Alpennino 2012 n 1

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GRANDES JORASSES: UN SOGNO VISSUTO

rare timidamente il suo stesso profilo verso la cima. Questa linea diverrà per tutti e per sempre la Via degli Sloveni, testimonianza e segno indelebile della loro prima ascensione. Da allora solo una manciata di ripetizioni e poche le informazioni affidabili a riguardo. Ormai sono le 11 e siamo a Montanvers: da qui la parete quasi non si vede. Scendiamo le scalette che portano sul ghiacciaio. Mettiamo piede sul Mer de Glace e iniziamo il lungo avvicinamento. È incredibile come in questi stessi luoghi, d’inverno, in pochi minuti con gli sci si possa scendere verso valle. Ora invece, si risale con penoso zig-zag una pietraia, per ore. Alla confluenza del bacino del Tacul e quello del Leschaux ci fermiamo per un breve spuntino, la temperatura al sole è ancora gradevole. Poco dopo entriamo nel cono d’ombra della parete. Quanto più ci si avvicina verso di essa tanto più il ghiacciaio diviene tormentato. In direzione del Croz ci sono dei crepacci enormi… difficilmente aggirabili. Dunque, ci dirigiamo verso la Walker per poi traversare decisamente verso destra. Arriviamo sotto l’ultimo ostacolo prima di giungere all’attacco. È un seracco, all’apparenza poco stabile, che cerchiamo di superare velocemente. Da qui le prospettive sono davvero ingannevoli, la parete non sembra nemmeno poi tanto grande. Mi rendo conto del mio errore di valutazione solo quando scorgo una cordata sulla Colton-McIntyre… I due alpinisti sono due puntini piccoli, piccoli e la parete è impressionante! Sono circa le 18. Individuiamo un posto adatto ad accogliere il nostro bivacco. Hotel Grandes Jorasses, 4 stelle in ridente ambiente alpino, nemmeno troppo caro, solo… un poco fresco. Non impieghiamo molto a preparare la piazzola nella neve, solo quel che basta per rimanere in piano da sdraiati. Ci sarebbe voluto troppo tempo per scavare una truna nella neve, preferiamo quindi soffrire un poco di freddo in più ma risparmiare le energie per la scalata. Bivacco all’addiaccio dunque. Questa è l’immagine più nitida e profonda che conservo di questa straordinaria esperienza. La foto “a sorpresa” che mi ha scattato Arnaud è emblematica. Io assorto nei miei pensieri, con lo sguardo volto nel vuoto e alle spalle il Croz illuminato dagli ultimi raggi di sole. Lunghi periodi di tempo passano senza lasciare traccia nel nostro animo. Giorni vuoti e uguali che si recriminano come perduti, senza avere l'impressione di avere veramente vissuto. Queste ore restano invece indelebili nei nostri ricordi a vivificare con un soffio eroico le nostre piccole ipocrisie quotidiane. Solo il morso della fame riesce ad interrompere questo idillio. La serata passa tranquilla sotto una miriade di luminosissime stelle. Verso le 3.30 superiamo la crepaccia terminale nel punto più accessibile. Questo ci costringe però, per raggiungere il primo nevaio, ad effettuare un lungo traverso orizzontale (circa due tiri di corda). Il traverso si rivela piuttosto delicato a causa del ghiaccio nero e marmoreo. Attraverso poi una breve e ripida goulotte giungiamo sul primo nevaio. Da qui una rampa di neve (50-55 gradi) ascendente verso sinistra per circa

Il lungo traverso verso destra per giungere al crux dell’intera salita

150/200 m conduce al primo sistema di goulotte. La progressione è continua e piuttosto veloce in conserva protetta, mai troppo difficile, sui 60-65 gradi per circa 200 m. Una brezza fresca ci annuncia l’alba mentre giungiamo finalmente al secondo nevaio. Dalla fine del secondo nevaio le cose si fanno indiscutibilmente più serie. Superiamo un diedro canale in dry e poi tre tiri di corda di circa 50 metri ciascuno, su ghiaccio a tratti molto sottile, inclinato sino a 80-85 gradi. Arriviamo al terzo ed ultimo nevaio. Oramai, abbiamo superato oltre due terzi di parete e ci fermiamo per fare “rifornimento”. Ci mancano gli ultimi 250/300 m di salita… i più difficili. Superiamo una goulotte completamente secca, arrivando sul filo di cresta dello sperone Croz, qui l’ambiente è davvero notevole. Dopo un tiro su roccia di IV/IV+ la progressione verso l’alto sembra sbarrata da un muro di roccia verticale, qualche dubbio in effetti ci viene. Poi, proseguiamo per l’unico itinerario logico, affrontando un lungo traverso ascendente verso destra, su neve dura ma sottile, dove risulta arduo proteggersi adeguatamente. Alla fine del traverso si gira dietro uno spigolo verticale, con roccia abbastanza marcia, che pare precludere la via. Il compagno appronta una sosta improvvisata: un friend, un microfriend, un chiodo forse. Dei tre punti di sosta non so quale fosse il più aleatorio. E dopo? Dopo, solo il passaggio chiave della via… a soli 80 metri dall’uscita. Là, su quella rampa fatta a diedro, avrebbe dovuto esserci del ghiaccio, poco forse, ma del ghiaccio. Ora invece la rampa si presentava come una placca di roccia ricoperta da uno strato di verglas di circa 2 o 3 centimetri, improteggibili. Erano 10 metri in dry difficili, poi la rampa mollava e il ghiaccio diventava più abbondante. La sosta, la rampa, la consapevolezza del “vietato cadere” per non rischiare un rientro express verso l’hotel Grandes Jorasses. Lassù, qualcosa di noi è rimasto. Qualche istante, un pugno di emozioni, un angolo di vita. M5 o forse M5+ dirò poi io, M6+ dice invece l’ultima relazione recuperata da Maurizio! Ma chi può dirlo? Non saranno degli sterili numeri a mettere al guinzaglio le nostre emozioni. Arnaud si toglie lo zaino, troppo greve per un simile passaggio. Io mi slego da una corda per legarvi lo zaino dell’amico e rimango solo su una corda… gemella. Tre metri in traverso verso destra, due in verticale, le punte delle picche su due schegge di roccia, il monopunta del rampone sinistro appoggiato delicatamente sul leggero strato di verglas e l’altro in spaccata sulla

faccia destra del diedro. Arnaud riesce a proteggersi su un chiodo a lama sottile lasciato dagli sloveni. Alla fine cosa sono nel quotidiano 8 metri messi in orizzontale? Nulla. Messi in verticale invece, sulla Nord delle Jorasses possono anche dare senso pregnante a 40 minuti di arrampicata strenua e a un turbinio di emozioni. Click… è il secondo chiodo (nascosto) lasciato dagli sloveni che Arnaud riesce prima ad individuare e poi a moschettonare. Il suo occhiello però è rivolto verso il basso e la sua tenuta è molto aleatoria. Il compagno accascia la testa sulla picca sinistra, il momento di crisi interiore ha raggiunto il suo culmine. Alè, Arnaud, alè grido io! E lui stesso ripete quelle parole per scuotersi. Fortunatamente l’amico è un ragazzo con delle risorse morali inesauribili e supera quel difficile momento. Le due piccozze appoggiate delicatamente sulla placca verglassata, 1.000 metri di aria sotto i piedi! Un lamento coraggioso rimbomba poco sotto la cima del Croz… Riposizionare l’equilibrio e spostare il rampone verso una tacca con la speranza di proteggersi. Un Camalot n. 2 entra in un buco quadrato verso destra. È finita. Ancora 3 metri, entrano 2 viti da ghiaccio. Il mio compito è ben più facile. Arriviamo alla breccia tra la cima del Croz e la punta Magali. Un sole caldo sul versante sud ci accoglie. La Nord delle Jorasses è fatta. Non lo sappiamo ancora ma ci attendono gli orrendi e pericolanti sfasciumi del Croz versante sud. Sei calate a corda doppia, in mezzo al terreno più scabroso in cui sia mai passato, ci separano dai Rochers du Reposoir. Alle 20 siamo al Boccalatte, alle 23 a Courmayeur. Il mattino seguente a Parma, al lavoro. Tutti gli uomini sognano. Non però allo stesso modo. Quelli che sognano di notte nei polverosi recessi della mente si svegliano al mattino per scoprire che il sogno è vano. Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, giacché ad essi è dato di vivere i sogni ad occhi aperti e far si che essi si avverino. Fate che i sogni divorino la vostra vita, affinché la vita non divori i vostri sogni. Emanuele Camera - sezione di Ovada Bivacco alla base della parete


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