#17 Febbraio 2012

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feedback

Anno II - Numero 17 - Febbraio 2012

matt elliott

leonard cohen · gonjasufi · teatro degli orrori · cloud nothings · air · bologna violenta · of montreal


artista del mese

Matt Elliott viaggio nella trilogia della vita Inevitabilmente, c’è un simbolismo implicito quando un artista, dopo anni trascorsi a nascondersi dietro un semi-oscuro pseudonimo – con un profilo a testa bassa, occhi che guardano a terra, spalle alte e schiacciate - mette fuori un disco sotto il suo nome all’anagrafe. L’ex membro fondamentale dei Third Eye Foundation, Matt Elliott ha trascorso gran parte della sua carriera discografica come un hipster alla moda britannica in un travestimento tenebroso: così, il salto da “Third Eye Foundation” a “Matt Elliott” dovrebbe comportare una bella dose di confessionalismo, una ritrovata onestà, una reinvenzione di sé, un intimismo aperto a chiunque voglia entrarvi. L’inizio di questo progetto solista è del 2003 con il disco The Mess We Made. Tecnicamente, in questo disco, ci sono un sacco di opzioni degne di nota che indicano una immediata (se non travolgente), trasformazione dei contenuti e della cornice, per accompagnare i testi brillanti e personali di Elliott. Principalmente beat privi di percussioni, impalpabili, bloccati dalla sordina, voci fortemente stratificate; The Mess We Made è pieno di piccolezze: voci, spesso impercettibili, un sacco di pianoforte, fiati, archi, carillon, e l’abilità vocale di una cosa chiamata The Drunk Ensemble of Chancelade . L’opener Let Us Break è piena di guizzi, si gonfia di vocalizzi quasi lirici che suonano più come organi da chiesa installati in corde vocali umane, frasi confuse spinte in un vuoto altrimenti desolato di pianoforte e drone. Cohtard’s Syndrome si

costruisce lentamente, dietro linee di synth e voce elaborata. Forty Days inizia vagamente medievale, con una impressionante raccolta di chitarre classiche (nitide e selvaggiamente melodiche), violoncello, e, infine, alcuni tamburi. Quasi cinque minuti, il brano scivola direttamente in un buco nero, un paesaggio percussivo. Inquietante, complesso, strano. The Mess We Made richiede pazienza, e, idealmente, un gusto che già prefigura il futuro. Dai tempi del primo disco solista, l’ex membro di Flying Saucer Attack si è trasferito da Bristol in Francia, una mossa che ha evidentemente portato la sua musica verso lidi sempre più spettrali e pieni di influssi letterari. Come indicato dal suo titolo, Drinking Songs è un album che vive fortemente negli spiriti, dentro ognuno. Su queste tracce, Elliott sembra affrontare il mondo dall’interno, senza sole, affogato in un bicchiere di assenzio, con i suoi arrangiamenti strumentali minimali. Lo skyline si fa quindi ancora più rarefatto e intimista. Figlio diretto di questa scelta è il consapevole abbandono dell’utilizzo dell’elettronica e una sperimentazione fortemente classica.
Archi luttuosi, e chitarra delicata, Drinking Songs segue The Mess We Made come un altro passo difficile, lontano dalle texture jungle atmosferiche dei Third Eye Foundation. Qui Elliott ha tratto maggiore ispirazione dalla musica popolare dell’Europa orientale e della musica da cabaret, dalle sue composizioni maestose, raggiungimento di un dramma malinconico simile a quello vissuto da

Tom Waits e dei Bad Seeds. Ciò che distingue però Elliott è la cascata di voci impressionistiche, come nella sanguinante The Guilty Party, dove questi vocalizzi stratificati si allontanano quasi impercettibilmente in secondo piano fino a rendersi a malapena distinguibili dal resto della sua orchestra. In generale ci troviamo di fronte a un Matt Elliott etereo e ad una raccolta inquietante. Primo tassello questo disco di una trilogia di Songs che prosegue rispettivamente con Failing Songs e Howling Songs. Le Failing Songs, sono canzoni di fallimento, la consapevolezza, messa in musica, del ricordo perenne della nostra scadenza. Qui Elliott rincara la dose con una verve politica d’altri tempi, denuncia con ancor più convinzione il male dei nostri giorni. Racconta di schiavi del capitalismo, di violenza sociale, di tutti coloro che sono al potere. Ecco perché ferisce come un pugnale, e perchè è così enorme. Suona con 12 ninne nanne inquiete e si blocca con noi, nella convinzione amara che la verità è amaramente inconoscibile. Passiamo all’ultimo capitolo della trilogia. Per dirla semplicemente, Howling Songs è come nessun altro disco di Matt Elliott, il più potente e il più sofferto: qui la maturità, già ostentata in precedenza, supera anche l’ultima frontiera. Le spie ci sono tutte. L’applicazione di una tensione dinamica, il rigurgito sanguinante di post rock, quello che può esistere, nascosto, nella musica popolare spagnola; in più, le voci emotivamente risonanti, i climax mozzafiato e il profondo, risonante, lamento del cuore. Ogni canzone è la variazione dello stesso modello, ma il viaggio che le porta alla costruzione è per tutte diverso, non è mai un solo spettacolo da vedere, ma un prisma colorato, sempre il solito, ma che, a seconda di dove il sole batte, cambia colore. A Broken Flamenco è emblematica di questo stile: Matt incastona il marasma sonoro della sua potente parte centrale tra un inizio disincantato e un sorprendente finale romantico, con la compostezza del pianoforte che non viene erosa dalla componente rumoristica della coda finale. É il tipo di album in cui perdersi, passando gli interi 47 minuti sul gioco infinito di creazione di paesaggi e sogni nella testa. Con questo disco Elliott chiude il decennio e la sua personale, intima, trilogia. Finisce, per ora, il suo cammino dannatamente vicino alla perfezione. Adesso, nel 2012, Elliott è tornato, con The Broken Man, sorta di continuum della trilogia a cui non rimanda direttamente ma che evoca in più punti. Con un suono oramai ridotto all’osso, pieno di sangue e polvere. - matmo


disco del mese - recensioni Songwriter

LEONARD COHEN Old Ideas [Columbia, 2012]

Attingere al fondo del barile è una triste consuetudine per tutti quegli artisti che, ormai a corto d’ispirazione, non si rassegnano ad un sereno ritiro dalle scene musicali. Quando però si tratta del cassetto delle “vecchie idee” di Leonard Cohen, tentare il paragone con quello di chiunque altro è, senza ombra di dubbio, tempo perso. Il cantante canadese, per nulla intenzionato a nascondersi dietro il suo status di leggenda, presenta con molta umiltà dieci brani, frutto di una lunga elaborazione. In fondo l’impulsività non gli è mai appartenuta, ha sempre definito la scrittura come un processo doloroso e le sue canzoni in forma definitiva rappresentano solo la punta di un iceberg fatto di interi quaderni di appunti. Allo stesso modo erano in realtà estranei alla sua musica tutti gli orpelli dei due album precedenti, sostituiti invece da pochi, curatissimi interventi dei musicisti che lo hanno accompagnato nell’ultimo tour. Il pubblico affezionato, abituato ad un Cohen che centellina con parsimonia la sua poesia, ha accolto con grande entusiasmo Old Ideas, primo lavoro in studio da otto anni. Ben lontano da qualsiasi banale “operazione nostalgia”, l’uomo col cappello rivolge lo sguardo al presente, abbandonando quell’ossessione per il futuro che lo ha caratterizzato per un lungo

periodo. “Se proprio bisogna esprimere la grande, inevitabile sconfitta, che attende ognuno di noi – ha dichiarato in una delle ultime interviste - bisogna almeno farlo rimanendo negli stretti confini della dignità e della bellezza”. Questa serena accettazione è lo spunto per rileggere le tematiche di sempre e fare un bilancio artistico, ma anche personale. “I love to speak with Leonard” confessa nell’incipit di Going Home, anche se è un “lazy bastard, living in a suit”. E’ proprio l’ironia il jolly inatteso sfoderato dal poeta di Montreal: così, quando il tema della morte viene indirizzato direttamente a lui, piuttosto che ad un generico essere umano, la risposta ha un tono quasi beffardo: “Sono giunto, con riluttanza, alla conclusione che morirò, quindi è naturale che questo argomento debba essere affrontato. Ma sai, mi piace farlo con ritmo.” Il beat di cui Cohen parla è lo stesso della vivace Different Sides, in duetto con la sensualissima Sharon Robinson, sua “musa” per la stesura del testo. Amen e Come Healing affrontano il tema della spiritualità, molto caro all’artista, riuscendo ad

Grindcore/Musica colta occidentale

degnamente il difficile ruolo di Giovanni Lindo Ferretti in Valium tavor serenase, rielaborata con uno splendido intermezzo techno a omaggiare quei CCCP icone del punk emiliano. Ventuno tracce scorrono fulminee in meno di mezz’ora, ma di certo sono sufficienti a procurare una decisa botta di energia, prima dei tristi archi del Finale - con rassegnazione. - fp

BOLOGNA VIOLENTA Utopie E Piccole Soddisfazioni [Wallace Records, Dischi Bervisti, 2012]

Immaginati un pugno in faccia. Oppure di essere svegliato da una secchiata d’acqua fredda. O la scossa elettrica dei cartoni animati che hai sempre desiderato provare. Ecco, ci siamo quasi. Utopie e piccole soddisfazioni è un disco saldo nelle sue basi grindcore-trash metal, eppure suona come un perfetto esempio di opera totale wagneriana. Sulla scia del precedente Il nuovissimo mondo, ma con un sentore di evoluzione ascendente e maturata, la ricetta di Nicola Manzan rimane la stessa: violini che intervengono saltuariamente per cullare l’ascoltatore in attesa di incursioni serratissime di chitarra elettrica, asserragliata dietro raffiche di drum-machine da far sanguinare le orecchie. Il gioco delle citazioni da materiali audiovisivi risulta qui fortemente ridotto, a centellinare, per contro, un’ironia settantasettina che emerge in brani come Remerda (che contiene in nuce tutta la poetica della one-man-band), Il convento sodomita e Piccole soddisfazioni. Pezzi esemplari sono Vorrei sposare un vecchio e il singolo Mi fai schifo: cyber-grind rapidissimo condito con coretti da voci bianche. Azzeccatissime sono poi le collaborazioni con Jay Randall degli Agoraphobic Nosebleed, voce in You’re enough, e col giovane Aimone Romizi di Fast Animals And Slow Kids, che interpreta

Emotional House

BURIAL Kindred EP [Hyperdub, 2012]

Difficile dire dove le peregrinazioni sonore stiano portando Burial dopo il successo di Untrue (2007), specie se la materia da maneggiare è - come la musica del producer londinese - di per sé fumosa e difficilmente etichettabile. L’impressione è che il nostro abbia spinto la sua personalissima ricerca ancora più in profondità, nei meandri più oscuri della dubstep; beat e melodie sono state in parte semplificate, eppure i suoni si combinano tra di loro confusamente, l’atmosfera si fa più enigmatica e una nebbia noise in sottofondo rende i contorni meno nitidi. Delle poche certezze che ci dà l’EP, una è sicuramente quella della grandezza di Kindred, che apre il lavoro sviluppandone da subito gli umori più sinistri e cupi: le voci campionate e i ritmi incessanti tolgono ogni punto di riferimento all’ascoltatore, che vaga spaesato come se si trovasse nella Los Angeles distopica di Blade Runner, ipnotizzato

aggiungere qualcosa alla perfezione della ormai storica Hallelujah. Trova un suo spazio persino quel romanticismo sfrenato degli inizi che, per chissà quale miracolo, riesce a non perdere un grammo di credibilità, rivelandosi ancora una volta tra le righe di Crazy To Love You. L’immutata voce al catrame, marchio di fabbrica del musicista canadese, si rivela ancora una volta il più interessante degli strumenti, con quel suo sembrare sempre sul punto di spegnersi, quasi più vicina allo spoken-word che al canto vero e proprio. Il resto è un’alchimia di pop leggero con accenni jazz, cori femminili sospesi nel vuoto, tocchi di violino ed infinita classe. - comyn

dall’insieme di mormorii che gli risuonano in testa, lasciato a se stesso nell’occhio dell’uragano. Un gran pezzo, che si avvicina al sound caratteristico del musicista di casa Hyperdub, a differenza di Loner che, col suo incedere deciso della cassa e degli arpeggi di synth alla Fuck Buttons, allarga gli orizzonti sonori fino ad abbracciare certe movenze house tipicamente UK. Gli unici momenti di stanca si avvertono solo durante alcuni passaggi della conclusiva Ashtray Wasp, la traccia meno organica del lotto, nella quale Burial prova a trovare un compromesso tra la componente dancey e quella più meditativa già apprezzate negli altri due episodi. Ciò non preclude il sentimento di stupore/ smarrimento, che si rinnova costantemente durante tutta la durata di Kindred EP e che ci spinge ad ascoltare e riascoltare le tre tracce tentando di dare un ordine alle continue suggestioni. Pieni di incertezze, aspettiamo l’uscita di un futuro fulllenght che ci consegni un Burial a questi livelli, pronti nuovamente a perderci in un mare fatto di punti interrogativi. - zorba Psych-Rock

GONJASUFI Mu. Zz. Le [Warp, 2012]

Finalmente, dopo un’attesa di due anni, Gonjasufi è tornato tra noi. Questo tardo hippie del nuovo millennio si era ritrovato sulle luci della ribalta nel 2009, quando se ne uscì fuori con una raccolta di pezzi


recensioni sdentati, rituali e allucinati (A sufi and a killer) che convinsero un po’ tutta la critica specializzata ed elettrizzarono non poco il sottoscritto. La fama improvvisa e inaspettata deve aver dato fastidio al nostro, che si è rinchiuso in un capannone del deserto del Mojave e ha aspettato pazientemente l’illuminazione; questo Muzzle, emanato da Gonjasufi dopo il ritorno alla società, ne è la prova tangibile. In effetti la componente (pseudo) religiosa, rispetto all’esordio, ha un importanza ancora più spiccata. I vari aspetti del fatto religioso sono ben rappresentati: la preghiera serena (Nikels and dimes), la contemplazione (White picket fence), il caos sciamanico (Skin). In un certo senso, a ben vedere, la struttura di Muzzle potrebbe ricordare quella delle Missae medievali. Se le coordinate sonore, infatti, restano pressapoco le solite (canto declamatorio, arpeggi sconclusionati di chitarra, tappeti di synth veryoldstyle, vapori, versetti e vocalizzi di sottofondo), si nota in questo ultimo lavoro la volontà di creare un vero e proprio continuum, trattando la materia sonora con più organicità. Proseguendo nell’ascolto del disco, però, si ha la sempre più netta impressione che tale organicita derivi solamente da una sostanziale mancanza d’ispirazione. Se non ci si stanca, in fin della fiera, è solo perché Muzzle è corto, cortissimo: una scusante un po’ debole, che impedisce di considerarlo alla stregua del suo predecessore, musica da narghilè e poco più. - samgah Emocore/Post-Rock

FINE BEFORE YOU CAME Ormai [Triste/La Tempesta, 2012]

Ormai, quinto album dei Fine Before You Came, è uscito in download gratuito una domenica di gennaio. All’improvviso, senza teaser né marketing virale. Quando l’ho scoperto mi sono sentito strano, col calore alle orecchie e il cuore che batteva forte – non mi accadeva da tempo, da quando ero capace di ascoltare la musica senza farne l’autopsia critica. Fatevi un giro sul web: moltissime recensioni di Ormai sono imbarazzanti come le righe che ho appena scritto; patetismo e cuore aperto dove ci si aspetterebbe di capire come suona, questo benedetto disco. Di converso, leggere i commenti più critici e distaccati crea un’amarezza indescrivibile, quasi di profanazione e di (infantile) offesa personale. Questo perché i FBYC hanno il potere di bypassare il mezzo, cioè la loro pur splendida musica – comunicare sensazione allo stato puro, chiuderti le orecchie ai loro difetti, diventare una questione privata. Ma questo non può coprire il fatto che Ormai, “bypass” o no, è un disco bellissimo. Tra le componenti del suono è quella “post rock” che detta le regole, almeno in termini di atmosfera: i brani ti crescono attorno (e dentro) anziché colpirti frontalmente come in precedenza. Merito della batteria, che rende avvolgenti anche le sfuriate emocore di Magone e La domenica c’è il mercato. Atmosfere post-rock che restano comunque emozione concentrata, intensità allo spasimo e non saliscendi strumentali di dieci minuti. E merito dei testi, che all’abbandono di Sfortuna sembrano sostituire la piccola tristezza del giorno dopo giorno, ma con la stessa sincerità – quella che, mentre ascolti il disperante verso finale dell’album, ti lascia un sorriso che non riesci a spiegarti. - carisma

Electro-Pop-Folk

Avant-Folk Intimista

DJANGO DJANGO Django Django

MATT ELLIOTT The Broken Man

[Because, 2012]

[Ici D’ailleurs, 2012]

I Django Django sono un quartetto scozzese al loro debutto omonimo nel mondo della musica indipendente, e che debutto. Mostrano fin dai primi pezzi una sensibilità stilistica piuttosto matura e influenze multi-etniche che conferiscono alle loro canzoni un carattere deciso e risonanze insolite. Si comincia con Hail Bop, un mix sconcertante di tamburi tribali, sibili elettronici, fischi da cowboy e frinire di grilli. Questi elementi si amalgamano perfettamente con l’irresistibile canto corale che pervade l’intero album e fa da mastice tra i diversi ritmi e le ispirazioni contrastanti. Ci sono ricordi “animalcollectiveiani” in Hand Of Man, mentre Dart Love è composta da un pizzicato acustico acquietato dall’utilizzo della drum-machine, che rende il suono vagamente ovattato. Accanto ad essa si trova però il sound particolare di Life is a Beach, un po’ texano, un po’ orientaleggiante, dalle percussioni incalzanti e la chitarra dall’impronta anni ‘60. E’ un album, questo, caratterizzato da forti variazioni stilistiche ma che riesce magistralmente a non apparire mai confuso o incoerente. E’ uno scorcio di miraggi tropicali quasi psichedelici, un’esplosione inebriante di colori, un disco che prende lo stereotipo della band indie, gli dà un timbro fresco ed originale e lo pone a cavalcioni di un cammello in un deserto di ritmi dissonanti. - zuma

Matt Elliott torna con questo disco alle atmosfere e alle lacrime della trilogia delle Songs. Questa volta però ci sono meno spazi, rispetto al passato, lasciati alle incursioni elettroniche e rumoristiche; lo scheletro è acustico, una chitarra classica che piange sangue e lacrime ogni volta che viene pizzicata. Lo sbocco naturale della chitarra è la voce di Matt, mai come questa volta così vulnerabile, che non nasconde il dolore che prova nella tensione delle corde vocali, nei lamenti e nelle richieste d’aiuto. L’artista cerca di scavare in profondità la sua anima, tentando di raffigurare le miserie, i pianti, la disperazione e i dolori. Emblematico il titolo del pezzo più lungo del disco, If Anyone Tells Me “It’s Better To Have Loved And Lost Than To Never Have Loved At All”, I Will Stab Them The Face, unico pezzo in cui la chitarra non è sola ma accompagnata da un pianoforte, per 13 minuti classicheggianti e crepuscolari, con i suoni che quasi sembrano rintanarsi nelle loro note; un pezzo che trabocca di un’emozione purissima, idealmente diviso in due parti: una prima, in cui è la tristezza a farla da sovrana - un dolore quasi fisico attanaglia i respiri di Elliott -, e una seconda, invece, dove sembra non ci sia più niente da fare; la disgrazia è accaduta, resta solo la rassegnazione e il rimpianto. Ci sono echi di tango e flamenco, (Oh How We Feel, Please Please Please e That Pin That’s Yet To Come) impregnati, però, della pesantezza e della mestizia di un’anima così limpida e sincera. Ancora una volta Matt Elliott ci regala il suo cuore, si aggrappa alle corde della sua chitarra classica, chiude gli occhi e spande il suo canto, sperando di non essere visto da nessuno, ma, allo stesso tempo, bisognoso di donare. Donare gratuitamente, senza volere nulla indietro. Accettate questo dono. - matmo

Post-Rock/Strumentale

RONIN Fenice [Santeria/Tannen Records, 2012]

Nonostante la chiusura della storica etichetta Bar La Muerte (Bugo, OvO e Bologna Violenta per citare solo alcune delle produzioni italiane), Bruno Dorella prosegue la sua avventura con i Ronin, giunti al sesto disco in dieci anni a coronare un percorso in costante ascesa. Fenice arriva infatti dopo l’ottimo L’ultimo re, proponendo un ascolto più amalgamato, mediterraneo e per certi versi anche più accessibile. Le ambientazioni sono rarefatte e si evolvono pezzo dopo pezzo come a voler giocare su piani semantici diversi, tra folk e swing (vedi Gentlemen only), oppure con ritmi da ultimo duello western come in Jambiya, fino a sonorità tribali, magari impreziosite dai fiati di Enrico Gabrielli, ad esempio nella stupenda marcetta conclusiva di Conjure men. L’intro Spade è timida e avvolgente, prima della calda esplosione (quasi surf-progressive) di Benevento e dei richiami dissuasivi stile Earth del singolo Selce. Tra le altre partecipazioni, il disco segna l’ingresso alla batteria di Paolo Mongardi (Jennifer Gentle, Zeus!, Il Genio) e vede le collaborazioni di Nicola Manzan al violino nella nostalgica Fenice e della cantautrice folk Emma Tricca, voce nel remake di It was a very good year, già cantata da Frank Sinatra. Che dire? Un disco sano, rilassante, diretto, con un tocco da spiaggia tropicale seppur in pieno inverno: Nord si muove su strumentalità da cantautorato, con tanti piccoli fronzoli che non tradiscono comunque la spiccata semplicità del risultato finale. Come da puntuale indicazione sul mitologico pennuto, il tutto suona insieme rigenerato e rigenerante. - fp

Art-Alt-Pop

OF MONTREAL Paralytic Stalks [Polyvinyl, 2012]

Ennesima prova fiacca quella del collettivo di Athens, Georgia, che arrivata all’undicesimo disco in studio sembra aver di nuovo perso la strada maestra, facendoci venire così il dubbio che l’abbiano mai trovata. Musicalmente parlando non ci sono sorprese: la solita miscela di pop-psichedelico farcita di elettronica minimalista e ritmi progressive che stavolta però appaiono molto più pacati e controllati, un’ atmosfera più cupa e toni soffusi fanno da contorno ai testi di Kevin Barnes. L’eccentrico cantante ritorna alle vecchie maniere con testi in stile confessionale che affrontano le problematiche personali e comuni, qui trovano spazio i rapporti problematici con la moglie, il proprio ego, la vendetta e la condizione umana di estrema fragilità, un bel collage di belle parole che sembrano un po’ troppo casiniste per chi, come lui, aveva intrapreso la strada dei concept. L’intero lavoro da come l’impressione di esser spuntato fuori dal nulla, un improvvisazione di basso spessore e pensare che per registrarlo (nello studio personale di Kevin) ci sono voluti mesi e fior fior di


recensioni musicisti, viste le tante collaborazioni. Non voglio certo pensare che gli Of Montreal abbiano finito la loro proverbiale ispirazione ma più li ascolto e più mi rendo conto che il loro sound caratteristico sta svanendo o semplicemente non basta più a soddisfare l’esagerazione musicale di questi tempi. Cinque anni sono passati da quel capolavoro di Hissing Fauna, Are you The Destroyer?. Ed ho il brutto presentimento che non ne sentiremo mai più uno così. -w Electro-Chic

AIR Le Voyage Dans La Lune [Astralwerks, 2012]

Leggeri come l’aria e sensibili al marketing mondiale i maestri francesi del landscape elettronico tornano alla ribalta con un disco ispirato al capolavoro del regista francese Méliés, riuscendo ancora una volta a dimostrare il loro valore musicale e culturale. Sembra un ruolo fatto apposta per loro, musicare la versione restaurata del film muto che nel 1902 rivoluzionò il cinema risveglia l’ispirazione e l’energia di un duo che sembrava essersi perso per strada, nei meandri dell’ambient parigina. Il loro lounge-pop di rara eleganza ritorna alla grande nelle undici tracce verso la Luna che come una navicella spaziale proiettano la mente alle combinazioni astrali e alle atmosfere romantiche. Certo non un impegno di disumana mole, nonostante la qualità musicale sia notevole a discapito dei trenta minuti, quello intrapreso da Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel visto che rappresenta un sostanziale ritorno al passato e al suono originale che li aveva contraddistinti nei primi luminosi anni di carriera. Pochi testi e atmosfere sognanti, suoni dilatati e vocoder sognanti rendono le tracce un magma unito di futurismo dal tocco retrò che scivola via delicatamente e si accosta perfettamente ai fotogrammi di un secolo fa, che ultimamente godono di grande fama anche grazie al remake Hugo Cabret di Martin Scorzese. Niente di nuovo quindi ma un usato sicuro che non ci dispiace. -w Folk

FIRST AID KIT The Lion’s Roar [Wichita, 2012]

Lo dicevamo diversi numeri fa parlando del successo di Anna Calvi e le recenti prove di St. Vincent e di Kate Bush, giusto per citarne due, ce ne hanno dato ulteriore prova: il cantautorato femminile sta attraversando uno dei suoi periodi migliori, tra grandi ritorni ed esordi che diventano veri e propri casi mediatici, e The Lion’s Roar, seconda prova in studio delle sorelline Söderberg, si gode la sua porzione di fama forte di questa tendenza. Neanche ventenni, svedesi ma dalle chiare influenze americane, i First Aid Kit creano una nuova dimensione di incontro tra l’intimismo dei songwriter degli ultimi anni, Fleet Foxes e la Newsom i loro beniamini, e i pionieri del folk/ country di ieri, per i quali le citazioni si sprecano: Emmylou Harris, Gram Parsons, Johnny Cash e June Carter Cash solo in Emmylou, quasi a volere, in un eccesso di modestia, far distogliere

l’attenzione dalla musica, che sorprende invece per la maturità e l’eleganza delle invenzioni (splendida, ad esempio, la coda cameristica di Dance to Another Tune). In questo miscuglio quasi tutto in rosa a rappresentare la controparte maschile ci prova Conor Orbest (Bright Eyes), che, oltre a portarsi appresso il fido Mike Mogis alla console, canta assieme alle due in King of The World, che conclude il disco sulle atmosfere dei Neutral Milk Hotel più concitati. Un album frutto di una produzione curata non poco, ma che non manca certo di ispirazione e che mantiene gli standard alti per quasi tutta la sua durata. Ve lo consigliamo. - zorba House

BLONDES Blondes [Rvng Intl., 2012]

Sono Sam Haar e Zach Steinman, si sono incontrati presso l’Oberlin College nel 2003, dove studiavano rispettivamente c o m p o s i z i o n e elettroacustica e storia dell’arte. Hanno vissuto tra Oakland, New York e Berlino, ma ora hanno come base Brooklyn. Eppure nessuna di queste cose davvero vi importerà quando ascolterete ciò che esce da questo disco, ciò che fa questo rumore, così lontano dall’umanità e dalle sue storie. L’atmosfera è una sorta di paesaggio alieno, distante; sembra di vedere due macchine che interpretano lo spirito umano più che due umani che muovono le loro dita su sequencer e synth. Le loro canzoni iniziano con un’idea o due - un battito, un effetto, una linea di basso, qualche nota di synth o una frase – a cui gradualmente si aggregheranno più strati, costantemente in crescita verso un climax potente che poi, ritualmente, in ogni pezzo, si perderà nel vuoto. Così i pezzi si susseguono, tra vocii da dancefloor (Lover), sogni quasi space (Hater), atmosfere balearic (Business) e suoni al confine con il marasma più glo (Wine). Insieme al disco un secondo cd con i remix, di ottima fattura; da segnalare quello di Teengirl Fantasy e quello del solito Andy Stott. Trascorrere qualche ora in giro con i Blondes che scorrono nelle vostre orecchie vi porta a realizzare che le piccole idee che vi girano nel cervello sono più potenti rispetto al normale. Forse questo è il concetto di musica meditativa di cui spesso si sente parlare, o forse questa band è solo il (mio) momento Eureka, in cui tutti quegli anni trascorsi educatamente annuendo con la testa ai dischi IDM hanno finalmente dato i suoi frutti. Questa è beatitudine, è così semplice. - matmo Cover Pop

NURSES Dracula [Dead Oceans, 2012]

Premetto che sono di pessimo umore, e che non farò niente per impedire che questo interferisca con la critica di Dracula. È sempre più una fiera di sedicenti musicisti, con l’ego dopato da sedicenti produttori, che sfornano idee mal cagate e peggio eseguite, mixate da sedicenti fonici per poi finire in mastering per mano di psicotici che, potessero, trapianterebbero a tutti un Orban nel cervello. Forse sto esagerando, ma qui le cose si stanno

mettendo male: garantiscono i Nurses. I nostri sono l’emblema del gruppo di amici da project studio, di quelli che si ritrovano in garage alle tre del pomeriggio ma che alle sei non si sono ancora staccati da Youtube. Sono di Portland, ma se hanno sentito nominare Elliott Smith o Built To Spill è stato su Pitchfork, per sbaglio, mentre cercavano le ultimissime sui Grizzly Bear (sono proprio senza cuore, ma loro non se la meritano mica una recensione decente). Comunque i loro preferiti restano gli MGMT. Hanno comprato Oracular Spectacular in vinile e ne hanno fatto un oggetto di culto, poi è uscito Congratulation ed è stato l’inequivocabile segno vocazionale: bisognava diventare come loro, magari con più Lexicon sulle voci tipo Panda Bear. Va da sé che, al massimo, Dracula suona come suonerebbe uno squallido b-side del duo newyorkese. I pezzi sembrano sessions di Ableton Live, costruiti su un’unica (mal cagata) idea musicale in loop dall’inizio alla fine e fondamentalmente nudi anche sotto le stratificazioni esagerate degli arrangiamenti. Ne deriva un ascolto demotivante, non tanto per delle canzoni che scivolano via come nulla fosse, quanto per aver dedicato del tempo a tre ragazzini assolutamente privi di qualsivoglia sensibilità artistica, a qualcuno che in realtà non aveva niente da dire. -visjo

Tropical/Latin Jazz

KIP HANRAHAN At Home In Anger [Yellowbird Records, 2011]

È sempre bello rimanere spiazzati da un’opera d’arte e perdersi al suo interno. Con certa arte, certo, è più facile che con altra. Con At home in anger, per esempio, la reazione è quasi immediata (e inevitabile). Bastano suppergiù le prime dieci, venti battute di Vida sin miel: l’aggressione tropicale – quasi effetto maranza – dei fiati, il trillo gitano e spensierato del violino, l’incedere ondeggiante e latino danno subito allegria e invitano a una danza libera e gioiosa. Chi dobbiamo ringraziare per questo ben di dio? La questione è più complicata di quanto non sembri. Il nostro Kip Hanrahan, infatti, non è tanto un musicista quanto un’entità che da venticinque anni a questa parte si occupa di creare ensemble jazz. Prima assembla musicisti provenienti da ambienti anche lontanissimi tra loro, poi li indirizza verso un progetto musicale comune e assiste attonito e compiaciuto al risultato. Non sempre, chiaramente, si può raggiungere la giusta armonia e consonanza tra i componenti: in questo caso, però, l’equilibrio fra i vari strumentisti e vocalist è perfetto. At home in anger procede macinando minuti e emozioni attraverso le sue diciotto tracce, tra ballad riflessive contrappuntate di pianoforte (maggiormente concentrate nella seconda parte) e infiorescenze ritmiche che sbocciano al sole caraibico. Una menzione particolare, però, la meritano i cantanti, mai fuori posto, sempre sotto le righe, rispettosi allo stesso modo sia della musica che accompagnano che dei messaggi (spesso e volentieri dotati di una vena poetica non disprezzabile) convogliati dalle liriche. Dopo un’ora secca di ascolto, giunti alla fine, non si è ancora soddisfatti, e quasi si è costretti a ricominciare. Di quanti dischi ascoltati negli ultimi anni potete dire la stessa cosa? Date un’opportunità a questo giullare portoricano. Attenti a non esagerare, però: Kip Hanrahan provoca dipendenza. - samgah


recensioni Pop

LANA DEL REY Born To Die [Interscope, 2012]

Se uno è abbastanza giovane, può provare una grande euforia nel fingere di essere quello che non è: vero, finché non finisci davanti a milioni di spettatori e scopri che la ragazza che hai fatto sparire, il corpo sbagliato di Lizzy Grant (dieci lettere, come Lana del Rey), non è affatto scomparso, ma sei tu. Hai i capelli cotonati, la bocca da baciare, in un film datato si sarebbero rivolti a te chiamandoti bellezza e avresti fumato troppe sigarette – eppure, nonostante tutto, anche adesso, sembri sempre imitare qualcuno che non sei, e lo sai. Canti canzoni che appartengono a qualcun’altra, alla vita non vissuta di Lana del Rey e il tuo senso di colpa verso Lizzy non è eroico e ha più a che fare con Rose McGowan in Amiche Cattive che con Macbeth. Succede che ti ritrovi davanti a un vero pubblico e ti accorgi che non sai cosa fare: nei film del sogno americano a questo punto avresti tirato fuori il carattere, avresti scoperto che in realtà la vera te era quella sul palco, che potevi reggere lo sguardo del pubblico, ma lo sceneggiatore ha dimenticato qualcosa, lasciandoti senza direttive e senza uno straccio di storia da raccontare. Cara Lana, cara Lizzy: in Videogames canti I heard that you like the bad girls, e così bugiarda e innamorata come in una raccolta di Yates, hai spostato l’asticella dell’insincerità al di là delle tue stesse possibilità, della nostra stessa ingenuità, destinandoti a un declino immediato, senza neanche lo spettacolo delle fiamme di un incendio. E del tuo disco e della tua musica nessuno parla, indifferente e (s)piacevole come tutte le canzoni che ascoltiamo nei camerini dei grandi magazzini. - mars Italiana

COLAPESCE Un Meraviglioso Declino [42Records, 2012]

«Amavo ogni cosa della vita./E non avevo che questo bianco taccuino sotto il sole» (Sandro Penna). Colapesce sembra rispondere a questo stesso tipo di amore: ama le piccole cose e le cose piccole, protegge il loro fragile splendore, ne trascrive a mano la (dis)armonia d’esistenza su fogli sparsi. Lo aveva già fatto nel suo EP, cantando il suo hardisk pieno di poesie – e lo ripete in modo simile anche qua, sulle spiagge semideserte, assolate (ma mai non deturpate) come sotto i soli incerti di primavere che muiono: Lorenzo conosce il declino dei raggi che non scaldano più, dei barbari che arrivano, dei respiri che non riempono i polmoni. Conosce bene anche le rivoluzioni fatte con le armi giocattolo e la salvezza fatta di sottrazione (dal mondo), come dicesse: restiamo in casa, gli amori fatti di niente hanno la vita dei tulipani comprati in offerta, durano quanto un soffio di vento, ed è tutto quello che ci possiamo permettere. Immagini solite e parole insolite: mette tutto nella sua valigia sentimentale, come nel video di S’illumina, tra i cd degli Smashing Pumpkins e le cartoline che non si scrivono più, Bonnie Prince Billy, Sparklehorse e le

fotografie sbiadite, i libri di Carver e i biglietti della Juventus... Un album che raccoglie intorno a sé quel che resta, che prova un’altra via tra il cantautorato in rima baciata e quello che arrugginisce le guance: riesce (quasi) in tutti i suoi intenti. Evocazioni e invocazioni, supereremo il declino? - mars (Post) House Symphonies

JOHN TALABOT Fin [Permanent Vacation, 2012]

Il grande viaggio parte da un coro gotico sepolto, arpeggi fluidi, beat sparsi in poliritmia e voci che pian piano escono allo scoperto, spingono verso il cielo, accompagnate da un basso di gomma che entra subito in testa. Questa è Depak Ine, primo pezzo del disco dell’artista barcellonese che già ci aveva abituato a questo suono sotterraneo con tracce come l’ormai classico Sunshine, loop leggerissimi che sfiorano quasi l’inconsistenza, samples avvolgenti e una melodia sottotraccia, nascosta ma presente. Negli ultimi due anni, Talabot è diventato esemplare di una nuova generazione di produttori che lavorano sull’intersezione tra deep house, disco, pop e indie, e ha scavato la sua nicchia da qualche parte tra le teatralità slow-motion di Mark E, il mappamondo color pastello di Caribou e Four Tet, e il fiume psych degli Animal Collective. Dopo l’apertura arriva Destiny, una co-produzione con Pional di Madrid, è una delle tre tracce vocali dell’album, con una voce ben armonizzata, campane e un ambiente accogliente, immerso in un intreccio rassicurante di accordi. Poi, come una specie di detergente, i tre minuti di El Oeste, lavoro miniaturistico elegante, fusione di sintetizzatori, drum machine e dub che si gonfia a poco a poco in un folk: Boards of Canada che suonano house solo con vibrafoni. Una sorta di malinconia felice impregna la maggior parte dell’album, corpi sonori screpolati, terra di passaggio di esseri spettrali, post-house che ha il baricentro rallentato, decentrato e confuso. Il finale è il punto più alto dell’album, So Will Be Now, ancora con Pional. Introduzione affidata ad un loop vocale, atmosfera di nebbia sognante prima di scaricare un groove house che porta direttamente al risveglio post-Burial. Fin si pone come indicazione imprescindibile della direzione e della forma che stanno prendendo questi sonnambuli anni’10.

facendoli co-scrittori di alcuni pezzi e membri effettivi della band. Insomma quel che conta è che i Cloud Nothings sembrano essere maturati tutto d’un colpo, e vuoi perchè l’unione fa la forza o perchè con il membro fondatore degli Shellac a dirigere i lavori probabilmente farei qualcosa di buono anche io, il risultato non è affatto male. Certo è inutile gridare al miracolo visto che di nuovo c’è effettivamente poco, un rock cattivo anche se poco energico che spazia da schitarrate noise a ballate lo-fi, riempie il cuore di sentimenti grunge e grida con grande rabbia quello che gridano tutti i giovani americani indie-rocker che sappiano strimpellare una chitarra. Attack On Memory però ha una grande qualità, non suona mai troppo ne troppo poco e dà così l’impressione di essere un disco sincero, piacevole e ben calibrato in tutti gli elementi. -w Alt-Rock

TEATRO DEGLI ORRORI Il Mondo Nuovo

[Universal/La Tempesta, 2012]

“Il Mondo Nuovo” è il terzo album della band italiana Il Teatro Degli Orrori, pubblicato dall’etichetta indipendente “La Tempesta” e distribuito dalla Universal il 31 gennaio 2012. Il Titolo si ispira al romanzo di fantascienza di genere dispotico dell’autore Aldous Huxley, e l’album è davvero dispotico, un mix di inquietudine,dolore,citazioni letterarie che celebrano il tema dell’immigrazione. Un tema caldo che in pochi nella musica italiana hanno avuto il coraggio di affrontare e di dedicare il disco intero agli invisibili della società. Il disco è davvero potente, immediato, e i Teatro conoscono molto bene l’arte della comunicazione immediata e sgarbata che dal vivo si trasformano in veri e propri pugni diretti allo stomaco. L’album si distacca un po’ dai precedenti(anche per la presenza dei synth,diretti da Kole Laca), lo stesso leader del gruppo, Capovilla, l’ha definito “più commerciale”, decisamente più morbido, ma non si è distaccato da quelli che sono i temi caldi e scomodi che tanto sono cari ai Teatro. I testi sono incredibilmente ricchi di letteratura, da Pasolini al russo Majakovskj, da Gramsci a de Gregori, e per tutta la durata del disco,i brani prendono fuoco, la voce cupa e a volte gracchiante narra teatralmente, e non danno tregua, non - matmo regalano mai tranquillità e consolazione. L’album parte con 2 pezzi che rispecchiano in Lo-fi/Noise-Rock pieno il loro stile Rivendico e Non vedo l’ora per poi arrivare al singolo che a gennaio ha presentato CLOUD NOTHINGS Attack On l’album, Io cerco Te. Ci sono parecchie novità sonore Memory che si scoprono in Skopje che presenta ritmi in [Carpark, 2012] stile orientale e Gli stati uniti D’africa che è invece sostenuto da ritmi tribali; Arriva Ion, la struggente Uno dei primi dischi ballata acustica, mentre in Monica e Pablo emerge interessanti che il novello un rock più soffice e meno violento. Adrian, che 2012 propone alle nostre chiude l’album, forse è il pezzo più particolare del orecchie è sicuramente disco con il suo lento incedere di rabbia musicale. il terzo Lp dei ragazzi I Teatro hanno deciso di creare un disco per di Cleveland, sostenuti ascoltatori meno abituati a tale sperimentazione in cabina di regia da un sonora e a cui interessa stare fino in fondo dalla signore che di musica parte della sofferenza,dalla parte di quelli che ci ha sempre capito fin troppo: Steve Albini. A partire da questo lavoro vengono considerati i reietti della società, senza il gruppo ha una vera e propria identità visto che ritornelli facili, tenendo stretta la pena che fa del il frontman Dylan Baldi, eccentrico egocentrico disco un vera e propria narrazione del dolore. giovane grunger, ha accettato di includere nel - brizio progetto i musicisti che lo accompagnavano live,


rovistando in soffitta Country/Rock and Roll

JOHNNY CASH At Folsom Prison [Columbia/Legacy, 1968]

Ambient techno

Pop-Rock

APHEX TWIN Selected Ambient

COLIN NEWMAN A-Z

Works 85-92

[Beggars Banquet, 1980]

[Apollo (R&S), 1992]

“La prima volta che ho suonato in un carcere ho pensato che quello era l’unico posto in cui registrare un album dal vivo: non avevo mai sentito una reazione simile alle mie canzoni. Non si vergognavano di mostrare il loro apprezzamento” . Le prigioni lo stimolavano davvero; forse perchè si sentiva un po’ galeotto nell’animo (e non solo) o perchè la star hanno sempre qualche strana fissazione o semplicemente cercava un modo per dare una svolta alla sua carriera sporcata dallo scandalo droga e il primo divorzio fatto sta che non era mai riuscito ad ottenere niente, per lui ci pensò la fortuna. Johnny aveva proposto l’idea di registrare un live in una prigione ma il suo vecchio produttore Don Law non era d’accordo e con lui tutta la Columbia Records, così quando nel 1967 si ritirò in pensione a sostituirlo arrivo Bob Johnston, giovane ed un po’ strafottente ebbe subito un grande rapporto con Cash che forte della novità riusci ad ottenere il consenso per le registrazioni dal suo nuovo producer. Il 13 Gennaio 1968 i 3500 detenuti della più grande prigione della California assistettero increduli alla più straordinaria interpretazione mai registrata dal vivo, proprio perchè non fu semplicemente un concerto ma un vero e proprio racconto che attraverso alcune delle tracce più significative, non le più famose, cercava di dare un sostegno a chi dentro quella prigione doveva marcire. Johnny Cash racconta storie di prigioni, di sparatorie e droga, di suicidi e amori traditi ma sa bene quanto si soffre a parlare di ciò che ti ha rovinato la vita, così scherza e si ride smorzando i toni con pezzi divertenti e testi gagliardi il tutto contornato dalle urla, dai pianti e dalle risate di quei ragazzi che la vita ha abbandonato al loro destino. Il suono caldo e country della sua chitarra amalgama visioni e melodie raccontando la storia dell’uomo solitario in bilico tra bene e male e azzerando lo scalino fra la superstar e il suo pubblico, Johnny è uno di loro perchè riesce ad ottenere quello che dai detenuti è più difficile avere: la fiducia. At Folsom Prison è più che un album live, è vita vera riversata nelle orecchie di chi l’ha già vissuta e vuole ricordarsi cosa c’è fuori dalle fredde ed alte mura. -w

In una rubrica c h i a m a t a “Rovistando in soffitta”, come non proporre un album assemblato grazie a lavori scelti rovistando in soffitta? Perchè è questo che ha fatto Richard D. James (AKA Aphex Twin). Corrono esattamente 20 anni da quando il ventunenne Aphex rilascò (12 febbraio 1992) il suo primo album, mettendo insieme i migliori dei vecchi pezzi realizzati nei sette anni precedenti. Il titolo lo conferma: Selected Ambient Works ‘85-’92. Le tracce sono 13, incredibilmente rivoluzionarie anche solo considerando che sono frutto delle sperimentazioni di un giovane che, comprendendo le potenzialità dell’elettronica, realizzò pezzi con sintetizzatori e drum machine che lui stesso modificava e programmava. Fu interamente registrato tramite cassetta, il che comportò una qualità audio certamente non eccelsa, ma che non impedì all’album di essere subito accolto dalla critica come un lavoro maestoso. Uno spartiacque per l’ambient dei primi anni ‘90 e quindi una pietra miliare per tutta l’elettronica. Perché la sua ambient è lontana da quella di Brian Eno. La sua è un’ambient beatoriented, una ambient che nel giro di poco tempo verrà chiamata IDM, ottenuta grazie anche a sensibili influenze della leggendaria techno di Detroit. Ma più che le influenze, c’è da ringraziare l’originalità di AFX, che ha partorito un lavoro in cui si intravede subito la strada artistica che si troverà a percorrere. Già in Green Calx e Heliosphan si possono apprezzare i suoi ritmi che, ancora in una forma embrionale, diventeranno nel tempo veloci, folli, frenetici: un marchio di fabbrica che troverà compimento negli ultimi album dell’artista. E’ ancora molto melodico. Melodie semplici che, unite a quel modo di usare le percussioni, ricordano lavori recenti di molti altri artisti. Fra tutti i Radiohead che, tramite Thom Yorke, hanno ammesso di essere stati influenzati dal genio controverso di Richard D. James. Ma Aphex è riuscito a rimanere lontano da chiunque, ritagliarsi uno spazio tutto suo che vediamo crescere di lavoro in lavoro. Anche il suo humour, che diventerà con gli anni sempre più nero, è abbozzato in We are the music makers dove è inserito il campionamento di una battuta del film Willy Wonka e la Fabbrica del Cioccolato. Insomma, un capolavoro all’epoca, un capolavoro ancora oggi, visto che adesso sappiamo con certezza che questo primo lavoro era davvero solamente l’inizio. - eightand

Primo disco solista del celeberrimo membro dei Wire e la sua parentela con gli altri componenti si sente tutta. Questo primo tentativo di Newman di distaccarsi dal suono del gruppo non poteva riuscire completamente: la New Wave impazza e le sonorità dovranno ancora sfociare nell’immaginario degli anni ’80. Il disco è comunque variegato, sapientemente interpretato, e compositivamente originale. La voce di Colin (che spazia dall’androgino al sussurrato maschile) riesce a modularsi per creare soluzioni diverse. Le chitarre aprono l’album con fischi e fruscii vari accompagnati da una cantilena ossessiva (I’ve waited ages) che si evolvono in chitarre ritmiche e tastieregiocattolo che vanno a braccetto con la voce di Newman: soave e volutamente poco intonata (Jury e Alone). Le dissonanze abbondano nel disco fino a creare un vero e proprio patchwork armonico seguito dalla linea melodico-vocale che si contorce tra semitoni e ritmiche soul, funky e punk. È un vero e proprio pout pourri di generi: si pensi al grandioso momento di fine-festa scalcagnato di Order for order, alla polka dopo LSD B, alla delirante canzone d’amore (?) S-s-s-star eyes, alla punk Life on deck e alla iggypopiana Inventory, al dark di Second to last degno del miglior Nick Cave, e al waltzer in stile musical britannico intriso di humour altrettanto britannico à la Monty Python di The classic remains. Questo disco rimane un unicum nel suo genere in grado di portare avanti sperimentazioni e nuove attitudini verso nuovi lidi compositivi personalizzandoli, interpretandoli, e ponendo la sua voce come un vero e proprio marchio di fabbrica. - gorot

COLIN NEWMAN

Colin Newman è un cantante, polistrumentista e produttore discografico britannico, celebre come voce dei Wire. Nel 1980 inizia la sua carriera solista con A-Z, disco che risente della strada percorsa fino a quel momento con la band londinese. L’anno successivo esce Singing Fish, in cui le 12 tracce si vorrebbero dimostrare più innovative di quanto in realtà sono e in cui si sente l’influenza di Brian Eno e Throbbing Gristle. Escono poi il nevrotico Not To, il mediocre Commercial Suicide e It Seems, ultimo disco degno di nota firmato Newman.


deep inside

Fatevi questo slego ascesa e discesa di un genere tutto italiano “È ora di finirla con la musica fatta solo da chi sa suonare,è ora di suonare senza sapere suonare, continuando a suonare senza per carità imparare a suonare” Queste parole non escono dalla bocca di un luminare dell’avanguardia americana; non le troverete in nessun manuale di storia della musica e nessuno ve le farà mai imparare a mo’ di regola. Sono parole che non hanno né un senso né uno scopo; non esprimono un’idea che non sia la totale mancanza di idee. Perché, allora, siamo qui a parlarne? La risposta a questa domanda ci costringe a un viaggio a ritroso assai piacevole nell’ archeologia musicale del nostro paese, un’archeologia troppo poco esplorata, che regala spesso scoperte sorprendenti. Tanto per fare un esempio, tutti noi conosciamo Le mille bolle blu, ma in quanti hanno sentito parlare di Baciami la vena varicosa? La verità è che nella musica italiana c’è sempre stata una sorta di società segreta che si passa in silenzio il testimone da decenni senza perlopiù intaccare le classifiche di vendita e le esigenze del grande pubblico. Nota ai meno come rock demenziale, essa si caratterizza per l’assenza di contenuti e per l’ostentato primitivismo della forma. Meglio: per la critica a qualsivoglia criterio codificato che riguardi il contenuto e/o la forma. Meglio ancora: per la voglia di suonare pur non sapendo suonare, per il bisogno di urlare pur non avendo nulla da dire. Per la volontà di testimoniare la presenza del popolo dei dementi e rivendicare l’autonomia dall’intelligenza, che massifica e distrugge. Per l’abitudine di prendere poco elegantemente per il culo ogni categoria, fregandosene dei dettagli e delle conseguenze. E per tante, tante altre cose. “Del dì nel quale io mi maritai/con mia moglie non feci questione mai./Qualche volta la porto pure sul tranvai/questa mattina i salamini mi comprai” È appena il 1918 quando Ettore Petrolini, storico nome del teatro comico italiano, registra Salamini. Per Petrolini - un erede della grande tradizione del varietà e dell’avanspettacolo italiano – fu una bazzecola senza importanza, una goccia nell’oceano della sua carriera d’attore, eppure Salamini è una delle prime canzoni italiane a tradurre in musica i lazzi, i calembour e la provocatorietà di un certo teatro, da sempre presente e vivo nella nostra penisola. Per questo motivo vi si può legittimamente vedere un’anticipatrice della prima, grande esplosione del demenziale, che ebbe luogo negli anni ‘60, in seguito all’importazione del rock oltreoceanino. Con i Brutos (Speedy Gonzales, Destinazione luna), i Balordi (con il 45 giri Vengono a portarci via, ah ah/Don Chisciotte) e i Cinque Monelli (che registrano,

con Balbettando, già un primo capolavoro) il genere comincia ad assumere i nitidi connotati dello sfasamento mentale: se nel caso dei primi, poi, ci troviamo di fronte a un fenomeno di costume che godette di fama nazionale e attraversò i canali principali di diffusione della musica, già negli altri due gruppi si va individuando la fisionomia tipica del gruppo demenziale, del tutto privo di riguardo per l’opinione pubblica e tenacemente avverso all’idea della musica come arte colta. “Me mi piace scoreggiare/non mi devo vergognare” La situazione, all’inizio degli anni ‘70, è dunque già matura per l’emergere degli Squallor prima e degli Skiantos poi. I primi (attivi a partire dal ‘73) si rifanno alla tradizione della canzone italiana e napoletana, che distorcono oltre misura allo scopo di denunciare i vizi dell’Italietta del tempo. È però nei secondi che troverà alloggio la sacra fiamma del rock demenziale in modo mai così vivo prima di allora: gli Squallor, sebbene (o forse proprio per questo) più noti e apprezzati dall pubblico, finirono per ripiegare, dopo i primi, storici e riuscitissimi album Troia, Palle, Vacca, Pompa e Cappelle, su un rock più banalmente pornografico e meno demente. Gli Skiantos, al contrario, creati in una notte acida del 1975 in quel di Bologna da Roberto “Freak” Antoni (il primo e forse l’ unico teorico del genere, cui appartengono le parole citate in apertura di articolo), rimarranno per tutta la carriera fedeli ai propri non-ideali artistici. Il demenziale – diranno – è “un cocktail di ironia, improvvisazione, poesia quasi surreale, cretinerie, paradossi e colpi di genio”. Che è come dire tutto e nulla. Gli Skiantos vanno adorati prima di tutto per la loro inesauribile faccia tosta nel perseverare ad esser dementi pur nella piena consapevolezza, per l’individuazione di un’ironia che è bassa per chi è troppo alto, ma è alta per chi sa essere basso. Oltre a ciò, il valore dei bolognesi sta soprattutto nell’aver sfruttato una forma prettamente punk – conformemente a quel che l’epoca richiedeva – per rivolgerla spesso e volentieri contro il movimento punk stesso, oltre che contro il resto del mondo e – perché

no - contro sé stessi. A consacrarli nell’Olimpo scalcinato dei dementi immortali sarebbe bastato il primo LP ufficiale, MonoTONO (1978), che comincia con l’attacco più cretino che la storia ricordi (Uno-Due-Sei-Nove!, Eptadone) e si conclude con un inno alle fette (Ehi ehi ma che piedi che c’hai) passando attraverso pezzi meravigliosamente programmatici (Diventa demente, Largo all’avanguardia), frecciatine non troppo velate verso il punk (Panka rock, Pesto Duro) e dichiarazioni d’amore assolutamente fuori asse (Ti amo da matti, Vortice). “Freak Antoni sta morendo, Elio lavora a X Factor e di conseguenza neanch’io mi sento tanto bene.” La bandiera degli Skiantos è stata tenuta alta negli anni da... da chi? Non da Elio e le storie tese, tutti ripiegati sul loro intellettualismo citazionista che attinge a piene mani dal patrimonio musicale italiano. Non dai Gem Boy, mai usciti dall’ottica della cover/parodia del brano famoso di turno, impegnati tuttalpiù in pirotecniche tournèe con Cristina D’Avena. La verità è che, al termine di un viaggio così roboante, la constatazione da fare è assai amara: manca al panorama italiano un gruppo che dia una lezione di stile, di sincerità e di demenza ai tanti opinionisti in musica che si vedono calcare i palchi italiani con l’espressione corrucciata e la voce fioca, attenti solo a quella che proprio Freak Antoni definì la “chachacha cultura”. Forse (magari!) gli eredi degli Skiantos sono già tra noi, nascosti in qualche locale ormai obsoleto del bolognese. Quanto converrebbe a noi, al nostro spirito e alla nostra musica avere ancora tra noi qualcuno con la forza di urlare in faccia agli spettatori, ora e sempre, “Pubblico di merda!”. - samgah


deep inside

tra censura e hacktivismo

La guerra di Mr. Smith La notizia della recente chiusura di alcuni siti di file-sharing (solo quelli legati al gruppo Mega sono 18) e della conseguente autosospensione di altri è ormai da qualche mese sulle pagine dei giornali e, sopratutto, su quelle dei nostri browser. Cerchiamo comunque di fare chiarezza e di spiegare cosa si nasconde dietro le famigerate sigle SOPA e PIPA e a cosa porterebbe un’eventuale approvazione di tali proposte. Il Stop Online Piracy Act è una proposta di legge presentata dal repubblicano americano Lamar S. Smith e prevede che “i titolari dei diritti lesi possano agire per vie legali non solo nei confronti di chi abbia materialmente commesso la violazione, ma anche nei confronti dei siti e dei portali che ospitano i contenuti in violazione di copyright“. Se la proposta venisse approvata, le “misure tecnicamente possibili e ragionevoli” (citando il testo del disegno di legge) che sarebbero in mano al tribunale statunitense comporterebbero il cosiddetto filtraggio DNS e le autorità competenti avrebbero quindi il potere di rendere irraggiungibili determinati domini, intervenendo sui DNS dei provider, creando una sorta di blacklist di siti “cattivi” e dando vita alla stessa forma di censura che attualemente è in vigore in Siria, Iran e Cina. Allo stesso tempo, anche il Protect IP Act porterebbe ad una “protezione degli indirizzi IP”, impedendo l’accesso ai siti che violano o rendono possibili la violazione dei diritti d’autore. Le differenze dei due provvedimenti rispetto all’attuale legge in vigore (il Digital Millennium Copyright Act) sono notevoli; attualmente, in caso di denuncia, il sito che ospita contenuto illegale viene diffidato dal titolare dei diritti e la pena prevista è la cancellazione dei materiali multimediali in questione. In caso di approvazione di SOPA e PIPA, la

pena prevista è l’oscuramento totale dell’intero sito. Tuttavia, il pericolo è un altro. Se con l’attuale legge l’unico sito che rischia la condanna è quello che ospita il contenuto, se Mr. Smith dovesse convincere la Camera dei Rappresentanti, finirebbero nel mirino tutti i siti che “rendono possibile o facilitano la pubblicazione del contenuto in violazione”. In altre parole, i social network, i cosidetti siti a contenuto libero (Wikipedia), blog, ecc. L’entrata in vigore e sopratutto l’estensione di SOPA e PIPA a domini non statunitensi porterebbe alla morte, o perlomeno alla paralisi, del processo che negli ultimi quindici anni ha reso Internet il mezzo di comunicazione più potente della storia, rendendo possibile la fruizione di materiale multimediale da ogni parte del globo e distruggendo quelle barriere geografiche e temporali che da sempre ostacolano la diffusione del sapere. Tale processo ha portato ad una graduale riduzione di potere (e, sopratutto, di guadagno) da parte delle major e, sicuramente, è necessario (come ha auspicato lo stesso Presidente USA Obama) un accordo tra le parti, mirato alla salvaguardia del mercato e, allo stesso tempo, al rispetto della libertà di espressione e comunicazione nel giovane mondo della rete. La soluzione non è facile, certamente. Chi scrive crede tuttavia che sia giunto il momento di rivedere e rinnovare sistemi ormai vecchi e datati come l’attuale sistema di copyright, adatto e efficace in un mondo in cui l’unico modo per ascoltare musica era quello di sedersi accanto al proprio giradischi, per vedere un film era necessario recarsi al cinema più vicino e per informarsi leggere il giornale al mattino. Mondo ormai lontano, per quanto siano passati solo pochi anni. Mondo che non esiste più. Fortunatamente. - fragor

Sound of pictures

Red Carpet 2012 A pochi giorni dalla premiazione degli Accademy Movie Awards è interessante gettare uno squardo sulle colonne sonore candidate per ricevere il premio. I film nella cinquina per la miglior colonna sonora sono cinque ma i compositori solo quattro. Infatti John Williams (Guerre Stellari, E.T., Schindler’s List), già cinque volte premio Oscar per quest’anno si aggiudica due nomination, Le avventure di Tin Tin e War Horse, entramabe per film girati dall’amico Steven Spielberg, con cui vanta una lunga collaborazione. I pezzi sono belli ma non reggono il confronto con i suoi lavori più vecchi. In prima analisi si lasciano considerare poco originali e scarsamente travolgenti. Un grande con cui dovrà scontrarsi, altro veterano del red carpet è Howard Shore, già vincitore nel 2002 e nel 2004 dell’ambito premio. Anche in questo caso si parla di un compositore feticcio, già largamente utilizzato da Martin Scorsese che lo chiama anche nel suo ultimo film: Hugo. Shore è un artista capace di spaziare molto e regalare lavori sempre diversi. Sicuramente la colonna sonora di Hugo è distante da quella del Silenzio degli Innocenti o della trilogia de Il Signore degli Anelli, che portano la sua firma. Ma stavolta, soprattutto considerando il suo passato, non convince, lasciandosi considerare poco più che orecchiabile. La vera new entry è il francese Ludovic Bource. La

sua è sicuramente la sfida più grande: musicare un film muto. La domanda che sorge spontanea è se questa sfida sia vinta o persa. In The Artist riprende lo swing, il jazz e le colonne sonore di film muti degli anni ‘20, quando erano ancora suonate da una orchestra in sala e non avevano molte più pretese che essere semplici sottofondi. Da tutto questo nasce un ibrido di difficile interpretazione. Non si capisce se la musica, spesso fuori sincronizzazione col girato, debba sottolineare le immagini oppure se i crescendo capitino sullo schermo durante i momenti di snodo solo per puro caso. L’ultimo artista è Alberto Iglesias, collaboratore da molti anni di Almodovar. Ne La Talpa di Tomas Alfredson sicuramente dà vita a musiche che riescono a sostenere la tensione, elemento importante per un film di spionaggio. Cadenze che ricordano a tratti quelle di Ennio Morricone negli spaghetti Western in cui ha lavorato, lasciando poi spazio a melodie cupe rinforzarte da archi e cori. Almeno per questa edizione è qualcosa di particolare. Ma chiunque sia il vincitore di quest’anno rimane l’amaro in bocca. Non rimane che attendere la notte degli Oscar e sperare che questi lavori possano essere apprezzati col tempo perchè, sempre in prima analisi, risultano facilmente dimenticabili. - eightland

News from

Montreal

Sono a Montreal (Québec) da un mese e mezzo ormai, e, tra varie digressioni, vorrei parlare dell’Igloofest: un festival di musica elettronica all’aperto (proprio così) a cui ho assistito nella serata del ventun gennaio (Hakim Guelmi, CA, Max Cooper, GB, e Sébastien Léger, FR). Il festival, giunto alla sesta edizione, si è tenuto per tre weekends dalla metà alla fine di gennaio. Per gli alternativi della città è ormai l’evento invernale per eccellenza, contraltare della versione estiva Piknik Elektronik, organizzato dallo stesso team sotto la guida di un expsicoterapeuta e sociologo (eh sì, nel Nuovo Mondo ci sono ancora delle possibilità per tutti, ma non mi riferisco a Il mondo nuovo del Teatro degli Orrori, che hanno avuto il pudore di non intitolare il loro nuovo album Storia di un immigrato per non far rivoltare nella tomba Fabrizio De André, ma così facendo non hanno risparmiato Aldous Huxley, che, già ripreso dagli Iron Maiden, c’entrava ancor meno. Dopotutto questo è solo un piccolo capitolo nella storia delle citazioni più o meno esplicite che l’autoproclamatosi intellettuale Pierpaolo Capovilla ha inserito nelle sue liriche, anche perché, quando è farina del suo sacco, escono cose del tipo: “Monica, non puoi sapere / come mi manca il tuo amore / Monica, non ti dimenticare / ti voglio bene sai”, da Monica, appunto. Che si stiano preparando per Sanremo anche loro? Chiusa parentesi). L’Igloofest, dicevo, ha luogo nella stupenda cornice del vecchio porto, una delle zone più europee della seconda città francofona per popolazione al mondo. Il prezzo è più che abbordabile: dodici dollari che corrispondono circa ai nostri dieci euro. A questo punto devo ammettere la mia ignoranza in fatto di elettronica e DJs, non posso veramente descrivere la musica al di là dei nomi sopraelencati. Posso dire solamente che sono andato lì con due paia di qualsiasi cosa addosso, ma nonostante le mie peggiori paure non ho sofferto quasi per niente i meno venti gradi di temperatura esterna. Al contrario, ogni tanto dovevo abbassare uno dei due cappucci o togliermi il cappello per far rimbombare la musica, che comunque era sempre gradevole. Qualcuno mi ha detto che verso la fine c’erano più di diecimila persone, veramente compresso tra la folla mi sono dibatutto un po’ avanti e indietro, fino a gironzolare tra gli igloo e i cubi pieni di fluo, riscaldarmi nella zona coperta o godermi il panorama dal ponteggio a lato palco e direttamente sul fiume. Roba che non capita tutti i giorni! - fp


viaggi extrasonori

KAFAVIS

ritorna spesso e prendimi Ritorna spesso e prendimi, amata sensazione, torna e prendimi – quando si risveglia la memoria del corpo e l’antico desiderio penetra nel sangue; quando labbra e pelle ricordano e sulle mani è ancora viva la sensazione di toccare. Torna spesso e prendimi la notte, quando labbra e pelle ricordano..... da Ritorna Nonostante la biografia convenzionale e nel complesso ordinaria Costantino Kavafis fu fautore di una poetica assolutamente straordinaria e del tutto anticonformista. Lo stesso Montale lo definì “un vero alessandrino, nello spirito e nella carne” e ne indicò la peculiare genialità proprio nella consapevolezza del poeta neogreco “che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergersi in quel mondo come fosse il nostro”. Konstantinos Petrou nacque nel 1863 ad Alessandria d’Egitto “in una casa della via Cherif”, come scrisse in un appunto autobiografico, da famiglia greca. Dopo la morte del padre, avvenuta nel ‘70, si trasferì in Inghilterra - a Liverpool - e dopo alcuni anni di viaggi tra la Francia, Constantinopoli e la Grecia, lui e l’amatissima madre fecero ritorno nella vivace città egiziana, crocevia di etnie e religioni e felice punto di incontro tra uomini di diverse culture. In quegli anni in Europa,

in campo poetico, dominavano gli esteti decadenti francesi, mentre in Egitto spiccava la vastissima e mirabile tradizione della poesia araba. In Kavafis queste culture si fondono a quella ellenica alla quale il poeta è particolarmente affezionato per ragioni familiari, traendo ispirazione da grandi poeti classici quali Omero, Saffo, Alceo e Anacreonte. Lavorando per tutta la vita come impiegato nell’ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto, egli coltivò quasi segretamente la sua passione per la poesia, donando spesso i suoi lavori agli amici e pubblicando solamente due raccolte piuttosto scarne in vita. Morì nel 1933. In La passione e la memoria Kavafis si muove al limite dell’oblio, tra inezie che la storia trascura ma che nella sua poesia assumono una rilevanza sostanziale. Il titolo stesso della raccolta ben sintetizza questo percorso: se da un lato infatti abbiamo, per esempio, epigrafi che celebrano il soggetto deceduto in età giovanile di turno soprattutto per la bellezza svanita, dall’altro vi sono annotazioni storiche, aneddoti sulla vita delle antiche città del medio Oriente, dell’Africa, della Grecia classica, le quali rivivono nelle pagine con il lusso delle loro statue, la ricchezza delle loro monete e della loro cultura. Esse vengono colte però nell’attimo della loro decadenza, del loro sfiorire, congelate nel tempo da uno sguardo che però sa avvicinarle a noi con la sua precisione rammemorante. Sono davvero poesie della memoria e della nostalgia queste, ora memoria storica, ricordo di civiltà scomparse, ora privata rievocazione di amori passati, che nel caso di Kavafis, omosessuale, sfidano la morale comune e rischiano di apparire scandalose, soprattutto se pensiamo che svolse la

sua attività lirica tra il 1897 e il 1933. Il poeta alessandrino di origine greca è infatti scosso dal ricordo delle labbra baciate, dei corpi sfiorati; l’effimera giovinezza è svanita ma non la tremula fiamma della sua passione, che perdura, nonostante il tempo passato abbia consumato i volti e fatto appassire i corpi. Come splendidi corpi di morti non colti da vecchiaia racchiusi, tra le lacrime, in fulgidi mausolei, adorni di rose il capo, di gelsomini i piedi – così appaiono i desideri ormai svaniti che nessuno esaudì: neppure uno che avesse una notte di voluttà o un’alba luminosa. da Desideri Il passare del tempo è una delle ossessioni di Kavafis, passare delle civiltà, passare della bellezza, il suo è un omaggio in versi a ciò che rimane, fioca candela prossima a spegnersi la sua voce celebra anche questo svanire delle cose, con tristezza, con nostalgia, con dolcezza. La memoria però non si rassegna alla caducità e consegna questi amori all’eterno; la bellezza maschile è celebrata in versi pieni di commozione, belli nella loro semplicità, caldi nel loro erotismo soffuso, mai volgare, che li permea. La parola chiave della poesia kavafisiana è infatti “voluttà”: un piacere effimero, dato dall’incontro con la bellezza nella sua corporeità e sensualità idealizzate per ricreare un modello di kalòs kai agathòs moderno, attuale. Nella poesia Ho portato all’arte egli descrive qual è l’impronta che lascerà nella storia della poesia, classificandosi definitivamente come alessandrino: Seduto,sto fantasticando. Desideri e sensazioni ho portato all’Arte – volti appena intravisti, tratti accennati: e incerte memorie d’amori impossibili. Mi affido ad Essa. Sa raffigurare la Forma della Bellezza: e riempie quasi inavvertitamente la vita intera, unisce le sensazioni,annoda i giorni. da Ho portato all’arte -zuma


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la dialettica nella storia

Viaggio intorno ad Elsa Morante Il 18 agosto di questo anno, Elsa Morante avrebbe compiuto 100 anni. Se la portò via invece nel 1985 un infarto, culmine di tanti problemi, fisici e non solo, che la accompagnarono per tutta la vita. Ma cosa sarebbero stati per lei 100 anni? “Uno scandalo che dura diecimila anni”, questo era il sottotitolo del suo romanzo del 1974, riferito a la Storia, nome anche del romanzo. Ebbene, alla luce di questo sottotitolo, si può procedere ad un’analisi del tempo e del suo intricarsi attorno alle vite umane, di questo meccanismo che nacque nella mente della scrittrice. L’opera parla degli anni tra il 1941 e il 1947 (con un’appendice posteriore) e di una famiglia sconvolta dalla guerra e dalla miseria. Il tempo delle azioni quotidiane e dello scorrere dei giorni però, paradossalmente, non ha grande importanza. A dare una scansione all’interno del romanzo sono dei grandi passaggi narrativi, degli annuari degli avvenimenti della Storia collettiva su cui si

arrampicano le vicende dei protagonisti. Per quanto riguarda la trama, è un romanzo sull’infanzia, permeato di sogni: i reali protagonisti sono la madre, Ida, e suo figlio, Giuseppe; la sua infanzia, la sua precocità, il suo Grande Male. In generale si può dire che la Morante parte da una certa indagine, profonda ed estenuante, sulla condizione di Storia, creando una forte dialettica tra la Storia con la S maiuscola, la Storia collettiva e la storia, con la s minuscola, degli individui; come le onde del mare, immenso e sterminato, che scorrono su dei minuti sassi cambiandogli il posto, inghiottendoli, levigandoli, mentre esso prosegue nel suo ondeggiare, senza mutamenti. Quindi, si sofferma nell’atto creativo - chiari ed esemplari gli spunti autobiografici della storia, uno su tutti le sue origini ebraiche – nella formazione di un’esistenza isolata e singolare (lo ripeterà in altri suoi romanzi); collega questo misero destino individuale, fatto di povertà e

elle a chaud au cul, alias

la Gioconda Baffuta A mio avviso sono molti coloro che sognano di apporre sull’icona stessa dell’arte la propria firma con uno scarabocchio, un bel paio di baffoni, magari. Ma, poiché la donna dal sorriso enigmatico di Leonardo è lontana migliaia di chilometri, diversi centimetri di plexiglass ed enormi folle di turisti giapponesi dai comuni mortali, è necessario limitarsi a dare una propria interpetrazione del famoso dipinto solo idealmente, nel caso proprio non se ne potesse fare a meno. Questa doveva essere l’idea originale del capofila del gruppo dadaista ed eccezionale sperimentatore Duchamp, che nel 1919 dette vita alla più discussa ed irriverente delle reinterpretazioni della Gioconda. Il nome di quest’opera, che ha scandalizzato e divertito una grande quantità di critici di storia dell’arte di mezzo mondo, è composto da un gioco di suoni provocatorio: L.H.O.O.Q., il suono delle quali lettere, se lette in sequenza in lingua francese, restituiscono la frase “Elle a chaud au cul”, tradotta “Lei ha caldo al culo”. Il titolo è però soltanto un assaggio della vera provocazione: Duchamp dipinge infatti la Monna Lisa dotata di baffi. Con questo gesto l’autore non vuole sfregiare un capolavoro, ma semplicemente contestare la venerazione che gli è tributata passivamente dall’opinione comune. Speculari in questo senso si possono considerare altri interventi dell’artista francese, come l’esposizione di una ruota di bicicletta o del famoso orinatoio (con tanto di firma) in musei e gallerie d’arte. Egli dà quindi valore estetico ad oggetti che

la società moderna considera solo utilitari e contemporaneamente mette in dubbio l’”artisticità” di un capolavoro indiscusso come il quadro di Leonardo per stimolare il pubblico a maturare una propria opinione artistica. La critica ha però solo recente sottolineato le valenze più sostanziali della personalità di Marcel Duchamp. A lungo infatti si è pensato che il fulcro della ricerca duchampiana fosse il non-sense; che l’artista intendesse rifuggire da ogni ulteriore significato a parte forse la riflessione sull’arte stessa e i suoi modi e fini, ma evidentemente questa tesi non è più sostenibile. Interessante è che, al di là dell’evidente messaggio di invito di una comune rilettura dell’opera, svincolata dalla troppo frequente imposizione culturale che la vuole sola ed incontrastata icona dell’arte rinascimentale italiana, si possono ritrovare in L.H.O.O.Q. altri contenuti che si riferiscono ad alcune ipotesi di Duchamp.

sofferenza, a quello degli uomini. Infine torna, e conclude, in maniera ancor più disperata, su un universo famigliare simile a quello di partenza. Tutto questo procedimento, quasi scientifico per la sua precisione, è veicolato da uno stile avvolgente, che allude e allontana al tempo stesso, con un unico corollario: mantenere ben viva e evidenziata la dialettica che abbiamo espresso prima. E allora proprio qui sta la grandezza di questo romanzo e la sua attualità; in questa ricerca che ha sempre travolto gli intellettuali, uno su tutti Pasolini, che spostò le coordinate nella borgata e nei suoi abitanti. La lotta tra chi vive ogni giorno lottando e soffrendo mentre intorno esplodono i funghi delle bombe atomiche. E astraendo per un attimo le bombe, la seconda guerra mondiale, l’accanimento del destino nelle disgrazie famigliari, capiremo l’immensità di questo romanzo. - matmo

L’autore vede infatti la Gioconda di Leonardo come un’androgina unione di componenti maschili e femminili, un’unione dei contrari, figura simbolica ricorrente nei trattati alchemici e in altri suoi lavori. Tale considerazione la ricollega alla precedente opera Fontana, firmata R. Mutt. Mut infatti è il nome di una divinità egizia madre di tutti gli esseri umani in virtù della capacità di generare autonomamente, grazie alla particolarità di essere dotata sia di attributi maschili che di attributi femminili. - zuma


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JEAN-LUC NANCY di carne assente Il suo corpo si è prolungato in ogni tipo di esperienza (Cinquantotto indizi sul corpo nel 2006), ha subìto modifiche e trapianto (L’intruso nel 2000), ha sostato in uno spazio di comunione con altri corpi (Il “c’è” del rapporto sessuale nel 2002) – e sulla comunità ha scritto il bellissimo La comunità inoperosa – e per questo ha lasciato tracce scritte di altre tracce corporee: i suoi libri sono considerati come corpus letterario, come un corpus effettivo di un uomo, autore delle proprie esperienze. L’autore, infatti, non è costituito dalle sue intenzioni che si ritrovano nelle opere, ma dalle opere che lasciano lontanamente intuire una volontà probabile, e mai ultima, del loro (probabile) autore. L’uomo è accompagnato perennemente dalla sua continua volontà di rendersi totalmente presente a sé per voler rendersi conto che ciò che si manifesta è l’essenza

stessa, presente davanti ai nostri occhi. È lecito: è nella cultura dell’Occidente farsi immagini dei fenomeni per poterli rendere “ancora più presenti” di quello che sono. Jean-Luc Nancy (e non solo lui) vuole mettere in scena proprio questo: ciò che l’uomo si è ostinato a non comprendere è che, per quanto un’immagine sia imitazione della cosa, non potrà mai eguagliarla; sarà sempre un rimando ad essa, e non la cosa stessa. Questo fatto non potrà essere accettato, e così il nuovo concetto di immagine dovrà essere l’assoluta presenza della presenza stessa che annulla tutto il resto: la presenza è talmente tanto piena di sé che non lascia spazio per rimandi ad altro, ma si autorappresenta (La rappresentazione interdetta 2002); l’immagine si chiude in sé senza poter accettare altro da se stessa, nemmeno il suo senso (il senso non è rappresentato dall’opera, è in

I CANI 8 mar. Estragon, Bologna BUD SPENCER BLUES EXPLOSION 9 mar. Karemaski Multi Art Lab , Arezzo CALIBRO 35 10 mar. Auditorium Flog, Firenze

essa nascosto, o addirittura va trovato al di fuori di essa, ma non è presente come la sua immagine, come la sua auto rappresentazione). Se il senso fosse tutto davanti agli occhi come potrebbe essere possibile il procedere dell’uomo, la sua ricerca, il suo ascolto, la sua parola, il suo stesso giudizio? La rappresentazione deve restare interdetta, ma di quale interdizione si tratta? Di quella dell’immagine incompleta che ha bisogno del rimando alla cosa (interdetta poiché non è presenza totale)? o di quella dell’immagine come pura presenza assoluta, che rende presente esclusivamente il suo presentarsi come tale (interdetta poiché è zittita l’immagine concepita come rimando alla cosa che ha in sé un’assenza)? Nancy filosofo ha scelto la prima interdizione: quella di Nancy uomo. - gorot EX-OTAGO 30 mar. Covo, Bologna ULTIMO ATTUALE CORPO SONORO 30 mar. Teatro Verdi, Poggibonsi (SI) A PLACE TO BURY STRANGERS 5 apr. Locomotiv, Bologna

WILCO 9 mar. Estragon, Bologna

GIOVANNI LINDO FERRETTI 5 mag. Sonar , Gracciano di Colle Val d’Elsa (SI)

JOHN CALE 15 mar. Magazzini Generali, Milano

BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND 10 giu. Stadio Franchi, Firenze

JAMES HOLDEN + LUKE ABBOTT + KATE WAX 16 mar. Viper Theatre, Firenze DENTE 17 mar. Sonar , Gracciano di Colle Val d’Elsa (SI) ROGER DALTREY (THE WHO) 20 mar. Teatro Comunale, Firenze MARK LANEGAN 24 mar. Estragon, Bologna DUM DUM GIRLS 29 mar. Auditorium Flog, Firenze

MADONNA 16 giu. Stadio Franchi, Firenze PORTISHEAD 27 giu. Ippodromo delle Capannelle, Roma VIPER THEATRE 30 mar. Offlaga Disco Pax 14 apr. Banco Del Mutuo Soccorso + Le Orme 17 apr. The Stranglers 18 apr. Steve Hackett 30 apr. Killing Joke 5 mag. Diaframma

Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Stefano Barone, Sara Marzullo, Fabrizio Randazzo, Roberto Beragnoli. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori. Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel Febbraio 2012. Per informazioni, critiche e consigli: info.feedbackmagazine@gmail.com. Feedback Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedback.magazine


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