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Futuro sostenibile
Sconfiggere i demoni della demolizione, per rigenerare e per ricominciare: il caso della Diga di Begato
La demolizione della Diga di Begato e il Progetto Restart, la rigenerazione urbana partecipata che porta alla qualità dell’abitare. Una cura drastica, una best pratice che sarà studiata a lungo in futuro, per rigenerare un tessuto urbano di cui nessuno sentirà più la mancanza.
In che modo un’architettura può essere smantellata senza cancellare, ma anzi riscrivere, una parte di identità urbana? Da questa domanda prende le mosse un percorso collettivo di riflessione e azione che ha coinvolto istituzioni, università, enti locali e cittadini, a partire da un intervento tanto simbolico quanto necessario, complesso: la demolizione della Diga di Begato a Genova. Un edificio iconico, figlio di una stagione progettuale che ha segnato profondamente l’immaginario delle periferie italiane, è diventato il punto di avvio di un programma complesso di rigenerazione urbana: Restart. Ovvero: Ripartire, o meglio ancora, Ricominciare.
Nato dalla collaborazione tra Regione Liguria, Comune di Genova (con i servizi sociali e i lavori pubblici), l’Azienda Sanitaria Locale, le organizzazioni del terzo settore e ARTE Genova (Azienda Regionale Territoriale per l’Edilizia), il progetto ha generato riflessioni che sono confluite anche in una pubblicazione a più voci, “I demoni della demolizione”, curata dal Dipartimento Architettura e Design dell’Università degli Studi di Genova insieme all’Ordine e alla Fondazione degli Architetti PPC di Genova (in particolare, a cura di Laura Ballestrazzi, Egidio Cutillo, Massimiliano Giberti, Marco Guarino, Arianna Mondin, Andrea Pastorello, Nicoletta Piersantelli, Francesca Salvarani).
Il libro - e il progetto da cui nasce - affrontano la demolizione non solo come gesto tecnico, ma come dispositivo urbano e sociale, capace di aprire spazi
Energy Consulting-Xori Group per Federcasa nuovi nel pensiero e nella città. Ne nasce un laboratorio partecipato che ridisegna le funzioni collettive del nuovo quartiere in costruzione, ma anche una riflessione più ampia sulle sorti di quelle grandi unità residenziali pubbliche che, per ragioni strutturali, culturali e sociali, stanno arrivando al termine del loro ciclo di vita.
La demolizione in architettura è un atto deliberato e preciso, che avviene per motivi ben definiti. Non è mai casuale; ogni demolizione nasce da una decisione e ha ragioni specifiche, che riguardano tanto il piano architettonico quanto quello sociale. Spesso implica una “caduta” fisica, ma anche un cambiamento sociale, che può portare a spostamenti significativi di popolazione. La demolizione viene adottata per sanare errori passati, per rinnovare un territorio, per eliminare edifici ormai obsoleti o per segnare una nuova fase nel ciclo di vita di un’area urbana. Sebbene in alcuni casi sia una scelta pianificata, spesso la demolizione è la risposta a eventi imprevisti, come disastri naturali, instabilità strutturale o decisioni politiche improvvise.
Nel contesto europeo, la demolizione ha rappresentato uno degli strumenti principali di trasformazione urbana. Ha simboleggiato il potere di decidere “la vita e la morte” non solo degli edifici, ma anche delle persone che insieme definivano le città. Nel passato, l’idea di demolire era qualcosa di quasi quotidiano, tanto da diventare parte inte - grante dei primi film dei fratelli Lumière. Le macerie lasciate dalle guerre mondiali hanno alimentato un sentimento di ricostruzione e rinnovamento, che ha preso il posto delle operazioni di distruzione compiute dai regimi totalitari.

Oggi, sebbene il panorama sia cambiato, continuiamo a vivere quotidianamente il fenomeno dei crolli, che avvengono per diverse ragioni: dalla mancanza di manutenzione alla necessità di adattarsi a nuove esigenze sociali o politiche, passando per i cambiamenti climatici. Negli ultimi anni, la demolizione di strutture come la Costa Concordia e il Ponte Morandi ha segnato il nostro tempo, segnando forse la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova fase per l’architettura e la pianificazione urbana.
Ma oltre alla questione morale e ai conflitti che spesso accompagnano questo processo, la demolizione può essere anche una decisione progettuale necessaria per la trasformazione del territorio. Qual è l’impatto di un gesto così definitivo? Qual è il senso di abbattere per poi ricostruire? Come si organizza tecnicamente un’operazione di demolizione? E come vengono gestiti i movimenti di popolazione che ne derivano?
La demolizione non è solo un’azione fisica, ma un concetto che riguarda la pianificazione urbanistica e l’economia del cambiamento. In alcuni casi, può essere vista come una fase del progetto, parte di un processo di rigenerazione, ma in altri può essere necessaria per risolvere problemi economici o ecologici legati a edifici che richiedono ingenti risorse per essere mantenuti. La demolizione, infatti, è anche un’industria che genera un significativo giro d’affari, con implicazioni dirette sul mercato dei materiali di scarto e delle risorse.
Il caso delle Dighe di Begato a Genova è un esempio emblematico di come la demolizione possa influire non solo sull’architettura, ma anche sulla vita delle persone che le abitano. Il progetto di demolizione di questi edifici popolari ha comportato il trasferimento di molte famiglie e ha sollevato questioni sociali legate agli spostamenti forzati, ma anche al dialogo tra il nuovo e l’esistente. È un esempio di come la demolizione non sia mai un atto isolato, ma faccia parte di un più ampio processo di pianificazione urbana che cerca di conciliare la necessità di rinnovamento con il rispetto per le persone e per la storia del luogo.
La dinamite fu inventata da Alfred Nobel nel 1867 ed è spesso associata nell’immaginario collettivo a esplosioni distruttive e guerre, ma nella realtà è stata impiegata, per oltre il 99% dei casi, a scopi civili. Si tratta di un esplosivo affidabile, diretto, potente ma gestibile: dosata correttamente, consente un controllo preciso della sua forza. È per questo motivo che, ancora oggi, resta uno degli strumenti più efficaci nelle demolizioni controllate.

Proprio a Genova, trent’anni fa, la dinamite fu protagonista dell’inizio di un processo di trasformazione urbana che avrebbe ridefinito profondamente l’identità della città. In occasione delle Celebrazioni colombiane, uno degli atti simbolici fu la demolizione della ex caserma dei Vigili del Fuoco - già Albergo degli Emigranti. Un’operazione tutt’altro che semplice, ostacolata da cavilli burocratici, ma che alla fine divenne un vero e proprio punto di innesco per una lunga stagione di cantieri e cambiamenti. Quella stagione vide cadere, una dopo l’altra, alcune delle strutture più ingombranti e simboliche dell’archeologia industriale e della storia urbana recente della città: la raffineria Erg di Bolzaneto, il complesso industriale Sanac, poi l’area dell’Ilva di
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Cornigliano e l’Ansaldo Fiumara - due vere e proprie cittadelle nella città. A seguire, la Ex Bocciardo, i Silos Granari del Molo Parodi, l’ex stazione elettrica ferroviaria di Terralba, e il ponte in ferro, ormai obsoleto, della Fiumara. Infine, quasi per caso, fu il turno del Ponte Morandi, la cui drammatica vicenda ha reso ancora più evidente la necessità di ripensare, e talvolta di ricominciare da zero.
La dinamite ha avuto un ruolo anche invisibile ma determinante nella trasformazione infrastrutturale della città: ha modellato gli estuari, permesso il tracciamento delle gallerie della futura Gronda e del Terzo Valico ferroviario. In questo senso, Genova è anche la città della demolizione consapevole e progettata, dove il gesto della distruzione diventa parte integrante della rigenerazione, aprendo lo spazio fisico e simbolico per una nuova visione urbana.
A livello locale ma anche nazionale, questo quartiere è diventato il simbolo per eccellenza dell’Edilizia Residenziale Pubblica (E.R.P.), incarnando tutte le complessità e i significati – anche simbolici – legati al concetto di “periferia”. A marcarne l’identità per oltre quarant’anni è stata la presenza della cosiddetta Diga di Begato che prendeva il nome dalla piccola frazione rurale di Begato, composta in realtà da due enormi edifici – la Diga Rossa e la Diga Bianca per via dei loro colori prevalenti – costruiti negli anni Ottanta e demoliti nel 2021. Si trattava di due strutture alte 19 piani, capaci di accogliere complessivamente fino a 3.500 persone. Attorno a questi edifici, il tessuto urbano offriva ben poco: solo alcuni esercizi di prima necessità – un discount, un bar, una farmacia e una tabaccheria – completavano lo scenario. Un profondo snaturamento fisico, morfologico, paesaggistico, dell’identità dei luoghi.
La costruzione della Diga fu il tassello finale di un progetto urbanistico ampio e ambizioso, avviato negli anni Sessanta e identificato fin dall’inizio con il nome di “quartiere Diamante”, ispirato al Forte che domina la vallata sottostante. Questo progetto risale formalmente al 1965, anno in cui la variante locale del Piano nazionale delle “Aree 167” per l’edilizia popolare stabilì di destinare i rilievi collinari tra la Val Polcevera e il centro cittadino all’insediamento di circa 70.000 nuovi abitanti. Le previsioni, spinte dall’espansione industriale e dal boom economico in corso, stimavano una crescita demografica che avrebbe portato Genova oltre il milione di residenti. Si immaginava così un processo di urbanizzazione capillare che avrebbe abbracciato tutto l’arco collinare fino alla cinta dei forti.

Ma lo scenario cambiò bruscamente negli anni Settanta, con la crisi industriale che arrestò l’espansione demografica e rese rapidamente superata l’idea di una colonizzazione massiva delle alture genovesi. Il nuovo Piano Regolatore Generale del 1976 ridimensionò fortemente quell’ambizione, circoscrivendo l’attuazione del progetto a po - che aree selezionate. Tra queste, la più significativa fu proprio Begato, all’epoca ancora una collina prevalentemente boscosa, vissuta da una piccola comunità rurale dedita all’agricoltura e considerata zona di villeggiatura per la popolazione cittadina. Il nuovo insediamento avrebbe dovuto accogliere 21.000 persone, cioè circa il 40% degli abitanti dell’intera Val Polcevera, e i lavori proseguirono speditamente: nel 1980 la gran parte degli edifici era già completata.
Portato a esempio di sperimentazione edilizia in macrostrutture ed edifici alti e progettato dall’architetto Piero Gambacciani, l’ispirazione urbanistica di fondo era quella della “città radiosa” teorizzata da Le Corbusier, con grandi blocchi modulari di residenza immersi nel verde, dotati di servizi interni, negozi e infrastrutture viarie in grado di garantire autonomia e connessione con il tessuto urbano. Tuttavia, la realizzazione concreta si allontanò rapidamente da quell’ideale. Le costruzioni, realizzate con tecniche prefabbricate economiche, si rivelarono presto carenti sul piano qualitativo; molti degli spazi commerciali previsti non videro mai la luce, e i servizi promessi non vennero mai attivati. Il parco pubblico si degradò velocemente, e le vie interne, prive di una vera funzione sociale, si ridussero a semplici tracciati asfaltati senza vita. Gambacciani ha partecipato ai maggiori lavori e progetti eseguiti a Genova dagli anni settanta.È considerato uno degli architetti più influenti che hanno cambiato il volto alla città, anche se con interventi talora molto criticati da parte dell’opinione pubblica e non solo.
Fulcro del quartiere fu proprio la Diga di Begato: due colossi edilizi chiamati Rossa e Bianca, da rispettivamente 276 appartamenti e 245 alloggi, che attraversavano trasversalmente la valle da est a ovest, ostruendo completamente la vista del paesaggio. Il progetto prevedeva persino delle passerelle sospese, che collegavano i due edifici, permettendo agli abitanti di spostarsi da un lato all’altro della vallata senza mai toccare terra. L’impatto sul territorio fu tanto massiccio quanto disarmonico e distruttivo. La Diga nacque anche per soddisfare una necessità emergenziale: ospitare temporaneamente numerose famiglie sfrattate dal centro storico e a posteriori dell’emanazione della Legge 392 del 1978 che aveva introdotto l’Equo Canone. Ma quel che doveva essere un alloggio provvisorio si trasformò ben presto in una condizione permanente. A quelle prime famiglie se ne aggiunsero altre, assegnate negli anni attraverso le graduatorie dell’edilizia popolare, in appartamenti a canone calmierato.

Fin dalla sua origine, la storia del quartiere è stata segnata da una forte criticità. I criteri con cui vennero assegnati gli alloggi pubblici all’interno delle Dighe contribuirono a concentrare al loro interno situazioni già fragili, generando nel tempo un accumulo di difficoltà su più fronti: economico, sociale e lavorativo.
A queste fragilità strutturali della comunità residente si aggiunsero le carenze dell’ambiente fisico: edifici costruiti con standard qualitativi bassi, spazi
Energy Consulting-Xori Group per Federcasa comuni trascurati, assenza di servizi fondamentali o loro collocazione a distanza difficilmente raggiungibile. Sebbene negli ultimi anni si siano fatti tentativi per migliorare l’accessibilità e rafforzare la rete dei servizi, il quartiere ha continuato a scontare un pesante ritardo.
Negli anni Novanta e Duemila, le Dighe sono diventate emblema delle tante falle di quel modello abitativo, finendo spesso al centro delle cronache locali per episodi di micro-criminalità, occupazioni abusive, abbandono di veicoli e rifiuti ingombranti, e una gestione complessa sia dal punto di vista amministrativo che sociale. Problemi legati alla morosità, alla difficoltà nel far fronte alle spese condominiali e alle utenze, e più in generale alla manutenzione delle parti comuni, hanno reso ancora più evidente la crisi di un sistema ormai al collasso. Come accade spesso nei quartieri di edilizia popolare, la mancanza di ricambio tra gli assegnatari ha portato anche a un progressivo invecchiamento della popolazione residente, accentuando la percezione di isolamento e di marginalità.
Questa intensa concentrazione sociale, unita all’evidente fallimento del modello urbanistico su cui si era basato il progetto, fece di Begato un caso emblematico. Divenne uno dei luoghi più rappresentativi – e al contempo più controversi – dell’edilizia residenziale pubblica in Italia. Un quartiere che, suo malgrado, si trasformò in metafora vivente delle fragilità e delle contraddizioni delle periferie urbane.
Il tema dell’abbattimento delle Dighe di Begato è stato a lungo al centro del dibattito cittadino, diventando nel tempo oggetto di concorsi di idee e studi universitari, senza mai trovare una concreta attuazione. Solo nel 2018, grazie alla sinergia tra Regione Liguria, Comune di Genova e ARTE (Azienda Regionale Territoriale per l’Edilizia), si è aperto un percorso condiviso con la cittadinanza per valutare la possibilità di demolire i fabbricati, segnando l’inizio di una nuova vita per il quartiere. È stato un cammino lungo e complesso, affrontato con attenzione e partecipazione, che ha portato al ricollocamento di 776 persone in altri alloggi in diversi quartieri della città, attraverso un’attenta valutazione dei bisogni e delle aspettative di ciascuno. Questo processo, accompagnato dal lavoro capillare delle associazioni attive sul territorio, ha dato vita a una delle prime esperienze italiane di edilizia sociale diffusa, segnando un cambio di paradigma nell’approccio alla gestione dell’abitare. Il progetto di rigenerazione urbana Restart Begato, presentato ufficialmente il 5 marzo 2019, ha avuto un momento decisivo con l’avvio della demolizione della Diga Rossa nell’aprile 2021. L’intervento, durato circa sei mesi, ha comportato la rimozione di 290.000 metri cubi di fabbricato, senza l’uso di esplosivi, ma grazie all’impiego della stessa gru titanica utilizzata per le Vele di Scampia. La Diga Bianca, invece, sarà oggetto di un intervento di recupero e riqualificazione.

Il nuovo volto di Begato prende forma con la costruzione di tre palazzine ad alta efficienza ener- getica, che ospiteranno 60 nuovi alloggi: 20 destinati all’Edilizia Residenziale Sociale e 40 all’Edilizia Residenziale Pubblica, con una metratura media di circa 60 metri quadrati. A fianco degli interventi abitativi, il progetto prevede la riqualificazione della Casetta Ambientale, storico presidio di socialità, e la creazione di un percorso verde, pensato per riconnettere il quartiere con il paesaggio e favorire il benessere urbano.
Gli spazi liberati dalla demolizione saranno riconsegnati alla collettività attraverso una terrazza panoramica, un teatro all’aperto e una nuova Piazza del Diamante, che fungerà da fulcro simbolico del quartiere. Verrà inoltre realizzata la Casa della Cultura, presidio culturale e luogo di aggregazione dedicato ad attività artistiche, formative e sociali.
Il progetto presta particolare attenzione al benessere delle famiglie e alla qualità della vita quotidiana: è prevista una nuova area giochi per i bambini dell’asilo, la riqualificazione e copertura dei campi sportivi esistenti con l’aggiunta di spogliatoi, di un nuovo campo da basket, e la realizzazione di un’area cani attrezzata. Le associazioni del quartiere, cuore pulsante del tessuto sociale, troveranno sede in un nuovo centro polifunzionale progettato per favorire sinergie e operatività.
Un altro elemento chiave sarà l’apertura di una nuova Stazione dei Carabinieri, che rafforzerà la presenza istituzionale e il presidio di sicurezza all’interno del quartiere rinnovato. L’intervento, finanziato con 15 milioni di euro tramite il bando PINQuA, ha ottenuto il massimo contributo disponibile grazie alla candidatura presentata da Regione Liguria tramite ARTE Genova. La conclusione dei lavori è prevista entro dicembre 2025. Ma Restart Begato apre anche una riflessione più ampia: può questo modello di intervento essere replicato in altri quartieri di edilizia residenziale pubblica della città? Molti di essi, sorti negli anni

Ottanta nell’ambito del piano regolatore, si caratterizzano per un mix di edilizia sovvenzionata, convenzionata e agevolata, che ha garantito una maggiore tenuta sociale rispetto a contesti più fragili come quello di Begato.
Per queste aree, occorre un cambio di sguardo: non vanno più interpretate solo come luoghi problematici da marginalizzare, ma come territori con potenzialità spesso latenti, in cui attivare processi di rigenerazione fisica e sociale. Servono strumenti diversi, adatti alla complessità di ciascun contesto, per sperimentare nuovi approcci progettuali, ridefinire le politiche abitative e promuovere uno sviluppo più equilibrato tra centro e periferia, migliorando la competitività dell’intero sistema urbano. Le periferie sono spazi difficili, ma anche ricchi di risorse, attori locali, esperienze di auto-organizzazione e forti legami di appartenenza. In queste trame, spesso silenziose, si celano energie capaci di generare futuro. Riconoscerle e valorizzarle significa costruire città più giuste, inclusive e sostenibili. Ci sono città che restaurano, ristrutturano, recu - perano. Genova, invece, demolisce. Perché certe ferite non si ricuciono: si abbattono. Ogni città ha i suoi demoni, i suoi fantasmi. Genova li affronta con la ruspa, e riparte da lì. Forse è per questo che qui demolire non è solo un cantiere, ma un esorcismo. Chissà se, ogni volta che a Genova si demolisce, qualcosa dentro ai genovesi viene giù insieme al cemento. Se anche fosse, va bene così..
