risalto sicuramente il Sesto stato. Finito il concerto Jacopo scende dal palco (“Preferisco un palco più basso, più vicino al pubblico” mi confida) travolto dagli applausi, più che meritati, perchè il cantautorato-sghembo-elettronico, suonato a volumi alti dal cane è una delle cose più originali capitate in Italia da diverso tempo. Complimenti anche alla Trovarobato, per aver avuto il fiuto di lanciare questo pastore bolognese, che sta cercando di pascolare verso nuovi lidi la musica italiana. - matmo 3


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DISCO DEL MESE

Rifacciamo White light white heat?

PUTTIN’ ON THE RITZ White Light White Heat [Hot Cup Records, 2010]

Sì, avete letto bene, i Puttin’ On The Ritz hanno “coverizzato” (in due giorni) uno dei (il) migliori dischi della storia della musica, quel White Light/ White Heat, uscito dalle menti dei Velvet Underground nel 1968 e che è divenuto uno dei punti di partenza di tanta musica a venire. I POTR sono fondamentalmente due, l’onnipresente Kevin Shea (Storm And Stress, Talibam!) alle pelli e BJ Rubin alla voce, personaggio, questo, molto particolare, artista e reader del sottobosco newyorchese. I due sono, dopo l’uscita del primo lavoro Bangin’ Your Way Into The Future, uno dei combo più in vista del sottobosco della Grande Mela, famosi per il loro tentativo di riportare in auge, in maniera originale ed innovativa, la canzone d’oro jazz-pop, di interpreti come Franck Sinatra e Jimmy Soul. Per l’occasione sono affiancati da un ensemble che comprende Moppa Elliott, Sam Kulik e Nate Wooley che formano un vero e proprio brass ensemble. Rendere, nel 2010, un disco come quello dei VU non è facile, ma il duo lo fa nel miglior modo possibile, omaggiandolo, decostruendolo, amandolo alla follia e dandogli uno stampa free-punk-cabarettistico che è il loro marchio di fabbrica (o come vogliono essere definiti loro Best Punk Comedy Cabaret Art). Allora partiamo con la title-track, due minuti e mezzo di drumming imperterrito e di reading, mentre in sottofondo si sfalda un muro di fiati. In The Gift invece, a farla da padrone è il sax, che freeggia, seguito da un BJ Rubin scazzone e ubriaco e da un Kevin Shea che non sbaglia un colpo. Il disco sorprende per la freschezza e l’originalità, tra colpi di piatti, fiati extraterrestri e una gran voglia di scazzo. Una simile attrazione per il disco è spiegata dallo stesso Rubin, che racconta sul suo blog di avere, per i primi tempi a New York, in heavy rotation sul walkmen una cassetta con Velvet Underground And Nico da una parte e White Light/ White Heat dall’altra, ed ascoltava solo quello per le vie di Harlem nel 1999. La bravura del gruppo è nel trovarsi tutti allineati, tutti affiatati, con la voce, insieme agli strumenti, riuscendo a (ri)creare le atmosfere dell’era swing, con Kulik che riprende gli stilemi del punk-rock aggiornati alla Swinging-London degli anni ‘60, con una leggerezza incredibile, come fosse la colonna sonora di Blow-up. La miglior traccia del disco è (guarda caso) Sister Ray, un’orgia cabarettistica, dove all’ensemble si aggiunge l’altra metà dei Talibam!, Matt Motel, con il suo organo jazz, iperdistorto che riporta alla mente il lavoro di Cale, l’originale riff di chitarra è invece sostituito dal trombone, creando un paesaggio in bilico tra il punk ed il jazz, dove a farla da padrone è ancora la voce rauca e sconnessa di Rubin. Bravissimi questi due americani che sono riusciti a rendere questo capolavoro della musica, quel coacervo noise, in chiave cabarettistica, dandogli ancora più valore. Ascoltatelo. - matmo Baroque Electro-Folk

SUFJAN STEVENS The Age of Adz [Asthmatic Kitty, 2010] Tell me, do you think of me now as I think of you?

Chi, pur avendo adorato Illinois e Seven Swans, non si è mai accostato ai lavori più sperimentali e in alcuni casi addirittura sinfonici (The BQE) di Sufjan, rimarrà irrimediabilmente spiazzato da questo nuovo lavoro. Anche per gli ascoltatori più attenti a tutte le uscite, tuttavia, l’ascolto di The Age Of Adz rappresenterà una, seppur più smorzata, sorpresa. Mai, infatti, Stevens aveva osato tanto come in questo caso: l’intento (dichiarato o meno) della sua nuova creatura è la ricerca di un equilibrio fra quelle che (possiamo supporre) sono le sue due anime musicali: l’una tenera, bucolica e folk, che non disdegna però impennate orchestrali e atmosfere teatrali, l’altra decisamente più orientata verso l’uso massiccio di strumenti digitali e le atmosfere da gospel/musical elettronico. Per forza di cose, però, la componente elettronica, essendo in fin dei conti quella che siamo meno abituati a sentire da lui, risulta preponderante: ci ritroviamo così in un mondo tutto particolare, che altro non è se la trasposizione in chiave sintetica dell’universo sonoro di Illinois. Se inizialmente ci si trova spesso a chiedersi come sarebbero state questa o quell’altra canzone con un arrangiamento più convenzionale, dopo un po’ si impara ad apprezzare e a capire che l’essenza, quella non è cambiata. Dopo un inizio in sordina e un po’ ingannatore (Futile Devices, illinoisiana fino al midollo), Too Much e Age of Adz ci introducono felicemente in un mondo fatto di robot-giullari e di liquidissime tastierine giocattolo: la prima, mantra dance-psichedelico che declina in uno sgangherato inno minimalista, è il vero manifesto dell’elettronica secondo Sufjan (che, diciamolo, pur essendo assolutamente vintage e scarna, delizia l’orecchio); la seconda non solo suona come un’esibizione dei Dirty Projectors di Bitte Orca alla corte di un signore medievale (con Stevens come special guest?), ma approfondisce l’argomento con il suo continuo morire e riformarsi dalle proprie ceneri folk- synth-pop. I Walked non aggiunge nulla di nuovo, ma si limita a stabilire un nuovo canone di ballata à la Sufjan, ricordando stavolta i Vampire Weekend di Contra. Piano piano si comprende come l’ometto del Michigan adesso voglia soprattutto stupire, divertirsi e far divertire: nel suo disco ci sono idee a sufficienza per ricavare ore e ore di musica che vengono passate in rassegna una dopo l’altra, anche per brevissimi momenti. Così sfilano una dopo l’altra, in una sorta di parata da festa paesana, la ballata “pianistica”e orientaleggiante di Now That I’m Older, la relativamente scatenata e scanzonata (seppur affogata in mistici accordi di synth) Get Real Get Right, prova di compenetrazione perfetta tra gli arrangiamenti analogici e quelli digitali, i piccoli drammi declamatori di Bad Communication e All For Myself (desolata la prima, speranzosa la seconda, superbamente arrangiate entrambe) e soprattutto Vesuvius e I Want to Be Well. Queste ultime hanno il loro punto di forza nello sfruttare in modo particolarmente massiccio ma mai invadente l’eredità artistica di Illinois, e quindi nel contaminare quella ormai assimilata ricetta con tutto ciò che può servire ad arricchirla: Vesuvius, ad esempio, si avvale di un coro femminile e di alcune aperture melodiche che “fanno molto 2005” ma inserisce in mezzo clangori indefinibili e una tastierina impazzita, creando un effetto assolutamente schizofrenico. I Want to Be Well, invece, è un vero e proprio canto liberatorio gospel, imperniato su una serie di crescendo e diminuendo vertiginosi, che trova una risoluzione più o meno pacifica solo dopo sei minuti, dissolvendosi in una nube di gargarismi elettronici. Il finale sembra arrivato, il disco si è concluso lasciandoci tutto sommato soddisfatti: ma no, una nota insistita di sintetizzatore sembra ancora resistere. E’ l’inizio della mostruosa Impossible Soul, dalla quale si è inizialmente intimoriti, poi cullati, ammoniti e infine portati trionfalmente in corteo. Riabbracciamo in una sola canzone tutto il mondo sonoro tipico di Stevens, lo spirito avanguardista si fa tutt’uno con quello più tradizionale, e sebbene Sufjan ci inviti per tutta la prima metà del pezzo a fare attenzione (“Don’t Be Distracted”), non ce ne sarebbe affatto bisogno. Tante sono la varietà e l’inventiva che si arriva agli ultimi minuti (che ancora stupiscono, intonando dal nulla una dolcissima serenata indie pop) con la stessa sensazione di freschezza con cui avevamo cominciato. We can do much more together/it’s not impossible: con un incitamento a migliorarsi Sufjan Stevens si congeda dal lavoro che gli fa varcare il confine del suo primo decennio. Ma più di così è davvero difficile. 4

8 - samgah


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RECENSIONI Psych-pop

DEERHUNTER Halcyon Digest [4AD, 2010]

I Deerhunter sono un gruppo di Atlanta (Georgia), e sono uno dei gruppi fondamentali dell’indierock dell’ultimo lustro. Sono partiti da un suono ruvido, quasi post-hardcore, nel 2005 con Turn It Up Faggot, ma la consacrazione arriva nel 2007 con Cryptograms, un insieme di pezzi che variano dall’ambient all’indierock, con il doppio Microcastle/Weird Era Cont; qui la linea si sposta su un suono più etereo shoegaze. Nel frattempo alcuni dei membri del gruppo si dedicano a progetti solisti, il più rilevante è sicuramente quello del gigante frontman del gruppo Bradford Cox che ha avuto ottimi risultati con i suoi due dischi a nome Atlas Sound (l’ultimo del 2009 Logos). Dopo questo, necessario, sguardo sul passato della band passiamo al loro nuovo lavoro Halcyon Digest. Il disco, rilasciato dalla 4AD è squisitamente (psych?) pop. Le canzoni sono appiccicose, riportano in mente i suoni del pop californiano, estivo e fresco, si sente il peso del progetto solista di Cox, che influenza molto il suono. L’uscita ha avuto una grandissima promozione, infatti la band ha creato un sito dove si poteva scaricare un flyer (creato da Cox) e per coloro che lo pubblicavano arrivava in regalo via mail il singolo Revival e altre B-side. Partiamo proprio dal singolo, un pezzo allegro dove a farla da padrone è la voce di Cox, che intona questo canto, seguito da un drumming che lo asseconda. Uno dei pezzi migliori del lotto è Desire Lines, un inno al passato, psichedelico, con un testo che ci riporta alla mente la malinconia della West Coast degli anni ‘70 ; “Walking free, come with me, far away, everyday” canda Bradford, ottimo anche l’ingresso della seconda chitarra, con un arpeggio che porta alla mente una tiepida giornata di sole; il finale è devastante, con la chitarra che va su e giù sulla scala maggiore, distorcendosi nei punti più alti, accompagnata da un battito continuo e imperterrito di batteria. Helicopter è il pezzo più psichedelico del disco, che ricorda anche nei suoni Cryptograms, sample che riproducono quasi un ruscello di acqua, chitarra imbottita di riverbero e delay, stop and go di batteria accompagnati da vocalizzi celestiali, tastiere eteree, per un suono che non sfigurerebbe in un pezzo dei primi Animal C. Menzione a parte per l’ultimo pezzo He Would Have Laughed, registrato da solo da Bradford e dedicato all’amico recentemente scomparso Jay Reatard; ascoltando il pezzo ci viene in mente proprio la sua faccia sorridente, mai segnata da nulla, di eterno bambino. Riposa in pace Jay. Gli amanti delle sonorità più “avant” dei Deerhunter magari storceranno il naso ascoltando questo disco, fatto di canzoni semplici, ma non ovvie, costruite su strati di suono, con massima cura per ogni particolare. Canzoni che i Deerhunter dimostrano di saper scrivere, ma soprattutto canzoni che parlano direttamente al cuore, facendoci tornare bambini. 7 Folk/Songwriter

- matmo

ISOBEL CAMPBELL & MARK LANEGAN Hawk [V2, 2010]

Dai Belle and Sebastian a La Bella e la Bestia la strada è lunga e ricca di sodalizi artistici. Eccoci

ad Hawk, ultima parte della trilogia che finora ha tenuto insieme l’elegante signorina del pop e il grande songwriter. Niente di troppo nuovo sotto il sole cocente del West: sonorità prese in prestito dalla tradizione americana e due lodevoli cover di Townes Van Zandt. Si apre con la sognante We Die And See Beauty Reign, tetra e acustica. E’ la scozzese che porta i pantaloni in casa, lasciando spesso a Lanegan i controcanti e relegandolo principalmente a due brani : You won’t let me down again e Get Me Behind, nei quali gli è permesso rivendicare il suo passato musicale. La title-track strumentale si perde in una presunta cavalcata selvaggia che risulta poco convincente e inefficace nel risollevare il disco, colto a metà da una vera e propria battuta d’arresto. In Sunrise e Too Hell Back Again, la Campbell solista crea atmosfere interessanti con il suo timbro etereo e talvolta spettrale. Il fine gioco di contrasti che si crea tra voci così antitetiche non delude ne entusiasma. Le melodie spesso scontate e piatte trasmettono l’idea di un prodotto seriale. La coppia focalizzata sul mantenere ed esaltare le caratteristiche individuali di ciascuno, lascia che la magia del duetto si perda per strada, una strada già ampiamente battuta. 5/6

-comyn

Post-spiaggia deturpata

LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA

Per ora noi la chiameremo felicità [La Tempesta, 2010]

Dal 2008, la fetta di ascoltatori indie (ma non solo) aspettava un seguito. Un seguito per capire se questo Vasco Brondi faceva sul serio o no. Canzoni da spiaggia deturpata nel 2008 aveva stregato tanti, tantissimi. Poi V. ha iniziato a diventare uno di quei fenomeni che sbarcano il lunario indie e si impone a tante, tantissime persone, sia per la sua bravura musicale, sia per quella di sapersi creare un personaggio che inquadra la gioventù degli anni 00. Di quel disco se ne è parlato tanto, troppo, ed è nato un dibattito tra coloro che hanno amato, e continuano ad amare alla follia il ferrarese, e chi lo ha amato ma ora lo guarda con un occhio non troppo convinto. E tutti sono stati tirati dentro in questa discussione (compreso chi scrive). Ma ora, novembre 2010, V. è tornato con la sua nuova fatica, Per ora noi la chiameremo felicità (citazione dell’anarchico monegasco Leo Ferrè). La prima cosa che risalta all’ascolto è la maturazione del suono. Oltre al solito “padrino” Giorgio Canali (anche qui magistrale con la sua chitarra) ci sono l’onnipresente Enrico Gabrielli, Rodrigo d’Erasmo e Stefano Pilia, che rendono il suono di Vasco pieno e vigoroso. Ma questa maturazione è anche merito dello stesso Brondi, perchè è cresciuto, è più maturo, ha più padronanza della sua voce e della sua chitarra, tutta l’esperienza fatta in questi due anni gli è servita. E allora eccolo, parlare “di lavori neri, di licenziamenti di metalmeccanici, di cristi fosforescenti” in

10 brani, di alto livello. Le influenze di Vasco qui sono ancora più evidenti, si parte da De Gregori, De Andrè, per arrivare ai poets maudit, a Dario Fo. E allora siamo sbattuti nella post-contemporaneità del singolo, Cara catastrofe (“licenzieranno altra gente dai call center”), nella rabbia elettrica di Quando tornerai dall’estero (“Quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole che fanno piovere”) nell’ironia politica di Una guerra fredda (“il nostro ridere fa male al presidente”). Le migliori tracce si trovano nella seconda parte del disco, con gli urli da piromani di Anidride carbonica e nel pamphlet figlio della sub-modernità de I nostri corpi celesti. Lasciamo da parte il confronto con il disco precedente, ma diciamo che V. non ci ha deluso, anzi si conferma come uno dei cantautori migliori del panorama nostrano. 6/7

- matmo

Psych-rock

CROCODILES Sleep Forever [Fat Possum, 2010]

Secondo lavoro per i californiani Crocodiles, gruppo di spicco di quel calderone che è la scena lo-fi americana: un anno e mezzo fa usciva il loro primo lp Summer of Hate, il quale era riuscito a meritarsi gli elogi di chi intravedeva in loro i nuovi Jesus and Mary Chain (non si smetterà mai di tirarli in ballo, nel bene e nel male). Dal mio punto di vista, piuttosto il lavoro svolto dai Crocodiles era eccessivamente derivativo e aggiungeva poco a sonorità già ampliamente ascoltate. Brandon Welchez e Charles Rowell ci riprovano con Sleep Forever supportati dal lavoro in studio di James Ford, mente di Simian Mobile Disco e produttore (Klaxons, Florence & The Machine e Arctic Monkeys giusto per il dovere di cronaca). Il disco inizia bene: un motorik annuncia infatti Mirrors, prima traccia del disco; si sente subito che rispetto al primo disco c’è dietro un lavoro di pulizia e levigatura con l’introduzione di organi e synth che smorzano i toni generali pur non rinunciando alle chitarre distorte e sporche. Girl in Black è come addormentarsi sotto oppio, mentre la title track deve tutto agli Spacemen 3 più classici e rock ma manca di mordente e di vita propria (sarò cattivo ma il “la-la-la” finale è bruttino tanto). Idem per Billy Speed, con una spruzzata di Gioventù Sonica (altro gruppo in cima alla “classifica dei più citati”). Hearts of Love vuol essere il singolone che ti ammica e ti sorride, ma con me non attacca. All My Hate And My Hexes Are For You è uno dei pochi pezzi che meritano in quanto unisce voce languida, una buona ritmica e un’odore di nuovo kraut. Fatto sta che casa mia Anonimo è la conseguenza derivata da quella brutta attitudine di riproporre pari pari (con annessi clichè) cose che ormai hanno 20 anni (20 anni son troppi senza un adeguato aggiornamento). Mentre nello Shitgaze stesso ci son gruppi molto più meritevoli. A questo disco e alla band stessa manca un carattere distintivo (cosa che non credo gli interessi cercare) per una buona e credibile carriera musicale. 5 - mr.potato Punk- rock/Noise-pop

NO AGE Everything In Between [Sub Pop, 2010]

Vi ricordate quei due ragazzacci di LA che due anni fa avevano fatto perdere la verginità 5


feedback - NOVEMBRE 2010

alle vostre orecchie poppettare? Sono tornati con un nuovo disco e, ringraziando il cielo, almeno loro rimangono una conferma. Che fosse difficile riprodurre un disco come Nouns era evidente agli occhi di tutti, non solo perchè era il primo disco in studio distribuito al grande pubblico (Weirdo Rippers era una raccolta di singoli) ma anche perchè i due ragazzi non erano nessuno e di conseguenza non avevano restrizioni. Il nuovo lavoro invece presenta delle accortezze e dei cambiamenti che non rivelano un cambio di linea o una sottomissione a ordini di scuderia ma uno studio più approfondito di essa. Mi stupisco quando riesco a sentire quasi senza sforzo la voce di Spunt che emerge da pezzi come Chem Trails (molto Sonic Youth) o Common Heat e rimembro i migliori Husker Du con Depletion. La rombante batteria che veniva distrutta in tutti i vecchi pezzi adesso riesce anche a durare per due o tre canzoni e la chitarra di Randall continua a sputare distorsioni che stavolta però sono accompagnate da molta più elettronica. Feedback e loop compongono la struttura di tracce come Sorts e Positive Amputation che danno un tono molto meno fresco e giovane al disco ma che allo stesso tempo lo rendono interessante dal punto di vista musicale. Certo le tracce alla No Age vecchio stampo non mancano ma in definitiva Everything in Between è un manifesto alla loro crescita musicale, che passa dai tre minuti urlati ai quattro più ascoltabili e rifiniti come se il duo avesse smesso di andare alle feste per ubriacarsi e fosse passato ad aperitivi tranquilli. Sempre di alcool si tratta però.

Dream electronic pop

6/7 -w

BATHS Cerulean [Anticon, 2010]

Fortunato Will Wiesenfeld, paffuto ragazzo di Chatsworth: classico smanettone da cameretta di drum machines e controlli midi, pubblicò un video su youtube un annetto fa (una versione di Maximalist “live in bedroom”) riscuotendo un discreto successo. Da lì tutto in salita con l’interessamento da parte della Anticon e l’invito di Daedalus ad aprire lo show di Los Angeles con Flying Lotus and Nosaj Thing. Son proprio questi due artisti (consigliatissimi) a farla da padrona in quanto a influenze in Cerulean. Bravissimo Will Wiesenfeld, perchè il disco è un ipotetico punto di incontro tra un ancor più morbido Four Tet, dai tappeti e dalle melodie estatiche, la scena losangelina sopracitata che ha come minimo comune denominatore beat celebrali e sghembe irregolarità ritmiche, e una spruzzata di pop ipnagogico che va tanto di moda (non più considerabile fuoco di paglia). E’ un disco giocato sulle contrapposizioni tra pop, beat obliqui e rarefazioni elettroniche. Belle tracce, come Maximalist e Aminals: la prima da rave sulle nuvole mentre la seconda motore trascinante di ricordi estivi d’infanzia sbiaditi al sole. E se mentre la prima va in direzione Nosaj Thing con le sue pulsazioni oblique, la seconda sprizza glo-fi e ipnagogia da tutti i pori (direzione Toro Y Moy, Washed Out). Indoorsy è pop alla Neon Indian con un cantato catchy in low fidelity. You’re my excuse to travel e ♥ sono accumunate da un ritmo più lento e romanticone, trainate 6

da pianoforti estatici. Nella conclusiva Departure i toni si fanno ancora più dimessi: ritornello sussurrato e ripetuto come mantra, percussioni distanti e un tappeto elettronico ambient che rende omaggio all’IDM anni 90, Boards of Canada su tutti. Alla fine dell’ascolto ne usciamo rinfrescati, ammaliati e soddisfatti.

7 - mr. potato

NewBornNewWave/Dream-Synth-Pop

TWIN SHADOW Forget [4AD, 2010]

George Lewis Jr. non sarà mai l’uomo copertina dell’eighties-revival. Dominicano d’origini, kitch in ogni particolare, davvero si allontana in maniera abissale dal concetto del dandy anni 80; eppure ascoltando Forget, full-lenght d’esordio che esce per la 4AD, sembra impossibile non far ritorno all’epoca dei mocassini e dei pantaloni a vita alta, quando a farla da padroni erano band come Smiths o Echo & The Bunnymen. Twin Shadow - questo il nome con il quale il nostro bizzarro personaggio si fa conoscere ai più - offre una rivisitazione della new wave in bilico tra sofferto intimismo cantautoriale e scalpitanti beat di matrice New Order-iana. E’ così che la “nuova onda” diventa parabola di un’infanzia fatta di delusioni, afflizioni amorose, trasgressioni. Non sempre i ricordi riescono a farti stare bene, spesso è meglio “dimenticare”. La voce viscerale di Lewis ci accompagna alla riscoperta di una memoria confusa, i cui labili confini stordiscono i nostri sensi, scompigliano le nostre certezze, gettano riflessi oscuri sulla realtà che percepiamo. Tutto è sfocato, incerto, a partire dalla traccia iniziale, una Tyrant Destroyed in cui i riverberi delle voci si mescolano ai riff casuali di synth e chitarra, immergendo l’ascoltatore in un vortice di echi chill-out. Agli arrangiamenti soffusi si affianca anche la strabiliante capacità di Shadow nel realizzare strutture ritmiche mai scontate: prendono vita ballate ipnotiche (Yellow Ballon, Tether Beat), scalpitanti (I Can’t Wait, For Now), propulsive (Castles In The Snow, At My Heels). I groove allucinati si placano solo dopo la frenetica Slow, lasciando un posto di riguardo alla titletrack, vera highlight dell’album, che tra impulsi minimali e atmosfere evanescenti chiude il cerchio delle reminescenze. Forget risuona come un sogno che ci lascia in balia di un tempo e di uno spazio che mai ci apparterranno: non ci lascia promesse, né di amore né di felicità, solo la perfezione dei suoni. 7 - visjo Jazz/ Songwriting

WYATT/ ATZMON/ STEPHEN For The Ghosts Within [Domino Records, 2010]

Scritto a sei mani con il sassofonista israeliano Gilad Atzmon e la violinista Ros Stephen, For the Ghosts Within non è (occorre dirlo?) un semplice album fatto perlopiù di cover. Perchè, evviva i luoghi comuni, se il terzo musicista si chiama Robert Wyatt, uno

che “potrebbe cavar poesia anche dal menù di un ristorante" (non è mia ma mi piaceva), cosa dovremo aspettarci dalla rivisitazione di un classico di Duke Ellington o di Billy Strayhorn? A togliere ogni dubbio la meravigliosa Laura iniziale, dal film omonimo di Gene Tierney; tutto funziona alla perfezione: la voce di Wyatt, le sinuose linee melodiche dei fiati e degli archi, contrabbasso e ritmica appena accennati, e i capolavori, Lush Life, Round Midnight, In a Sentimental Mood, ma anche una Maryan ripescata da Shleep, si susseguono che è una meraviglia. E a chi pensasse che ascoltando What a Wonderful World ormai non ci si possa più emozionare (comprensibile, per carità) questo disco farà bene. 7 - zorba Twee-Pink-Pop

BELLE AND SEBASTIAN Write About Love

[Rough Trade, 2010]

Che dei Belle and Sebastian di If You're Feeling Sinister rimanga ben poco è cosa ormai nota e risaputa, specie dopo quella virata inaspettata che fu, quattro anni fa, The Life Pursuit. Dimenticatevi, quindi, della band invisibile degli esordi, quella delle composizioni fatte in casa, dei rarissimi concerti, dei rifiuti alle interviste: adesso Stuart Murdoch pubblicizza i propri singoli con mini-documentari su YouTube, dove appare ben vestito e ben apprezzato. Write About Love è l’ottava fatica in studio per la band scozzese, la seconda registrata a Los Angeles e prodotta da Tony Hoffer dopo il disco del 2006 o, se vogliamo, dopo il drammatico cambio di corso. Ritornano, quindi, tutti i colori del precedente lavoro (e in particolare il rosa, già a partire dal titolo e dalla copertina), anche se il sound risulta più essenziale, alleggerito da una produzione non proprio lo-fi, ma sicuramente più asciutta di quella, ridondande e monotona, di The Life Pursuit. L’apertura è saggiamente affidata al gioiello pop I Didn’t See It Coming, unica traccia veramente degna di nota insieme al singolo I Want The World To Stop, dove riaffiora per un attimo la genuinità tipica delle linee melodiche B&S. Tutto il resto, infatti, sembra essere molto meno ispirato, si percepisce chiaramente che, anche stavolta, c’è qualcosa che non torna. Accanto a brani del tutto anonimi (I’m Not Living In The Real World, Read The Blessed Pages) fanno quasi bella figura anche canzoni dozzinali come l’ovattata Calculating Bimbo, Come On Sister, la più sovraccarica dell’intero album, o l’epilogo twee di Sunday’s Pretty Icons. Il tutto è avvolto in aura di scialbo romanticismo, che trova forse nella sdolcinata The Ghost Of Rockschool l’episodio migliore. Neanche le collaborazioni riescono a raschiare via la generale patina di mediocrità. Il duetto con Norah Jones, Little You, Lucky Jack, Prophet John, svanisce in poco tempo senza lasciare gran traccia di sé, come del resto fa la titletrack, in cui Murdoch si addentra nei sixties (forse con esiti migliori) insieme a Carey Mulligan (la giovane protagonista di An Education). Tirando le somme di un disco che doveva essere “della maturità”, sembra che Write About Love non rimarrà a lungo nella nostra memoria. Does love always win? 5/6 - visjo


feedback - NOVEMBRE 2010

ROVISTANDO IN SOFFITTA Soundtrack/Dark-Ambient

ANGELO BADALAMENTI Soundtrack From Twin Peaks

[Warner Bros/Wea, 1990]

Se non fossi convinto di stare seduto davanti al computer a scrivere questo articolo probabilmente avrei dei seri dubbi di trovarmi in una tranquilla cittadina americana nello stato di Washington chiamata Twin Peaks, immersa nei boschi e con la classica atmosfera di paese, nella quale però si respira un’ aria strana, pesante, piena di bugie e strani personaggi. É tutto merito di Angelo Badalamenti e della magistrale colonna sonora architettata per la serie televisiva di David Lynch. I fantasmi spirituali e psichici che il regista riproduce nella serie che ha segnato l’italia come tutto il mondo nei primi anni 90 vengono innalzati dalla musica cupa e tenebrosa che pare confusa e segreta come la trama della storia. Melodie lente create da pianoforte, archi, sintetizzatori e basso che presentano spesso accenti di tromba tipici di un jazz rattristito e deluso. In solo tre tracce troviam anche il testo (scritto da Lynch) e sono cantate dalla cantante Julee Cruise’s che con una voce celestiale sembra ridare un po’ di speranza alla mente confusa del telespettatore; ma proprio qui sta il complesso legame fra la musica di Twin Peaks e gli episodi della serie, che come poche altre opere televisive si adattano così bene alla rete musicale tessuta loro addosso da non poterne fare a meno; così la confusione e il senso di smarrimento per la storia intrecciata e senza un apparente nesso logico con la realtà non solo si avvertono nelle azioni dei personaggi ma anche dalle ambientazioni e dalla musica di Badalamenti. La morte di Laura Palmer (evento centrale del telefilm) appare tanto misteriosa e improvvisa che sconvolge tutti gli abitanti di Twin Peaks e perfino l’FBI viene mandato ad investigare sulla faccenda; di li a poco si scoperchierà un pentolone di bugie e fantascienza che rendono difficile intuire dove la serie voglia andare a parare con nuovi interrogativi continui e un filo logico difficilmente intuibile. Tutto questo però non destabilizza affatto la colonna sonora che rimane adatta ad ogni situazione come se episodio e musica fossero

fatte lo stesso giorno. La mente di Lynch e quella di Badalamenti lavorano benissimo insieme. Un ultimo consiglio: guardate Twin Peaks, per molti la capostipite delle serie televisive.

-w

Indie folk/Lo-Fi

ELLIOTT SMITH Roman Candle [Kill Rock Stars, 1994]

Scordatevi le carinerie folk e le ballate gioiose: in Roman Candle, primo episodio solista di Elliott Smith, si canta di trascorsi difficili e di spiriti mai sopiti, si celano un caos di dubbi, di rabbia repressa, di tormento, di crisi interiori. Sembra, molto più che in altri lavori, di ascoltare un Nick Drake cresciuto nella caotica scena grunge di Portland, ammaliata dal punk-rock e dal fenomeno Kurt Cobain, appena suicidatosi. Come può Elliott trovarsi a suo agio in un'atmosfera del genere? Ecco dunque che si rifugia in cantina per registrare la sua musica su un modesto quattro piste domestico, che cattura ogni minimo respiro, ogni stridio delle corde. La voce è sussurrata, alla chitarra acustica se ne affianca occasionalmente una elettrica a puntellare i momenti più drammatici, i testi parlano di un uomo troppo piccolo per sostenere il peso del mondo. Probabilmente la title track non sarebbe stata così esplicitamente rabbiosa nei confronti del padre se Smith avesse avuto realmente l'intenzione di pubblicare l'album (le canzoni furono inviate alla Kill Rock Stars a sua insaputa dalla ragazza). Elliott ci delizia in Condor Avenue, la storia di una donna (la madre?) che sembra prossima ad un destino doloroso; ci colpisce al cuore nei quattro episodi firmati No Name - non si saprebbe dire quale tra questi sia più ammaliante nella sua desolata sinteticità; ci spiazza nella strumentale Kiwi Maddog 20/20 che, con quelle chitarre countreggianti e vagamente psichedelice, conclude gli appena trenta minuti del disco. Oggi, a sette anni dalla morte, il dolore per la perdita di uno dei più grandi cantautori degli ultimi venti anni è ancora vivissimo; un artista

che come pochi ha rappresentato in maniera così toccante e ispirata i suoi demoni in musica. - zorba

Indie folk/Songwriter

ANDREW BIRD & The Mysterious Production Of Eggs [Fargo, 2005]

Bird: difficile da classificare, indubbiamente un artista geniale ed enigmatico polistrumentista all’ennesima potenza, che attinge ovunque. La sua musica è ricca di contaminazioni e generi diversi. Nel 2005 arriva Eggs e con Sovay eccoci catapultati in mondo sognante... è tutto dolce semplice come appare? I testi vorrebbero ingannare con un effetto random: come se nonsense e assonanze si fossero disposti a loro piacimento su un foglio bianco. Sempre ironico e intelligente il Bird scrittore propone una visione insieme distorta e lucida di realtà diverse, con una grande cura e raffinatezza. “My dewy-eyed Disney bride, what has tried/ Swapping your blood with formaldehyde?/ Monsters?/ Whiskey-plied voices cried fratricide!” dice la bellissima Fake Palindromes. Le parole per lui sono soprattutto una questione di suono e poi di significato che c’è, ma non è certo il più ovvio. Il contrasto tra alcuni vocaboli grotteschi e una voce così rilassata rende il tutto squisitamente umoristico. La sinuosa Skin is, my coinvolge con un irresistibile ritmo latino mentre nei due Untitled il violino spadroneggia, tra brezze leggere e punte di virtuosismo. Alla fine veniamo tutti romanticamente esortati a cantare più spesso Happy Birthday (no, non deve avere un senso). Bird crea un sound magnetico, con atmosfere ora fiabesche ora tese. Non è folk, come lo hanno descritto. E’ indie rock a livello molecolare. Con i suoi strumenti primari: la chitarra, il violino e il fischio (immancabile cinguettio, che apre Mx Missiles) tutti perfettamente amalgamati insieme. E così Bird, con grande leggerezza, vola ( fin’ora avevo resistito al gioco di parole) in alto. - comyn

ANGELO BADALAMENTI

Angelo Badalamenti è un compositore statunitense di origine italiana, conosciuto anche come Andy Badale; è considerato uno dei compositori più cupi ed intimisti dell’attuale scena hollywoodiana. La naturale attitudine musicale alle ambientazioni horror e thriller gli è valsa l’affidamento, da parte dei programmatori della Atari, della colonna sonora del videogioco Fahrenheit. Nel 1996 ha pubblicato, in coppia con Tim Booth (frontman della band britannica James), l’album Booth and the Bad Angel, alle cui registrazioni ha partecipato anche Bernard Butler, ex chitarrista degli Suede. Frequentando la Manhattan School of Music di New York ha maturato un raffinato amore per la musica jazz, adattando le proprie conoscenze musicali ad una spiccata curiosità dapprima verso la musica New age, in tempi più recenti verso le nuove frontiere dell’elettronica. È sua la celebre colonna sonora del visionario serial TV Twin Peaks (1990), diretto da David Lynch. La collaborazione con Lynch iniziò nel 1986 con Velluto blu, continuò nel 1990 con Cuore selvaggio e, appunto, Twin Peaks, proseguì nel 1992 con Fuoco cammina con me, nel 1997 con Strade perdute, nel 1999 con Una storia vera e nel 2001 con Mulholland Drive (in cui figura anche da attore nella veste di Luigi Castigliane).

7


feedback - NOVEMBRE 2010

DEEP INSIDE

ELLIOTT SMITH E IL TORO FERDINANDO

..smelling the flowers just quietly, he is very happy

“Tanto tempo fa, in Spagna, c'era un piccolo toro di nome Ferdinando. Tutti gli altri piccoli tori con cui lui viveva erano soliti correre e saltare e scontrarsi con le corna, ma non Ferdinando. A lui piaceva starsene tranquillo e annusare i fiori. Aveva un posto preferito fuori dal pascolo sotto un albero da sughero.” “Ferdinando, el toro” è una storia per bambini scritta nel 1936 da Munro Leaf. Racconta di un toro che, pur crescendo e diventando molto forte, mantiene l’indole pacifica che dall’infanzia lo porta ad evitare gli scontri con i coetanei. Scelto casualmente per partecipare a una corrida, si rifiuta di combattere: invece di inseguire fama e popolarità decide di tornare al suo vecchio pascolo. Elliott Smith

Portland, 1994: Un venticinquenne squattrinato si guadagna da vivere con rognosi lavoretti edili. È anche un ottimo musicista e, quando imbraccia la sua Le Domino, una chitarra acustica più che modesta, si trasforma da muratore improvvisato a cantautore di stampo drake-iano. Si chiama Elliott Smith e ha appena fatto uscire il suo debutto da solista, Roman Candle. Viene da un esperienza nel gruppo “Heatmiser”, uno dei tanti complessi grunge nati all’inizio degli anni novanta, soprattutto in quella Portland ammaliata dal fenomeno Kurt Cobain. Roman Candle è, invece, figlio della necessità di Elliott di silenzio e solitudine; vede, in quel rock cosi “rumoroso” che suona con i suoi compagni, una dicotomia con la delicatezza delle sue canzoni, nelle quali riversa tormenti e crisi interiori. È già evidente, dunque, la ricerca di un albero da sughero che lo allontani dal frastuono della gente. Sulla copertina di Either/Or, il suo terzo lavoro, compare il tatuaggio che Elliott Smith si fece fare in quel periodo, tra una registrazione amatoriale e un pomeriggio passato sulle impalcature. È la riproduzione dell’immagine di copertina del “Toro Ferdinando” di Munro Laef, illustrata da Robert Lawson, che rappresenta, appunto, Ferdinando nell’atto di annusare un fiore. Smith dichiarò a un intervistatore che si era fatto fare quel tatuaggio perché voleva avere sul braccio l’immagine di un toro (“aveva un’attrazione davvero irrazionale per le corride” afferma la Gonson, all’epoca la sua ragazza) e perché provava una certa Elliott Smith solidarietà verso quel personaggio, considerato un fallito in quanto si rifiutava di fare ciò che la gente si aspetta da quelli come lui. Smith disse che, come Ferdinando, voleva agire “fuori dal sistema”. Col senno di poi si possono trovare altre analogie tra le due figure; non è difficile pensare a Elliott come un toro che vorrebbe tanto non essere così grosso (in quanto a spessore artistico): la sola cosa che chiede è un posto tranquillo, lontano dalle pressioni del mondo, che neanche i familiari e i conoscenti riescono a garantirgli (“Stay the hell away from things you know nothing about”, arriva a cantare, rivolto a questi, nei versi finali di Tomorrow Tomorrow). Col passare degli anni e con i primi successi di pubblico le cose si complicano. Elliott sperimenta l’eroina e la canta nella Needle in The Hay di Elliott Smith (il secondo lavoro, uscito nel 1995), dove si parla di marks e di incontri con the man, o descrive in Clementine serate passate a ubriacarsi fino all’alba; veri e propri spaccati di vita, interpretati con voce sofferta e consueta chitarra acustica imbevuta di accordi in minore. La ricerca di stabilità emotiva attraverso droga e alcool non fa altro che innescare un meccanismo autodistruttivo che, soprattutto verso l’inizio del 1997, lo porta a una forte depressione e a veri e propri episodi di incoscienza: si risveglia in mezzo alla strada, salta nel vuoto dagli scogli e, proprio a seguito di uno di questi fatti, viene portato per un paio di settimane in un ospedale psichiatrico in Florida: quanto di più lontano dai tanto agognati campi fioriti di Laef. Il 1998 è un anno ricchissimo di avvenimenti: l’incontro con il regista Gus Van Sant, il quale gli chiede di poter usare alcune sue canzoni di Either /Or come colonna sonora del suo nuovo film; la firma per la casa discografica Dreamworks di Spielberg, con la quale Il Toro Ferdinando pubblica i successivi XO (1998) e Figure 8 (2000); la candidatura agli Oscar di Miss Misery come migliore canzone. Oltre a una svolta di tipo musicale (Elliott si allontana definitivamente dal minimalismo degli esordi per abbracciare l’idea di una canzone più aperta a orchestrazioni e armonie vocali), si assiste dunque a un forte successo: ormai Smith è un personaggio pubblico, che fa concerti in tutto il mondo (Giappone e Australia compresi). Come il Toro Ferdinando, ha raggiunto, volente o nolente, la notorietà artistica; a Elliott è sempre mancata, però, quella tranquillità che le forti pressioni esterne, i trascorsi tormentati, ricorrenti quasi come spettri, e un animo troppo fragile gli hanno precluso, quell’albero da sughero isolato dal mondo che l’avrebbe risparmiato dalle situazioni di disagio e di fragilità emotiva. Negli ultimi anni della sua vita, tra il 2001 e il 2003, le interviste e le esibizioni dal vivo di Elliott si fanno sempre più rade. Mentre la sua salute psichica peggiora, lavora a From a Basement on the Hill (che non conclude e che uscirà postumo), ritratto di un artista più che mai fragile, estremamente schiacciato dal male di vivere. Imbottito di psicofarmaci e con costanti problemi di alcool e droga, Elliott, la sera del 21 Ottobre 2003, sceglierà la più drastica tra le vie di fuga. - zorba 8


BEASTIE BOYS

feedback - NOVEMBRE 2010

Three Idiots Create a Masterpiece

Vi racconterò una barzelletta: ci sono un batterista un chitarrista ed un bassista che nel 1982 a New York mettono su una band punkhardcore, hanno un discreto successo e pubblicano qualche ep ben visti dall’apparato underground newyorkese e dalle altre band più famose (Dead Kennedys Bad Brains);ottengono un contratto con la Def Jam del diciannovenne Rick Rubin e a quasi trent’anni di distanza sono nella Hall of Fame dell’ hip hop. Cosa c’entra l’hip hop con il punk-hardcore? C’entra se si riesce a capire quanto fosse imponente la spinta che esso riceveva nei primi anni 80, le city americane si riempivano di graffiti, B-boys, scarpe alte e radio da portare in spalla che sputavano pezzi dei Run Dmc così i tre bianchi cazzoni ebrei ( Adam Yauch “MCA”, Michael Diamond “Mike D” e Adam Horovitz “Ad-Rock”) pensarono bene di infilarsi in quel mondo in maniera innovativa dando vita ad uno dei miracoli musicali più grandiosi di sempre. I Beastie pubblicano il loro primo disco Licensed to Ill nel 1986 e spopolano ovunque, il disco è primo per vendite nella classifica americana rap nonostante non sia un disco prettamente hip hop e subito si ha l’impressione che qualcosa stia cambiando; la chitarra violenta aiuta a proclamare a gran voce frasi demenziali con sventagliate hard-rock e testi da ragazzini viziati del college, si sente lo stampo rap in molte tracce ma si ha l’impressione di rimanere a metà e non capire il genere del disco. Tutti i dubbi vengono spazzati via dal secondo album Paul’s Boutique, questo si elaborato rap di ottima fattura, rivelando la voglia di sperimentare del trio che lascia la Def Jam, si trasferisce a Los Angeles e grazie alla Capitol incontra i Dust Brothers. I fratelli compongono per loro un tappeto di basi e sample non propriamente hip hop che introducono ad un nuovo modo di concepire un disco rap e coadiuvano insieme ai testi e alla frenesia dei Beastie (ben felici di rinnovarsi di nuovo) ad un altra rivoluzione. Check your Head nel 1992 incanala tutto il flusso confuso e innovativo di un gruppo che con questo disco si merita l’appellativo di “Master of Crossover”; molti pezzi, molte sfaccettature, ritmi orientali influenzati dalla passione dei tre per il buddismo, lampi di free-jazz (Groove Holmes) e canzoni che paiono degli sketch telvisivi da SNL. Sembra incredibile ma non lo è, perchè i tre hanno trovato un’altra via alternativa. Non si parla più di sviluppo ma di maturazione, nel 1994 arriva Ill Communication: venti pezzi di rap rock e crossover che non sono secondi a nessun precedente, brani vecchio stile come Root Down,flauti trombe chitarre e poi Sabotage che colpisce le orecchie come un urlo di giustizia (consiglio la visione del video). Il crossover è maturato al punto giusto adesso bisogna cambiare. “Hey yo what’s up Adam this is Mic Master Mike” celebre la telefonata all’inizio della canzone Three Mc’s and one Dj che testimonia il completo cambio dell’album Hello Nasty nel 1998. Arriva dj Mike e i Beastie boys si trasformano completamente in un gruppo rap, questa volta però i tempi sono cambiati perchè l’elettronica sto conquistando il mondo della musica e così il nuovo disco si riempie di correnti dance, dub, trip hop; tormentoni dallo stampo elettronico e nuovi beat avvolgono i rap a tre voci e il successo è enorme. Ancora una volta due grandi video contribuiscono al divertimento visto come obbiettivofinale: Intergalactic e Body Movin’.Passa il tempo e tanto cose accadono, la caduta delle torri gemelle scuote i tre che decidono di dedicare un concept alla loro città e così nasce To the 5 Boroughs inno alla povera New York attaccata su due lati da barbari (uno è il presidente Bush) che vogliono contaminarla. Questa volta il trio demenziale si trasforma in un trio serio e impegnato per difendere i valori del proprio paese, così i testi diventano scomodi e la musica si rifà alla old school tutto però senza rinunciare ad un po’ di comicità e umorismo che in momenti come questo non guasta mai. Dopo tutto questo ecco perchè sono nella Hall of Fame dell’Hip Hop e anche in quella del Rock, perchè nessun bianco aveva mai osato rappare figuriamoci rivoltare come un calzino l’intero genere musicale per tirarne fuori diverse e nuove aperture. La stupiditàcome essenza, il gioco come lavoro, i Beastie Boys non sono particolarmente bravi in niente ma sono divertenti in tutto.

MASSIMO VOLUME

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chi l’avrebbe mai detto di ritrovarci qui, seduti di fronte alle nostre parole

Ritrovare un amico, un vecchio compagno d’avventura dopo 10 anni fa piacere; scoprire che, dopo tanto tempo, è cambiato poco o nulla, che è ancora in forma ed è pronto a raccontarti nuove storie, fa ancora più piacere. A 10 anni dall’ultimo lavoro Club Prive, i Massimo Volume (Emidio Clementi detto “Mimì”, Vittoria Burattini, Egle Sommacal, Stefano Pilia) tornano ad occupare l’attenzione di fan/web-zine, e anche noi, nel nostro piccolo, dedichiamo loro un po’ del nostro spazio. Cattive Abitudini, licenziato da La Tempesta, è il quinto capitolo dell’esperienza musicale di Emidio Clementi e soci; esperienza che ha segnato indelebilmente la storia del (post-)rock italiano, dimostrando spesso originalità compositiva e capacità espressiva non comuni. La band bolognese si forma nel ‘91 e pubblica la prima uscita nel ‘92, con una demotape (ormai da collezione), ma è l’anno successivo, con Stanze, che inizia a farsi un nome nell’underground italiano. Il capolavoro arriva nel 1995, quando con Lungo i bordi i Massimo Volume continuano e completano il discorso iniziato con Stanze due anni prima; seguono altre due uscite che tuttavia non raggiungono le vette toccate in precedenza. A questo punto il gruppo si divide, con esperienze soliste (Egle Sommacal) o con nuovi progetti (Mimì con gli El-Muniria, la Burattini con i Franklin Delano). Tornano insieme nel 2008 per musicare un film muto di Epstein, Fall of the house of Ushes, per poi ritrovarsi di nuovo in sala e partorire il recente lavoro. Senza troppe precauzioni, si può dire che i Massimo Volume sono un gruppo fuori dal comune, che da sempre ha posto la sperimentazione (nei testi, quanto nella composizione) alla base del proprio far musica. Il suono, sempre molto ricercato, studiato, mai approssimativo, è forse figlio di lontani ascolti del primo post-rock (Slint), ma lo si può anche far risalire ai primi King Crimson, ai Sonic Youth, ai Fugazi; i testi narrano incessantemente di storie, di ricordi e di sogni, di personaggi misteriosi e cupi, ma allo stesso tempo concreti, quotidiani, veri; Mimì, autore di tutti i testi, scrive, narra ed urla spesso in prima persona le storie raccontate, come se fossero esperienze di vita vissuta (in parte vero), scegliendo le parole con estrema attenzione e cura maniacale. Il risultato (come già è stato definito, non sono certo io l’autore di tale definizione) è un post-rock “cinematografico”; la musica, inquitante e coinvolgente al tempo stesso, è colonna sonora di un immaginario film narrato dalla potente voce di Clementi ed avvolto in un’atmosfera, che altro non è se non la perfetta commistione tra parole e musica, tra sceneggiatura e scenografia musicale. - fragor 9


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MINIMALISMO E POLITICA Il minimalismo è una corrente artistica che si genera tra gli anni ‘50 e ‘60 in Inghilterra e U.S.A. Ha coperto più campi: musica, scultura, pittura, ecc. Le sue peculiarità sono l’ utilizzo di un linguaggio quantitativamente scarno e la serialità degli elementi compositivi. I personaggi di spicco nella pittura/ scultura di questo movimento sono: Donald Judd, Carl Andre, Sol Lewitt, Robert Morris, Dan Flavin, Richard Serra. Nella musica troviamo: Steve Reich, Philip Glass, Terry Riley, Michael Nymann, in parte Arvo Part, e Rhys Chatham. Sembra che l’utilizzo di forme gometriche essenziali (cubi, quadrati, cerchi, rettangoli, ecc.) monocromatiche, e ricavati da materiali industriali (come ad esempio l’acciaio, o il feltro), sia un esercizio provocatorio, o addirittura, come controparte, la ricerca della qualità essenziale, la ricerca dell’ idea e dello sviluppo della forma. Vorrei ricordare quando Jannis Kounellis ha combattuto la sua battaglia concettuale contro i minimalisti e le loro forme geometriche ipostatizzate e statiche. Può non risultare simpatico un movimento che affonda le radici nell’ idea di Frank Stella del quadro stesso come oggetto. Altro che l’anestetico di Duchamp!

Philip Glass

Terry Riley

Qui si rischia di “svilire l’ opera d’arte” rendendola riproducibile, qualitativamente inferiore all’ idea nobile dell’ opera d’arte. Ma magari questo può solo essere un caso della pittura/scultura. Ascoltando la musica minimalista, come potrebbe essere Drummng di Steve Reich, ci troviamo di f! ronte alla ripetizione e ripetibilità delle linee musicali. Le linee di percussioni che si sormontano, con l’utilizzo in studio di nastri da parte del compositore, fanno in modo di creare, oltre che l’ ipnosi dell’ identico, un effetto straniante ottenuto col phasing: tecnica che consiste nello spostamento dei nastri allineati in modo che il ritmo si sfasi e successivamente cambi, per poi tornare come prima. Insomma, con i moderni mezzi che abbiamo a disposizione ( computer, nastri, registrazioni in studio, ecc. ), chiunque può fare musica, od opere d’arte. Il fruitore si sente preso in giro perché ancora associa la figura dell’ artista a quella del genio irripetibile. Ma Andy Warhol ha sempre detto: “Nessun quadro è orfano”. Opere come i pavimenti di materiali grezzi Carl Andre non devono essere prese come fenomeno di “svogliatezza”, o “puerilità d’ ispirazione”.

La cosa che va ricordata è che l’ opera d’ arte non ha criterio mi! metico, non imita qualcos’ altro. Paradossalmente, per quanto ! all’ interno delle opere si riproducano suoni in serie, o immagini ripetute, non si va al di fuori dell’ opera. Non c’è altro oltre la rap-presentatività dell’ opera. Si prendano i neon colorati di Dan Flavin ( Majakowskij, For Those Who Have Been Killed In Ambush, William of Ockham ) si troverà il riscontro della sua dichiarazione ai giornalisti in cui dirà che nelle sue opere non vi è niente. Sono fasci di luce colorati disposti in un certo spazio. L’ ambito retorico e formale è quello a cui aspira. Anche se, comunque, si respira un afflato etico e religioso ( come nel secondo lavoro citato sopra dedicato alla morte del fratello in Vietnam ). Non va dimenticato che i minimalisti, per ottenere le loro opere sono dovuti andare a rintracciare i materiali delle opere ( fabbriche, rumori di strada, ecc. ) e tecniche compositive ( progetti industriali, musica popolare, ecc. ). Il loro tentativo di essenzialità è stato dato dal mondo Alvo Part circostante ( si! rimembra la lezione di John Cage ), per poi essere riprodotto e riproducibile ( i neon, la ripetizione delle frasi, le basilari forme geometriche tridimensionali e non ), poiché i mezzi di cui oggi l’ artista può disporre sono essi stessi riproducibili. Mi appellerò alla testimonianza di un grande filosofo come Walter Benjiamin ( 1892 - 1940) che scrisse L’ opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica in cui parla, oltre che delle rappresentazioni del cinema e della fotografia come autoriconoscimento per le masse, della riproducibilità dei mezzi stessi; e tutto questo senza toni apocalittici. L’opera d’ arte avrà magari perso la sua “aura” dell’ unicum, ma ci ricorda che questo non è necessariamente un male, poiché l’opera non rimane più qualcosa di elitario e di piccole cerchie di culto. Essa diventa democratica. Un conto è l’ opera come “estetizzazione della politica” ( autoc! elebrazione del potere ), altro è come “politiciz! zazione dell’ arte” ( arte come mezzo di potere popolare, come il cinema di Vertov ). Fuori luogo scomodare un pensatore così importante per questioni così indifendibili? Ok, sentiamo la parola di uno dei diretti interessati. Parla l’ artista Carl Andre, il quale in un’ intervista afferma: “La mia opera è atea, materialista e comunista. Atea perché è priva di forma trascendente, non ha caratteristiche spirituali o intellettuali. Materialista perché è costituita dei propri materiali, senza cercare di imitarne altri. E comunista perché la sua forma è ugualmente accessibile a tutti gli uomini”. - gorot

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VIAGGI EXTRASONORI

HORROR VACUI E STASI CREATIVA ...la narrazione in varie forme... Eccomi qui, davanti a questa pagina bianca...devo scrivere un articolo ma non so assolutamente come cominciare...ho fame...allora, potrei partire parlando di quel film che ho visto l'altroieri...oppure mangiando quel muffin in cucina...no! non devo perdere tempo...vediamo un po', la parte del film che mi è piaciuta di più è quella dove il protagonista ha una sorta di blocco creativo..certo che quel muffin dev'essere proprio buono! *scappo in cucina* Oh no, è già passata un'ora! E adesso? Non ho ancora trovato un modo per cominciare questo dannato articolo...mi sta succedendo la stessa cosa del protagonista de "Il ladro di Orchidee", bel film di Spike Jonze coadiuvato da quel genietto di Charlie Kaufman alla sceneggiatura. Interessante il modo in cui viene narrato il film: realmente lo sceneggiatore, dopo le riprese di Essere John Malkovich che lo aveva fatto conoscere al grande pubblico, non riusciva a stendere un copione de Il ladro di orchidee (adattatura di un libro che esiste realmente), gettandolo nel più profondo sconforto. Da qui la brillante idea di rendere se stesso protagonista, con tutte le turbe mentali e la mancanza di autostima che derivano dall'avere un blocco creativo e dover comunque rispettare certe scadenze dettate dai produttori. “Ho fallito, sono in preda al panico, non ho niente da dire, non valgo niente...che cazzo ci faccio qui? E' la mia debolezza, la mia totale mancanza di convinzione che mi ha portato qui...” Ora che ci penso tutto il film è basato su diversi strati di narrazione: c'è quello interiore del protagonista attraverso la voce fuori campo che è anche per me il più bello e divertente (ironica quando, durante un seminario per aspiranti sceneggiatori, la voce del professore irrompe tra i pensieri del protagonista "mai usare la voce fuori campo, cazzo!") e da solo vale il film formando un classico universo psicotico. C'è poi quello reale (del film) che porta alla rocambolesca conclusione e quello reale (della realtà) che poi in ordine è il primo poichè fa scattare la molla della narrazione. Mi salta subito in mente l'immagine di Nicholas Cage/Kaufman seduto davanti alla macchina da scrivere che fissa il foglio bianco. Stessa immagine presente nel videogioco Alan Wake (Remedy, 2010) dove tutta la storia prende corpo proprio da un blocco creativo dello scrittore Alan. Infatti sotto consiglio di sua moglie Alice, stanca della frustrazione del marito, i due si trasferiscono nella radiosa cittadina di Bright Falls, sperduta tra le montagne (i rimandi a Twin Peaks sono onnipresenti). Via via che si prosegue il videogioco ci si distacca sempre di più dalla realtà abbracciando una visione onirica ma distopica dove il protagonista lotta contro se stesso e il suo stato di paranoia/pazzia intraprendendo un cammino di redenzione attraverso una ben resa contrapposizione tra luci e ombre, realtà e incubo. Entrambi perfetti esempi di horror vacui, cioè paura del vuoto (o del bianco di un foglio/tela) che si fa opprimente. Il termine infatti fu coniato dal critico Mario Praz per descrivere l'atmosfera soffocante dell'arredo nell'età vittoriana. Sì perchè, quando non si sa come muoversi nel vuoto e non si ha padronanza di esso la reazione più istintiva è la volontà di riempire meticolosamente tutto lo spazio disponibile. Che è poi la reazione del protagonista di Otto e Mezzo, il capolavoro di Fellini: anche qui il protagonista è il regista Guido Anselmi, sorta di alter ego dello stesso Fellini che, arrivato a otto film più un cortometraggio, sta attraversando un momento di profonda crisi creativa, sentimentale e anche umana (l'incapacità di agire e comunicare) Come scrisse Moravia, è la storia di un autore che non ha più niente da dire e ci racconta perché: “Una crisi di ispiration? E se non fosse per niente passeggera, signorino bello? Se fosse il crollo finale di un bugiardaggio senza più estro né talento?” Vessato da produttori, giornalisti, amici, attori, moglie e amante il protagonista si rifugia nei ricordi d'infanzia, in sogni bizzarri i quali riflettono il suo profondo desiderio di libertà alla ricerca di un'ordine in mezzo al caos della sua vita. Ma la fantasia,per quanto accomodante, non risolve le crisi e fuggire per sempre non è possibile, così Guido si ritrova ad un rinfresco davanti al set dell'ipotetico film, un'elefantiaca quanto inutile piattaforma di lancio per un'astronave (eccoci all'horror vacui). Solo dopo la rinuncia al film avviene la realizzazione che esso parlerà proprio di questo, della sua crisi e del suo caos che compone la sua vita: il protagonista altri non è che lui in persona. E nella scena finale, con una marcia circense che coinvolge tutti i personaggi, la metanarrazione ha inizio. - mr .potato

LO SPETTACOLO NELLA SOCIETÀ

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini”

La principale manifestazione della società dello spettacolo è la televisione. All’interno della televisione ciò che viene seguito da persone di provenienza ed età eterogenea sono i telegiornali. Infatti anche i telegiornali sono diventati spettacolo: l’ordine degli articoli, i montaggi, i presentatori, tutto segue una precisa logica. Facendo un salto nel tempo, nemmeno troppo tempo fa, Pasolini scrisse l’articolo Acculturazione e acculturazione (9 dicembre 1973, pubblicato su Il Corriere della Sera) in cui esponeva già questa teoria, sostenendo che con la televisione è iniziato un processo di “omologazione”, che ha portato, a un rattrappimento delle facoltà intellettuali, poiché essa spinge i proletari verso la cultura, li fa vergognare della loro ingoranza e li porta sulla via del sapere, che li rende infelici, come lo sono i piccoli borghesi, che non trovano nulla di nuovo nella televisione e nella cultura che già hanno, e hanno quindi un quieto vivere, piatto e privo di slanci. Quindi per Pasolini l’anima italiana era sopravvissuta al Fascismo, ma non alla televisione. Ragionamenti analoghi a questi venivano fatti da un altro grande intellettuale del ‘900, Guy Debord che nella sua opera “La società dello spettacolo” (1967), in maniera molto più politica rifacendosi ai concetti di Marx (non a caso il libro era un manifesto del ‘68 parigino) dice che “Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale”. Le parole di questi due grandi visionari ci devono far riflettere, soprattutto per gli anni in cui sono state pronunciate (50 anni fa). Oggi siamo schiavi dello spettacolo e in particolar modo della televisione, veniamo storditi da ciò che ci viene fatto vedere, ce n’è per tutti i gusti, in particolare per le donne (che in media guardano più televisione), programmi che parlano sempre delle stesse cose, ma che in fondo servono a “fare compagnia”: cosa preparare da mangiare, gli oroscopi, che si capisce bene, fuggono da ogni regola e ragionamento e per questo son bramati, e poi gli sguardi nostalgici ai “migliori” anni oramai trascorsi. Per gli uomini stravince lo sport, che è bello, ma soprattutto un argomento interminabile, perché si puo’ dire di tutto e di tutto, il contrario, senza mai finire. Noi, civiltà di oggi, siamo come degli aquiloni, pensiamo che il nostro Charlie Brown ci faccia volare leggeri ma in realtà siamo in balia del vento, pronti ad essere mangiati dal nostro amico “albero mangia-aquiloni”. - matmo 11


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JOSEF K.

E LA POSSIBILITA DELL’IMMAGINE

Il Processo, opera del 1925 di Franz Kafka, è uno dei romanzi più famosi nella storia del ‘900. Famoso prima di tutto per la sua incompiutezza, successivamente per la sua riflessione sul potere della legge. Ma l’incompiutezza al di fuori del romanzo rispecchia un’ incompiutezza anche al suo interno. Non solo l’incompiutezza di uno scrittore, ma anche l’incompiutezza del personaggio nella vicenda. Fin dalla prima riga del romanzo “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato” si inizia ad intuire uno spirito di incertezza e di abbandono. Tutta l’opera è attraversata da dialoghi in cui l’incomprensibilità regna. Paradossalmente la dimensione del linguaggio in questa opera è completamente assente. Non mi si fraintenda, è un linguaggio che ha come soggetto, e come scopo, se stesso. Massimo Cacciari, nel suo saggio Icone della legge, definisce bene i termini delle continue domande che si pongono i personaggi di Kafka all’interno delle sue vicende: non è un domandare che trova risposta, e non è una domanda che vuole fare risuonare l’enigma. Ma è la dimensione del puro domandare, al di là e prima di ogni scopo. Se il linguaggio è la dimensione che non può essere abbandonata, e se la sua logica è assolutamente incomprensibile alla ragione, vi è però un linguaggio, che utilizzando la stessa logica, si lascia lontanamente comprendere: il linguaggio dell’ immagine. Secondo Michael Lowy, si può prendere come riferimento il capitolo settimo in cui Josef K. conosce il pittore Titorelli che mostra il suo dipinto allegorico della Giustizia: una Giustizia la cui bilancia è pendente, e nonostante la sua benda sugli occhi, e il suo squilibrio evoca la Vittoria. Josef K. poco dopo intravede in quella figura, non la Giustizia, non la Vittoria, bensì la Caccia. Si voglia ricordare anche il romanzo America del 1927 in cui Karl Rossmann, nel suo approdo a New York, vede la statua della libertà che non impugna la torcia, o la fiaccola, ma una spada. Si consideri adesso, come ultimo esempio, l’apologo Davanti alla legge: la parabola del prete all’interno del duomo della città. L’uomo di campagna, che aspetta fino alla sua morte il Franz Kafka momento di passare per la porta della Legge (la porta che aspettava soltanto lui, la porta aperta che lo abbagliava), ne rimarrà al di fuori. Non si tratta di non aver colto l’occasione di passare. Si tratta del fatto che la porta, fatta per essere chiusa e poi aperta, è la metafora della scoperta, del dis-velamento della realtà. Quella porta aperta non può essere passata perché è evidente cosa vi è oltre, è illuminata. La guardia stessa annuncia cosa c’è oltre essa. Il mistero non aleggia assolutamente in Kafka. Il senso da scoprire è completamente annullato. Tutto è incomprensibile poiché eccessivamente chiaro. La realtà è il satollo, è tutto pieno di sé, statico, definito e inamovibile. L’ immagine è l’unica cosa che parla chiaro in Kafka. Proprio per questo l’immagine non dà possibilità, non dà alternativa, non lascia adito ad interpretazioni. Quando il senso si svelerà si capirà che il senso assolutamente apparente è stato totalmente inutile. Proprio quando si era capito che la Legge poteva ospitare, solo allora, si capirà che non era fatta per ospitare. La legge è evidente nella sua estrema contraddittorietà: io, Legge, sono così chiara affinché tu non possa capire la mia più grande contraddizione. Il ritratto di Titorelli, incompiuto e chiesto su commissione, lascia intravedere comunque la verità nascosta della legge, la verità s-velata. Ma è solo nell’incompiutezza che si può azzardare la continua interpretazione, l’eterno dialogo, il tendere verso il senso. - gorot

Errata corrige: nelle recensioni del numero di Ottobre il titolo dell’ultimo lavoro degli Uochi Toki non è ovviamente My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky (in realtà made in Swans) ma Cuore Amore Errore Disintegrazione. Ci scusiamo per la svista. Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti. Grafica, impaginazione e web a cura di Francesco Gori. Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel novembre 2010. Per informazioni, critiche e consigli: info@feedbackmagazine.it 12


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