FASHION N 4_2019

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dolo a 60 milioni entro il 2022, grazie alla crescita del 20% in Europa, al raddoppio del volume esportato negli Stati Uniti e all’avvio del polo asiatico. Abbiamo infatti aperto una filiale a Hong Kong per gestire direttamente lo sviluppo del brand in quest’area, in Corea, Taiwan e Giappone, dove siamo presenti da tre anni. Il concept retail inaugurato lo scorso settembre in via Solferino a Milano ci servirà, a partire dall’autunno 2019, come base per altre aperture: a Niseko in Giappone e a Hong Kong, ma anche in Italia, con opzioni come Firenze e Venezia, in Germania e negli Stati Uniti, che stanno andando benissimo e dove pensiamo a una politica di shopin-shop e pop up in partnership con clienti wholesale. La previsione è che la quota export passi dall’attuale 50% al 60%. Ha iniziato “salvando” le oche e poi ha continuato con il mare. Cosa dobbiamo aspettarci adesso? Stiamo lavorando nell’ambito del riciclo. Come la bottiglia di plastica buttata nel cestino può essere rimessa nel sistema e riutilizzata dalle aziende senza ulteriore dispendio di risorse, noi puntiamo a dare una seconda vita al piumino. Un progetto che pensiamo possa vedere la luce nella primavera-estate 2020. In tema di eco-sostenibilità cosa è cambiato per industria e consumatori rispetto a quando ha iniziato? Le rispondo con un’indagine Doxa condotta a livello europeo: nel 2012 non c’era

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1. Nicolas Bargi, fondatore e ceo di Save The Duck 2. Il monomarca in via Solferino a Milano 3. e 4. Due capi Ocean Is My Home, prodotti con tessuti provenienti da reti da pesca riciclate, a sostegno di Surfraider Foundation Europe

nessuno che faceva ricerche online con la key-word “sostenibile”. Nel 2017 lo ha fatto il 30% degli utenti. Restringendo il campo agli under 30, la percentuale lievita fino al 70%. Questo la dice lunga su come andrà nei prossimi anni, dominati da consumatori che hanno questa attenzione all’ambiente nel dna. Sul fronte dell’industria, il fatto che la sostenibilità sia diventata di moda, tra best practice e operazioni di green washing, è solo positivo, perché aumenta la consapevolezza nei clienti finali. Poi i nodi verranno al pettine. Per questo sarebbero auspicabili certificazioni volte a monitorare gli standard di tutto il ciclo produttivo, con una tracciabilità da monte a valle. Cosa risponde a chi l’accusa che produrre in Cina è una contraddizione in termini per un marchio eco-friendly? Dipende sempre da “come” si fa un prodotto. Ci sono made in Italy scandalosi e made in China eccezionali. Il valore delle aziende non dipende dalla nazionalità. Quello che conta sono il controllo della filiera e la totale trasparenza con i consumatori. Noi profiliamo l’intera supply chain, per vigilare sull’eccellenza e la sostenibilità produttive. Anche se producete in Asia la sostenibilità costa. Come fate a mantenere un prezzo appealing?

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È tutta questione di snellire i processi. La nostra forza sta nell’avvalerci di pochissimi fornitori. Andiamo direttamente all’origine, con competenza. Come va il business online? L’e-commerce diretto vale attualmente il 3% del fatturato, ma contiamo di portare questa percentuale al 10% entro i prossimi due-tre anni. Seguiamo i consumatori nelle loro diverse dinamiche di acquisto, perché c’è chi si informa online e va a comprare nello store fisico, chi prova il capo in negozio e finalizza sul web, l’e-shopper seriale... Una logica omnichannel è essenziale: il nostro negozio virtuale è integrato con quello reale e in futuro vorremmo connettere con l’e-shop anche la rete wholesale. ■

19_02_2019

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