#10-11 Luglio-Agosto 2011

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feedback fanzine di musica indipendente

anno I numero 10-11 LUGLIO-AGOSTO 2O11 issuu.com/feedbackmagazine.it

IN QUESTO NUMERO: The Doors . Skunk Anansie . Fucked Up . One Dimensional Man . Verdena . Aucan . Ricardo Villalobos . Zomby . Who


feedback - LUGLIO/AGOSTO 2011

ARTISTA DEL MESE

THE DOORS THE SCREAM OF THE BUTTERFLY

Mentre si susseguono i tributi e in Italia esce “When you’re strange”, il nuovo documentario di Tom DiCillo sull’epopea dei Doors (ci aveva già provato Oliver Stone nel 1991, ricevendo non poche critiche da parte dei fans), le porte del complesso di Los Angeles, a quarant’anni dalla morte di Jim Morrison, non possono che schiudersi anche per noi di Feedback. Ripercorriamo dunque la loro storia, legata in maniera inequivocabile, da quella calda estate del ‘65 a Venice Beach fino all’epilogo tra luci e ombre, alla vicenda del leggendario frontman. James Douglas “Jim” Morrison nacque in Florida l’8 Dicembre 1943. Dopo un’infanzia travagliata, che lo segnerà profondamente e che celerà spesso nei suoi testi oscuri e dolenti, Jim, appassionatosi alla poesia maudit di Rimbaud e Baudelaire, si trasferì in California ancora adolescente. Qui, deciso a diventare un regista, studiò per un periodo alla UCLA, ma l’incontro con Ray Manzarek nel 1965 lo portò a scegliere la musica come veicolo per la sua poetica e a fondare i Doors. Ray, classe 1939, era un tastierista di alto livello nonché ottimo arrangiatore. Utilizzando un Rhodes Piano Bass che appoggiava sull’organo durante le esibizioni live della band, compensava l’assenza del basso nella line-up dei Doors, completatasi con l’aggiunta del batterista John Densmore e del chitarrista Robbie Krieger. Il complesso losangelino prese il nome da un libro di Aldous Huxley del 1954, “The Doors for Perception”, nel quale l’intellettuale britannico rifletteva sull’allargamento delle possibilità percettive grazie all’uso di droghe. Huxley stesso si era ispirato per il titolo a una poesia di William Blake, “Matrimonio tra Cielo e Inferno”. Alla fine del 1965, quando i Doors erano ancora un gruppo e non il gruppo di Jim Morrison, ognuno assecondava ancora gli input degli altri. Così, da una composizione non terminata di Krieger, nacque Light My Fire, primo successo della band: opportunamente ridotta, entrò nelle charts radiofoniche americane nell’estate del 1967 raggiungendo per tre settimane la prima posizione. Già l’anno prima, dopo la gavetta nei locali di Los Angeles (in particolare il celebre “Whisky a Go-Go”), i Doors avevano ottenuto il loro primo contratto, con l’etichetta Elektra. In due settimane, Morrison e compagni registrarono il disco d’esordio, omonimo, che uscì nel Gennaio del ‘67. The Doors è uno dei debutti più folgoranti e uno dei massimi capolavori della storia del rock tutta. Perfetto amalgama di psichedelia e blues-rock, contava capolavori come Break On Through, The Crystal Ship e The End, resi eterni dall’organo sospeso e baroccheggiante di Manzarek, dai colpi sofisticati di Densmore, dal timbro esotico della chitarra di Krieger. La voce seducente e sinistra di Jim Morrison e l’ermetismo, più o meno accentuato, dei testi suggellavano il tutto: l’opera prima dei Doors, di lì a poco tempo, avrebbe ammaliato il mondo, con i suoi fuochi accesi e l’invito a passare dall’altra parte. Con un pubblico che aumentava sempre di più, l’attività live della band, sulla cresta dell’onda 2

del singolo Light My Fire, divenne frenetica, contribuendo in larga scala al successo dei Doors e alla mitizzazione di Morrison. Sempre più persone accorrevano ai loro concerti, durante i quali Jim, vero e proprio animale da palco, si tramutava in sciamano del rock e trasportava i suoi ascoltatori in una dimensione quasi mistica: un vero mentore per la folla, perlopiù composta da hippie, accorsa a vederlo, un pazzoide drogato per i benpensanti d’america, che di lì a qualche anno non gli avrebbero dato tregua.

giunse nulla di particolarmente nuovo, se non una ritrovata sensibilità blues-rock e uno dei futuri classici della band, Roadhouse Blues. Lo stesso anno l’Elektra pubblicò Absolutely Live, doppio album dal vivo registrato in quegli anni, che riportò i Doors in classifica, benché la frattura interna apparisse ormai insanabile e le condizioni di Jim peggiorassero visibilmente. In quei mesi frenetici, durante i quali Morrison aveva rifiutato di cominciare una tournée che avrebbe consolidato il ritrovato successo com-

Il seguito Strange Days, uscito nell’autunno dello stesso anno, fu brillante come l’esordio, anche perché figlio della medesima ispirazione. La title-track e People Are strange, distese nella loro dimensione onirica e decadente, e l’apocalittica When The Music is Over erano solo poche delle tante gemme presenti tra quei solchi.

merciale, uscì anche L.A. Woman, sesto e ultimo album registrato dalla band prima della morte di Jim. Il sound si era fatto sporco, così come la voce di Morrison che, con qualche chilo in più e una lunga barba, era ormai perfettamente calato nelle vesti di sciamano-eremita. Il disco, la migliore prova dei Doors dai tempi di Strange Days, ritrovava quelle atmosfere cupe e apocalittiche che avevano visto la nascita di capolavori quali The End e When The Music’s Over. Anche la componente poetica sembrava giocare di nuovo un ruolo di spicco; L.A. Woman e Riders on The Storm, oltre a consegnare i testi più suggestivi, erano gli episodi migliori del lotto.

La febbre intorno agli show dei Doors saliva, grazie anche alle performance oltraggiose di Morrison, che accumulava denunce su denunce. Famosa l’esibizione del 1969 a Miami, al culmine della quale Jim, infastidito dal pubblico che chiedeva a gran voce Light My Fire, sventolò - o finse di farlo - il pene all’aria: “Siete venuti per vedere qualcos’altro, vero? Va bene, ecco il mio cazzo!” ebbe il tempo di dire, prima di essere allontanato dai poliziotti. Alla spettacolarità dal vivo non fece però seguito una carriera discografica altrettanto valida; i Doors furono costretti a comporre in sala, nello studio di registrazione, per mancanza di materiale inedito. Jim, sempre più vittima dei suoi eccessi di alcool e droghe e, dopo il ‘69, con un processo per atti osceni in luogo pubblico sulle spalle, mostrò tutte le pecche di un gruppo troppo legato alla sua persona. Waiting For The Sun (1968) e The Soft Parade (1969) contenevano buone prove, come Hello, I Love You (datata peraltro 1965 - che permise ai Doors di raggiungere il primo posto nelle classifiche, per l’ultima volta), Spanish Caravan, la lunga e articolata The Soft Parade, ma erano solo scintille isolate in un mare di episodi assai meno pregnanti. Anche il successivo Morrison Hotel non ag-

La crisi di Jim Morrison era però irreversibile. Nel Marzo del 1971, assieme alla moglie Pamela, il cantante si trasferì a Parigi, tempio dei suoi poeti prediletti, cercando conforto in quella atmosfera culturale. Qui, nonostante tutto, Jim morì la notte del 2 Luglio, complice una micidiale dose di eroina. Orfani del loro frontman, i tre Doors superstiti registrarono due dischi tra il ‘71 e il ‘72, ma l’assenza di Morrison ne svelò i limiti senza pietà. Other Voices e Full Circle erano album inutili, offensivi alla memoria del gruppo che erano stati: in quei pochi anni, dal ‘67 al ‘70, i Doors avevano ispirato intere generazioni ed erano diventati il simbolo del rock maudit più intenso e visionario. Dopo, lo rimasero. - zorba


LIVE

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SKUNK ANANSIE FERRARA SOTTO LE STELLE

SKUNK ANANSIE Pistoia, 08/07/2011 Sarà un triste live report. Non è colpa della band: il suo lavoro lo fa egregiamente. E’ una band che riesce a coinvolgere , fa battere le mani al pubblico, Skin è carismatica, è da un pezzo che suonano e si sente: se la intendono bene sul palco. Li vedi lì che saltano, parlano col pubblico dicendo le solite espressioni standard in italiano che

tutti conoscono: “grazie”, “come state ?”, “Tutto bene ?”. Insomma, ogni cosa al posto giusto. Ma c’era qualcosa che non quadrava. Era forse Pistoia? Erano forse i pistoiesi? Era forse che la piazza si è riempita all’ultimo momento? Sarà che, forse, avendo vissuto per 24 anni a Pistoia ho visto cambiare il festival del Blues di Pistoia in peggio? Non ho sentito la verve,

l’apertura verso nuovi tipi di spettatori. Un velo trasparente copriva un concerto che aveva tutta l’apparenza di un evento unico. R: “Bravi, però, non lo so. C’è qualcosa che non mi convince… “. Papà: “Quanti anni è che si fa il blues a Pistoia? “ R: “ 32 anni”. Papà: “Doveva finire prima poi. Mica tutto è eterno…” - gorot

FERRARA SOTTO LE STELLE Ferrara, 03/07/2011

Il festival nel cuore della città estense è giunto alla sedicesima edizione, dimostrando ancora una volta come sia possibile abbinare musica all’aperto e utilizzo intelligente degli spazi urbani, cosa che spesso risulta impensabile in questo paese pieno di città d’arte o che almeno un tempo si potevano definire tali. “Un giorno del tutto differente” si riferisce alle sei ore di concerti che si sono susseguiti in due palchi attigui, tra la Piazza e il Cortile interno del Castello Estense. Ai Jennifer Gentle, primo gruppo italiano ad avere firmato con la storica Sub Pop di Seattle, spetta il compito di inaugurare il palco principale, giusto davanti all’entrata della piazza e di fronte allo splendido castello. Per l’occasione, Luca e Alberto dei Verdena, rispettivamente alla batteria e al basso, si uniscono a formare un quartetto con chitarra e tastiera “originali”, che si divertono in sfuriate acid-rock lasciandosi riprendere e fotografare dall’inoccupata bassista Roberta. Nel cortile sono invece gli Spread ad aprire le danze, o per meglio dire il turbine sonoro che mi investe non appena mi avvicino alla stretta imboccatura sopra il fossato. Si tratta di una potente formazione bergamasca, dal taglio altalenante e vagamente lirico-epico. Si presentano come l’”aperitivo” della serata; peccato per la corda rotta quasi subito e per i volumi che spaventano parte del pubblico, molti dei quali attendono semplicemente i bigs della serata seduti davanti al palco grande. In tempismo Dinosaur Jr. a Ferrara

Verdena sul palco di Ferrara sotto le stelle

perfetto rispetto agli orari del programma tocca quindi a IOSONOUNCANE, ormai in versione strettamente elettronica e sempre più abbarbicato sui tastini del campionatore, per mezzo del quale riscopre una versione da brividi di La macarena su Roma, con i bassi che si insinuano dal pavimento dritti su nel petto, salvo poi concettualizzare troppo Summer on a spiaggia affollata e Torino pausa pranzo, che perdono un po’ la loro vena cantautorale. Come tutti, anche i Sakee Sed fanno un’ottima figura suonando perfino una canzone scritta quattro giorni prima, alle prese con un convincete indie-folk-rock. Abbandonato lo stage minore, sono gli Aucan ad occupare la scena principale senza un attimo di respiro. Identificati dai cappucci saltellanti in mezzo

a batteria elettronica, synth e chitarre, i tre ragazzi bresciani ricevono persino la dedica di Razzi arpia inferno e fiamme da parte dei Verdena: Alberto veste la loro maglietta durante la performance. Da molti attesi più di tutti e da altri ignorati, i Dinosaur jr fanno così una comparsa leggermente straniante, riproponendo per intero il loro storico album Bug del 1988, già portato in tour con Sonic Youth e Nirvana, in maniera impeccabile e con volumi assordanti per circa un’ora e mezza. Lo stesso tempo viene concesso ai Verdena, che fanno quindi il loro ingresso come attrazione principale della serata e sviluppano una scaletta davvero ben scelta. Accompagnati dal turnista Omid Kazemijazi e impegnati in un continuo cambio di strumenti (che vede Alberto e Roberta sedersi alla tastiera in svariate occasioni), i Verdena recuperano infatti vecchi successi di Il suicidio dei samurai e Requiem, come Logorrea, Elefante, Canos e Don Calisto, alternandoli con i migliori brani del loro nuovo doppio cd Wow, quali Loniterp, Lui gareggia, e E’ solo lunedì: ormai una garanzia dal vivo, si meritano decisamente il successo che stanno attraversando in questo periodo. fp tramite musicmap.it 3


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DISCO DEL MESE

Rock-opera/Punk

FUCKED UP David comes to life [Matador, 2011]

Tutti riversi sui campionatori e sui laptop, e poi finisce che uno degli album più strepitosi di questi noiosissimi anni trabocchi di chitarre e di elettronica non ne abbia manco una goccia. E finisce che quest’album, come già con Arcade Fire e Titus Andronicus, sia un racconto di formazione di 80 minuti e 18 tracce, alla faccia della morte del disco. I Fucked Up, nome idiota ma sorprendentemente inedito, vengono dal Canada. Malgrado in tanti si ostinino a etichettarli come hardcore, i suoni del punk non sono per loro che una scelta mimetica: dopo una sequela di singoli veloci e brutali (su tutti Police), l’esordio Hidden World piuttosto che ai Minor Threat li avvicinava ai primissimi Wire, mentre The Chemistry of Common Life, invero un po’ fuori fuoco, avanzava soluzioni ancora più inusitate (meritano poi menzione gli EP dedicati al calendario cinese, vedi l’ottimo Year of the Ox). Se il cantante, tale Pink Eyes, è un ciccione pelato dalla voce stolida e roca, gli altri sono invece dei fighetti – tre chitarre guidate dal valido 10,000 Marbles, un basso metronimico e un batterista pestone e creativo. A vederli dal vivo la strategia è chiara: mentre l’obeso sprofonda nel pogo, suda e strilla, il gruppo macina un rock psichedelico rapidissimo e zeppo di trovate (occhio perché il 22 di agosto saranno al Magnolia di Milano). David Comes to Life è appena uscito e oltre a essere il loro capolavoro è già un classico. Protagonista è David Eliade (già evocato in un pezzo del primo album e nei singoli David’s Plan e David’s Christmas), operaio di una fabbrica di lampadine in una grigia città industriale dell’Inghilterra thatcheriana – e dunque al tramonto della lotta di classe, all’alba del neoliberismo e all’ombra dei grandi capolavori del post-punk. Il sole picchia più duro della crisi del welfare e il nostro giovane eroe incontra una bella sindacalista di nome Veronica: lei non parla che di politica ma ha la voce da zozza (la cantante dei Cults cinguetta soave nell’iniziale

Queen of Hearts), e tanto basta perché David se ne innamori perdutamente (Under My Nose). La sfiga vuole che la fanciulla schiatti già al quinto pezzo (la splendida Turn The Season), trascinando il poveraccio in una catena di rinunce (Running on Nothing) e sensi di colpa (il vortice di Serve Me Right). Siamo sicuri che il proletario l’abbia davvero uccisa di troppo amore? Il prosieguo rivela come, alla maniera delle mani che disegnano di Escher, dei romanzi dell’Oulipo e del nostro Calvino, il narratore giochi sporco e s’approfitti dei personaggi al fine di rimpinguare la propria semi-divina solitudine (Truth I Know e Ship of Fools). Capita così che David possa riabbracciare una spettrale Veronica (come nelle soap opera, in One More Night è interpretata da Jennifer Castle), tornare alla vita, e che al calare del sipario si accendano ancora una volta le lampadine dell’amore (Light Go Up, con un Kurt Vile in gran forma). Dal punto di vista musicale il disco si regge su un suono ai limiti dello shoagaze, muraglioni di chitarre decorati da riff aciduli dall’incedere epico. Il cantato è un grugnito perenne, ma dopo un po’ di ascolti ci si abitua e gli si riconosce persino una certa elasticità interpretativa (e comunque i controcanti salvano dalla monotonia). A lungo andare si scopre che non c’è manco un pezzo brutto e che ci sarebbero invece diverse potenziali hit (la meravigliosa The Other Shoe riprende i mid-tempo dei Pixies, A Little Death i Wipers, la gemma The Recursive Girl incolla al riff di White Riot dei Clash un testo intimista). Brillante e pop, il disco è magnificamente coeso.

Beffardo come Tommy e caloroso come Zen Arcade (date un’occhiata alla nostra soffitta), con quest’album i Fucked Up completano il percorso iniziato in quei grandissimi dischi: il cuore sopra di tutto, il dolore dato dalla perdita dell’amore come superamento delle dinamiche di classe. Il disco è ricorsivo e circolare e inizia come finisce: puoi ascoltarlo quante volte ti pare, e ogni volta uccidi Veronica, fiacchi David e infine lo fai rinascere. Chi parla solo di sofferenza è un po’ miope, perché questo è un disco divertente e i ragazzi hanno un sano senso dell’umorismo. Dateci dentro, non c’è molto meglio da fare. 8 - bobi raspati

Krieger, spesso lasciato in ombra anche a detta dello stesso Jim, è invece capace di riempire ogni spazio con una pungente chitarra rock’n’roll, precisa per l’improvvisazione e il dialogo con Manzarek. Allo stesso modo Soul Kitchen anticipa un comodo giro che ha eco in tutta la discografia del gruppo (vedi When the music’s over), consentendo all’ensemble di scatenarsi sull’assolo blueseggiante. The crystal ship è un ottimo esempio di ballata sofisticata e leggiadra, che si sposa benissimo con le liriche di Morrison, vere e proprie poesie in musica. Tra le rivisitazioni famose si segnalano Alabama song (whisky bar), simpatica e cadenzata messa in musica di un brano di Bertolt Brecht e Back door man, tipico standard blues della scuola di Chicago. Bellissima e forse un po’ sottovalutata per il suo lato malinconico è Take it as it comes, mentre celeberrime sono ovviamente Light my fire, sulla quale è inutile spendere parole, perché è come se la dirompente passione che evoca già facesse parte di noi, e The end. Nella versione da quasi dodici minuti, utilizzata poi da Francis Ford Coppola come colonna sonora di Apocalypse Now, può forse essere definita la miglior canzone dei Doors in assoluto, dove la leggendaria parte edipica (“-Father? -Yes son? -I want to kill you. -Mother? -Yes son? -I want to fuck you”) non rappresenta altro

che l’acme catartico. Completano il quadro le non menzionate Twentieth Century Fox, I looked at you e End of the night: oscurate dall’immortalità degli altri successi, forse solo per questo il disco non merita un voto massimo, anche se, a questo punto, non ha più nessuna importanza. 8/9 -fp

Blues/Rock psichedelico

THE DOORS The Doors [Elektra Records, 1967]

“Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo così com’è: infinita”. La citazione di una poesia di William Blake che diede nome ai Doors è ormai passata alla storia del rock’n’roll, e non per semplice curiosità folkloristica. Oltrepassare le porte della percezione, questo era l’obiettivo dei quattro ragazzi di Venice Beach, anche in campo musicale: con performances mistiche, veri e proprio flussi di coscienza e catarsi collettive, anticipando e racchiudendo tutta l’atmosfera beat di fine anni ‘60, compresa la contestazione alla guerra in Vietnam. Con questo spirito, ufficializzato dal famoso incontro sulla spiaggia con il tastierista Ray Manzarek, l’inizio era compiuto. Due anni dopo, riscuotendo immediato successo, vide le stampe il primo album omonimo, che contiene in nuce tutta la musicalità e la poetica dei Doors. Break on through (to the other side) ne è il manifesto ufficiale: il modo per spalancare le porte della percezione e andare “dall’altra parte”, attraverso una base ritmica tanto semplice quanto efficace sulla quale rigirano deliri di chitarra elettrica e tastiera. La batteria fissa di John Densmore combacia infatti perfettamente con il celebre Piano Bass di Ray Manzarek, che tiene il tempo del basso con la mano sinistra mentre inventa la parte melodica con la destra. Robby

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RECENSIONI Ambient IDM

BIOSPHERE N-Plants [Touch, 2011]

Biosphere è il nome dietro al quale si cela Geir Jenssen, artista norvegese ex membro dei Bel Canto, salito alla ribalta negli anni ‘90 con album come Microgravity (1991) e Substrata (1997) - il primo influenzato da sonorità ambient house, il secondo più minimalista con forte utilizzo di field recordings e micropulsazioni techno. Il suo universo sonoro è chiamato “sound artico”, poiché molto legato alla sua terra di provenienza ove continua tuttora a vivere e produrre, a 400 miglia a nord del Circolo Polare Artico. Chi meglio di lui per una bella rinfrescata che spazzi via il torrido della claustrofobia urbana? Esce così a fine giugno la sua ultima fatica, a cinque anni di distanza dal precedente lavoro Dropsonde. Il disco, completato in studio a febbraio, è incentrato su un tema rivelatosi poi scottante: la potenziale instabilità delle centrali nucleari in Giappone. Un mese dopo calamità naturali avrebbero portato realmente il paese del sol levante in ginocchio, causando il disastro nucleare di Fukushima Daiichi. Ennesima coincidenza (Black Sun di Kode9, recensito in Feedback #8, profetizza l’oscuramento del sole da parte di radiazioni atomiche), come se l’imminente disastro fosse già percepibile nell’aria. L’atmosfera del disco riflette quest’instabile calma, la quiete prima della tempesta, attraverso basse sonorità calde, pulsazioni, linee di synth filtrati e tenui droni metallici: Ikata-1 e Genkai-1 gli esempi più eleganti e ben riusciti. Le tracce non hanno cambi sostanziali o repentini ma ogni processo innesca il successivo, in un mantra di reazioni sovrapposte. Tappeti arpeggiati di sintetizzatori riflettono il moto caotico degli atomi, ipnotizzando. Si prospetta un’estate radioattiva, ma ventilata da gelidi venti nordeuropei. 7/8 - mr.potato UK garage/Grime

ZOMBY Dedication [4AD, 2011]

Non si sa chi sia Zomby, gli piace nascondersi, manovrare nelle retrovie. E’ tipo il fratello di Burial, più piccolo (d’età) con il quale deve fare i conti, nel più classico confronto tra fratelli con forte personalità individuale. Come (e con) Burial, ha militato per anni nell’Hyperdub records, rilasciando 12 pollici, EP e l’importante partecipazione nella compilation 5 years (il pezzo cult Tarantula è suo). Ha deciso poi di fare il suo percorso, staccandosi dall’ombra del “fratello”, dando alle stampe nel 2008 Where Were U in ‘92?. Un disco concentrato tra amore per il rave, per i videogiochi 8 bit e l’hardcore (l’ardkore britannico sempre di matrice novanta). Disco

che personalmente non avevo gradito, con tutte quelle sirene dub e laserini, pur avendo affinità con il bel wonky di Ikonika. E adesso, per la blasonata 4AD, esce questo Dedication, pronto a dividere ancora il pubblico. 16 tracce di una manciata di minuti ciascuno. Una forte dimostrazione di bravura, a tratti anche ignorante (di quell’ignoranza che ci piace però, arguta e un po’ ironica), viene percepita già dall’inizio del disco. Witch Hunt mette tutti in guardia, tra pistolettate e atmosfera dark in odore Salem, mentre Natalia’s Song scherza con il fratello maggiore, riuscendoci. E’ assente sia la narrazione nelle tracce (niente sviluppi) che tra le tracce (niente dialogo): ognuna è un caso isolato, indipendente. Rimane come collante questo mood barcollante 2 step darkettone da b-movie anni 70 (A Devil Lay Here e Vortex sono solo alcuni esempi). Things Fall Apart vede la partecipazione di Panda Bear alla voce, mentre in Florence un evidente chiodo fisso, gli Autechre. Digital Rain altro pezzo killer, tra marcette e scalinate. Disco frammentato, creato da un producer in continuo divenire: the Devil is in the details. 7 - mr.potato

ECMinimalism

RICARDO VILLALOBOS/MAX LODERBAUER Re: ECM [ECM, 2011]

The Most Beautiful Sound Next to Silence: questo è il motto della ECM Records, etichetta famosa per le sue produzioni in ambito jazz. Villalobos è un fan della ECM praticamente da sempre e utilizza nei suo dj-sets sample di quel catalogo, mentre Loderbauer è, ora come ora, una delle punte di diamante della produzione tedesca - basta prendere qualche nome dal suo curriculum per capire con chi abbiamo a che fare (Moritz Von Oswald Trio, Orb, Sun Electric). In questo disco Villalobos e Loderbauer rielaborano i pezzi della storica etichetta, costruendo una vera e propria maratona di più di due ore. Non si può parlare di remix perchè il lavoro di Ricardo è a metà tra la venerazione e l’adesione a quell’estetica, sempre in ricerca come è di un suono che sia un maelstrom di jazz, musica elettronica, avanguardia ed elettroacustica. Fan incalliti del Villalobos da ballo astenersi, qui non c’è il più minimo basso groovy, solo qualche palleggio ritmico tra gli svolazzi dei rullanti e dei clarinetti. Ricardo riesce a creare un suono di una fedeltà incredibile senza decostruire i pezzi originali, ma cercando invece di mettersi in un angolo e vedere la materia prendere forma da sola. E così il collage annovera pezzi di maestri come Arvo Part e Stefano Bollani, Enrico Rava e l’Art Ensemble Of Chicago, diluiti tra brulichii glitch (Reblop), distorsioni in salsa percussiva (Reemergence), la musica ascoltata in fondo all’oceano in una caverna (Reshadub). Il lavoro è minimalista, ciò che ci si aspetta da un Villalobos in ripresa dai “passi falsi” (pagati però a peso d’oro) che lo hanno fatto diventare l’idolo di qualsiasi frequentatore accanito

di discoteche, e l’approccio che qui si ritrova è quello dei suoi capolavori (Alcachofa e Thé Au Harem D’Archimède, dischi che hanno scavato un solco che difficilmente sarà ricoperto). Bello sarebbe vedere la faccia dei lupi da pista da ballo che si infangano continuamente la bocca con il nome di Villalobos mentre ascoltano questo capolavoro. Quindi preparate delle cuffie che vi isolino dal mondo esterno e perdetevi in queste minime variazioni sonore di immenso fascino. 8 - matmo

Weird-mipigliavabenecosì-new wave- pop

JAMES PANTS James Pants [Stones Throw, 2011]

Artista poliedrico, James Singleton (alias James Pants) intraprende un percorso tra le rovine di un antico ricordo di milieu anni ’80 ai cui margini fluttuavano disco-music, soul, funk, new-wave e pop. Queste rovine vengono incollate una sull’altra facendo sprofondare le antiche distinzioni e separazioni tra generi. L’opera di James Pants è un mosaico di ricontestualizzazione musicale nella nebbia del lo-fi (per fare intuire l’inattualità del suo suono: un’età dell’oro oramai irraggiungibile). E così si va dal punk videogame di Beta, alla melensa videonight con chitarrine new-wave di Every Night; dal weird pop di Clouds Over The Pacific, ad un ricordo di Neon Indian A Little bit Closet; dal kraut post-western di Strange Girl, alla vuota sala disco di Screams of Passion; dall’onirico di Incantation, al funky-soul di Kathleen; dal dark con tanto di pad strombazzanti di Body On Elevator, alla memoria di Cabaret Voltaire inteneriti per una Nag Nag Nag da coppie di fatto dal titolo Darlin; da una mistura afroGato Barbieri-Foetus di Alone, al rock&roll con bollicine e orchi di These Girls; da un pezzo tratto da “Sergio Leone sbarcato a Twin Peaks”: Dreamboat; concludendo con droni/pattern di violini che non lasciano presagire nulla di buono (tentativo badalamentiano più che riuscito). James Pants lascia un frivolo ma al contempo antico e profondo ricordo di un periodo oscuro. Un epilogo della propria rimembranza si scorge alla conclusione dell’opera… 7 - gorot Elettro rock/Dubstep

AUCAN Black Rainbow [La Tempesta International, 2011]

Difficile catalogare il genere del trio bresciano - elettronica, nu-wave, dubstep, math rock, e chi più ne ha più ne metta. Quello che conta è intendersi: una specie di incontro tra rock sperimentale 5


feedback - LUGLIO/AGOSTO 2011

ed elettronica, molta elettronica. A livello di riferimenti si potrebbero piazzare più o meno nel mezzo tra Massive Attack, Battles e Zu, ma con una verve viva, decisa e sinestetica. Il filo che li lega a questi ultimi artisti passa per il produttore Giovanni Ferliga, membro del collettivo di elettronica Mooro insieme a Giulio Ragno Favero e Jacopo Battaglia degli Zu. Masterizzato agli AIR studios di Londra, il sound di Black Rainbow assume delle tinte fosche, spesso vorticanti stile Prodigy (vedi Away!, uno dei brani migliori) o maggiormente dimesse come in Heartless, primo singolo con relativo video. Nel complesso l’energia sprigionata dal gruppo, salvo alcune pause di riflessione geometrico-concettuale tipo Embarque, è costante e irresistibile. La voce lisergica d’apertura (Blurred) è prestata dalla conterranea Angela Kinczly, mentre le atmosfere si fanno più partecipate con Red minoga, Sound pressure level e Storm, un crescendo di basi sintetiche che si attenua nelle canzoni successive, per essere poi ripresa nella trascinante Underwater music. Il pezzo conclusivo, che dà il titolo all’album, è di nuovo un crescere di tensioni cupe ed elettriche, da temporale estivo, che sconquassa l’ascoltatore e lo sommerge in un oceano di pulsazioni frenetiche: palpiti che arrivano diretti e precisi, questi sono gli Aucan. 7 -fp Art pop/Psychedelic pop

MOONFACE Organ Music, Not Vibraphone Like I’d Hoped [Jagjaguwar, 2011]

Il canadese Spencer Krug, anima dei Wolf Parade e dei Sunset Rubdown, torna a far parlare del suo recente progetto Moonface dopo l’ambizioso Dreamland Ep: Marimba And Shit-drums dello scorso anno. Con una strumentazione ridotta all’osso (come da titolo, Spencer utilizzava solo marimba e percussioni), costituito da una sola traccia di venti minuti, l’EP mostrava il lato più giocoso e disinvolto dell’ex Frog Eyes, che spaziava in libertà tra atmosfere orientaleggianti, retrò e futuristiche attraverso repentini cambi di ritmo e di impostazione canora: un interessante viaggio onirico e un vero piacere in cuffia, nonostante sulla carta suonasse malissimo. Ascoltando questo Organ Music, Not Vibraphone Like I’d Hoped ci si sente dunque subito a casa; benché l’impatto sonoro sia mutato dall’esordio (l’intento minimalista che muoveva Marimba and Shitdrums lascia ora il posto a un’enfasi orchestrale tutta nuova), pare che anche stavolta Spencer non si sia preso troppo sul serio, e noi, ascoltando queste tracce, non possiamo che giovarne in divertimento. In un tripudio di organi e vibrafoni sintetizzati, sciabordii e suoni non meglio identificati (torna subito in mente l’ultimo Sufjan Stevens), Moonface se la spassa con i suoi nuovi giocattoli, dando voce e suono al suo altalenante flusso di emozioni; su un tappeto sonoro in continuo arricchimento, le melodie si susseguono incessanti e ripetitive, salvo poi lasciare spazio a momenti più rilassati e introspettivi. Degne di nota Return to the Violence, Whale Song e Fast Peter. 6/7 - zorba 6

Alt-pop

HELP STAMP OUT LONELINESS Help Stamp Out Loneliness [Papillon Noris, 2011]

Ve la immaginate l’algida Nico, resa celebre dalla collaborazione con i Velvet Underground, cantare in un brioso e semisconosciuto gruppo pop? Lucille Campbell gioca con questa sua impressionante somiglianza vocale definendosi una cantante Nico-esque. Anche lei ha origini nordiche ma è a Manchester che vive e lavora. La scena musicale della città inglese ospita gli Help Stamp Out Loneliness già dal duemilasette e il loro primo disco è uscito facendo il minimo rumore possibile. «Won’t you let me be your Nico?» - scherza l’artista in Cottonopolis & Promises, rivelando una musicalità più calda e coinvolgente di quanto il suo timbro vocale poteva far pensare. Un’ironia leggermente pungente attraversa i testi di tutto il disco, come in Angelyne. Attingono intelligentemente dal panorama musicale contemporaneo, con continui riferimenti agli anni Ottanta. Tracy Tracy rappresenta il culmine delle citazioni eighties e anche forse il momento di maggior somiglianza con la musa di Andy Warhol. Non si tratta di una grande opera ma è fresca e leggera. Una perfetta colonna sonora se la vostra estate non ne ha ancora una, da ascoltare prima che il clima cambi e venga inevitabilmente dimenticato. 6/7 -comyn Instrumental hip hop

CLAMS CASINO Mixtape

Instrumentals/Rainforest EP [Tri Angle, 2011]

Il nome un po’ ridicolo (Clams Casino potrebbe esser reso in italiano da un altrettanto evocativo “Cacciucco”) sembra riferirsi alla pluralità dei suoni mescolati in ciascun pezzo, dove la possibilità di risalire ai singoli ingredienti risulterebbe secondaria rispetto al gusto della mescola. Ogni brano di Mixtape instrumentals ha pochi ingredienti lavorati con Acid Pro, tra cui elettronica e campionamenti in genere irriconoscibili, usati in modo ripetitivo e con abuso di eco e riverbero. Ne guadagna l’effetto ipnotico, assieme alla noia. Dietro al nome c’è Mike Volpe, giovane produttore vissuto lontano dalla credibilità di strada dell’Hip Hop e imprestato a trascurabilissimi rapper quali Soulja Boy e Lil B, che in qualche luogo devono aver cantato su questi strumentali. Campionamenti più soul e un certo sollievo si trovano in I’m official (poi rovinata dal rap di Squadda Bambino), Illest alive e Cold war. Delizioso riascoltare la voce non filtrata di Teddy Riley nella traccia 13 che chiude il mixtape. Va un po’ meglio con l’EP Rainforest, contenente sempre solo produzioni, ma dotate di una qualche trama narrativa e un’atmosfera a volte in grado di emozionare (Treetop, Waterfalls), anche con l’uso sapiente di voci femminili (Natural). Le produzioni di Clams Casino si avvicinano a quelle di Flying Lotus (quest’anno in combo con Radiohead), stando ben lontano dalla consapevole intensità

e ricchezza degli autentici produttori HH di cui amiamo gli instrumentals (Pete Rock, J Dilla, 9th Wonder). Proprio 9th Wonder ha dedicato uno skit all’idea di produttore da camera a cui Clams Casino pericolosamente si avvicina, Roy Lee Producer Extraordinaire: ascoltatelo e fatevi due risate. 5 - ghostwriter Electro/Glitch/Ambient/Synth/Minimal

MOUNT KIMBIE Carbonated EP [Hotflush, 2011]

Il duo londinese lascia intravedere una variazione nella rotta fin qui presa di strutturazione musicale: lo splitting (la suddivisione dei campionamenti in maniera decisa). Proprio così: l’introduzione di voci suddivise aritmicamente ci richiama il pezzo CMYK di James Blake. Continuano a rimanere presenti le percussioni melodiche e riverberate con effetto vinyl (effetto presente lungo tutto questo lavoro ma già sperimentato in pezzi come Maybes). Così come la prima evocativa traccia di Carbonated che dà il nome all’EP (ma già presente nel bel disco Crooks & Lovers) porta a variazione, la seconda Flux ci porta ai tradizionali Mount Kimbie di pulsazioni che rimbalzano tra organetti al buio con ripetizioni di coppie di accordi di settima. Ma ecco il vero stupore: la traccia Brave’s Chords. Il vinyl e voci lontane avvolgono una chitarra/liuto che si espanderà pizzicata e gocciolante in una cava proto-urbana/gospel. Le tracce seguenti saranno dei remix: Adriatic (Klaus Remix) sfocia nell’ambiente di Tim Hecker con campane che suonano a morto; Carbonated (Airhead Remix) lascia trapassare molto meno le voci per dare spazio a fruscii amplificati e segmentati, contornati da solchi di delay fuori misura e pennate di chitarra con distorsione ultragrassa fuzz; Carbonated (Peter Van Hoesen Remix) carica un beat trance e bassi à la Gui Boratto dimentico del mood kimbieano. Un disco che porta nuove soluzioni comunicanti con un genere che si va strutturando man mano: vario, curato, sentito, evocativo e piacevole. 7 - gorot

Kraut-rock/Soundtrack/Remixes

POPOL VUH Revisited & Remixed (1970-99) [SPV, 2011]

C’è stato un periodo, più o meno gli anni ‘70, in cui in Germania si era creato un grande fermento culturale. In una nazione politicamente s o t t o m e s s a , emergevano realtà totalmente innovative e importanti: nella settima arte il gruppo del Nuovo Cinema Tedesco, e nella musica l’ormai conosciuto Kraut Rock, entrambi profondamente influenti. Questo disco si pone esattamente a metà tra i due poli artistici. I Popol Vuh, capitanati da Florian Fricke, sono una delle più importanti formazioni del movimento kraut. Influenzati


prima dai sintetizzatori Moog e poi dai tribalismi delle civiltà precolombiane (il nome “libro del popolo”, deriva dai manoscritti sulla mitologia degli indios del Guatemala), anticiparono sia l’ambient prog di matrice Eno-Fripp che la world music. Dischi come In Den Garten Pharaos e Hosianna Mantra sono passati alla storia. Ma anche e soprattutto autori di colonne sonore per i film del regista Werner Herzog, annoverato tra i protagonisti del gruppo Neuer Deutscher Film. Esce così per il decimo anniversario dalla scomparsa del fondatore Fricke, questo doppio cd commemorativo. Il primo dedicato al loro repertorio, dalle tracce più note delle soundtracks (Aguirre continua e continuerà sempre ad affascinare) ai primi lavori, più del materiale bonus, il tutto rimasterizzato. Il secondo disco invece contiene 11 esclusivi remix firmati da artisti, dj e gruppi contemporanei, come omaggio alla storica band e ghiotta occasione per fan. Tra i nomi più importanti e noti Peter Kruder, in un gran bel remix di Aguirre, Mika Vaino degli ex Pan Sonic, Moritz Von Oswald su un’oscura Garten Pharaos, Mouse on Mars e Stereolab in piena trance lisergica con Hosianna. «I Popol Vuh hanno creato atmosfere sconfinate che risuoneranno per sempre nel mondo di oggi e di domani» (Peter Kruder). 8 -mr. potato Electro-Experimental

BLANCK MASS Blanck Mass [SPV, 2011]

Personalmente non impazzisco per i progetti solisti dei componenti di un gruppo, finisco quasi sempre per storcere il naso, probabilmente perché il suono mi sembra incompleto, ancor prima di ascoltarlo ma è anche vero che impazzisco per i Fuck Buttons e di conseguenza l’adorazione per questo gruppo mi obbliga a trattare la questione con i guanti. L’ elettronica si sa, è varia e complicata sia da creare che da ascoltare ma quando provieni da un gruppo che negli ultimi tre anni l’ha portata, grazie ad una intelligente sperimentazione sonora e strumentale, in un’altra dimensione la tua impronta rimane ben visibile. Il suono è angosciante, le atmosfere cupe e desolate illuminate dai lampi di synth che rischiarano il paesaggio apocalittico, Blanck Mass riesce a farti sentire distaccato perché ti trasporta sopra tutto questo e ti rassicura, non è così tragico il viaggio. Manca un po’ quella parte tribale e ripetitiva che ti faceva crollare psicologicamente ma tutto ciò è voluto, in alcuni punti sembra quasi che la musica si stabilizzi come la più pura ambient e trovi un equilibrio ottenuto soprattutto grazie ad un grande lavoro di missaggio e costruzione sonora. La magia però si ferma lì, un po’ noioso in alcuni punti e troppo frettoloso in altri il disco che fa ben sperare con le prime tracce si rivela ripetitivo e (sembra strano dirlo) non regala particolari emozioni; probabilmente il mio orecchio corrotto si aspetta di più da una metà dei FB e la copertina molto Kosmiche mi faceva sperare in un viaggio musicale attraverso l’infinità elettronica ma alla fine sempre con il naso storto rimango. 6 -w

Alt- Hip Hop

SHABAZZ PALACES Black Up [Sub Pop, 2011]

Molto spesso si finisce per essere contaminati dalla realtà fasulla che ci circonda, nonostante gli sforzi e la convinzione di aver mantenuto la mente lucida ci si accorge solo dopo che siamo stati traviati inconsapevolmente. Questo disco è il risveglio, la luce alla fine del tunnel, il disgelo che ti ricorda quanto è bello l’Hip Hop nella sua purezza e gli Shabazz la incarnano perfettamente. Cupo,tagliente, astratto sia nei testi che nelle sonorità non è puro perché sembra vecchio e Old-Style ma perché interpreta perfettamente i canoni del Rap arricchendo il suono ed il beat con influenze che provengono da ogni parte del mondo senza mai andare oltre. Si infila di dovere fra quella serie di dischi che giovano alla cultura Hip Hop perché sviluppano la convinzione di aver fatto un passo avanti, di provare a smuovere quella eredità di droga, sparatorie e champagne che porta tutto su un binario morto e che conclude nell’esagerazione più totale. Gli Shabazz sono silenziosi, non fanno video o interviste, le copertine dei dischi sono nere con lettere arabe e la loro musica appare differente dal Rap di oggi, sono sempre appartenuti all’ underground newyorkese e chi pensava a due giovani talentuosi si sbaglia; questi signori fanno musica da 20 anni ed hanno sempre collaborato con progetti e contaminazioni mirate allo sviluppo e al progresso del suono. Ascoltare il loro disco ti stupisce, ti fa pensare, ti stanca proprio perché non va soltanto sentito con l’orecchio ma col cervello e sarei bugiardo se dicessi che al primo ascolto pensavo tutto questo (sbadigliavo), al ventesimo ascolto invece penso ad un disco Hip Hop come non se ne sentiva da un po’. Soltanto quando si è in cima alla montagna ci si accorge della scalata che si è fatto. 8 -w

Wave-Pop

WILD BEASTS Smother [Domino, 2011]

Limbo Panto, Two Dancers, Smother: i Wild Beasts non hanno ancora sbagliato un colpo. L’ultimo lavoro in studio, il terzo sulla lunga distanza, arriva due anni dopo la buona prova dei due ballerini a confermare il già indiscusso talento dei quattro, sempre più convinti praticanti di un wave-pop che evita con cura l’estetica dilagante del revival. Hayden Thorpe si lascia alle spalle i virtuosismi da tenore, Tom Fleming lo segue nella scelta minimalista: svigorito rispetto alle uscite precedenti, Smother suona sfoltito di falsetti provocanti e di spruzzate boost alla chitarra, ma quel che c’è di più è un nuovo gusto per quei toni oscuri che già si insinuavano in Two Dancers. Le melodie si adagiano su un sottobosco ombroso fatto di trame per synth e chitarra, non certo sempre origi-

feedback - LUGLIO/AGOSTO 2011

nalissime - soprattutto in fase di arrangiamento -, ma capaci di risolvere in quelle atmosfere ipnotiche che attraversano tutta la tracklist e che la fanno pulsare dolcemente dall’inizio alla fine. L’apertura di Lion’s Share, tra gli echi lontani di Peter Gabriel e quelli più vicini degli Elbow, anticipa i toni misteriosi che assumerà l’intero album. Si pensi ai tappeti dream di Loop The Loop, ai suoi incrementi felpati, alle melodie puntellate da una batteria mai prepotente; oppure si pensi al paradiso artificiale di End Come Too Soon, fatto di sparuti accordi di piano e chitarra che si confondono con i pad all’altezza di un orizzonte immaginario. Arrivata la sera, all’ascolto di Smother ci fermiamo un attimo, lontani dalle preoccupazioni della giornata e dalle false occasioni che abbiamo saputo sfruttare. Eppure tornano, vicine più che mai. 6/7 - visjo

Glo-fi

WASHED OUT Within And Without [Subpop, 2011]

Al Gabbiano solitamente si pesca bene, ma oggi la giornata è bollente e i pesci preferiscono l’acqua più fresca del fondo. Dato che in due ore vengo impegnato solo da tre carpette, decido di fidarmi di chi consiglia il nuovo disco di Washed Out. Poso la canna e vado a sedermi all’ombra, tanto il cimino non accenna ad abbassarsi… Mi metto le cuffie. Washed Out è il moniker dietro cui opera Ernest Greene e Within And Without è il suo album d’esordio, benché il nostro abbia all’attivo dal 2009 già tre EP. Messi da parte i fasti dreamwave di quegli anni (gli stessi dei live per mac e voce, scelta non sempre felicissima), Greene è pronto per un nuovo salto catartico dentro gli ottanta, questa volta meno insicuro su dove cadere. C’è chi lo definisce adult-glo, chi (ancora…) ipnagogia, chi chill-wave, chi elettropop: quello di Washed Out -me ne accorgo subito in partenza- è un dream-pop color seppia, sfiligranato dall’uso massiccio del delay e dai riverberi spaziali. È la prima parte che regala i momenti migliori del disco. Gli accordi di un synth che fanno ping pong da cuffia a cuffia introducono una delle opening track più riuscite di quest’anno, quella Eyes Be Closed che a un primo ascolto mi fa ripensare subito a Porcelain di Moby: i due accordi di synth che si rincorrono, i fill vagamente tribal per batteria, gli arpeggi sgranati dall’eco, la voce che pare animata da un Panda Bear assonnato, inscenano alla perfezione le ore paniche di una giornata che potrebbe essere la mia. E ancora, la staticità surreale di Echoes, gli echi alla Kid A di Soft, le reminescenze di You And I, l’intimismo della titletrack: Within And Without è l’estate vista dalla parte di chi non si muove se non per star tranquillo, senza valige da fare, senza gli schiamazzi dei bagnanti che affollano i lidi, solo buona musica per buona compagnia all’ombra d’una quercia in riva a un lago. 7 - visjo 7


feedback - LUGLIO/AGOSTO 2011

ROVISTANDO IN SOFFITTA Rock-opera

Hardcore Punk-Pop

Kommandoh

[SST Records, 1984]

MAGMA Mekanik Destruktiw

WHO Tommy

[Polydor Records, 1969]

Deaf, dumb and blind: sordo, muto e cieco. Questo è Tommy, protagonista della più famosa opera rock degli anni ‘60. Non un granché come eroe, e se gli Who passeranno alla storia per le loro cavalcate epiche, soprattutto con i successivi Who’s Next e Quadrophenia, a sentire il loro classico non si può non sghignazzare un po’. Quello che avete tra le mani è uno dei più ambiziosi conceptalbum di tutti i tempi ma allo stesso tempo tragicommedia beffarda: certo, la condizione disgraziata del suo protagonista è metafora delle gabbie d’acciaio imposte dalla società moderna e dalla famiglia, eppure il racconto, stropicciato e colmo di sarcasmo, è degno dello spiritaccio irriverente della Londra di quegli anni lì. D’altra parte gli Who erano poco più che dei teppistelli, seppur graziati dalla passione per la musica e dal talento: John Entwistle era un grandissimo bassista, Pete Townshend un compositore frenetico e un esibizionista della chitarra, il batterista Keith Moon un alcolizzato ipercinetico, il biondo cantante Roger Daltrey un mod ingenuotto. My Generation (1965) aveva trascinato il morigerato beat inglese nella strada, A Quick One (1966) conteneva la loro prima suite e Sells Out (1967) era bardato da spassoso collage radiofonico. Tommy era la somma di queste esperienze e assieme uno spericolato scarto in avanti, nel tentativo di fondere musica e parole in una narrazione complessa. La vicenda parla di un pargolo nato nel primo dopoguerra che, testimone di un omicidio passionale (1921), era costretto dai genitori ad uno stato di semi-autismo (Amazing Journey) curiosamente sospeso dalle manopole del flipper (Christmas). La penna di Pete non risparmiava nulla al giovane Tommy, torturato da quel bulletto del cugino (Cousin Kevin), drogato da una donnaccia (la sinuosa Acid Queen) e tocchicciato dallo zio alcolista (l’oscura Fiddle About). Ma poi arrivava la riscossa, anche se rocambolesca e infine infelice: Tommy sbaraglia i meglio flipperisti del quartiere e diventa una celebrità (la famosissima Pinball Wizard), esce dall’isolamento grazie a una strana e prodigiosa tecnica (Smash The Mirror) per poi diventare un santone adorato dalle groupie (la ballata Sally Simpson). Il finale era uno sberleffo: il buon Tommy apre un villaggio turistico-spirituale per i propri seguaci (Tommy’s Holiday Camp). Chiamati a ripercorre le sue stesse vicende, e dunque giocare a flipper bendati e in compagnia del sinistro zio, i discepoli del poveretto gli si scaglieranno contro, lasciandolo solo col suo lamento (We’re Not Gonna Take It). Il disco è aperto da una lunga Overture, nella quale vengono macinati tutti i motivetti dell’album (scanditi qui dalla tromba di Entwistle), e punteggiato da infiniti rimandi testuali, seppur risulti infine assai eterogeneo. Alcuni pezzi suonano datatissimi (su tutti Sparks e Underture) mentre altri ancora freschi (curiosamente quelli meno vicini al canovaccio Who, da Christmas a Go To The Mirror Boy!). Il disco verrà riproposto come musical, troverà traduzione in un film niente male (dal quale a sua volta verrà pubblicato un bel disco) e sarà riproposto in infiniti tour (è notizia di questi giorni che Daltrey, che Tommy un po’ si sente, presenterà da sè l’opera alle platee americane). Come il David dei Fucked Up, Tommy rinasce ancora e ancora e ancora: approfittatene. - bobi raspati 8

Zeuhl /Progressive rock

[A&M, 1973]

Tra 1973 e 1974 escono dischi come Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, The Lamb Lies Down On Broadway ad opera dei Genesis, Quadrophenia degli Who, tutti dischi che sono rimasti nella storia, tutti concept album. Il movimento progressive che sfornava questo tipo di opera spopolava ed aveva i suoi alfieri nelle terre inglesi ed americane. L’Europa continentale ne fu comunque colpita. In Francia Christian Vander formò i Magma, gruppo atipico ed underground, poco conosciuto ancora oggi, ma che ci ha regalato uno dei dischi più belli di quegli anni, Mekanik Destruktiw Kommandoh, un disco dove la musica esula dal prog e, pur prendendone spunto, si rifugia nella musica di compositori contemporanei come i minimalisti, nel jazz di Coltrane e nell’opera, quella maestosa, tenebrosa di Wagner, nella musica canterburiana e nei riflussi di compositori come Stravinsky e Bartok. I Magma sono i protagonisti dei loro dischi, loro sono una popolazione kobaiana, un gruppo di terrestri che si stanca di vivere nella caotica terra e cerca rifugio in un pianeta diverso e lontano, che rinomina appunto Kobaia. In 1001 Centigrades, disco del ‘72, Vander e i suoi colleghi kobaiani tornano sulla Terra e cercano di convincere i terrestri a trasferirsi su Kobaia, devono rinunciare però all’impresa, di fronte alla forte irrazionalità terrestre. Arriviamo ora al nostro disco, che esce nel 1973, un disco ostico, poco accessibile ma che crea un’atmosfera e delle suggestioni che valgono lo sforzo fatto. Il disco è formato da sette tracce che formano un’ unica suite. La lingua è quella dei kobaiani, quindi inventata, con una mossa che può aver ispirato Jonsi e soci, nel tentativo di creare un clima completo che vada dai suoni degli strumenti, dai cori al cantato di Vander. In questo disco, si narra la storia del profeta Nebehr Güdahtt. Questo santone dice ai terrestri che se vogliono salvare le loro vite, devono lasciare la Terra e trasferirsi sul pianeta Kobaia. La gente non crede alle parole di questo folle e comincia a marciare contro di lui. Ma lentamente alcuni cominciano a credere al messia ed iniziano a marciare con lui. La musica è quella dell’opera, è il disco più wagneriano e lirico del combo, fondato com’è sulle ripetizioni dei cori maschili e femminili, cori guerrieri e maestosi. Nella prima traccia Hortz Fur Dehn Stekehn West, un coro maschile crea un clima plumbeo ed infernale, la musica cresce sempre di più con l’innesto dei fiati e cerca un apice che non raggiunge mai. Le tracce cercano sempre quell’esplosione che non arriva mai, hanno una struttura dalla quale prenderanno spunto moltissimi gruppi a seguire. Accanto alle voci dei cori c’è la magnifica voce di Stella Vander che gorgheggia come una Nico isterica, con progressioni avanguardistiche che trascendono qualsiasi impronta soul nella sua voce. Il viaggio prosegue nella seconda facciata attraverso cavalcate folli con sequenze di piano reiterate all’infinito come insegna la scuole minimalista americana, assoli di chitarra velocissimi e schizofrenici. Mai il rock si era spinto così lontano. Mai un isco è stato così stimolante. - matmo

HÜSKER DÜ Zen Arcade

Zen Arcade è una storia che parla due linguaggi, quello del cuore e quello della musica. Due percorsi sottili, due spirali di fumo che si intrecciano a più riprese. È la storia di tre ragazzi di Minneapolis (Bob Mould chitarra e voce, Grant Hart batteria e voce, Greg Norton al basso) che passano d’un tratto da essere intrattenimento per pochi a profeti per molti. Nulla infatti è più lo stesso, dopo quel 1984 in cui gli Hüsker Dü innestano alla cultura punk nella quale erano sbocciati, fiore anfetaminico che rispondeva con l’ultracore alla noia dei sobborghi di una grande città industriale, una sensibilità musicale sempre introspettiva che pochi si sarebbero immaginati stando al suono grezzo dei due primi album. Il percorso seguito dagli Hüsker Dü negli anni a venire, tutto volto alla progressiva smussatura delle caratteristiche dell’hardcore, permette infatti di considerare Zen Arcade un’opera di transizione oltre che di rottura, in virtù del suo essere ancora un disco punk nell’essenza (e l’album che ha lanciato la SST, etichetta di Greg Ginn): il più grande merito formale del disco sta proprio nell’unire in matrimonio la cacofonia e la melodia, la rabbia e la ragione, di far sì (su un piano ora concettuale) che il sudore versato dai tre trovi senso in una dimensione che non è più solo bestiale e istintiva, ma umana. L’intenzione stessa di realizzare un concept denuncia la voglia di rottura con la tradizione dell’hardcore e del punk (si ricordi la t-shirt I Hate Pink Floyd indossata da Johnny Rotten). Il disco è infatti adagiato su una dimensione narrativa che non ha precedenti nella storia del genere. Lo scheletro che tiene insieme l’album è il vagabondare picaresco e alienato di un ragazzo scappato di casa: nella voglia di vita, di bellezza e di rabbia propria dell’adolescenza trovano un senso le sventagliate cattivissime di elettrica (Indecision Time), il frollare impazzito ma assassino del basso (Masochism World), il pulsare epilettico della batteria (Something I Learned Today), e soprattutto il ringhio grondante sudore in cui si producono i cantanti (Pride). Il sound di Zen Arcade è la risultante di questi fattori, con la fondamentale aggiunta di quella inafferrabile scintilla vitale che appartiene solo alle vere opere d’arte. Solitamente sottocutanea e impercettibile, emerge con decisione nei momenti più emozionanti, a marcare una tappa fondamentale nella vita del protagonista e nello sviluppo del disco (Chartered Trips ovvero l’ipereccitazione e lo smarrimento della fuga, Pink Turns to Blue ovvero l’immagine della morte, Whatever ovvero il rimpianto). Alcuni pezzi richiedono ascolti ripetuti mentre altri, come I’ll Never Forget You (una delle più belle canzoni d’amore di sempre per chi scrive), ti marchiano a fuoco la mente e il cuore fin da subito. Come del resto fa Zen Arcade tutto. - samgah


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DEEP INSIDE

INTERVISTA AI

ONE DIMENSIONAL MAN Questa intervista è stata realizzata nell’ambito del progetto “Il lavoro culturale” durante il festival dell’arte Ne pas couvrir! di Bucine (AR), svoltosi tra il 14 e il 16 luglio, e si è tenuta con i disponibilissimi Pierpaolo Capovilla (basso e voce) e Luca Bottigliero (batteria) prima dell’esibizione degli One Dimensional Man. FP: Come si fa a vivere di musica nel 2011 in Italia? Pierpaolo Capovilla: E’...impossibile? FP: Però voi lo fate! Luca Bottigliero: Non senza pochi problemi! PC: Arriviamo alla fine del mese quando ci riusciamo, se non avessi il Teatro degli Orrori... Peraltro quando io e Giulio [Favero, chitarrista degli ODM - nda] abbiamo fondato il Teatro abbiamo pensato proprio a questo: se non ce la fai con una band ce la fai con due! Io ho 43 anni e vivo di musica da 10 mesi... E’ difficilissimo a meno che non ti tuffi nel mainstream e non vendi te stesso, ma neanche... Devi andare a X-factor, ma neanche lì guadagni secondo me, te li rubano tutti i soldi! LB: Beh un po’ è finita la cosa di vent’anni fa che si vendevano i dischi e già con gli introiti che ricavavi riuscivi a vivere, oggi spesso devi fare un disco per fare la tournée. PC:. Vent’anni fa facevi la tournée per promuovere il disco, adesso devi fare un disco per poter fare la tournée, quindi si è passati da dei parassiti sociali che erano le rockstars a degli artigiani che devono lavorare dal mattino alla sera per arrivare alla fine del mese. Bisogna barcamenarsi. FP: Nel vostro ultimo disco si sente una forte componente elettronica... PC: ODIO L’ELETTRONICA! [risate] No va bene, chiamiamola pure con quell’odioso nome... FP: Credete che sia la nuova strada da percorrere per la musica alternativa? LB: Oggi non è che ti devi adeguare, ma serve per richiamare certe atmosfere... Nel nostro disco c’è dove serve un tipo di atmosfera, non è messa per strizzare l’occhio o far piacere a qualcuno... PC Quando Elvis Presley incominciò a suonare la chitarra elettrica molti puristi gridarono allo scandalo... Noi con il Teatro abbiamo portato in Italia il suono di Jesus Lizard e Shellac prima di tutti, quello che oggi chiamano math-rock non so neanche bene perché, un suono geometrico, molto matematico, con una sezione ritmica ben precisa... Con l’elettronica abbiamo sempre avuto poco a che fare, ma ormai siamo cresciuti, cambiati anche come formazione, cultura e personalità... A 43 anni non ho più voglia di fare tutto il casino che facevo prima, ricerco di più la poesia, il contenuto e anche delle rimarchevoli differenze nella performazione dei pezzi... Quindi ben venga l’elettronica se è funzionale alla qualità del prodotto, ma non per voltare le spalle al proprio passato! FP: E il fatto di cantare in inglese? PC: Non c’è nessun valore aggiunto, è una grandissima fregatura cantare in inglese, perché noi siamo un paese latino, anche piuttosto ignorante, peraltro vent’anni di berlusconismo non passano indenni, vi ricordate le tre i, inglese, internet, impresa...tutte balle! In Italia nessuno sa l’inglese. LB: All’estero non è così, in Germania, in Olanda si fanno anche dischi con pezzi in due lingue, non c’è la stessa chiusura mentale.

PC: Io ho sempre pensato che non importa la lingua con cui canti, ma le cose che dici, però mi sono accorto che col Teatro ai concerti chi mi ascoltava mi capiva... Le cose cambiano! Per quando la mia conoscenza dell’inglese possa essere approfondita non sono madrelingua, ed è un fatto determinante, solo con l’italiano riesco proprio a dire quello che voglio io, a essere me stesso. FP: Però l’inglese potrebbe aiutarvi a uscire dai confini nazionali. È una finalità che ricercate? PC: Non è un fine ma uno dei tanti obiettivi che ci siamo dati, ne ho parlato sia con chi ci segue in Universal che con i nostri agenti, credo che sarebbe davvero importante suonare in Europa questa volta, perché abbiamo fatto un lavoro molto europeo e decisamente meno americano di prima, grazie proprio all’elettronica... Che poi l’elettronica è Giulio eh! Giulio è un terribile manipolatore, e a noi sta bene così perché abbiamo grande fiducia in lui come musicista. FP: Per quanto riguarda il download, uno dei maggiori problemi per il mercato discografico, il fatto che la gente scarichi gratis? PC: Fanno benissimo, prima viene la giustizia sociale e poi i miei soldi! Chi downloada la musica in rete non ruba niente a nessuno, il furto lo fa il capitalismo italiano quando ti paga 900 euro per lavorare 10 ore in fabbrica. Se non ci sono i soldi perché mai dovrei pagarmi le cose quando ho la possibilità di scaricarle gratuitamente? La gratuità è un fatto di democrazia, io stesso downloado quello che mi pare, poi quando una cosa mi piace veramente la compro, non perché sento il dovere ma perché lo voglio ascoltare bene, perché a casa ho due buone casse, l’mp3 è un formato compresso, ecc... FP: Quindi un gruppo emergente che

strategia dovrebbe adottare? L.B: Molti cominciano a metterlo gratis online, se poi vi piace il disco e ci stimate venite al concerto, pagateci il biglietto e una maglietta, a noi va bene così... In America ormai funziona che danno mezzo disco gratis sul sito. Le case discografiche stanno cominciando a cedere perché hanno capito che devono iniziare a investire in modo diverso. PC: È ridicolo il prezzo dei cd in Italia. Venti euro per un cd sono troppi, punto e basta. Giulio non sarebbe d’accordo con noi comunque, ha un’opinione diversa ma non si fa mai intervistare. LB: Sono anche d’accordo con quello che dice lui, i dischi uno fa tanti sacrifici per farli, in termini di denaro ma anche di tempo per missarlo e poi lo ritrovi compresso in bassa definizione... Io ancora compro i vinili, è una sorta di rispetto, in un disco c’è una parte di te dentro e quando apprezzo un artista lo voglio ripagare in qualche modo, è una sorta di scambio. FP: Al di là della soddisfazione personale, che senso ha fare musica oggi e in questo modo? PC: Io mi sto prendendo delle grandi soddisfazioni, vedo piazze gremite, amorevolezza e affetto da parte del pubblico, è bello essere amati. Ma poi a noi piace suonare, sul palcoscenico si torna veramente vivi! È in fabbrica che si muore, in ufficio si crepa piano piano... Anche se non ci arricchiamo noi siamo una categoria privilegiata nel lavoro, facciamo ciò che ci piace, godiamo dell’amorevolezza del nostro pubblico e prendiamo uno stipendio vero! Nessuno si arricchisce, ma si vive una vita piena, magari irta di difficoltà, contraddizioni con la vita privata... Lavorare stanca, ma bisogna fare dei sacrifici! fp tramite lavoroculturale.org 9


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NOISE A ROMA EST Nel marcio risiede sempre una forma di sublime Non siamo a Forth Thunder tra brutti nerd, non siamo tra i signori dell’indie-pop a Montreal, siamo in un quartiere di Roma: nel quadrante orientale, a Roma Est, tra Porta Maggiore e via Prenestina. Questa è una storia minore, di gruppi che si conoscono e che lavorano assieme come una grande famiglia, una situazione introversa e anti-pubblicitaria. È la cosiddetta Borgata Boredom. Così infatti si chiama il manifesto della scena, uscito per la NO=FI Recordings, legata ai gruppi presenti nella compilation, schiera di musicisti indienoise, uscito rigorosamente in LP e messo su Internet, disponibile per tutti. Partiamo dalla geografia del luogo che è quasi sempre anche l’anima dei suoi abitanti e ha su di loro una forte incidenza. Roma Est è un quartiere di periferia, un quartiere brutto, opaco, un quartiere che per la sua immagine ha fatto la fortuna del cinema nel secondo dopo-guerra, dei neo-realisti che amavano inquadrare le frange più povere della popolazione, le situazioni più difficili. Il Pigneto è l’epicentro di questa scena, il laboratorio musicale, il collante della scena, scena che, appunto, esiste grazie alla sua geografia. Locali storici come il Fanfulla e il Dal Verme sono il fulcro, il punto d’incontro per ascoltare e vedere. Music And Noises From Roma Est (questo il sottotitolo della compilation) unisce tutte le forze in campo e crea un vero e proprio rituale, rumoroso e taballante, carico di adrenalina e grottesco, figlio com’è di una generazione a sua volta discendente dalla Gioventù più sonica (incredibile l’assonanza di alcuni pezzi) e del noise più radicale. Alla fine la compilation ha una sua eroicità, un suo lirismo di fondo, oscuro, ma che esiste, e chissà se un giorno questa produzione in numero limitato sarà conservata come una prova del miracolo avvenuto e sarà trattata come una reliquia. O magari no, tutto questo già da domani sarà dimenticato, e nessuno se ne ricorderà. Ma il momento è qui, è ora ed è tutto da assaporare. Tante sonorità di

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fresca memoria, frutto di quanto accade o è accaduto al di là dell’oceano. Questi romani mostrano di avere moltissima personalità, destreggiandosi senza molte remore in territori non particolarmente accoglienti. I Bobsleigh Baby hanno fortissime reminescenze sixties, rintracciabili nei riff di chitarra e negli organi, tutto sorretto da una sezione ritmica minimale ed impeccabile. La carica sixties viene però resa cupa dalle voci che danno corpo al pezzo A False Cue, perso tra un organo caldo, chitarra in abrasione e colpi di pelli precisi e regolari con la cassa che detta legge. I Capputtini I’ Lignu invece, suonano un blues in salsa lo-fi, sono due, batteria e chitarra e non hanno paura a rispolverare Jandek e immergerlo in una coltre di pece. I Mr Marks And The Secretaries ci donano invece un acquerello stranamente solare vista la raccolta, uno dei pezzi più user-friendly del disco, un flusso elettronico su cui si piazza una chitarra in chiave maggiore, con una voce molto piacevole, il miglior modo per iniziare ad ascoltare la compilation se non si è abituati ai suoni pesanti. Quando arriviamo ai Gingaruga è tutto l’opposto, una materia harsh-noise viene ancor di più devastata; caratteristica particolare, il nostro cambia nome ogni esibizione. Un altro grande colpo è il folk stralunato ed infarcito di elettronica di Grip Casino, one-man band, ancora alle prese con Jandek e i Pumice, il tutto

ancor più mentalmente deviato. Una delle band più gettonate della compila, sono i The Last Wanks, gruppo che non esiste più ma che è rappresentato nel disco da Terrific Dancer, erano in tre e suonavano una new wave scarnificata, al confine con la no-wave più pazza, un suono secco, rumoroso e dissonante ma anche molto rock & roll. Dal suono veramente oscuro i Trans Upper Egypt, trio composto da Bob (dei Bobsleigh) da un altro francese alla batteria e da un romano alla chitarra. I Trans Upper sono una delle migliori band della raccolta, persi come sono in atmosfere à-là Suicide, pieni di tribalismi e con una voce che sfiora il ricordo di Alan Vega per un rockabilly psichedelico e tenebroso, di grande effetto. Un altro progetto di Bob sono gli Hiss dove affiancato dalla batteria, riscopre gli incubi della San Francisco anni ‘80, con nume tutelare i Chrome, un suono analogico, voce effettata e rimbalzi elettronici, il tutto accompagnato dalla sua chitarra che qui fa tanto Arto Lindsay per la secchezza del suono e l’intermittenza della pennata. Il motorik da discoteca decadente degli anni ‘80 che pian piano precipita in un vortice che definire oscuro è dir poco, fa il resto. Di grande spessore i Maximilian I, trio dedito ad un rock improvvisato traballante ed insensato, con già diversi dischi alle spalle, di grande pregio, uno su tutti Double Anal Fantasy. Arriviamo ora agli Hiroshima Rocks Around, un misto di noise angolare chitarristico, no wave invecchiata in cantina e blues garage da togliere il fiato. Parliamo dei Thetlvmth dediti ad una musica cosmica, fortemente influenzata dal rumore ed affine ad esperienze come quelle dei Fuck Buttons e dei Growing, anche questa una delle perle della compilation. Affine a questo suono, anche se più in chiave concettuale con rimpalli di vibrazioni e fili hauntologici di sottofondo Wolf Anus, finito addirittura a suonare al MACRO. Infine abbiamo a che fare con gli Sfhhh, esperienza estrema e traumatica che inquadra il malessere geografico in un vagito noise lungo tre minuti e 50 secondi, perso tra chitarre pazze, feedback scatenati e urla malate. Concludiamo utilizzando la battuta di Ugo Tognazzi nel pezzo dei Maximilian I, che sembra essere il motto della borgata: “Allora beh... Avanti la pazzia!”. - matmo


MUSICA

NUDA

da Sanremo a...

Chi fra voi ha già qualche decina di anni sulle spalle potrebbe ricordarsi un po’ confusamente di una ragazza dal lieve accento pisano, arrivata a Sanremo ‘96 con molta paura e poca voce, che finì per non accontentare nessuno e per tornarsene a casa mogia mogia. In molti di più si ricorderanno degli Avion Travel, gli inaspettati (e poi dimenticati) vincitori dell’annata 2000. Ecco, ce li avete in mente? Focalizzatevi solo sul contrabbassista, quello con gli occhiali, un po’ timido e sempre a capo chino. Ora mettetegli accanto il faccino della ragazza di cui sopra, e avrete ottenuto un abbozzo del manifesto che affolla in questi giorni le vie di molti paesi e città italiane, in occasione dell’ennesimo tour. In realtà è già da una manciata di anni che il progetto voice’n’bass di questi due personaggi un po’ strambi ha invaso il desolante panorama musicale italiano. E di panorama è giusto parlare, in questo caso: il duo, che si è scelto un nome (Musica Nuda, appunto) che è una dichiarazione d’intenti senza via di scampo, predilige per i propri concerti gli spazi grandi e aperti. Raramente troverete Petra Magoni e Ferruccio Spinetti a cantare per un pubblico di pochi eletti in uno dei tanti localetti alternativi, nonostante un primo, superficiale assaggio della loro musica possa dare quest’impressione. La via scelta dal duo è infatti la più tortuosa: far sembrare semplice ciò che è complicato, rendere

popular la sperimentazione. Le (frequentissime) esibizioni dal vivo dei due spesso diventano veri e propri happening, ironici, spettacolari e capaci di coinvolgere i radical-chic come le casalinghe e finanche qualche passante curioso: l’enorme successo di pubblico raccolto (soprattutto in Francia, dove i due sono ormai ospiti fissi di tv e radio) ne è la prova. Il percorso discografico, a confronto, appare quasi un binario secondario: è pur vero che con Musica Nuda, Musica Nuda 2, Quam Dilecta e 55/21, pubblicati dal 2004 al 2008, la cantante (che, credetemi, sotto nessun aspetto è rimasta quella di Sanremo) e il contrabbassista hanno esplorato a fondo le possibilità di una musica che cercasse di donare una nuova dimensione e una nuova vita a molti classici della canzone pop prima e sacra poi. Se questo è stato possibile il merito è solo della perizia strumentale di Spinetti e della vocalità amorfa e difficilmente incasellabile della Magoni: ufficialmente di formazione classica e specializzata in musica antica, alla prova dei fatti capace di destreggiarsi alla perfezione tra jazz, pop e sperimentazione pura. Un’incrocio tra una chanteuse berlinese degli anni ‘30 e una Meredith Monk del popolo, Petra Magoni assorbe dalla prima l’irresistibile magnetismo scenico e dalla seconda la vocazione al canto “totale”, salvo poi aggiugervi la tecnica impeccabile che gli deriva dai suoi studi e una “italianità” sentita e autentica. Il percorso seguito dal gruppo, tra una Lascia ch’io pianga (Handel) e una Bocca di Rosa (De Andrè), è stato assolutamente originale, ciò che può sembrare paradossale se si considera che la materia di

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lavoro è stata quasi sempre costituita da cover. Estranee alle mode e tutte chiuse nel loro mondo di corde (vocali e non) ora carezzate ora tese fino allo spasimo, le loro opere riescono a suonare sempre assolutamente personali. L’uscita dell’ultimo disco, Complici, a marzo di quest’anno, segna poi l’inizio della carriera di scrittori dei due e quindi la temporanea fine di quella di “cover band”. Complici mostra come fino ad ora i due avessero solamente scherzato, come siano pronti a assimilare una volta di più nella loro musica tutto l’assimilabile. Se le nuove direzioni intraprese porteranno al trionfo Petra Magoni e Ferruccio Spinetti

o alla rovina, lo vedremo: per chi in questi giorni assiste ai concerti, tra un sorriso speso per un omaggio all’Unità d’Italia sulle note di Fever e una lacrima versata su un’aria di Bach, c’è solo da godere e da sperare per la musica italiana, la cui storia, in certe serate, sembra ancora tutta da scrivere. - samgah

HENDRIX, HAZEL

Gli antichi egizi erano più neri o più caucasici? La controversia è considerata oggi anacronistica, ma ha avuto il suo momento di gloria e una sua non banale ragione d’essere per i fautori del Black Egyptian: i bianchi hanno scritto la storia e cercato giustificazione all’idea di appartenere a una razza superiore, cancellando le evidenze di una grande civiltà afrocentrica. Nomina i grandi del rock, esce fuori il nome di Jimi Hendrix, per molti il più grande: la sua musica era più nera o bianca? Anomalia: Hendrix era nero, ma la sua musica era roba dei bianchi, come tutto il rock, Elvis, Dylan, Beatles e giù fino ad oggi. The Jimi Hendrix Experience era la tipica band acida inglese di metà anni sessanta, così simile ai Cream, la location Londra, il pubblico quello degli Animals e dei Rolling Stones. Se alle origini c’era il blues, be’, quello non era più blues, ma roba trasformata dalla creatività hippie e psichedelica di marca britannica. In effetti, molti appassionati di storia del rock fanno fatica a riconnettere Hendrix alla tradizione che negli stessi anni produceva il funk, il cuore musicale dell’orgoglio nero. A dirla tutta, molti amanti del rock fanno fatica a descrivere cosa sia il funk. Riconnettere la musica di Hendrix alla cultura afro-americana

E GLI ANTICHI EGIZI presenta tuttavia meno problemi della controversia su quanto nero fosse Tutankhamon. Con una mossa da pantera, lo storico Rickey Vincent non ha dubbi: origini ed eredità di James Marshall Hendrix sono state fraintese dagli storici del rock (bianchi). Jimi diventa così argomento forte del capitolo “Black rock: giving it back”, nella prima grande storia scritta del funk (1995). Dopo gli argomenti sulle origini, Vincent ne ha un paio sull’eredità del polietnico chitarrista di Seattle: la scelta di un line-up inequivocabilmente afro-americano per la storica performance di Woodstock del 1969 (tre neri, due latinos alle percussioni, il solo Mitch Mitchell a rappresentare il vecchio continente) e la Band of Gypsies formata da veterani del R&B. Ironie della storia, il tecnico del suono tagliò fuori l’ensemble africana per lasciare solo Hendrix e Mitchell alle migliaia di orecchi di Woodstock e a noi che oggi ascoltiamo gli scampoli della registrazione. Poi la tragica fine della Band of Gypsies con un acido andato male a Billy Cox e

la morte di Hendrix nel settembre 1970. Finito tutto? No. Vincent docet e su allmusic.com si legge che nei ‘70 “Eddie Hazel chiaramente appariva come il successore del deceduto Jimi Hendrix, uno dei pochi chitarristi neri in grado di mescolare l’approccio rock acido con l’estetica R&B”. Sorpresa, e chi è Eddie Hazel? “Una figura mitica, il primo chitarrista dei Funkadelic di George Clinton, pioniere di un innovativo suono funk-metal, esemplificato nella classica pachidermica jam di Maggot Brain”. Precisamente così. Imbeccato da Clinton a suonare come se gli avessero appena comunicato della morte di sua madre, per dieci minuti Hazel liberò piegò le corde della chitarra come solo Hendrix aveva saputo fare, una cosa sola il suono e il cuore, le dita e l’energia elettrica, l’anima e il corpo. Un’esperienza 100% afro-americana. We have returned to claim the Pyramids (George Clinton, 1975) - ghostwriter 11


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VIAGGI EXTRASONORI

IL CIELO SOPRA LA BIENNALE

Giardini, Arsenale, Palazzo Grassi e Punta della dogana. Tutti contro tutti

Disse bene Philippe Daverio il 2 Giugno, durante la conferenza dedicata all’inaugurazione della mostra Glasstress all’Istituto Veneto di Letterature, Scienze ed Arti: «la Biennale non deve essere presa come l’opportunità di vedere belle opere d’arte che da tutto il mondo vengono esposte a Venezia; la Biennale è, piuttosto, una grossa sagra in cui ad ognuno spetta la sua salsiccia alla griglia». Salsiccia a parte, rende l’idea dello spirito necessario per intraprendere il percorso dell’arte contemporanea nella Serenissima. Come già due anni fa (la biennale era intitolata Fare Mondi) anche questa volta l’esposizione sarà ambientata ai Giardini (in cui vi saranno vari padiglioni: Giappone, Stati Uniti, Ungheria, Francia, Germania, Olanda, Belgio, Corea, Russia, Australia, Brasile, Venezuela, Egitto, Polonia, Romania, Israele, Spagna, ecc.) e nell’intera struttura dell’Arsenale (spazi come Corderie e Artiglierie che ospitano il padiglione Italia, l’Arabia Saudita, Argentina, India, Croazia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Cile e Istituto Italo-Latino Americano). Inoltre saranno sparsi per la città molti altri padiglioni: quello dell’Islanda, dell’Armenia, della Lituania, ecc. L’arte entra in città e si fa sagra al 100%. Il ruolo di curatrice della Biennale quest’anno è toccato a Bice Curiger che ha intitolato l’evento ILLUMInazioni. Il pun in

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questione lascia il tempo che trova e i motivi per cui è stato utilizzato sono ancor più inutili (il vedere l’orizzonte comune dei vari paesi per un dialogo aperto e innovatore; la visione ed estasi dell’artista). L’istanza della Curiger è quella di voler fare dialogare l’arte nelle sue diverse forme ed epoche, e proprio per questo motivo sono state “installate” (credo sia il termine più appropriato dato che 1) le installazioni imperano ai giardini facendo dimenticare che è esistita la pittura; 2) altrimenti avrei utilizzato “attaccate al muro”, poiché messe lì un po’ senza senso e filo logico) tre tele di Tintoretto (La creazione degli animali, La profanazione del corpo di S. Marco, L’Ultima cena) all’interno del padiglione centrale in cui sono presenti centinaia di piccioni impagliati di Cattelan, foto di Cindy Sherman, il parapadiglione di Monika Sosnowska, e le installazioni audio di Haroom Mirza. L’arte ha bisogno di comunicare… e questa è la soluzione per Curiger: infilare tre tele di Tintoretto. Capisco che lo scopo è nobile, ma sembra si sia dimenticata che quelle tele si trovavano comunque a Venezia, dentro la Chiesa di S. Giorgio, per giunta: con mio sommo sbigottimento vi entrai per ammirare il capolavoro di Anish Kapoor Ascension, una colonna/vortice di vapore che si innalza fino alla cupola.

Circondavano l’opera tre teli (e non tele) viola che coprivano il posto, lasciato visibilmente vuoto altrimenti, delle opere di Tintoretto assenti. Parallelo a questo evento è l’esposizione dell’opera all’interno del padiglione USA intitolata Algorithm (ideato da J. Allora): un organo da chiesa che, al posto delle tastiere, trova spazio uno sportello di prelievo che, a seconda della somma da ritirare e del codice per accedere, produce note ogni volta differenti. La dimensione religiosa è diventata questo; altro che dei Tintoretti parcheggiati! Come se fossero la soluzione della decadenza del dialogo dell’arte contemporanea… Cara Bice, mi faccia capire: ai Giardini le opere dialogano, e nella Chiesa di San Giorgio no? Si toglie quella dimensione di contesto dell’opera d’arte per mettervi quella di fierasagra-esposizione universale? Ebbene sì, e allora posso dire che nemmeno con questo intento la Curiger ha trionfato, poiché vi è qualcun altro che il termine “fiera” lo ha preso sul serio: Vittorio Sgarbi che ha curato il padiglione Italia all’interno dell’Arsenale col titolo L’Arte non è cosa nostra. Un titolo che fa riflettere per due motivi. Primo, l’arte non può e non deve appartenere a piccole conventicole dove i pochi decidono chi sale e chi scende dal podio dei tour per gallerie e mostre. Non devono essere sempre i


soliti nomi ad uscire nel panorama italiano: abbiamo giovani promettenti in tutta Italia che devono essere fatti emergere. Un lavoro arduo e quasi utopico che Sgarbi ha saputo eseguire con l’aiuto di molti “collaboratori” che avevano il compito di suggerire nomi di giovani e vecchi artisti di loro conoscenza, e da loro apprezzati. Dato che l’arte è questione di conoscenze, allora ne inseriamo nel contesto della biennale moltissime, per rendere il tutto più democratico. Solo per fare qualche nome all’interno dell’entourage immenso di conoscenze/collaboratori di Sgarbi: Giordano Bruno Guerri, Oliviero Toscani, Emanuele Severino, Ennio Morricone, Giuseppe Tornatore, Antonio Zichichi, Marina Ripa di Meana (?), ecc. Un immenso marasma? Un pastone senza né capo, né coda? Può darsi, ma lo spirito con cui è stato realizzato porta ad una soluzione al di fuori delle griglie della torre d’avorio dei “soliti nomi” dell’arte italiana. Secondo,

L’arte non è cosa nostra si riferisce ai fatti della mafia di Salemi a cui è stato dedicato un museo all’interno del padiglione stesso. Un’esperienza quasi impossibile da descrivere: l’angoscia pervade lo spettatore. Sgarbi ha saputo adempiere al suo dovere con originalità e motivazione. La Biennale d’Arte, che per 53 anni ha messo in subbuglio l’intera città, non poteva non scuotere nella sua 54° esposizione: Palazzo Grassi e Punta della Dogana di Francois Pinault si sono mobilitati con due mostre (Il mondo vi appartiene e Elogio del dubbio). Palazzo Grassi accoglie con un immenso pupazzo-scultura di tessuto (di Joana Vasconcelos) che si arrampica per i balconi dei tre piani; con una stanza nella penombra le cui pareti sono ricoperte di foglie di tè e al cui centro si trova una scultura dorata di uno scheletro che fa risaltare i propri polmoni lucenti: l’opera di Giuseppe Penone è Respirare l’ombra; con i murales kitsch di Muratami; con gli affreschi metafisici di

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Rudolf Stingel; con i collage anatomici di Matthew Day Jackson; e con le raffinate figure catturate nella loro semplicità di Lee Ufan (appartenente al movimento MonoHa) che chiudono la mostra nel silenzio. Ma se il nuovo allestimento di Palazzo Grassi stupisce, quello di Punta della dogana delude: meno opere presenti e molto meno organizzate rispetto a Mapping the studio. Tra le novità il cuore di Jeff Koons da 20.000.000 di dollari che prende il posto dei pupazzi di Fischli & Weiss, le opere di Donald Judd, e la scomparsa delle opere di Matthew Day Jackson, di quelle di Stingel. Fortunatamente rimangono ancora le cinque meravigliose tele di Sigmar Polke sull’Axial Age. La Serenissima è sicuramente da frequentare in tutto il suo pullulare di eventi: salire sulla giostra, fare qualche giro, ciucciarsi zucchero filato, due chiacchiere e quattro risate. Non penserete mica di trovarvi in un museo, vero? - gorot

SOTTO IL CIELO

L’Università Ca’ Foscari di Venezia, in onore di quell’evento mondiale che è la Biennale d’arte, ha deciso di approfittare del rapporto che ha con l’Università di Mosca contribuendo alla ricerca sull’arte russa con due mostre: We are here, a San Sebastiano, e Dmitrij Prigov in sede centrale. Quest’ultima voleva essere (e lo è stata) una retrospettiva sul grande concettualista russo il cui nome da’ il titolo alla mostra. Organizzata da Dmitrij Ozerkov l’esposizione-padiglione accompagnava in un cammino attraverso i vari campi di quell’unico linguaggio che Prigov parlava. Nato il 5 novembre del 1940 è stato scultore, poeta, prosatore, disegnatore. Diplomatosi all’Istituto d’arte Stroganov nel 1966, internato in ospedale psichiatrico nel 1986 per poi uscirne grazie a proteste levatesi in Urss e all’estero ha sollevato la voce verso il silenzio. Il percorso della mostra si apre nel buio: un telo su cui viene proiettato un filmato di un uomo incappucciato che legge con voce sommessa un libro arcano; si apre il telo e ne segue un altro su cui si proiettano Prigov e un altro uomo, seduti l’uno davanti all’altro che ossessivamente si urlavano a vicenda la stessa frase in russo; il terzo e ultimo telo è il più toccante: il primo piano dell’artista che recita il dialogo di Gesù con Dio nell’orto dei Getsemani (“Padre, allontana da me questo calice!”). Dopo i teli la prima si sala si apre nella sua vuotezza scarna: un occhio disegnato sul muro, un tappeto nero davanti con sopra un calice di vino rosso. Temi che si ripeteranno in tutte le altre sale in cui aleggia musica di Mahler, preghiere, raga tibetani, in cui ci si trova di fronte a porte nascoste, seggiole vuote, nomi di pittori scritti sui

DELLA BIENNALE Dmitrij Prigov: dal concetto alla carne muri (Magritte, Rembrandt, Malevic), incisioni, paesaggi al tramonto, incisioni totemiche, fumetti mistici e goffi, l’alone di una ricerca religiosa ormai consumata ma che riecheggia. Ideatore e fondatore del concettualismo russo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta ha portato avanti la sua Darstellung attraverso la Vorstellung . Si è spento nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2007. Consapevole della manchevolezza che ogni concetto possiede senza il segno (che a sua volta possiede l’ambiguità di essere se stesso e qualcos’altro) ha condotto il cammino della purificazione del concetto nella sua manifestazione prima, povera, umana: prima della ragione, dopo il corpo e la carne, insieme alla domanda che si fa sentire in lontananza (“l’ultima pietà del pensiero” diceva Heidegger) si rivolge ai cittadini ringraziandoli di essere attoniti,

stupefatti ed increduli. Brindiamo a Dmitrij Prigov con quei tanto interrogati calici, coi nostri sguardi fissi, con le nostre orecchie tesi. Lo salutiamo coi calici meno ricchi di povertà di quelli dell’artista. - gorot

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Ernest Hemingway

NAVIGANDO TRA IL MARE E LA MORTE Il mare di altura, Hemingway lo vide quando attraversò l’Atlantico ed era già fonte di immenso stupore, di passione ma anche di grande timore. Nel 1918 arrivò in Europa vivendo sul mare, per guidare ambulanze di guerra, tanto che, arrivato a Bordeaux, il mare gli era entrato “sotto la pelle”. Durante il suo viaggio in Europa Hemingway conobbe le diverse forme del mare, il flusso calmo e piatto, le creste delle onde e la schiuma bianca della scia della nave. E da quel momento, non tornò quasi mai in Europa con l’aereo, ma volle sempre viaggiare in nave, tanto che si creò anche un personale programma di pesca, nel momento in cui stava scrivendo Addio Alle Armi. E così trascorse tutta la sua vita sull’acqua salata, girando tra Spagna, Key West, Tortugas e L’Avana, accompagnato dalla Pilar, la sua fedele barca fatta costruire a Miami che divenne la sua vera casa. Era infatti nel mare aperto, nella pesca che riusciva a dimenticare le ostilità che gli erano riservate dai critici. E quando l’amore lo spinse ad abbandonare il mare per la più tranquilla terraferma, insieme a Mary Walsh, inventò una finta agenzia di controspionaggio, la Fabbrica Degli Imbroglioni per poter trascorrere il massimo del tempo sulla Pilar. Andò nello stesso modo quando fu girato un film sulla sua opera Il Vecchio E Il Mare ad opera di John Sturges, film di cui non fu mai soddisfatto ma al quale fu grato per avergli fatto passare più di un anno al largo, vivendo di pesca di marlini. A Cojimar riuscì a creare un rapporto unico con la popolazione locale, provava un amore profondo per le umili barche di quei pescatori, sempre guidato dall’affetto per quella grandissima tavola azzurra, per la sua barca, che era l’unica cosa che riusciva a dare alla sua faccia, piena di barba bianca, una pace perpetua, che trovava solo nel mare senza confine. Ma la sua vita fu piena di problemi che il mare solo in parte riusciva a mitigare. Si sposò quattro volte, gli furono assegnate svariate

Hemingway nel 1940 fotografato da Robert Capa

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relazioni amorose e concluse i suoi giorni con un colpo di fucile. Come un samurai che si sentisse disonorato dalla parola o dai gesti, capì che il suo corpo lo stava tradendo, la malattia consumando. Piuttosto che continuare, caricò il fucile e fece fuoco. La morte si snoda in molte delle sue opere, da Addio Alle Armi (1929), dove la tragedia si consuma sul fronte italiano dove un soldato americano vede morire la sua amata a Death In The Afternoon che fu il suo testamento e nel quale si concentrò sul rito della morte nella corrida. Una morte che è sempre presente, in agguato nella vita di tutti i giorni e di tutti gli uomini come lo è nella vita dell’autore. La caccia grossa durante i safari e la pesca d’altura, queste guerre non avevano una fine, questi poveri morti che si impadroniscono del cuore del lettore erano l’aspetto delle insidie che minacciano un un uomo nella gloriosa bellezza del mondo, nella meravigliosa gioventù, nel tentativo di agguantare la felicità che non è che un miraggio all’orizzonte. Tutto questo, annegato nei suoi personaggi, stoici come lui, nei dialoghi diretti e senza giri di parole, nella semplicità e nella schiettezza. Forse, dalla terribile notte del luglio 1918, quando a Fossalta le sue gambe furono riempite di schegge con un ginocchio distrutto per sempre, Ernest è sempre stato ossessionato dalla morte. In una lettera a Fernanda Pivano, Hemingway dice: “Non ho mai avuto alcuna paura della morte e non ho mai creduto che potesse succedere a me fino a quando non sono saltato in aria a Fossalta (…) per molto tempo non ho potuto dormire la notte senza la luce accesa”. Nel breve racconto Le Nevi Del Kilimangiaro (1936), l’alter ego dell’autore è talmente ossessionato dalla morte che alla fina la desidera come una “visione di bellezza”. La guerra può fare molto male, a livello psicologico come in Insonnia (1927) dove il tenente protagonista non dorme al buio per paura di perdere l’anima come gli era successo

Hemingway con Fidel Castro nel 1960

al fronte, o come in Fiesta (1927 nell’edizione inglese), dove la guerra non uccide ma è anche peggio, Jake infatti è rimasto impotente per una ferita di guerra, ma prova ancora desiderio senza essere in grado di consumarlo. Gli eroi di Hemingway, e quindi, vista la forte personificazione dell’autore con i personaggi, Hemingway stesso, sono individui del ‘900, compiere il dovere fino all’eroismo serve per dimostrarsi vivi, per dimostrarsi uomini e cercare di allontanare un po’ lo spettro della morte. In Death In The Afternoon, memoria personale, zibaldone di pensieri su omosessualità, sifilide, guerra, suicidio, la morte è quella del padre, suicida nel 1928. In Per Chi Suona La Campana (1940), il velo tra la letteratura e la vita reale è inesistente, protagonisti la Pilar, i tradimenti, gli aereoplani fascisti che sorvolano la terra e il mare tra l’Italia e la Spagna e la morte che è in agguato dalla prima all’ultima pagina, e alla fine colpisce proprio il protagonista. Un’altra morte di guerra. Ad un amico Hemingway scrisse: “La morte è il rimedio sovrano di tutte le disgrazie”. E proprio nel romanzo del 1940, il protagonista dice che la morte è brutta solo quando impiega così tanto tempo ad arrivare da umiliarti e far male. E così fu. Con un fucile in bocca a sessantuno anni Hemingway dopo una ventina di elettroschock, emocromatosi e schizofrenia, si liberò del corpo che lo aveva tradito. Tra tutti gli omaggi che ricevette dopo la morte, il più bello e significativo fu proprio quello dei suoi amici pescatori di Cojimar. Quei pescatori, senza nessun’altra ricchezza che il loro cuore, fusero le eliche dei loro motori e fecero scolpire una sua immagine che venne posta su un tempietto sul molo del villaggio. Quando l’amico di Hemingway Gregorio Fuentes arrivò, si posizionarono lungo i bordi del molo alzando i loro remi ornati per rispetto all’uomo che non c’era più. Erano persone pacifiche, ignare di armi, che volevano solo mostrare rispetto ed onore ad un uomo che aveva dato quell’onore al mare, erano uomini disarmati, come avrebbe voluto fossero i protagonisti dei suoi romanzi. - matmo


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ciclo “oriente mon amour”

Ila “corea-grafia” SALVATI DI KIM KI-DUK di monaci, pescatori, giocatori e puttane Fece scalpore nel 2004 l’uscita del film Ferro 3 – La casa vuota. Storia di un uomo che si metteva ad abitare case vuote e a provare la sua mazza da golf (il ferro 3, appunto) in giro per la Corea. Un uomo che sembra condannato dall’esistenza ma che si svelerà nel finale come uno spettro/ anima capace ancora di sorridere. La condanna dell’uomo nel braccio della morte, il giovane Jin, con tendenze suicide che viene visitato in parlatorio da una donna che ricreerà con poster e cartelloni colorati il susseguirsi delle stagioni durante i loro incontri (Soffio uscito nel 2007). Le stagioni e l’amore: sono temi del film Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) Il giovane monaco buddista cresce in un eremo fluttuante in mezzo ad un lago: scopre l’erotismo, commette un omicidio dopo essere scappato dalla vita monastica per poi ritornarvi e farsi perdonare i suoi peccati (la ciclicità degli eventi umani, delle azioni e delle colpe). La fuga dalla vita nel rifugio di instabili case fluttuanti affittate ai pescatori del film Seom (L’Isola del 2000) richiama il peccato in cui la società coreana si trova contornata dalla propria violenza e repressione. La stessa violenza e repressione del pappone in

SO LONG

HARRY

Questa è seriamente la fine. L’ultimo capitolo era stato opportunamente diviso per tentare di alleggerire la pillola a tutti coloro che, nati negli anni Novanta, hanno segretamente sperato di vedersi recapitare una certa lettera al compimento dell’undicesimo anno di età. Alcuni se ne vergognano, altri hanno la divisa completa di Grifondoro nell’armadio e la indosserebbero subito se solo non fossero cresciuti di svariati centimetri. Gli unici due libri ad aver venduto di più sono la Bibbia e il Libretto Rosso di Mao: questa è la magia di Harry Potter. Si posso avanzare migliaia di ipotesi sul perché di tanto successo e già fiumi di inchiostro sono stati versati. Rimane il fatto che più generazioni conserveranno tra i ricordi più cari della loro infanzia quello del Natale in cui hanno ricevuto il libro di cui hanno pazientemente atteso l’uscita. La capacità di coinvolgere e l’attrazione

Bad Guy (2001) dove la realtà si fa consuetudine incapace di stupire nel bene e nel male: la vita non vissuta dei propri personaggi è l’eterno spettro di Kim Ki-Duk. Lo stesso spettro di Time (2006): una donna tradita dal marito vuole subire un intervento chirurgico per poter cambiare fisionomia. Il marito si innamorerà perdutamente di lei; la moglie però sarà gelosa di se stessa. Da non dimenticare il “film summa” La Samaritana (2004): una giovane ragazza che restituirà la memoria dell’amica morta; un padre che vendicherà sua figlia e nella sua narrazione si diramerà in momenti di eros, violenza, e riconciliazione. L’amore in vendita, i corpi perfezionabili dalla tecnica, le pulsioni senza pudore che diventano pilastri della convivenza trovano la redenzione nel loro involucro di spazio estetico al di fuori dal tempo e dalla storia. L’arte come redenzione; il cinema come confessione. La zona bianca e lucente della bellezza, della dolcezza, del canto, e della coreografia con cui Kim Ki-Duk salva i suoi personaggi e scrive la sua Corea. Quindi non più coreografia, ma una grande ed immensa “corea-grafia”. - gorot

magnetica che riesce a esercitare sono i veri punti di forza dei libri. La curiosità da sola non basta per spingere a leggere sette volumi, ciascuno di lunghezza insolita per un’opera rivolta ai più giovani. L’attento bilanciamento tra azione e descrizione non lascia punti morti e la storia non si abbandona ad un solo risvolto banale. Il lieto fine era d’obbligo. L’inesauribile voglia di magia e buoni sentimenti da parte di adulti e bambini di tutto il mondo ha risvolti economici affatto trascurabili con circa 480 milioni di copie vendute. Il maghetto è inoltre protagonista della saga che ha incassato di più al cinema, con una gran totale che si aggira intorno a 6,4 miliardi di dollari. I due film della serie che hanno avuto più successo al botteghino, Harry Potter e la pietra filosofale e Harry Potter e il principe mezzosangue, non hanno però mai raggiunto la fatidica cifra di un miliardo. La Warner Bros annuncia ottimista che, questa volta, prevede di superare l’obiettivo. In Italia, per Harry Potter e i doni della morte pt. II, 410 mila spettatori sono accorsi al cinema il solo 17 Luglio scorso, giorno del debutto sui grandi schermi. Niente male per un film di cui, a giudicare dalle vendite del libro, praticamente tutti conoscono la trama e l’epilogo del duello finale. Bastano le prime note della splendida Hedwig’s Theme, composta da John

Williams per il primo film, a suscitare una certa emozione. L’aspetto cinematografico passa inevitabilmente in secondo piano, anche se tutta la serie è caratterizzata da una qualità eccellente e da un cast di alto livello. Nel caso in cui i fan non avessero pianto tutte le loro lacrime per la fine letteraria della serie nel 2007, adesso che il loro eroe e i suoi amici hanno concluso le loro avventure cinematografiche possono sentirsi definitivamente orfani. O forse no? Difficile abbandonare una macchina per soldi che funziona così bene. La Rowling ha da poco presentato il sito Pottermore.com. Nella home rosso scuro vi darà il benvenuto una civetta e la stessa scrittrice che con fare misterioso e leggermente irritante vi spiegherà i contenuti del sito, la cui aperture è prevista per Ottobre. Bambini e ragazzi continueranno a leggere i libri, riguardare i film e adesso anche il web garantirà continuità al magico mondo di Hogwarts. È difficile riuscire a descrivere le dinamiche che portano un libro a diventare un grande classico. Non si tratta solo di un gran numero di copie vendute o della popolarità dell’autore. In ogni caso Harry Potter è indubbiamente giunto a questo traguardo e noi che siamo cresciuti insieme a lui sentiremo di doverlo necessariamente regalare ai nostri figli. - comyn

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feedback - LUGLIO/AGOSTO 2011

ROBERTO CARIFI il Maestro ritrovato e il Maestro che si ritrova

Pazientemente Kosen riempì fogli e fogli sino a mettere insieme ottantaquattro Primi Principi, senza peraltro ottenere l’approvazione dell’allievo. Poi, quando il giovanotto uscì per qualche minuto, Kosen pensò: «Ora mi si offre la possibilità di sfuggire al suo occhio acuto», e in tutta fretta, con la mente libera da altri pensieri, scrisse: “Il Primo Principio”. «Un capolavoro» l’allievo.

tardi il professor Carifi, ci frequentiamo poco, abbiamo rare possibilità di trovarci e discutere, ma una cosa vi è da riconoscere in questi brevi e pochi incontri col professore: il suo sguardo, che scruta un orizzonte molto vicino e molto intimo, appartiene ad occhi che non guardano, che non “servono a guardare”, ma ad occhi che si donano, che

sentenziò

Alain Badiou racconta con affetto e rammarico il non aver avuto rapporti con un maestro che indirettamente scoprì vicino a lui. Quel maestro era Gilles Deleuze. Erano così lontani (frequentazioni, scuole di pensiero diverse) e così vicini (un’affinità e sensibilità filosofica che li legava). Non voglio paragonarmi né a Badiou, né a Deleuze (sarebbe blasfemo), eppure credo di aver provato quel rammarico dell’allievo che trova tardi il suo maestro: questo è Roberto Carifi. La lucidità del vero illuminista, la sensibilità del poeta, l’umiltà del religioso compongono la triade del filosofo che abita in lui. Mi appassionai a leggere il suo libro In difesa della filosofia, e Nel ferro dei balocchi: uno un saggio, l’altro una raccolta di poesie. Mi avventurai ne Il maestro e la compassione e in Ossessione e memoria. In questi libri si intravedeva chi fossero stati gli altri uomini che hanno dialogato nel ricordo carifiano: si leggeva l’essere per la morte di Heidegger, la spinta verso la totalità dell’esistenza di Nietzsche, il ricordo che si ripresenta, che bussa alla porta e che rende incapaci ma obbligati a fare ricordare come sussurrano Celan e Givone (maestro che è stato allievo del filosofo Luigi Pareyson). Ma tutto questo non basta, perché se il dialogo di questi uomini è stato fondamentale nelle loro parole c’è stato altro che il maestro Carifi ha fatto proprio. Non sono le parole, non sono i concetti, ma lo sguardo. Come dicevo in precedenza, io ho incontrato

“cedono uno sguardo”, un’espressione. La potenza di un volto insegnata da un Levinas, la carità dello sguardo appresa da Tanabe, la lacrima degli occhi di Derrida, il capire che nella parola si cela già il non comunicabile che pulsa e vive al di sotto del rumore, da Wittgenstein a Zhuang-Zi. La teoretica, la contemplazione come trampolino di lancio e punto di arrivo per l’etica: il Tutto filosofico prima delle varie

branche; poiesis prima di mathesis (patèi mathòs); il dolore che si rivela dalla poesia (Dichtung) che dice al di sopra, e prima del parlare. «Professore, L’ho conosciuta tardi, Le ho parlato poco, ma L’ho guardata bene. Io ho commesso il peccato di guardarLa senza cederLe sguardi, cose che Lei, invece, ha fatto con me. Sento che nel rivederLa la prossima volta dovrò provare non solo ad ascoltarLa e a guardarLa con attenzione, ma dovrò darLe anche io qualcosa, un qualcosa di tanto spontaneo e semplice quanto bisognoso di un lungo percorso di crescita: uno sguardo pieno di verità e luce. Lo sguardo dello stupore, lo sguardo della tristezza, lo sguardo della contentezza, ecc. poco importano nella loro specificità, purché siano sguardi veri. Vorrei riuscire ad essere capace di donarLe il mio volto, ma anche qui sbaglio io, poiché so che Lei non vuole possedere, ma lasciarsi venire incontro l’Evento (Ereignis) nella sua tangibilità e, insieme, lontananza. Nel silenzio attende. Forse sta percorrendo il cammino verso l’origine, verso l’Ursprung in cui incontrerà l’evento, quell’evento primo che porta alla domanda fondamentale. Poiché è di questo che si tratta, giusto? L’interrogazione come continuo cammino? Il cammino verso l’origine, non come retrocedere, ma come innalzamento. Ma sono parole sue? Sicuramente le ha fatte proprie, comunque senza egoismo: si lascia percorrere del Logos come eterno polemos. Potrebbe essere (in) Lei quello stesso fiume in cui non ci si può bagnare due volte, o almeno, io non ce la faccio a percorrerLa due volte. Lei è mai riuscito a percorrersi due volte? Professore, vede? Forse io ho capito ciò che Lei dice, ma il viver con la comprensione è per me ancora lontano, forse inarrivabile. E forse non è un caso che io sia l’allievo e Lei il Maestro…» - gorot

Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Jacopo Incani, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Stefano Dominici. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori. Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nell’Agosto 2011. Per informazioni, critiche e consigli: info.feedbackmagazine@gmail.com. Feedback Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedbackmagazine.it. 16


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